Laura Vincenzi, il male, l’affidamento a Dio-Amore

7 Gen

Perché Dio permette il male? Nelle lettere di Laura Vincenzi la grande domanda di senso pulsa senza infingimenti

[Qui la pagina con l’articolo]

[Qui sul sito della casa editrice AVE, che ha riedito le “Lettere”]

laura grandeUna grande domanda riempie le “Lettere” che Laura Vincenzi – giovane tresigallese morta nel 1987 a 23 anni per un male incurabile, dopo quasi tre anni di sofferenza – scrive al fidanzato Guido Boffi. E’ la grande domanda che da sempre tormenta ogni persona, di ogni latitudine, di ogni epoca, al di là della propria fede e dei propri convincimenti personali. E’ la domanda sul grande mistero del male. Ma ciò che spiazza è la risposta che una ragazza come Laura dà. Una risposta disarmante che è accettazione e affidamento a Dio.
Laura ha risposto alla chiamata personale alla santità, attraverso anche una grande capacità di riflessione, una forte intelligenza relazionale, emotiva, spirituale. Una grande maturità e profondità che le permettono di non eludere il grande “perché?” sul senso del male, sul motivo per il quale un Dio buono, infinitamente buono, lo permetta. Considerando anche che le lettere e le pagine del suo diario, per quanto sincere, non potevano esaurire l’intero ribollimento interiore che ha investito la sua anima, un oceano di non-detto, forse anche di sconforto, di paura, di dubbio.

Le “acque nere” di Laura
“Sto bene attenta e prego per non lasciarmi sopraffare da questi pensieri perché sento che lasciando libero corso a questo ordine di riflessioni arrivo ad un punto in cui perdo il confine tra la realtà e la pura fantasia negativa che, presto, lascia lo spazio all’inedia, alla disperazione, alla totale assenza di speranza: un lasciarsi morire quando ancora sei chiamato alla vita” (Laura, 5 febbraio 1985)

Sono diversi i momenti in cui Laura riflette su questa vita che “già di per sé è tanto breve e faticosa” (19 febbraio 1986). “Senza un atto di affidamento a Dio – scrive – vivrei in una situazione di squilibrio e probabilmente di angoscia in preda alla lotta col tempo, ai calcoli più strani e stupidi e probabilmente realizzerei molto meno, come capita sempre quando ci lasciamo sommergere dalle cose!” (5 novembre 1984). Il 4 febbraio 1985 le viene notificato il tumore, il giorno dopo scrive a Guido: “Sono molto serena […]. Sono allegra e più attenta alla vita”, o il 26 febbraio, due settimane dopo la prima seduta di chemioterapia: “oggi pomeriggio sono la ragazza più felice del mondo”. Ma sempre il 5 febbraio dello stesso anno confida di avere “momenti di sconforto, […] paure”, parla della sua “fragilità”, della sua “paura che il male degeneri al punto tale che non ci sia la possibilità di sposarci e di avere Marco e Chiara [i nomi “assegnati” ai figli che desideravano avere insieme, dopo essersi sposati – così sognavano – a Mottatonda, vicino Tresigallo, ndr] […], la paura di rimanere io stessa bloccata e di non reagire”.

Perché il male?
“Com’è solo l’uomo, come può esserlo! / Tu sei dovunque, / ma dovunque non ti trova. Ci sono luoghi / dove tu sembri assente / e allora geme perché si sente deserto / e abbandonato. Così sono io, comprendimi” (Mario Luzi, “Via Crucis al Colosseo”, 1999)

