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Identità e speranza tra assimilazione e inculturazione: dialogo fra cattolici ed ebrei al MEIS

18 Feb

Partendo dall’esilio babilonese, confronto tra rav Caro e don Bovina. Con un occhio alle migrazioni contemporanee

Difesa della propria identità, del proprio credo e, dall’altra parte, la necessità di conservare la speranza senza alienarsi nel luogo dell’esilio.

Su questo difficile equilibrio si è mossa la discussione svoltasi nel pomeriggio del 10 febbraio in occasione della 33° Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei.

Nel bookshop del MEIS si sono confrontati il Rabbino capo di Ferrara rav Luciano Caro e don Paolo Bovina, biblista e Direttore di Casa Cini, moderati dal Direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto. Tema del confronto, la “Lettera agli esiliati” del profeta Geremia (Ger 29,1-23). La registrazione video dell’incontro è disponibile sul canale You Tube “UCS Ferrara-Comacchio Ufficio Comunicazioni Sociali”.

Non chiudersi né assimilarsi

«“Quando settant’anni saranno compiuti per Babilonia, io vi visiterò e manderò a effetto per voi la mia buona parola facendovi tornare in questo luogo. (…) Vi farò tornare dalla vostra prigionia; vi raccoglierò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho cacciati”, dice il Signore; “vi ricondurrò nel luogo da cui vi ho fatti deportare”» (Gr 29, 10-14) 

Geremia, uno dei quattro grandi profeti d’Israele, nato verso il 650 a.C. vicino Gerusalemme, iniziò il suo ministero profetico sotto il regno di Giosia. Uomo mite, fu chiamato ad una missione profetica molto dura: quella di essere l’annunciatore e il testimone della rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda. In quegli anni scompariva definitivamente l’impero Assiro e si riaffermava la potenza di Babilonia, specie con il re Nabucodonosor, che fece pesare la sua autorità in Palestina. Geremia fu sempre contrario ad un’alleanza del popolo d’Israele con l’Egitto, consigliando sottomissione alla potenza babilonese. Gli avvenimenti gli diedero ragione. L’esilio o cattività babilonese – la deportazione a Babilonia dei Giudei di Gerusalemme e del Regno di Giuda al tempo di Nabucodonosor II – durò circa 70 anni.

Ma in questi decenni, come dimostra il passo sopracitato di Geremia, «Dio non si dimentica del suo popolo, che rimane nelle Sue mani, rimane quindi storia di salvezza», ha riflettuto don Bovina. «Dio non perde il controllo della storia, accompagnando il suo popolo ovunque». Al tempo stesso, però, questo «forte messaggio di speranza» impedisce agli ebrei di vivere come «alienati» il loro periodo di esilio («Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite. Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene» – Gr 29, 5-7). È importante, quindi, per don Bovina, «il vivere il presente, il luogo nel quale ci si trova, nonostante tutte le difficoltà. E questo fa venire in mente le parole di Papa Francesco sulla pandemia, pronunciate a fine maggio 2020: “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”». 

Spagnoletto, pur condividendo la posizione di fondo di don Bovina, ha sottolineato come non si debba dimenticare che per gli ebrei «l’esilio è segno di un castigo divino, e rappresenta il rischio dell’assimilazione, della perdita della propria tradizione, del proprio credo, della propria identità». Lo stesso invito “moltiplicatevi tra voi”, ha incalzato rav Caro, «è un invito a non assimilarsi. L’esilio è la cosa peggiore che può capitare agli ebrei, e a ogni popolo. Lo vediamo oggi con le migrazioni, quanti drammi e sofferenze portano a chi è costretto a lasciare la propria terra».

«Rinunciare alla propria identità in esilio sarebbe qualcosa di totalmente negativo, come gli stessi profeti dicono», ha ribattuto don Bovina. «Detto ciò, sarebbe sbagliato anche chiudersi in una fortezza e non essere sale, luce, lievito della terra che si abita, tutte categorie, per la nostra Chiesa, della missionarietà». Parole rafforzate dal breve intervento del nostro Arcivescovo, che ha assistito all’incontro: «è importante il concetto di inculturazione, cioè il rileggere l’identità dentro un contesto nuovo, particolare. Le migrazioni oggi, pur nelle sofferenze, debbono sempre portare con sé la cura di queste persone e quindi un messaggio di speranza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 febbraio 2022

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(Foto: da sx, Spagnoletto, rav Caro, don Bovina e mons. Perego)

“Continuità e progetti per i giovani”: Spagnoletto nuovo Direttore MEIS

16 Giu

Interviste a cura di Andrea Musacci

Cambio al vertice del Museo nazionale ebraismo italiano e Shoah di Ferrara: “siamo un centro propulsore di dialogo fra fedi e lavoriamo per un’integrazione vera”

Rabbino capo della Comunità ebraica di Firenze, membro del Comitato scientifico del MEIS, una Laurea rabbinica presso il Collegio Rabbinico di Roma, un diploma di Sofer (lo scriba rituale e restauratore di testi ebraici) dell’Istituto Zemach Zedeq di Gerusalemme, e uno in Biblioteconomia della Scuola di Biblioteconomia Vaticana. E ancora: docente al Collegio Rabbinico Italiano e per l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nonché collaboratore del Comune di Roma nell’ambito educativo e membro del comitato scientifico del Museo Ebraico di Roma.

Sono solo alcune delle voci del curriculum di Amedeo Spagnoletto, romano, 52 anni, nuovo Direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah al posto di Simonetta Della Seta.

Spagnoletto, un avvicendamento nel segno della continuità, verrebbe da dire, essendo lei già membro del Comitato scientifico. Pensa che i prossimi 4 anni possano comunque segnare un rinnovamento?

Certamente l’esperienza fatta nel comitato scientifico mi ha dato modo di conoscere la splendida “macchina” MEIS che funziona grazie alla sinergia di uno staff affiatato e efficiente, ma è stata anche una palestra di dibattito e confronto ad altissimo livello, considerate le figure del mondo accademico e della cultura che lo componevano. Da questo punto di vista è stato un privilegio farne parte. La continuità sarà quindi in linea con il rigore scientifico delle iniziative e con l’intensità di attività che ha contraddistinto il quadriennio della direzione di Simonetta a cui va tutto il mio plauso e la riconoscenza per avermi lasciato un’istituzione in salute e ben organizzata. Per parlare di rinnovamento ho bisogno di prendere concretamente coscienza nei dettagli di ciò che è stato fatto. Non ho maturato convincimenti che mi spingono per ora a dare segni di discontinuità col passato.

