
Intervista a mons. Andrea Turazzi, Vescovo di San Marino-Montefeltro. Venerdì 9 ottobre sarà a Ferrara per presentare il suo ultimo libro
di Andrea Musacci
In vista del suo atteso ritorno a Ferrara il 9 ottobre per presentare il suo ultimo libro “Alle prime luci dell’alba”, abbiamo rivolto alcune domande al Vescovo di S. Marino-Montefeltro.
Mons. Turazzi, non siamo ancora usciti da un periodo difficile e imprevisto legato all’emergenza da Coronavirus: perché ha scelto di pubblicare un libro così pervaso da un’atmosfera di letizia?
Il titolo del libro è un’allusione abbastanza esplicita alla Pasqua di risurrezione, centro della fede cristiana. In questi anni – a partire da Evangelii gaudium – l’annuncio della risurrezione è stato il motivo ricorrente delle indicazioni pastorali per la vita e la missione delle comunità e dei singoli. In quelle “prime luci dell’alba” ci fu un gran movimento attorno al sepolcro vuoto: le donne, i discepoli, gli apostoli, arrivano, partono, corrono ad annunciare che “Lui è vivo”. Nei racconti delle apparizioni l’invito del Risorto si fa perentorio ed esplicito: “Andate in tutto il mondo”. Inizia il tempo della missione sempre necessaria, ma, in questi giorni difficili, indispensabile: farsi speranza in un mondo ferito e malato! Questo il messaggio centrale.
Battesimo, preghiera, Riconciliazione, devozione mariana: il suo è un tentativo di aiutare i credenti a riscoprire i “fondamentali”?
“Fondamentale” è e resta la Pasqua del Signore. Il libro, pur non parlando espressamente del Covid-19 (è stato scritto prima della pandemia), è provvidenziale per il tempo che stiamo vivendo: offre adeguati antidoti per proteggerci dal contagio del supervirus dell’egoismo; virus che si trasmette a partire dall’idea che “la vita migliora se migliora per me”. Ecco allora quattro antidoti (le quattro parti del libro). Il primo è la fede nel Vangelo di Dio che ha “volto di padre e cuore di madre”. Il Dio della grazia, di un amore che non si merita ma si accoglie. Esperienza racchiusa e vissuta col Battesimo. Altro antidoto è il rapporto con il Dio Padre-Abbà: la preghiera. Non sono disdicevoli alla preghiera neppure i “perché?” che hanno attraversato in questo tempo i momenti di intimità col Padre. Allora, entrando nella preghiera di Gesù, si supera l’impulso istintivo che porta a ripetere quasi solo “io”, “io voglio”, “io ho bisogno”, per approdare ad una preghiera distesa sull’orizzonte del “noi”. Altro antivirus è la Confessione/conversione, che permette di aggredire il morbo asfissiante della non-fraternità: dall’accoglienza del perdono al superamento dei sensi di colpa e all’offerta del perdono ai fratelli. Infine, lo sguardo a Maria di Nazaret, la Madre del Signore, donna con i piedi ben piantati per terra e, nel contempo, al centro del mistero cristiano. A lei si è ricorso e si ricorre per cercare l’intercessione nel momento della prova.
Perché spesso questi quattro “pilastri” non sono più “di moda”, soprattutto fra i giovani? E in cosa la Chiesa – nei sacerdoti, negli educatori – ha sbagliato nel comunicare e testimoniare la propria fede?
Lei pensa davvero che questi “pilastri” non siano più di moda? Certo, il “rientro” è a rischio, la secolarizzazione è davanti agli occhi di tutti, come il calo di presenze e di risorse, ma dobbiamo constatare più consapevolezza, più maturità ed anche più domande, soprattutto da parte dei giovani, segno di una ricerca di autenticità: quando non ci sono domande, anche se scomode, davvero siamo finiti. In Diocesi abbiamo un calendario fittissimo: non c’è mese senza un convegno, non c’è settimana senza un’iniziativa, non c’è giorno senza qualche incontro… In tempo di lockdown il calendario è andato prosciugandosi. Tornava la domanda: “Di che cosa vive la nostra pastorale?”. È stata una sorpresa la riscoperta dell’essenziale, il desiderio di applicarsi alla Parola di Dio, di ritrovare “la Chiesa domestica”, sentire più profondo il desiderio di Eucaristia e di comunità, il ricorso a nuove forme di comunicazione, l’affinarsi del senso di solidarietà… Si sbaglia quando si guarda la realtà con uno spirito di amarezza, dimenticando la forza del Vangelo, quando si resta prigionieri dei programmi e non si “attende” con la fede del seminatore. Il nostro è un deficit di speranza.
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 02 ottobre 2020
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