
Nella pandemia, il necessario discorso scientifico rischia di farci dimenticare la nostra ricerca della Verità
di Andrea Musacci
Lo scorso settembre su Huffington post Italia il filosofo Massimo Adinolfi poneva una domanda importante: «Chi è competente, in fatto di umanità? O forse pensiamo che l’uomo è solo ciò che rimane da discutere a filosofi barbuti una volta sottratte loro tutte le questioni scientifiche (mediche, sanitarie, fisiologiche o psicologiche, o non so cos’altro)?».
Fermarsi, riflettere, interrogarsi e interrogare su ciò che davvero ci rende umani. Tornare ad ascoltare l’altro. Propositi che sempre meno, spiace registrarlo, sembrano andare di moda. Il coro unanime di quasi due anni fa sulla necessità e l’urgenza di proteggere noi stessi e gli altri dal Covid19, si è purtroppo, ormai da molto tempo, trasformato nel suo opposto. Ora, sempre più, domina lo scontro tra due intolleranze: quella dei sostenitori di ogni forma di restrizione potenzialmente senza limiti di tempo, e chi, dall’altra parte, già da un bel po’ ha dimenticato quanta sofferenza, angoscia e morte ha portato una pandemia di questo tipo. In mezzo, quegli interstizi sempre più stretti (e sempre meno affollati, purtroppo) di chi non rinuncia a porre questioni sulla gestione dell’emergenza – pur sempre difficile –, e soprattutto su come, veramente, possiamo cogliere questa fase eccezionale delle nostre vite per riscoprire il Mistero che si cela dietro di esse. Che significa anche ripensare il rapporto tra salute e salvezza, come propone il gesuita Gaetano Piccolo nel suo ultimo libro “Salute o salvezza? Il dilemma dei nostri tempi” (Ediz. San Paolo).
Salute o salvezza?
Salute o salvezza è un aut aut sbagliato, a cui non cedere. Assolutizzare il primo dei due termini significa castrare la dimensione spirituale, religiosa, annullandola nel culto illusorio di ciò che è corruttibile. Dall’altra parte, la finta “salvezza” di chi pensa che la cura di sé e dell’altro non abbia nessun valore rispetto alla vita eterna, nasconde una pericolosa mancanza di empatia per il prossimo.
Fatta questa premessa, il rischio maggiore nelle nostre società occidentali è che questa fase – dove il dominio del discorso medico-scientifico va a scapito di quello religioso, politico e culturale -, ci faccia ancora una volta venir meno nella nostra ricerca di un equilibrio diverso fra la difesa della salute e l’anelito alla Salvezza. Salvezza che è fatta di amore e di relazioni, di prossimità fisica, di consapevolezza dell’invincibile limite della morte e di desiderio di una vita davvero piena. Coscienza, quindi, che, come di non solo pane vive l’uomo, nemmeno gli possono bastare le conoscenze medico-scientifiche. Ma che tutto il nostro essere (corpo e anima) domanda un nutrimento ben diverso: una fede e una pienezza che da credenti troviamo in Cristo, Pane di vita.
Non fare della scienza un idolo
La possibilità di poter risolvere sempre più problemi non deve illuderci di poter avere il controllo su ogni aspetto della nostra esistenza. Questa tendenza a sentirci onnipotenti può risultare molto pericolosa se ci si affida al “sapere della scienza” come a ciò che possa rispondere alle domande più profonde. Non è così e mai potrà esserlo: significherebbe storpiare la fondamentale ma limitata missione della scienza. Soprattutto in una situazione estrema e inattesa come quella della pandemia, spesso si è riposto, invece, purtroppo, in medici e ricercatori una speranza quasi “religiosa”. Ciò che la scienza, in sé, non può darci è la felicità, la pienezza di vita, è salvarci dal vuoto, dal terribile nulla della depressione e della disperazione. È inutile convincerci che possiamo delegare tutto a medici e virologi. La lotta contro il male spetta a ognuno di noi. La testimonianza della misericordia nella prossimità all’altro è un compito che abbiamo sempre davanti.
Non fare del corpo un idolo
Idolatrare la scienza – qualsiasi filosofo o uomo di scienza non ideologico inorridirebbe solo all’idea! – porta all’idolatria del corpo. Il filosofo ed epistemiologo francese Bernard-Henri Lévy, liberale, l’anno scorso nel suo libro “Il virus che rende folli” scriveva: «L’inferno è il corpo. Solo il corpo e il corpo solo». L’inferno siamo noi «in quanto persone che sono chiuse nel proprio corpo, ridotte alla nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico, o del potere in generale che si appropria del potere medico, o della nostra stessa sottomissione a entrambi, ci sottomettiamo a esso». «La cura della nostra salute -, scrive invece Piccolo nel libro sopracitato – nel momento in cui dovesse essere possibile solo a costo di rinunciare a tutto quello che per noi è spiritualmente essenziale, varrebbe la pena?».
Spiritualmente essenziale è anche il “filosofare”, il sentire e parlare – senza scorciatoie – della nostra finitezza, del nostro limite, del nostro morire. «Filosofare è imparare a morire», scrive Fabrice Hadjadj nel suo libro “Farcela con la morte. «L’atto stesso di pensare la Verità produce una “piccola morte”, un distacco dal corpo che addestra al grande distacco del trapasso. Quando medito sulla vita entro nella vita stessa della saggezza, passo già nell’aldilà, la mia anima tende a liberarsi della carne, non a motivo della sua debolezza, ma a causa della sua rinnovata vitalità di anima immortale, che va oltre la vita corruttibile dei miei organi».
La ricerca della Verità contro la paura
Tornare a interrogarci e a compiere la nostra ricerca della Verità significa anche non cedere alla paura. Sentimento umano, umanissimo, ma da controllare e affrontare. Da non eludere e a cui non sottomettersi. È importante, oggi, non cedere né alla paura di vaccinarsi né a quella che ci paralizza impedendoci una riflessione profonda e un conseguente vivere che non sia solo sopravvivere nella nostra “sicurezza” di non venire contagiati. Ma in una società come la nostra dove è sempre meno diffusa una concezione religiosa della vita e della morte, certi interrogativi che possono inquietare, vengono posti sempre meno. È, invece, importante cercare di riempire di senso il nostro tempo, perché non sia vuoto. Vuoto di una dimensione spirituale e relazionale. Vuoto che è manifestazione profonda della nostra fragilità, proprio quella fragilità che tendiamo a rimuovere, a negare.
La nostra mortalità ci costringe ad evitare che la nostra vita sia sprecata. Il limite è ciò che muove la nostra libertà nella ricerca di un senso. Senso che riguarda l’interezza di ciò che siamo. Corpo e anima, salute e Salvezza. Solo così, solo interrogando il Mistero e testimoniando la Verità, potremmo dirci davvero umani.
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021
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(Immagine: Edvard Munch, “Malinconia”, 1892)
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