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«Testimoni del giudizio» per non scivolare nel nulla

18 Feb

Centenario di don Giussani: mons. Santoro (Delegato Memores Domini) e Prosperi (Presidente CL) in dialogo su nichilismo e pienezza di vita. A partire dalla domanda: “Perché esisto?”

Come rispondere alle domande fondamentali dell’uomo? E soprattutto come viverle, diventando testimoni della verità in un mondo che sempre più sembra smarrire i criteri essenziali per interpretare la realtà?

Quesiti sui quali Comunione e Liberazione ha riflettuto la sera del 9 febbraio in un incontro che ha visto confrontarsi tra loro mons. Filippo Santoro, Arcivescovo di Taranto e dallo scorso settembre “delegato speciale” del Papa presso i Memores Domini, e Davide Prosperi, Presidente della Fraternità di CL.

A Ferrara l’incontro, aperto a tutti, è stato trasmesso in diretta dalla Sala Estense. Un appuntamento che ha visto la partecipazione di circa 150 persone, fra cui molti giovani.

I relatori, in particolare, hanno riflettuto sul testo, da poco edito, “Dare la vita per l’opera di un Altro”, che raccoglie gli ultimi interventi di don Luigi Giussani agli Esercizi della Fraternità, dal 1997 al 2004, e che costituisce il testo a partire dal quale si lavorerà durante le Scuole di comunità, per poi arrivare al prossimo appuntamento condiviso in programma il 23 marzo. 

Riscoprire il cuore dell’annuncio cristiano è, da sempre, ciò che muove il movimento di Comunione e Liberazione. Ma riscoprire quella «passione per il fatto cristiano» in un mondo sempre più desacralizzato e nichilista può sembrare una fatica di Sisifo. Partendo dal sopracitato testo di don Giussani, mons. Santoro ha tentato innanzitutto di ripercorrere quel momento nella storia – nel XVIII secolo, quello cosiddetto dei lumi -, in cui il razionalismo ha preso il sopravvento, illudendo «l’uomo che con la propria ragione potesse considerarsi misura di tutte le cose». Da quel momento Dio è espulso dalla vita personale e collettiva, dalla storia. «L’uomo cede alla tentazione di pensare che si fa da solo», con la conseguenza, inevitabile, «che nulla abbia reale consistenza».

La risposta della Chiesa fu di «arroccarsi», per difendere, giustamente, la morale del popolo. Ma così finì per «dare per scontata l’evidenza del contenuto dogmatico, obliterando la forza originaria del cristianesimo», cadendo nel duplice errore del moralismo e dell’azione a tutti i costi «a scapito dell’annuncio della “lieta notizia”, della passione per il fatto cristiano».

“Per chi si vive?”: questa è la domanda fondamentale da cui partire per fondare ogni azione e ogni morale. Ripensare al mistero della propria esistenza, alla domanda: “Chi è Dio per l’uomo?”. Dio e l’io al centro, quindi, insieme: che «Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15, 28) e al tempo stesso «che l’io sia salvato come autocoscienza del cosmo e come colui che – unico nel creato – ha sete di Lui, desiderio di eternità». Riscoprendo, quindi, la domanda sul senso: «Perché esisto?». 

Il razionalismo, nelle sue due forme prevalenti del nichilismo e del panteismo, ha portato, invece, l’uomo a scivolare nel nulla. La conseguenza, inevitabile, della perdita di un fondamento, è che «l’uomo cada in balia del potere» e della competizione per raggiungerlo. Tutto è nel potere dell’uomo, a sua disposizione: così, egli diventa schiavo del potere, dell’effimero, di ciò che non può soddisfare la sua sete di Assoluto. Il peccato è questa «estraneità» a sé e al suo fondamento ultimo, «il non riconoscere ciò che è come coerente con Dio, il non domandare di essere, non anelare a un compimento», a una pienezza.

Abbiamo bisogno, invece, come ha riflettuto Prosperi, di «testimoni del giudizio», di persone capaci di riempire di senso ogni aspetto della nostra esistenza, di «testimoniare la verità» sull’uomo e sul mondo. Di mostrare con la propria vita che «lo star bene non è l’assenza di problemi e l’affidarsi solo a ciò che ci fa comodo» ma appunto «il sentirsi in Dio, nell’Essere», e alla Sua luce illuminare il nostro cammino e ogni nostra esperienza, anche quotidiana. 