Quali progetti ci sono in programma?

Il periodo pandemico ci impone molta cautela. Ma questo non deve essere un freno rispetto all’organizzazione di importanti iniziative. Stiamo lavorando su un progetto didattico ben articolato da offrire alle scuole di tutto il Centro-Nord e da attivare fin dall’inizio dell’anno scolastico. Sono convinto che il MEIS, proprio perché propone l’esperienza bimillenaria ebraica in Italia, sia il luogo più appropriato per raccontare a un Paese confuso che la via di un’integrazione responsabile e che non sacrifichi le identità è praticabile.

Sulla Festa del Libro ebraico: per l’edizione 2020 penserete a un ritorno alla Festa “vecchio stile”, su più giorni e con più iniziative non letterarie?

Una cosa è certa: all’interno della kermesse il largo pubblico deve trovare un motivo per partecipare, quindi presentazioni di libri sì, ma non solo. L’ambizione sarà quella di toccare i tasti più giusti per avvicinare i giovani.

Può aggiornarci sui lavori nella sede del MEIS?

Credo che per rispondere a questa domanda avrò bisogno di tempo per prendere coscienza con lo stato dell’arte.

Che frutti potrà dare nei prossimi anni un rapporto con la nostra comunità cattolica?

Il MEIS deve anche essere un centro propulsore di dialogo con tutti i credi presenti sul territorio. Fra i punti del suo statuto c’è quello di promuovere i valori di pace e fratellanza fra i popoli e l’incontro fra culture e religioni diverse. Credo che tutto questo debba avvenire sempre in stretta armonia con la Comunità ebraica di Ferrara ed i suoi autorevoli rappresentanti verso cui il MEIS rivolge rispetto e considerazione.

Della Seta: “In molti a Ferrara non credevano nella nascita del museo, ma poi c’è stato entusiasmo”

Simonetta Della Seta 2

foto Francesca Brancaleoni

Dopo 4 anni, alla scadenza naturale del mandato, Simonetta Della Seta lascia l’incarico di Direttore a Spagnoletto. Un quadriennio decisivo per il futuro del MEIS. Le abbiamo rivolto alcune domande per capire cos’ha rappresentato per lei.

Della Seta, ora che lascia il MEIS possiamo fare un bilancio: che museo eredita il suo successore?

Il nuovo Direttore trova un museo avviato e funzionante, riconosciuto in Italia e all’estero. Una macchina oleata, che ovviamente bisogna tenere in movimento e far conoscere sempre di più al grande pubblico. Le sfide non sono certo finite, ma il MEIS esiste, è guidato da un gruppo di lavoro professionale e coeso, ed è considerato un luogo rilevante e di interesse, non solo per i turisti, ma anche per le scuole di tutta la penisola. Con la nuova grande mostra storica che verrà inaugurata nel 2021 – e che è completamente pronta – dedicata al periodo dei ghetti e poi alla loro apertura (1516-1914), il MEIS offrirà al visitatore un percorso completo che va dall’epoca romana alla fine della seconda guerra mondiale. Inoltre parlerà di un tema molto attuale: come resistere nei ghetti e come uscirne liberi. Un messaggio universale che viene proprio dalla cultura ebraica. Quando sono arrivata a Ferrara, il museo era ancora un cantiere e a lavorare con me c’erano solo due persone. Ora il MEIS è sulla mappa della città, ma anche dei grandi musei nazionali e di quelli mondiali. È stato inaugurato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e visitato da tantissime personalità, nazionali ed internazionali della cultura. Tra queste: la senatrice a vita Liliana Segre, l’architetto Dani Karavan, lo storico dell’arte Salvatore Settis, l’ebraista Giulio Busi, gli scrittori israeliani A.B. Yehoshua e David Grossman, il regista Amos Gitai. Ne sono fiera.

Come fu, secondo lei, 4 anni fa l’accoglienza di Ferrara al progetto del MEIS?

Quando arrivai, in molti credevano che il MEIS non sarebbe mai nato. Erano trascorsi oltre 10 anni dalla legge istitutiva. Nel momento in cui però la città ha vissuto con noi il grande sforzo per aprire il Museo e la sua presenza vitale e coinvolgente, abbiamo ricevuto delle risposte commoventi, molto apprezzamento e tanto sostegno. Il MEIS dà anche lavoro a moti ferraresi, e questo è il modo migliore per farlo sentire un luogo del territorio.

La comunità ferrarese in questi 4 anni è stata collaborativa, riconoscendolo come parte della propria identità?

La città ha accolto il museo con curiosità ed entusiasmo. Sono stati creati rapporti intensi con tutte le realtà cittadine: dal Teatro Abbado all’Università, dal Conservatorio all’Ariostea, dalla Camera di Commercio ai più importanti circoli culturali della città. Il Comune è stato la prima istituzione a sostenere fortemente il progetto MEIS, offrendoci spazi nella città, facilitando in ogni modo le nostre attività e aiutando anche finanziariamente. Per noi è fondamentale che i ferraresi sentano il Museo come un loro luogo. Anche se il MEIS è un museo nazionale, è importante che la città lo consideri una sua perla e una vera opportunità per la diffusione della cultura e per l’attrazione del turismo.

Non solo in rapporto al MEIS, che città lascia, “aperta” e consapevole della propria identità sfaccettata? E una città più capace di fare i conti con la propria storia?

Ferrara è una città per alcuni versi conservatrice, ma anche accogliente e attratta dalle altre culture. Inoltre, tra le tante anime che l’hanno stratificata, quella ebraica è sempre presente; fa parte della sua storia e della sua cultura, e tutti ne sono consapevoli. Credo che Ferrara abbia cominciato da tempo a fare i conti con la propria storia, ma mi piacerebbe che al MEIS parlassero un giorno i figli di coloro che hanno subito la Shoah, con i figli di coloro che li mandarono a morire. C’è sofferenza in entrambi e solo tirando fuori anche la seconda – riconoscere con dolore che siamo anche i figli del male – il conto con la storia sarà completo.

