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E all’improvviso l’inferno: lo spezzonamento di San Martino

13 Giu
Tre aerei Sterling in azione

È il 19 aprile 1945, la piccola frazione alle porte di Ferrara viene invasa da una pioggia di bombe alleate. Saranno 71 le vittime e molti i feriti. La ricerca di Gianna Andrian e le testimonianze di alcuni superstiti

di Andrea Musacci 

In un tranquillo pomeriggio del 1945 anche a San Martino, alle porte di Ferrara, le persone aspettano di poter riassaporare la bellezza di una vita in pace. È il 19 aprile, un giovedì di primavera, l’aria è leggera. 

All’improvviso, intorno alle 16, in lontananza si ode il rumore di aerei, sembrano provenire da nord. La paura attraversa la mente delle persone impegnate nelle normali attività quotidiane, e dei bambini distratti nei loro giochi. Ma più forte della paura è la curiosità per quegli aerei che, si pensa, siano di passaggio, diretti chissà dove. In molti escono dalle case. È un attimo, e lo stupore si trasforma in terrore. Diciotto aerei facenti parte di tre formazioni alleate, sganciano 2364 bombe in pochi secondi. Bombe a frammentazione, che esplodendo in aria liberano “spezzoni”, schegge metalliche, da qui il termine “spezzonamento” per indicare questo tipo particolare, e ancor più micidiale, di bombardamento. Un sistema a quei tempi sperimentale. 

Gli Alleati probabilmente sospettavano che nella piccola frazione poco fuori Ferrara, tra via Chiesa, via Buttifredo e via Penavara, si fosse installato un comando tedesco. Si conteranno 71 vittime, tutte o quasi civili, e un numero indefinito di feriti e mutilati, persone che attendevano quella Liberazione che avrebbe attraversato la nostra città appena 5 giorni dopo, il 24 aprile. 

A raccontare a “La Voce” questa orribile e ben poco indagata vicenda della guerra nel nostro territorio, è Gianna Andrian, appassionata di storia e cultura locale del ferrarese e del rodigino, lei stessa originaria della provincia di Rovigo ma da diversi anni residente a San Martino, nonché membro dei “Caschi blu della cultura”.

«Mi sono sempre chiesta perché questa terribile vicenda non fosse mai stata approfondita a livello storico, allora due anni fa ho iniziato alcune ricerche». Chi entra nella chiesa del piccolo paese, vi può trovare due lapidi con i nomi delle 71 vittime (lapidi messe dopo richiesta di Fratta e Vezzani, due superstiti ancora viventi), alcune delle quali seppellite nel locale cimitero (insieme ad altri caduti nello spezzonamento del 10 giugno 1944, che provocò 191 morti fra il paese e la zona sud / sud-est della città), e i cui nomi sono impressi su una lapide comune. «Questo fa supporre, ma non possiamo per ora esserne certi, che parte dei morti non fossero di qua, e magari alcuni di loro erano soldati tedeschi». Una piccola via del paese è stata intitolata al ricordo di quella tragedia, via XIX aprile 1945, e in quella data viene celebrata una Messa in ricordo delle vittime.

La ricerca storica iniziata da Andrian dà ben pochi frutti: oltre alle lapidi e alla tomba, alcune informazioni in un libro trovato in Biblioteca Ariostea. Nessun documento nemmeno nell’archivio parrocchiale o in quello diocesano. Nulla nemmeno sul “Corriere padano” – fondato da Italo Balbo, poi diretto da Nello Quilici -, che cessa le pubblicazioni proprio in quei giorni, con l’arrivo a Ferrara delle truppe anglo-americane.

Gianna Andrian

Allora Andrian decide di cercare alcuni superstiti ancora viventi e rimasti a vivere a San Martino. Il primo è Bruno Fratta, che all’epoca aveva 4 anni, e da dieci anni è presidente dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra, sezione di Ferrara. Grazie a lui, successivamente, riuscirà a trovare altri quattro testimoni di quel terribile pomeriggio. In seguito si confronterà con diverse associazioni, fra cui “Aerei perduti del Polesine”, fondata da Luca Milan, Enzo Lanconelli, Andrea Raccagni ed Elena Zauli delle Pietre. Proprio quest’ultima, storica di professione, è riuscita a recuperare, in un archivio militare degli Alleati, il rapporto del comando alleato con i dettagli sullo spezzonamento di San Martino. 