Il «domandare l’Essere», come diceva don Giussani, è la domanda sulla verità, sul Mistero. Uno sforzo per nulla scontato, dato che la realtà nella sua dimensione più profonda non è immediatamente conoscibile, ma «velata, buia, è segno» che, appunto, rimanda ad altro. Quella nebbia si può, anche se non pienamente, diradare: serve, però, avere uno «sguardo colmo di stupore che ci permetta di vedere nella realtà l’Altro, Colui che l’ha creata nella sua Grazia». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 febbraio 2022

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(Immagine: da “Il Vangelo secondo Matteo” di P. P. Pasolini, 1964)

Identità e speranza tra assimilazione e inculturazione: dialogo fra cattolici ed ebrei al MEIS

18 Feb

Partendo dall’esilio babilonese, confronto tra rav Caro e don Bovina. Con un occhio alle migrazioni contemporanee

Difesa della propria identità, del proprio credo e, dall’altra parte, la necessità di conservare la speranza senza alienarsi nel luogo dell’esilio.

Su questo difficile equilibrio si è mossa la discussione svoltasi nel pomeriggio del 10 febbraio in occasione della 33° Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei.

Nel bookshop del MEIS si sono confrontati il Rabbino capo di Ferrara rav Luciano Caro e don Paolo Bovina, biblista e Direttore di Casa Cini, moderati dal Direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto. Tema del confronto, la “Lettera agli esiliati” del profeta Geremia (Ger 29,1-23). La registrazione video dell’incontro è disponibile sul canale You Tube “UCS Ferrara-Comacchio Ufficio Comunicazioni Sociali”.

Non chiudersi né assimilarsi

«“Quando settant’anni saranno compiuti per Babilonia, io vi visiterò e manderò a effetto per voi la mia buona parola facendovi tornare in questo luogo. (…) Vi farò tornare dalla vostra prigionia; vi raccoglierò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho cacciati”, dice il Signore; “vi ricondurrò nel luogo da cui vi ho fatti deportare”» (Gr 29, 10-14) 

Geremia, uno dei quattro grandi profeti d’Israele, nato verso il 650 a.C. vicino Gerusalemme, iniziò il suo ministero profetico sotto il regno di Giosia. Uomo mite, fu chiamato ad una missione profetica molto dura: quella di essere l’annunciatore e il testimone della rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda. In quegli anni scompariva definitivamente l’impero Assiro e si riaffermava la potenza di Babilonia, specie con il re Nabucodonosor, che fece pesare la sua autorità in Palestina. Geremia fu sempre contrario ad un’alleanza del popolo d’Israele con l’Egitto, consigliando sottomissione alla potenza babilonese. Gli avvenimenti gli diedero ragione. L’esilio o cattività babilonese – la deportazione a Babilonia dei Giudei di Gerusalemme e del Regno di Giuda al tempo di Nabucodonosor II – durò circa 70 anni.

Ma in questi decenni, come dimostra il passo sopracitato di Geremia, «Dio non si dimentica del suo popolo, che rimane nelle Sue mani, rimane quindi storia di salvezza», ha riflettuto don Bovina. «Dio non perde il controllo della storia, accompagnando il suo popolo ovunque». Al tempo stesso, però, questo «forte messaggio di speranza» impedisce agli ebrei di vivere come «alienati» il loro periodo di esilio («Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite. Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene» – Gr 29, 5-7). È importante, quindi, per don Bovina, «il vivere il presente, il luogo nel quale ci si trova, nonostante tutte le difficoltà. E questo fa venire in mente le parole di Papa Francesco sulla pandemia, pronunciate a fine maggio 2020: “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”». 

Spagnoletto, pur condividendo la posizione di fondo di don Bovina, ha sottolineato come non si debba dimenticare che per gli ebrei «l’esilio è segno di un castigo divino, e rappresenta il rischio dell’assimilazione, della perdita della propria tradizione, del proprio credo, della propria identità». Lo stesso invito “moltiplicatevi tra voi”, ha incalzato rav Caro, «è un invito a non assimilarsi. L’esilio è la cosa peggiore che può capitare agli ebrei, e a ogni popolo. Lo vediamo oggi con le migrazioni, quanti drammi e sofferenze portano a chi è costretto a lasciare la propria terra».

«Rinunciare alla propria identità in esilio sarebbe qualcosa di totalmente negativo, come gli stessi profeti dicono», ha ribattuto don Bovina. «Detto ciò, sarebbe sbagliato anche chiudersi in una fortezza e non essere sale, luce, lievito della terra che si abita, tutte categorie, per la nostra Chiesa, della missionarietà». Parole rafforzate dal breve intervento del nostro Arcivescovo, che ha assistito all’incontro: «è importante il concetto di inculturazione, cioè il rileggere l’identità dentro un contesto nuovo, particolare. Le migrazioni oggi, pur nelle sofferenze, debbono sempre portare con sé la cura di queste persone e quindi un messaggio di speranza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 febbraio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

(Foto: da sx, Spagnoletto, rav Caro, don Bovina e mons. Perego)