E l’Italia rispetto a 4 anni fa è una nazione più aperta, rispetto all’ebraismo e alle altre minoranze? La spaventa il riemergere di certo antisemitismo?

L’antisemitismo è un fenomeno che esiste da secoli e sul cui sradicamento combattiamo ancora ogni giorno. Purtroppo alla sua base c’è l’ignoranza. Quando si conosce l’ebraismo, è assai più facile prevenire il pregiudizio. Per questo è così importante che il governo italiano abbia voluto un Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. Il MEIS ha una funzione cruciale nella società di oggi, anche per arginare il razzismo diffondendo conoscenza. Questa è la sfida: non demoralizzarci in momenti in cui riaffiora il sentimento negativo, ma studiare, approfondire e creare conoscenza affinché esso non abbia più base. Chi visita il MEIS sa anche che uno dei nostri obiettivi è valorizzare la convivenza, lo scambio, l’incontro. Per noi è importante che il MEIS sia una casa pronta ad accogliere chiunque non si senta accettato per come è. Il nostro museo è uno specchio che riflette la bellezza impagabile della diversità che ci rende unici.

Qual è stato il rapporto con la nostra comunità cattolica?

Un rapporto strettissimo. Sono appena stata (una settimana fa, ndr) a salutare il Vescovo Perego che ha seguito con molta attenzione lo sviluppo del MEIS. Abbiamo anche organizzato diversi eventi di dialogo ebraico-cristiano e in generale inter-religioso. Abbiamo avuto anche un ottimo rapporto con l’Ente Palio che come è noto ha radici nelle contrade e nelle parrocchie. Uno scambio sempre positivo e molto autentico.

Qual è stata la sua più grande soddisfazione in questo quadriennio?

La più grande soddisfazione l’ho avuta l’ultimo giorno trascorso al museo: ho letto negli occhi dei miei collaboratori e di tutti coloro che vi lavorano la passione e l’amore per il MEIS, nonché la voglia di farlo crescere sempre di più.

E quale la sua più grande amarezza?

Non ho amarezze. Sono stati anni molto faticosi ma bellissimi. Anni in cui ho anche potuto imparare tantissimo.

Avrà qualche rimpianto…

Non ho nemmeno rimpianti perché so che il MEIS ha un futuro davanti a sé e sono fiduciosa di aver costruito un luogo che farà del bene alla nostra società.

Riguardo al suo nuovo incarico al Dipartimento Europa dello Yad Vashem, quali sono le sfide che la aspettano?

Lo Yad Vashem è un punto di riferimento mondiale quando si tratta di raccontare, documentare, testimoniare la tragedia della Shoah e trasmetterla alle nuove generazioni. A Gerusalemme mi occuperò soprattutto di formazione. La sfida sarà quella di mettere al centro non la morte, ma la forza della vita, la resilienza anche di fronte a situazioni estreme come la persecuzione e la deportazione. Sono persuasa che luoghi come lo Yad Vashem e come il MEIS servano a diffondere una cultura del bene. Sono questi valori, ebraici ma anche universali, che possono aiutarci ad arginare l’antagonismo, la mancanza di solidarietà e l’odio.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 giugno 2020

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Vite spezzate, vite salvate: a Ferrara storie di bimbi nella Shoah

17 Dic

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico curato dallo Yad Vashem di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il CDEC. Il 10 dicembre la presentazione pubblica

a cura di Andrea Musacci

gemellineGiovani, spesso giovanissime vite sconvolte, inghiottite dalle tenebre del male, vissute dentro l’orrore. Esistenze a volte distrutte per sempre, altre, invece, salvate.

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS dall’11 dicembre fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico, pensato quindi soprattutto per le scuole, curato dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Storie di bambine e bambini raccontate attraverso le loro immagini, a volte le loro stesse testimonianze e il racconto storico, una narrazione inevitabilmente commovente fatta di spezzoni di vita quoditiana, segni di storie di famiglie, di un popolo. La mostra è stata inaugurata ufficialmente nel pomeriggio del 10 dicembre scorso, anticipata, la mattina stessa, da una conferenza. Raccogliamo qui alcune vicende di bambine e bambini, le prime due accennate durante la conferenza stessa da Liliana Picciotto del CDE, le altre presenti in mostra.

Dino (classe 1929) ed Esther Molho, di Magenta (MI), che nel ’44, insieme ai genitori, imprenditori, dovettero nascondersi per 13 mesi in una stanza segreta (ideata da loro stessi insieme ad alcuni dipendenti) dello stabilimento di famiglia che produceva minuterie. La stanza era all’interno del magazzino, nascosta alla vista da una pila di casse alte fino al soffitto. Un sistema simile a quello usato dagli amici di Anna Frank.

Massimo Foa, nato l’8 novembre 43, torinese: la madre Elena Recanati è una sopravvissuta al campo di Bergen Belsen, mentre il padre Guido è morto, forse in una marcia della morte: Massimo, prima della deportazione dei genitori, è affidato a Suor Giuseppina De Muro, che lo fa uscire dalla prigione dov’è rinchiusa la madre in mezzo alle lenzuola sporche e viene affidato a una povera vedova di Cuorgnè di nome Tilde (Clotilde) Roda Boggio.

Leone (1930), Mirella (1932) e Davide Pecar (1935): tre fratelli milanesi che, insieme alla madre Ghenia vengono arrestati nel ’43 e portati al carcere di San Vittore, poi deportati ad Auschwitz, dove muoiono.

Franco Cesana, nome di battaglia “Balilla”, figlio di Felice e Ada Basevi, nato il 20 settembre 1931 a Mantova. A 13 anni si arruola nella brigata Scarabelli della seconda divisione Modena Montagna. Partecipa a numerosi scontri con i tedeschi e in uno di questi resta ucciso a Gombola (Polinago-Modena) il 14 settembre 1944.