Ma il lavoro di Andrian non si ferma: in programma c’è anche una pubblicazione. Un atto dovuto, per far conoscere a quante più persone possibili ciò che è accaduto quel maledetto 19 aprile di 77 anni fa, e ricordare quelle persone che, senza sapere nemmeno perché, trovarono una morte ingiusta.

Cinque racconti inediti di alcuni superstiti dell’attacco alleato

Bruno Fratta, classe ’41, una benda nera ancora gli copre l’occhio sinistro. Quel giorno ha perso il papà Giuseppe, 35 anni, lo zio materno Amedeo Castaldini, 36 anni, e il cugino Alfonso, 20 anni.

Bruno vide cadere davanti ai suoi occhi l’amico Gino Vitali ferito mortalmente. «La mia mano era stretta in quella di mia mamma e in quell’intreccio di dita, il suo pollice destro verrà colpito da una scheggia e amputato. Un’altra scheggia le entrò in un occhio togliendole la vista». Anche Bruno venne colpito e ferito gravemente all’occhio sinistro. Sia lui sia sua madre, negli anni, dovettero subire interventi per rimuovere schegge rimaste nei loro corpi.

Gianfranco Pasquali, classe 1931, racconta: «mi trovavo con gli amici nel cortile in prossimità dell’imbocco del rifugio, quando ho visto arrivare gli aerei che si sono divisi in cielo. Poi ricordo gli impressionanti fischi degli “spezzoni” che cadevano. Mi tuffai letteralmente all’interno del rifugio dove già erano entrate due ragazze. Un amico uscì dal rifugio sotto lo spezzonamento. Voleva correre in casa per vedere se i suoi familiari erano in salvo, ma rimase ferito. La mamma del mio amico, sulla porta d’ingresso, era riversa a terra, colpita mortalmente dalle schegge. Mia madre, alle sue spalle, dritta in piedi, viva per miracolo. Il corpo di quell’altra madre aveva fatto da scudo alla mia salvandole la vita». Ricorda che nella casa d’angolo tra via Penavara e via Chiesa c’era un “Comando di Tedeschi”. «Quattro o cinque di loro erano morti subito, altri ruzzolavano ancora giù dalla scala esterna perché feriti dalle schegge».

Grandilia Vezzani e suo fratello Edgardo “Marco” raccontano: «nel cortile di Venturoli, dove in quel momento si trovava nostro padre Nino, si scatenò una visione infernale: una tempesta di schegge metalliche che non lasciava scampo, e atterrava ogni essere vivente. I due amici vennero colpiti contemporaneamente. Venturoli morì all’istante mentre nostro padre venne ferito gravemente. Morì poche ore dopo». 

Sergio Govoni all’epoca aveva 8 anni. Quel giorno, all’arrivo degli aerei, scappa, insieme ad altri, nel rifugio costruito dalle famiglie del suo stesso cortile. Con lui, nel rifugio, riuscì ad entrare anche la sorella Graziella di 7 anni. La sorella Triestina, 17 annui, e il padre Giuseppe si affacciarono sulla soglia di casa per la curiosità. Fu un attimo, questione di qualche secondo, neanche il tempo per capire e padre e figlia erano già riversi a terra falciati dalle schegge delle bombe. A poche centinaia di metri fu ferito mortalmente anche il fratello Benito.

Tazio Lambertini, classe ’36, abitava in una casa colonica nella grande Azienda Agricola detta “Cuniola”, proprietà del famoso Casato dei Canossa, forse base di un comando tedesco in ritirata, o di un ospedale da campo, e quindi probabile obiettivo di quell’incursione aerea. Ma quella villa e le case coloniche non furono nemmeno sfiorate dal bombardamento. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 giugno 2022

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