In “Calvario” – pellicola del 2014 dove le questioni del male, della colpa e della redenzione sono affrontate in modo magistrale -, Frank Harte, medico ateo, racconta al protagonista Padre James questa storia: “agli inizi della carriera, lavoravo a Dublino, arrivò un bambino di 3 anni, l’avevano portato i genitori per una banale operazione. Ma l’anestesista commise un errore e il bambino rimase cieco, sordo, muto. E paralizzato. Per sempre, capisce? Provi a immaginare, pensi a quando quel ragazzino riprese conoscenza, nell’oscurità…lei si sarebbe spaventato, no? Ma come quando si è consapevoli che quella paura prima o poi finirà. Deve finire, per forza, i tuoi non devono essere poi così lontani. Accenderanno la luce e ti parleranno…invece, provi a immaginare: nessuno viene a salvarti, non si accende nessuna luce, sei completamente al buio. Provi a parlare: non ci riesci. Cerchi di muoverti: ma non ci riesci. Allora provi ad urlare, ma niente, sei incapace di sentire le tue stesse urla. Sei come seppellito all’interno del tuo stesso corpo che urla in preda al terrore”.
Emmanuel Carrère ne “Il Regno”, raccontando una vicenda molto simile, si interroga: si può chiedere a Dio “che riempia della sua presenza dolce, rassicurante, colma di amore quel bambino murato vivo? Che illumini le sue tenebre e faccia di quell’inferno inimmaginabile il suo Regno? Altrimenti, cosa resta? Altrimenti, bisogna ammettere che, gratta gratta, la realtà della realtà, l’ultima parola non è il suo amore infinito ma l’orrore assoluto, l’inesprimibile spavento di un ragazzino di quattro anni che riprende coscienza nel buio eterno”. “Tante volte mi faccio e rifaccio la domanda: perché soffrono i bambini? E non trovo spiegazione. Solo guardo il Crocifisso e mi fermo lì”, ha, in un certo senso “risposto” Papa Francesco nel maggio 2017 durante la visita all’ospedale pediatrico Gaslini di Genova.
Riferendosi a Maria Stefanina Marchi (“Maria di Rero”) – donna anziana, malata e povera di Rero vicino Tresigallo – Laura scrive: “Sappiamo […] che ogni prova ha un senso, che nulla càpita per caso e questa fede ci permette di accettare anche prove che non capiamo […]”. Come scrisse Emmanuel Mounier nel 1933 in una lettera alla moglie Paulette: “le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nell’accettazione. Non dobbiamo cercare di sminuirla con le nostre parole…”.
Una personalità inquieta come Cesare Pavese il 29 gennaio 1944 nel suo diario scriverà: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di divinità. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di esser fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui: in questo tremito del ‘se fosse vero!’. Se davvero fosse vero…”.
L’essere umano è preso fra il desiderio (di) infinito e un finito che lo tiene, lo limita. Laura non mette in dubbio questo desiderio profondo ma sceglie di accettare ciò che non si può cambiare, cercando per quanto possibile di trasformarlo in un sentiero – personale – che conduca al Bene, al Vero, al Bello. “Il Signore chiede tutto – scrive Papa Francesco all’inizio di “Gaudete et Exsultate” -, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente”. “Ci sono giovani – scrive Laura nell’aprile ’85 – che si scandalizzano e rifuggono il parlare della morte perché superficialmente la vedono come un argomento tabù (e pensare che la morte è una delle sicurezze, certezze dell’uomo!) e magari si accontentano di una esistenza mediocre specchio della felicità diffusa nella mentalità comune (benessere, salute, ricchezza, ecc…); pensano solo al proprio interesse, una vita che a me pare NON VITA”. “Non c’è nulla in questo mondo che sia tuo. Sandra, renditene conto! E’ tutto un dono su cui il ’Donatore’ può intervenire quando e come vuole. Abbi cura del regalo fattoti, rendilo più bello e pieno per quando sarà l’ora”. Sono parole scritte dalla Serva di Dio Sandra Sabattini, la cui vicenda ricorda quella di Laura, in quanto muore il 2 maggio 1984 a 23 anni, vittima di un incidente stradale.

Il Mistero di Dio-Amore
“In seguito si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!»” (Lc 7, 11-13)

Un affidamento totale quello di Laura, dunque sconvolgente: “Non vedo l’ora che venga lunedì [giorno dell’amputazione del piede invaso dal tumore, ndr] per passare per così dire all’attacco, perché ormai sono preparata e quindi quel che è da farsi, ben venga (!)” (21 febbraio 1986). E nei giorni immediatamente successivi all’amputazione: “Oggi è una giornata molto serena, come tutte quelle trascorse qui finora, del resto; naturalmente il pensiero di essere a casa domani contribuisce ad alimentare l’allegria” (1 marzo 1986). E ancora: “sono la ragazza più felice del mondo!” (16 marzo 1986). Laura continua quindi a scrivere anche negli ultimi mesi di vita e l’impressione è che, all’avvicinarsi della morte, si infittiscano riflessioni e consigli anche per Guido. Nel proprio cammino interiore Laura arriverà dunque a comprendere come senza il male sarebbe impossibile l’atto di amore, di compassione tra le figlie e i figli di Dio, quel Dio che è Misericordia: “Sì, è vero che la sofferenza unisce: secondo me la sofferenza ci fa toccare nel profondo la nostra povertà, la nostra impotenza e poi ci porta a quell’abbraccio per cui, poveri e sperduti, ci sentiamo più vicini l’uno all’altro, più bisognosi l’uno dell’altro e, così uniti, bisognosi di Dio” (8 aprile 1986).

“Con tutti cerco di essere disponibile e sorridente”
“Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne” (Emmanuel Mounier, 3 gennaio 1933)

“Non vivo per laurearmi, per sposarti, per aver dei figli con te, ecc… Vivo ogni tempo della mia esistenza per Amare e servire Dio, amarlo e servirlo: nei fratelli, cioè con il mio fidanzato, la mia famiglia, gli amici, le persone che incontro lungo la mia strada…nelle situazioni della vita: cioè nella mia malattia, nello studio, nel mio fidanzamento con un ragazzo meraviglioso come te…” (25-26 marzo 1986). Laura è stata testimone concreta, non modello astratto, non ‘maestra’ di vita e di fede. Il 9 marzo 1985, periodo nel quale perde i capelli per il primo ciclo di chemioterapia, scrive: “come essere luce, speranza per Guido se anche io sono a volte a terra?”. Anche al Rizzoli di Bologna: “con tutti cerco di essere disponibile e sorridente, soprattutto con le altre persone che si stanno curando” (21 febbraio 1986). Addirittura il 7 marzo 1987, meno di un mese prima della morte, scrive: “Beh, amore mio, spero di non averti annoiato troppo con le mie ‘descrizioni cliniche’ ”.
Le ultime righe che scrive, pochi giorni prima di morire, in una preghiera inviata all’allora Arcivescovo Mons. Luigi Maverna (che vivrà una situazione simile di sofferenza), recitano così: “Dona serenità e pace, Signore, a chi mi vuole bene, in modo particolare al mio fidanzato, a coloro che io non amo abbastanza, a chi soffre nella malattia e nello spirito, a chi è dedito al tuo servizio nella Chiesa come ministro e battezzato, a chi ti cerca, a chi non ti ha ancora incontrato. Amen”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 gennaio 2019

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