Yehudit Czengery e Leah Czengery, gemelle rumene, hanno 6 anni nel ’44 quando vengono deportate con la madre Rosi nel campo di Auschwitz Birkenau. Il dottor Mengele le definì “le bellissime gemelle”: furono portate direttamente nel laboratorio riservato ai suoi esperimenti. La madre riuscì di nascosto a procurar loro del cibo. Si salvarono.

Marta Winter, classe 1935, polacca: nel ’43 la madre la affida a un amico di famiglia fuori dal ghetto. Fu poi deportata anche lei in un campo di concentramento ma si salvò.

Stefan Cohn, tedesco, nato nel ‘29: nel giugno ‘43 è deportato con la madre Bertha a Birkenau. Questa viene uccisa, Stefan fatto lavorare nella fabbrica di mattoni. Si salva e nel ’45 realizza 79 disegni raffiguranti la vita nei campi.

Sissel Vogelmann, torinese, nata nel ‘35, torino: il padre Shulim dirigeva la Giuntina editrice. Lei e la madre vennero uccise subito all’arrivo ad Auschwitz nel ’44, dopo esser state deportate dalla Stazione di Milano.

Henryk Orlowski e Kazimierz Orlowski, fratelli polacchi, rispettivamente del ‘31 e del ‘33.

Regina Zimet, classe ’33, nata a Lipsia. Nel ’39 con la famiglia fugge dalla Germania verso Israele, ma in Libia sono arrestati, riportati in Italia nel campo di Ferramonti. Poi rilasciati, sono costretti a vivere in clandestinità. Ma si salvano, e nel ’45 raggiungono Israele.

Sorte simile per Meir Muhlbaum, 1930, tedesco, e la sua famiglia, che nel ’44 riuscirono ad arrivare a Tel Aviv.

Adriana Revere: nasce alla Spezia il 18 dicembre 1934; i genitori Emilia De Benedetti ed Enrico Revere vengono arrestati in Vezzano Ligure per appartenenza alla “razza ebraica” ; la piccola viene catturata insieme ai genitori e inviata con loro al Campo di concentramento di Fossoli. Il 22 febbraio 1944 la famiglia è deportata al Campo di Auschwitz; il padre, trasferito a Flossenburg, è ucciso otto mesi dopo l’arrivo; la piccola e la madre sono uccise il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz, il 24 febbraio 1944.

Maud Stecklmacher, cecoslovacca, classe ‘29: viene raccontata la sua amicizia con Ruth Weiss, poi proseguita nel ghetto di Terezin. Ma Ruth fu deportata in Polonia e non fece ritorno. Maud andò poi a vivere in Israele.

Marcello Ravenna, nato il 14 ottobre 1929 a Ferrara: figlio di Letizia Rossi e Gino Ravenna, fratello minore di Franca ed Eugenio. Nel ‘38 inizia a frequentare la scuola ebraica di via Vignatagliata. Il 12 febbraio ‘44 con la famiglia è deportato nel campo di Fossoli, insieme ad altre 500 persone, poi deportate ad Auschwitz. Marcello fu tra quelli che non tornò più. Non si ebbero notizie precise sulla sua deportazione e morte.

“Tenere accese più luci possibili”: memoria, didattica e ricerca

della setaLa mattina del 10 dicembre al MEIS, dopo i saluti del Direttore del Museo Simonetta Della Seta, di Alessandro Criserà (Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna), Anna Quarzi (Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) e Daniela Dana Tedeschi (vicepresidente Associazione “Figli della Shoah”), sono seguiti gli interventi di Liliana Picciotto (CDEC), Marcella Hannà Ravenna (Comunità ebraica di Ferrara), Rita Chiappini (collaboratrice dello Yad Vashem come contatto in Italia), e Cesare Finzi.

“La mostra – ha spiegato Della Seta – è dedicata a bambini che da un certo punto in poi non hanno più avuto un cielo, né luce: per questo, è importante anche oggi accendere più luci possibili. Vedere la Shoah attraverso gli occhi dei bambini che l’hanno vissuta, significa vederla con ancor più lucidità”. Dopo un omaggio a Piero Terracina, morto lo scorso 8 dicembre, uno degli ultimi sopravvissuti italiani ad Auschwitz, Della Seta ha ricordato anche i propri genitori, “anche loro ‘bimbi della Shoah’”. Dopo l’intervento di Criserà, che ha ricordato l’importanza della Legge regionale “Memoria del Novecento”, e l’intervento di Quarzi, ha preso la parola Tedeschi, la quale ha auspicato che la collaborazione tra l’associazione da lei rappresentata (e presieduta dalla Senatrice Liliana Segre) e il MEIS, ora iniziata, possa proseguire negli anni. “La Shoah – è stata la sua riflessione – ha negato tutti i diritti fondamentali dei bambini, compresi quella alla libertà, all’identità, all’educazione”. Ricordiamo che il 10 dicembre era l’anniversario dell’adozione della dichiarazione universale dei diritti umani da parte delle Nazioni Unite, avvenuta nel ’48.

“Nel fascismo e nel nazismo – sono invece parole di Picciotto – l’educazione era militarizzata, i bimbi venivano cresciuti come soldati obbedienti, non vi era più posto per l’educazione civile e al senso critico”. Nel ripercorrere i tragici passaggi della discriminazione e repressione antiebraica, la relatrice ha posto l’accento sulle conseguenze di tutto ciò per i più piccoli, in termini di “fame, freddo, spavento e terrore, promiscuità, fetore dei vagoni usati per la deportazione”.

Senza dimenticare la frequente separazione dai genitori, la vita clandestina, la falsificazione dei documenti d’identità, il dover dare nome e cognome inventati – non ebrei – per non essere riconosciuti ed evitare quindi l’arresto.

Sorte, questa, toccata anche a Eugenio Ravenna (1920-1977), uno dei cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di Auschwitz. La figlia Marcella ha analizzato come le leggi razziste iniziarono concretamente con l’espulsione dalle scuole di studenti e insegnanti ebrei, ricordando, per quanto riguarda la scuola di via Vignatagliata, alunni come Cesare Finzi, Corrado Israel De Benedetti, Giampaolo Minerbi, Donata Ravenna, Franco Schönheit, Maurizia Tedeschi e Gianfranco Rossi; tra i maestri, Giorgio Bassani, Matilde Bassani e Primo Lampronti.

