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La realtà di Mantovani è un sogno perturbante

6 Apr

Nel Castello di Ferrara l’esposizione di Adelchi Riccardo Mantovani, Il sogno di Ferrara. L’incanto delle figure e dei passaggi e quel senso di mistero che non scompare mai

Ombre dei miei pensieri, 2012, olio su tavola

di Andrea Musacci

La luna piena inonda il fiume e la pianura. Il cielo è ambiguo, nuvole nere incombono. La luce è straniante, svanendo crea ombre. Ma un miraggio rimane più in là, un barlume si conserva all’orizzonte. È il mondo incantato e perturbante di Adelchi Riccardo Mantovani, ammirabile fino al 9 ottobre nella mostra Il sogno di Ferrara. E quale luogo più magico e tetro del Castello Estense poteva ospitare quest’esposizione di dipinti dagli anni ’70 al 2021 (con due autoritratti tra fine anni ’50 e inizio ’60)?

In principio erano le tenebre…

Nelle opere degli anni ’70 il sogno è un incubo, l’atmosfera è di terrore, il lutto e la follia dominano la scena: paesaggi spettrali, desertici, figure umane, o quasi, ammiccano coi loro ghigni malefici, incendi divampano in lontananza. Il mondo è un posto arido, inabitabile (1). Gli uomini sembrano invasi da un demone ignoto o sono anonimi, smarriti, privi di calore. Vivono nella minaccia di qualcosa che incombe su di loro: un gruppo di animali che sembra uscito da un inferno dantesco, un destino ineluttabile, una forza incorporea.

Incubo e realtà si confondono, si sovrappongono. E così umano e alieno, umano e animale, umano e mondo delle cose. Natura e artificiosità meccanica condividono una stessa freddezza, un’inquietudine profonda. La prima non ha nulla di ameno, la seconda non trasmette niente della certezza di un mondo costruito su principi razionali, anzi. Come nell’opera La cantastorie (2), dove tutti guardano tranquilli, dentro i loro abiti borghesi, nella loro quotidianità, mentre in fondo a sinistra una giovane muore trafitta; colei non guarda – la cantastorie – è l’unica ad avere occhi capaci di vedere oltre, di richiamare ad altro.

Qualcosa si nasconde

Una sensazione di muto sgomento, di tensione sotto traccia continuerà ad avvertirsi in tutto il percorso artistico di Mantovani, pur man mano sempre più dolce e attenuato. Anche nelle visioni piene d’incanto dei decenni successivi (3), rimane sempre la traccia di un non detto, di un non dicibile. L’incanto creatore, sognante, a tratti fin fiabesco, in filigrana vela un richiamo perturbante, un ignoto indecifrabile, che emerge senza aspettare d’esser notato. 

La notte spesso incombe, quelle nuvole, perlopiù nere (4), che, pur non dominando il cielo, oscurano, costringendo ad accendere piccoli lumi, a rifugiarsi nelle case. L’aria, nei dipinti di Mantovani, è sempre sospesa. I volti silenti richiamano una mancanza e un’attesa, uno stupore onirico. Un vuoto di parole e al tempo stesso una forte urgenza di dire, di indicare, di segnare. Di rimandare, quindi, ad altro. Come Grace Kelly nella sua graziosa torsione che sa di attesa impaziente, di desiderio (5).

Ci si ritrova, attraversando i mondi irreali – o troppo reali – di Mantovani, in una perenne atmosfera di sacro, la sua pittura ha la rara capacità di scandagliare le zone di confine tra reale e non, tra reale e Oltre. Indaga zone misteriose, sconfinate. È posata in una stasi allusiva, velata da un’opacità ingannevole, al di là delle forme ben definite, come quelle delle sue dolci e terribili fanciulle, ai bordi di un’altra realtà, come la ragazza de Il paletot rosso (6).

«Più in là»!

C’è sempre qualcosa di perturbante, anche nelle ultime opere, più ariose e vitali: il sorriso è venato di malizia, il gioco ha qualcosa di ferino. Il richiamo che appariva dolce, ammantato di magia o di sensualità, rivela sempre un vizio, una storpiatura. Fra le pieghe dell’apparenza si nasconde una dissonanza. La mente è confusa: è sonno o veglia? «Tutti i pensieri che abbiamo da svegli possono venirci in mente anche quando dormiamo, senza che nel sonno nessuno sia vero», diceva Descartes nel suo Discorso sul Metodo. La sua successiva, ed eccessivamente razionale risposta, non toglie importanza alla domanda. Il nostro volto è quello contrito del sonno della ragazza de Il sogno disturbato: non trova riposo né nel sogno né nella veglia, è tesa tra i due (7).

«Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo, non è che un sogno dentro un sogno»: viene da pensare ad Edgar Allan Poe (8) ammirando le visioni in pittura di Mantovani. Viene da cercare quella «maglia rotta nella rete» della realtà, per dirla con Montale (9). Il richiamo è potente pur avendo, se fosse musica, il suono blandente di un flauto. È evocativo come un violino, a un tempo carezzevole e doloroso.

Così, dietro a quei paesaggi di sogno c’è un altro reale, la melodia che pervade i dipinti di Mantovani ci parla di un enigma da svelare, anche dietro il volto più efebico e spensierato. C’è oltre, c’è ben altro: «sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va: / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / “più in là”!» (10).

«Ora attende qualcuno, ma non sa ancora chi», scrive Mantovani di Mariagrazia – la ragazza del dipinto scelto come immagine simbolo della mostra (11), che ti fissa negli occhi, triste e invitante, pronta a  partire per chissà dove, oltre anche il sogno di Ferrara (12). 

***

1 Il funerale del pazzo del paese, 1971, olio su tela applicata su tavola.

2 La cantastorie, 1988, olio su tavola.

3 V. ad esempio Ombre dei miei pensieri, 2012, olio su tavola.

4 Ad esempio ne Il rientro della notte, 1986, olio su tavola.

5 A date with Grace, 2008, olio su tavola.

6 Il paletot rosso, 2006, olio su tavola (v. anche La principessa santa, 2007, olio su tavola).

7 Il sogno disturbato, 1988, olio su tavola.

8 A dream within a dream, 1849.

9 In limine, in Ossi di seppia, 1925.

10 E. Montale, Maestrale, in Ossi di Seppia, 1925.

11 V. nota n. 6.

12 Cfr. anche La pazza del paese, 2006, presente nella mostra di Mantovani Il Po sotto il cielo di Berlino, esposta alla Galleria del Carbone nel 2006.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” l’8 aprile 2022

https://www.lavocediferrara.it/

Morire da medico sotto le bombe: la storia di Andrea dall’Ucraina

6 Apr

Era chirurgo nell’est del Paese, nell’ospedale militare di Ochtyrka distrutto dai russi lo scorso 26 febbraio. La madre Anna, che da 15 anni vive nel ferrarese, ci racconta la sua storia

Andrea, medico ucciso a Ochtyrka

di Andrea Musacci

Morire mentre si tenta di strappare alla morte un soldato ferito. Morire in un ospedale, sotto le bombe russe. È la storia di Andrea, 45 anni, medico chirurgo nell’ospedale militare a Ochtyrka, nell’oblast’ di Sumy, a 60 km dal confine russo e a 100 da Kharkiv. Andrea ha lasciato la moglie Lidia, medico anche lei, e il loro figlio Antony, di 13 anni, che vivono a Husiatyn, nella zona ovest dell’Ucraina, oblast’ di Ternopil.

E ha lasciato anche la madre Anna, 71 anni, che da 15 anni vive nel ferrarese. La incontriamo nei locali della parrocchia di Santa Maria dei Servi, casa della comunità ucraina a Ferrara guidata da padre Vasyl Verbitskyy. Il volto è triste e gentile, pieno di orgoglio e di dolore per quel figlio che non vedrà più.

In Italia per aiutare la famiglia

Anna lavora come badante nell’assistenza di una signora di 98 anni, Anita Toselli, in via Comacchio a Ferrara, casa dove abita. In questi anni ha lavorato in altre quattro famiglie tra Formignana e la città. A Husiatyn, invece, era ragioniera. Nel 2007 ha scelto di venire qui in Italia per aiutare i suoi figli: «non riuscivano a trovare una casa, un lavoro, erano in crisi», ci spiega. È venuta a Ferrara perché consigliata da un amico del figlio, amico che viveva e ancora vive qui in città.

