
FERRARESI NEL MONDO / seconda parte. Residente a Évreux, in Normandia, per tanti anni ha vissuto a Longwy, nel nord est del Paese. A 7 anni è emigrata con la famiglia da Portorotta, vicino Portomaggiore, in cerca di fortuna. «Ci chiamavano “macaroni”, non è stato facile»
«Mi chiamo Piera Wolf Ruiba, sono nata il 1° marzo 1949 a Portorotta vicino Portomaggiore». Così inizia il racconto di un’insegnante emigrata, suo malgrado, 65 anni fa con la famiglia, quando ancora era una bambina.
«Mio padre aveva una zia in Francia, emigrata col marito nei primi anni del fascismo a Longwy, nel nord est del Paese, dove c’era tanto lavoro grazie all’industria siderurgica. Nel 1956 trascorre un anno con loro mentre cerca un lavoro e un alloggio per la famiglia». Poco dopo, la decisione di trasferirsi. «Il 3 gennaio 1957 siamo partiti io, i miei genitori e il mio fratellino Michele di 15 mesi».
Un’emigrazione totalmente economica, quindi, causata dalla mancanza di speranza nei confronti del nostro Paese. Dopo pochi anni, forse, il boom economico gli avrebbe fatti desistere dal partire. «Ma i miei genitori volevano essere sicuri di pagare gli studi a me e a mio fratello se ce ne fosse stata la necessità». Non fu facile per una bambina di 6 anni: «lo sradicamento fu duro per tutti. Grande fu la mia sofferenza nel dover lasciare le mie nonne, il resto della famiglia, le mie amiche…». A Longwy arrivano di domenica, «e il giorno dopo mio papà mi porta subito a scuola. Fu un trauma per me. Per fortuna la scuola mi piaceva, e forse perché parlavo già due lingue (il ferrarese e l’italiano) ho imparato il francese in soli due mesi. Forse è anche questa una delle ragioni che hanno contribuito al mio amore per le lingue, specialmente l’inglese, che poi ho studiato all’università». Ma integrarsi ed essere accettati non è stato per nulla semplice. «Quando siamo arrivati in Francia, in quella cittadina che a me sembrava sempre in fiamme, ho vissuto nel dolore e nella paura. E noi italiani eravamo anche vittime di razzismo, i francesi ci chiamavano “macaroní”. Anche per quello sono rapidamente diventata la migliore alunna della scuola».
Piera, poi, si laureerà, 20enne, all’università di Nancy-Metz, e inizierà subito a insegnare l’inglese. A Longwy vivrà fino al 1983, anno in cui sceglierà di seguire il marito in Normandia, dove ancora vive, per la precisione a Évreux, una cittadina a 100 km da Parigi e altrettanti dal mare. «La mia casa ricoperta di canne è tipica della Normandia rurale. Nelle città se ne vedono poche e sono sempre più rare, dato che al giorno d’oggi questo tipo di tetto costa moltissimo ed è molto difficile trovare la mano d’opera specializzata». A Évreux insegna dal 1983 al 2002, quando viene messa in pensione anticipata per problemi di salute. «Sono ancora in contatto con una decina dei miei ex studenti e almeno cinque di loro sono diventati anche loro professori d’ inglese. Bella soddisfazione!».
Il trauma nel dover lasciare la propria terra
«Dell’Italia che ho lasciato da bambina, mi manca tutto. Ho sofferto moltissimo della nostra emigrazione. Al giorno d’oggi si direbbe che ho sofferto di depressione e di trauma. Ma negli anni ‘50 e ‘60 non era ancora di moda la psicoterapia…», ci racconta con mestizia. «Ho lasciato un paesino dove tutta la gente si conosceva e dove avevo molti parenti, specialmente le mie nonne, con cui ero cresciuta molto più che con i miei genitori. Finché ho vissuto a Portorotta tutte le case erano come se fossero le mie case e tutta la gente era la mia famiglia».
A Portorotta e nella zona di Portomaggiore Piera ci è ritornata, fino al 1970, per le vacanze, e successivamente due o tre volte all’anno, portando con sé amici e amiche. «Nel 2015 – ci racconta – per la Fiera di Portomaggiore abbiamo organizzato una riunione dei Ruiba, la “Ruibata”, e ci siamo ritrovati in più di 40 per una bella festa. L’ultima volta che sono andata a Portomaggiore è stata nel 2017. Adesso la mia salute rende difficile il viaggio. E quando mi sposto vado a Stoccolma dove mia figlia Julia e la mia nipotina Eva abitano da otto anni.
Ho ancora tanti amici e parenti nella zona dove sono nata, e adesso che non mi sposto più, siamo in contatto per telefono e tramite FaceTime. Sono un’incurabile nostalgica, sarà anche per questo che non mi sono mai dimenticata né l’italiano né il ferrarese».
Andrea Musacci
(Sul prossimo numero, il terzo racconto di ferraresi nel mondo. Il primo, dedicato alla storia di Luca Azzolini, è uscito sul numero del 21 gennaio scorso)
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 gennaio 2022