“Da un lato, dalle testimonianze di alcuni studenti – ha spiegato – emerge tristezza, una sensibilità ferita nel sentirsi trattati come diversi, il senso di inferiorità; dall’altra, l’ammirazione per gli insegnanti, il poter stare insieme, i legami molto forti instauratisi, il poter svolgere attività coinvolgenti, come lo spettacolo teatrale diretto da Giorgio Bassani”. Ma dal ‘43 vi saranno gli arresti, le fughe, le deportazioni. La scuola verrà chiusa, Lampronti e i Bassani arrestati.

Ravenna ha ricordato uno per uno i bambini deportati nei campi di sterminio i cui nomi sono impressi sulle lapidi di via Mazzini: bambine e bambini che non hanno fatto ritorno: Marcella Bassani, Bruno Farber, Carlo Lampronti, Camelia Matatia, Roberto Matatia, Amelia Melli, Novella Melli, Marcello Ravenna, Roberto Ravenna, Vittorio Ravenna, Nello Rietti, Walter Rossi (studente alla scuola di via Vignatagliata, non indicato nella lapide perché non ferrarese), Adele Rothstein, Giorgio Rothstein, Wanda Rothstein, Cesarina Saralvo.

Dopo l’intervento di Chiappini, che ha spiegato il fondamentale ruolo informativo e didattico dello Yad Vashem di Gerusalemme, ha portato la sua testimonianza Cesare Finzi, scampato al campo di concentramento, la cui storia abbiamo raccontato nel numero del 13 settembre scorso e accennato – legato alla profumeria di famiglia (presente nella mostra “Ferrara ebraica” ancora visitabile al MEIS) – in quello del 22 novembre scorso.

Finzi nel suo racconto ha mostrato anche una foto della sua classe del ’36, quando aveva 6 anni, e una dell’autodenuncia, in quanto ebrei – ai tempi, obbligatoria – dei genitori: “hanno dovuto autodenunciare se stessi e i propri figli come ebrei, quindi come esseri inferiori”, ha spiegato.

Fra gli aneddoti, “il viso viola di rabbia di Giorgio Bassani quando – già escluso dal Tennis Club Marfisa in quanto ebreo – sentiva il rumore delle palline da tennis nel campo vicino”, o i documenti falsi che lui e i famigliari erano riusciti ad avere una volta fuggiti a Gabicce, nel ’43, dove il cognome era stato trasformato in “Franzi”. Traumi non da poco, per un 13enne, costretto a dover “rinnegare” il proprio nome, dunque la propria più profonda identità.

Il 16 gennaio Furio Colombo a Ferrara

Il 16 gennaio al MEIS è in programma un’intera giornata di incontri:

ore 10: “Dalle carte le vite. Gli archivi raccontano gli effetti delle leggi razziste del 1938”. Progetto nato dal Fondo Egeli della Compagnia di San Paolo, a cura della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura.

Intervengono: Walter Barberis, Elisabetta Ballaira, Piero Gastaldo.

Ore 16: Inaugurazione della mostra “1938: L’umanità negata”. Lancio del progetto didattico con il MIUR sulle leggi razziali, la Shoah e l’antisemitismo.

Ore 18.30, Ridotto del Teatro Comunale: “20 anni dalla Legge della Memoria: riflessioni per il futuro”, con Furio Colombo, promotore della Legge, in collaborazione con Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

http://lavoce.epaper.digital/it/news

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Un “normale” odio verso gli ebrei

18 Nov

Una riflessione sull’antisemitismo oggi, in Italia e non solo, tra banalizzazione e orrore quotidiano

F49E7E60-FBD8-4B7A-A40D-35086A8381C9-755x491Italia, 2019. Il 26 settembre appare questa scritta su un muro di Roma: “entriamo senza bussare come nelle soffitte di Amsterdam…perché dobbiamo trovare quella bugiarda di Anna Frank”. A metà ottobre, in Toscana, una madre scopre per caso che il figlio minorenne fa parte di una chat su Whatsapp piena di immagini, testi e video orribili, riguardanti malati di cancro, stupri e violenze di ogni tipo: è l’indicibile, e in questo indicibile vi sono anche frasi antisemite (ad esempio: “gli accendini e gli ebrei dove sono?”, “gli ebrei sono combustibile”). La chat è stata chiamata “The Shoah Party”. Lo scorso 6 novembre il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza di Milano decide di assegnare la scorta a Liliana Segre, internata nel 1944, a 14 anni, in quanto di fede ebraica e sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz. La motivazione risiede nelle continue minacce ricevute via web dalla senatrice a vita, che, secondo un’analisi dell’osservatorio Antisemitismo del Cdec – Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea – riceverebbe oltre duecento messaggio d’odio al giorno. Sono solo alcuni episodi recenti di odio verso gli ebrei avvenuti nel nostro Paese, fra i tanti, – pensiamo anche a “ebreo, via via!” contro Gad Lerner al raduno di Pontida -, più o meno pubblici, verbali e non, che accadono e spesso non emergono.

Nella Relazione annuale a cura dello stesso Osservatorio, gli episodi di antisemitismo denunciati nel nostro Paese nel 2018 sono 197, senza contare naturalmente le migliaia di messaggi e commenti sul web (ad esempio, il rapporto “Voxdiritti” segnala per il 2019 – non ancora terminato – e solo su Twitter, 15.196 tweet negativi nei confronti degli ebrei). Un altro dato: sempre l’Osservatorio milanese nel 2017 ha compiuto un sondaggio sull’opinione dei nostri connazionali sugli ebrei: l’11% degli italiani (fra i 6 e i 7 milioni di persone) ha risposto con giudizi negativi. Anche per questo, le parole ribadite ancora una volta, nella nostra città, da Simonetta Della Seta e Dario Disegni, rispettivamente Direttrice e Presidente del MEIS, sull’importanza del Museo di via Piangipane nel legare gli orrori antisemiti del passato alle violenze in aumento oggi, sono assolutamente da sottolineare, da condividere e prendere sul serio. E’ un allarme continuo, quello che le stesse comunità ebraiche, di Ferrara e non solo, ci lanciano. Un’allerta, anzi, sempre più insistente, sempre meno scontata (se mai lo sia stata). Lo stesso presidente della Comunità ebraica di Ferrara Fortunato Arbib, nel corso dell’inaugurazione della mostra “Ferrara ebraica” del 12 novembre scorso, ha spiegato come i fatti che riguardano la Senatrice a vita Liliana Segre, “il mondo ebraico non può non commentarli. Sono notizie molto molto tristi, segno della follia che sta invadendo il nostro Paese”.