Anna 9 anni fa ha perso anche il marito, «il 23 febbraio», ricorda. «Dopo aver lavorato come autista di autobus, mi aveva raggiunto in Italia per due anni, nei quali era stato impegnato come bracciante in campagna, per poi tornare in Ucraina».

Andrea medico fino alla morte

«Andrea amava aiutare gli altri, era una persona umile, per nulla orgogliosa, aiutava anche i colleghi medici», ci racconta Anna. «L’ultima volta che l’ho visto è stato la scorsa estate: da giugno ad agosto sono stata da lui in Ucraina».

Fin da bambino Andrea sognava di lavorare come medico in una struttura militare, «”dove c’è più bisogno, dove c’è più necessità”, mi diceva sempre». Dopo la laurea in Medicina, viene assunto per un periodo in un ospedale civile a Husiatyn. 

Poi nel 2014, dopo l’occupazione russa della Crimea, chiede di prestare servizio in un ospedale militare, dove lavorerà due anni. Dal 2015 fino a pochi mesi fa ha lavorato in un ambulatorio vicino Ternopil, e poi, dal dicembre scorso, nell’ospedale militare a Ochtyrka.

«Lo scorso 25 febbraio ho parlato con lui al telefono, mi ha detto: “stai tranquilla”». Alle ore 12 del giorno dopo, il 26, un sabato, Andrea stava operando un soldato ferito quando l’esercito russo ha bombardato l’ospedale: nessuno si è salvato. «La mattina del 26 ho provato a chiamarlo e non mi ha risposto, perché stava lavorando», racconta Anna. «Poi ho riprovato nel pomeriggio, e ancora non mi rispondeva. Lunedì, due giorni dopo, alle ore 15 mia figlia mi chiama e mi dice che Andrea è morto». Ci hanno messo diversi giorni per recuperare tutti i corpi. «Martedì, il giorno dopo aver ricevuto la notizia, sono venuta qui da padre Vasyl per chiedergli aiuto». Il sacerdote ha celebrato una S. Messa per Andrea e diverse sono le preghiere per lui in queste settimane. «Grazie a lui e alla vicinanza di tante persone, un po’ mi era passata la tristezza», prosegue Anna. «Ma mio figlio mi dava tanta forza per vivere, per andare avanti». 

Le vittime sono state tutte sepolte nel campo dell’ospedale, troppa la paura di portare i corpi lontano. Ma il cognato della moglie di Andrea insieme a un amico, rischiando di essere attaccati dai russi, con un furgoncino sono comunque andati a recuperare il corpo di Andrea e lo hanno portato a Husiatyn per i funerali – svoltisi dieci giorni dopo la morte – ai quali hanno partecipato tante persone. Le esequie sono state documentate anche dalla tv locale INTB. Tutti i funerali degli eroi caduti in guerra in Ucraina, e così anche quello di Andrea, sono preceduti da un corteo lungo le vie della città, durante il quale la gente ai bordi delle strade si ferma e si inginocchia in segno di omaggio. Anna è riuscita ad andare al funerale del figlio grazie a uno dei pullman che periodicamente, anche prima dello scoppio del conflitto, vanno dall’Ucraina all’Italia e viceversa, dall’inizio della guerra portando persone in Italia e beni alimentari alla Caritas di Ternopil.

Anna è rimasta in Ucraina dieci giorni, rivedendo anche l’altra sua figlia, sposata con due figli e insegnante di scuola, e ora, come tanti, impegnata come volontaria per aiutare i profughi che arrivano dal Donbass. «Ho invitato lei e la sua famiglia, così come mia nuora e mio nipote a venire qui a Ferrara, ma non hanno voluto perché vogliono rimanere lì per aiutare e difendere il loro Paese».

Anna ci tiene a ringraziare padre Vasyl, la comunità ucraina e le tante persone che le sono state vicino: Pierluigi Trevisani, la moglie Agnese e il fratello Davide; Claudio Travagli e la moglie Anna. E soprattutto Vanes Magnanini e la moglie Anna della famiglia di Anita, l’anziana che accudisce, oltre ai medici e agli infermieri di Cona e di San Rocco.

Una rete di amicizia che non potrà lenire l’enorme dolore  di una madre che perde un figlio in guerra, ma che perlomeno la fa sentire meno sola nell’affrontare un dramma senza senso.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 aprile 2022

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