Ha poi citato le parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: “non si tratta solo di difendere Liliana Segre, ma l’Italia che non si china all’odio razziale e antisemita”. Papa Francesco, in un passaggio dell’udienza del 13 novembre scorso, ha voluto ricordare: “il popolo ebraico ha sofferto tanto nella storia. È stato cacciato via, perseguitato… E, nel secolo scorso, abbiamo visto tante, tante brutalità che hanno fatto al popolo ebraico e tutti eravamo convinti che questo fosse finito. Ma oggi, incomincia a rinascere qua e là l’abitudine di perseguitare gli ebrei. Fratelli e sorelle, questo non è né umano né cristiano. Gli ebrei sono fratelli nostri! E non vanno perseguitati”. Lo stesso giorno David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, nel corso di una mini-plenaria a Bruxelles ha detto: “è con incredulità ma anche con immensa rabbia che ci troviamo a constatare come il demone dell’antisemitismo torni ad affacciarsi in Europa”. E non a caso: appena due giorni prima, l’11 novembre, un corteo di 100-150mila persone provenienti da tutta Europa (anche dall’Italia) ha sfilato per Varsavia in occasione della festa nazionale. Fra i cori scanditi: “fermiamo i circoli ebrei”, quegli “ebrei che vogliono derubare la Patria”. Un anno fa, un’inchiesta dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, registrò come il 40% degli degli ebrei europei stesse pensando di abbandonare il Vecchio continente.

La Shoah, tra barzellette e luoghi comuni

Nuoro, 2009. Durante un comizio elettorale, l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi raccontò questa barzelletta: “Un kapò all’interno di un campo di concentramento dice ai prigionieri che ha una notizia buona e un’altra meno buona. Quello dice: ‘metà di voi sarà trasferita in un altro campo’. E tutti contenti ad applaudire. ‘La notizia meno buona è che la parte di voi che sarà trasferita è quella che va da qui in giù…’, indicando la parte del corpo dalla cintola ai piedi. “Ricordo tutto, l’odore della carne umana bruciata, le persone che ho visto morire, i mucchi di cadaveri ischeletriti fuori dal crematorio, le esecuzioni”, raccontava Liliana Segre, in un Teatro Nuovo ammutolito, l’11 gennaio scorso a Ferrara. Chi, almeno una volta nella propria vita, non ha sentito, in momenti di pura convivialità, raccontare barzellette su Hitler, gli ebrei e le camere a gas. Divertissement qualsiasi usati da persone “normali” per allietare alcune delle tante noiose serate nel nostro mondo immerso nel benessere e nell’ozio, fino alla noia. Quella stessa noia che distruggeva ogni senso di umanità in adulti e bambini aderenti alla chat “The Shoah Party”, o in chi, a Nuoro rideva servile. “Un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi […] convintissimo di non essere […] un individuo sordido e indegno”: così Hannah Arendt parla di Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dello sterminio nazista, per lui diventato presto “un lavoro spicciolo, di tutti i giorni”. Un uomo che, venuto a sapere della totale adesione delle gerarchie naziste alla soluzione finale (considerato, dice la Arendt, dai suoi esecutori, un semplice “meccanismo”) si sentì innocente: “In quel momento – cita la Arendt, sempre ne “La banalità del male” – mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa”. “Eichmann – commenta la Arendt – ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare” (corsivo mio). Alcune volte, anche recentemente, mi è capitato di dover provare a convincere alcune persone – colte, sistemate, “normali” – dell’infondatezza di una tesi che sostenevano con ostentata tranquillità: solo un’ossessione per il guadagno e una volontà di dominio radicata nella loro “razza” – dicevano -, poteva permettere a molti ebrei, ancora oggi, di controllare buona parte dei gangli politici e finanziari in Europa e negli Stati Uniti. Insomma, nel 2019 gli ebrei sono ancora costretti a doversi giustificare quasi per ogni atto che compiono. Sono come avvolti da una nube di sospetto, per cui qualsiasi cosa considerata “normale” se compiuta da una qualsiasi persona, diventa fonte di malizia, ambiguità, malfidenza, se è , invece, opera di una persona appartenente al mondo ebraico. Per non parlare del cosiddetto “benaltrismo”, diffuso tanto nei classici “discorsi da bar” quanto fra alcuni politici e giornalisti. Sul quotidiano “Il Foglio” dello scorso 14 novembre, nell’editoriale dal titolo “La destra e i vuoti sull’antisemitismo” è scritto: “anche Matteo Salvini, quando nella trasmissione ‘Dimartedì’ a La7 dice che Liliana Segre «porta sulla pelle i segni dell’orrore del nazismo o del comunismo» oltre che commettere un errore storico, visto che il campo di sterminio di Auschwitz fu liberato dalle truppe sovietiche, indulge in questo sgradevole e incauto gioco di rimpallo. A combattere le tracce dell’antisemitismo stalinista ci devono pensare, caso mai, i lontani eredi di quella tradizione e di quell’ideologia”. Tattiche pericolose usate per minimizzare, dimenticando quanto possa essere pericoloso l’odiare una persona per la sua – vera o presunta, scelta o non scelta – appartenenza ad una minoranza. E’ così che la differenza da segno di soggettività e di bellezza diventa, per chi non la accetta, arma di ricatto, mentre per chi la vive, difetto, vergogna, colpa.

Il cordone di sicurezza e il “meccanismo” demoniaco

L’antisemitismo, anche da come emerge dalle statistiche, appartiene in misura nettamente maggiore, nel nostro Paese e in Europa, ad ambienti di destra; è comunque presente in misura non irrilevante in parte del mondo musulmano, e, seppur in misura decisamente minore, purtroppo anche cattolico, nonché in alcune frange della sinistra (in quest’ultimo caso, spesso mascherato dietro l’antisionismo; si pensi, ad esempio alle polemiche verso il Labour inglese o all’epiteto “sale juif”, “sporco ebreo” rivolto lo scorso febbraio da alcuni Gilet Gialli francesi ad Alain Finkielkraut). E’ comunque sempre responsabilità di ogni donna e di ogni uomo del nostro Paese non sottovalutare parole e gesti che vanno in questo senso, senza derubricarle a goliardia. Una preoccupazione ribadita lo scorso 15 novembre da Papa Francesco, nel suo discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione Internazionale di diritto penale: “Vi confesso che quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell’ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Hiltler nel ’34 e nel ’36. Oggi. Sono azioni tipiche del nazismo – ha proseguito il Pontefice – che, con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale, rappresenta il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio. Così si faceva in quel tempo e oggi rinascono queste cose. Occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare ogni possibile compromesso – che si presuppone involontario – con queste degenerazioni”. Ognuno, se fermo nella difesa della dignità della persona, può rappresentare, una parte fondamentale di quel cordone di sicurezza – umano, culturale, politico, sociale – intorno a Liliana Segre come a ogni persona attaccata per le sue origini, o a chiunque venga discriminato, odiato o subisca atti di violenza per la propria appartenenza a una qualsiasi confessione religiosa, per il proprio orientamento sessuale, per le proprie scelte politiche, o, in generale, di vita. Se qualcuno arriverà a impugnare un’arma contro una persona di origine ebraica, in odio all’identità di quest’ultima, la responsabilità sarà anche di chi non avrà voluto denunciare o fermare quel “normale” “meccanismo” di odio de-umanizzante di cui ci parlava Hannah Arendt.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 novembre 2019

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Ferrara ebraica: volti e oggetti di una storia ancora viva

18 Nov

Inaugurata al MEIS la mostra visitabile fino al 1° marzo: esposti lo scialle del rabbino Leoni schiaffeggiato dai fascisti, i disegni di Capuzzo sull’eccidio del Castello, l’enciclopedia di Lampronti e molto altro

_8539La tristezza nel non poter ancora aprire al pubblico la “casa” di via Mazzini, 95, ma, dall’altra parte, la gioia di inaugurare una mostra in quella che è ormai, e sempre più, la seconda casa per la comunità ebraica ferrarese, il MEIS. Lo scorso 12 novembre nel Museo di via Piangipane a Ferrara è stata inaugurata la mostra dal titolo “Ferrara ebraica”, aperta in occasione del Premio letterario “Adelina della Pergola” istituito dall’ADEI WIZO (Associazione Donne Ebree d’Italia) e della Conferenza annuale dell’AEJM (l’associazione che riunisce i musei ebraici di tutta Europa), svoltasi proprio nella nostra città dal 17 al 19 novembre. Per l’occasione, è intervenuto anche il Sindaco Alan Fabbri, ed erano presenti, fra gli ospiti, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara Fortunato Arbib, il Rabbino di Ferrara Rav Luciano Meir Caro, il Rabbino capo di Bologna Rav Alberto Sermoneta e il Vicario mons. Massimo Manservigi in rappresentanza della nostra Arcidiocesi. L’esposizione, visitabile fino al 1° marzo 2020, e che segue “Il Rinascimento parla ebraico” (esposta fino al 15 settembre), vede il contributo fondamentale della curatrice del MEIS Sharon Reichel, dell’architetto Giulia Gallerani e del regista Ruggero Gabbai che ha firmato le interviste (a Marcella Ravenna, Rav Luciano caro, Baruch Lampronti, Marcello Sacerdoti, Josè Bonfiglioli, Andrea Pesaro e Alessandro Zarfati Nahmad) e il documentario installati nel percorso espositivo. La mostra è un omaggio a un pezzo fondamentale della storia della nostra città, a una parte dell’identità di tutti noi che ancora vive e vuole vivere. Le prime notizie di insediamenti ebraici in città si hanno, infatti, a partire dal XII secolo, ma pare che i primi ebrei fossero arrivati attorno all’anno 1000. La maggiore fioritura della comunità risale al Quattrocento, quando le zone di residenza degli ebrei si spostano da via Centoversuri a via dei Sabbioni, oggi via Mazzini, e via San Romano. Nel 1485 il romano Ser Mele acquista l’attuale edificio comunitario di via Mazzini, uno dei più antichi d’Europa ancora in uso. Il suo lascito testamentario alla comunità prevede il divieto di alienazione e la condizione che l’edificio ospiti per sempre un luogo comune riservato al rito. Sorgono infatti in via Mazzini tre sinagoghe, quella italiana, oggi trasformata in sala sociale, quella tedesca e quella fanese. “Noi siamo molto contenti che vengano ad abitare qua con le loro famiglie…perché sempre saranno benvisti e trattati in tutte le cose che potremo e ogni die più se ne conteranno di essere venuti a Casa nostra”: fu questo l’invito che Ercole I d’Este rivolgeva nel 1492 agli ebrei esuli dalla Spagna. Come non ricordare, poi, il medico e filosofo Isacco Lampronti (1679-1756), ma anche, dall’altra parte, l’isolamento nel ghetto costruito nel 1627 quando Ferrara era sotto lo Stato Pontificio. E poi l’impegno risorgimentale e per l’Unità d’Italia, fino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938, le persecuzioni e le deportazioni, e infine la Liberazione. Il percorso espositivo accoglie i visitatori con un plastico dell’ex ghetto ebraico ferrarese. Troviamo quindi il Talled (scialle di preghiera) appartenuto al rabbino Leone Leoni, schiaffeggiato dai fascisti il 21 settembre 1941 durante la devastazione da parte delle camicie nere del Tempio farnese e di quello tedesco. E poi, ancora, libri di preghiere, oggetti rituali, l’armado ligneo per conservare la Torah (Aron Ha-Qodesh), candelabri, un corno di montone per il richiamo alla preghiera (shofar del XX secolo), la corona (Atarah), i puntali (rimmonim) per il rotolo sacro, il manto (meil), alcune medaglie, i mantelli che riprendono, in alcune parti, il rosso ferrarese, oltre a testi di Silvano Magrini, storico, autore della storia ebraica ferrarese, nonno di Andrea Pesaro. Un altro pezzo pregiatissimo è l’enciclopedia talmudica, il cosiddetto “Timore di Isacco”, di Isacco Lampronti. Una sezione è poi dedicata all’Eccidio del Castello (di cui è ricorso il 76esimo anniversario lo scorso 15 novembre) con disegni e tempere di Mario Capuzzo, donati il Giorno della Memoria del 2009 da Sonia Longhi alla Comunità Ebraica per il futuro MEIS. Come ricordò lei stessa nell’occasione, la mattina del 15 novembre 1943 – all’età di 8 anni – mentre andava a scuola si trovò davanti il cadavere di un uomo davanti al muretto del Castello. La notte prima i fascisti erano andati a prelevare il padre, l’avvocato Giuseppe Longhi, che solo per l’intervento di un ministro fascista ebbe salva la vita, ma visse per lunghi mesi con la paura di essere deportato. Anche il pittore Mario Capuzzo la mattina del 15 novembre 1943 passò davanti al muretto e schizzò su un foglio, di straforo, camminando, la scena del massacro. Schizzi che divennero apunto i quattro disegni poi donati da Capuzzo a Longhi. Infine, due buone notizie: all’ingresso del MEIS uno schermo proietta il trailer de “Il giardino dei Finzi-Contini” di Tamar Tal-Anati e Noa Karavan-Cohen, film documentario che uscirà a breve. Seconda notizia, lo scorso 28 ottobre il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha annunciato: “il lavoro per recuperare i 25 milioni di euro necessari per il completamento del progetto edilizio del Meis è a buon punto. Spero di poter dare l’annuncio in un tempo ragionevolmente breve”. I soldi in questione erano stati bloccati dal primo Governo Conte.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 novembre 2019

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Progetto, elevazione o liberazione: cos’è davvero il sogno?

17 Set

Il 15 settembre anche a Ferrara il tema è stato al centro della Giornata europea della cultura ebraica

giacobbe riberaI sogni, si sa, sono per loro natura sfuggevoli, “materia” inafferrabile sui quali è possibile disquisire all’infinito. Anche per questo, una cultura come quella ebraica, che fa dell’interpretazione un suo carattere sostanziale, trova nel mondo onirico e nei suoi innumerevoli richiami, terreno fertilissimo sul quale lavorare. L’annuale Giornata Europea della Cultura Ebraica, giunta alla XX edizione, in programma domenica 15 settembre, era proprio dedicata a “Sogni. Una scala verso il cielo”. A Ferrara, sono state organizzate due iniziative. La prima, svoltasi nella mattinata nel Tempio italiano, organizzata dalla Comunità ebraica di Ferrara al secondo piano della sede storica di via Mazzini, 95, ha visto diversi relatori alternarsi sulla traccia della Giornata. In serata, invece, è stata la Sala Estense di piazza Municipale a ospitare il concerto “Shemà – Sogni con anima e corpo”, organizzato dal MEIS, con le poesie in musica di Primo Levi, incentrato sui sogni di libertà e liberazione dopo il trauma della Shoah. Protagonisti di quest’ultimo evento, la cantante Shulamit Ottolenghi, il compositore e trombettista Frank London e il pianista e produttore Shai Bachar, pianista e produttore, introdotti da Simonetta Della Seta, Direttrice del MEIS . Quattro le relazioni della mattinata, presentata e moderata dal vice Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, Massimo A. Torrefranca: “Sogni nella Torà” del Rav Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara; “Il sogno sionista di Theodor Herzl a Ferrara”, Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS; “La scala di Giacobbe: un oratorio incompiuto di Arnold Schönberg”, Massimo A. Torrefranca; “La Torà sogna? / Sognare la Torà?”, prof. Gavriel Levi. Da un sogno concreto e possibile ha preso le mosse il Presidente della Comunità Ebraica ferrarese, Fortunato Arbib, nel suo saluto iniziale: “che i lavori nell’edificio che ci ospita finiscano presto e che quindi questa sede torni a essere viva, accogliente, luogo di ritrovo e di socialità”. Ricordiamo, infatti, che il complesso di via Mazzini 95, che ospita tre sinagoghe, gli uffici della Comunità e il Museo ebraico, è chiuso per restauri a causa degli effetti del sisma del 2012.

Sogno, comunicazione di Dio o espressione dell’uomo?

Il Rav Caro nel suo intervento ha spiegato come il sogno nella tradizione ebraica è “lo strumento usato da Dio, in maniera enigmatica, per comunicare all’uomo la propria volontà in forma di avvertimento, o come indicazione pratica, o ancora per avvertirlo su ciò che avverrà. Nella Bibbia, però, sono presenti anche interpretazioni critiche nei confronti del sogno, in quanto il sognatore sarebbe il mago, l’indovino, lo stregone”. Sempre nella Torà il sogno “è anche espressione dei desideri più profondi della persona”, quindi non di Dio, oppure sinonimo di “apertura”, e “segno, anche se molto parziale, di profezia. Altre interpretazioni molto importanti del sogno presenti nella tradizione ebraica, lo indicano come “anticipazione della morte o come discesa nelle profondità divine, o, ancora, come albero della vita”. Un’ultima esegesi, ha concluso Rav Caro, descrive la vita narrata in Genesi come “mondo dei sogni, imprecisio, mentre quello successivo, normativo, dopo la rivelazione di Dio a Mosè sul Monte Sinai e la consegna dei Dieci Comandamenti e della Torà, è quello davvero reale, dove l’uomo inizierà a vivere nella consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di Dio e delle altre persone”.

L’utopia concreta (e ferrarese) di Theodor Herzl

“Se il sogno è ciò che dà possibilità di cambiamento”, ha spiegato invece Della Seta, proprio da un “sogno” è stato incitato Theodor “Beniamino” Herzl (1860-1904) (prima foto in basso), giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco, padre del sionismo e dello Stato Israele, da lui, appunto, preconizzato e progettato nella sua celebre opera “Lo Stato ebraico” (1896). “Dobbiamo vivere come uomini liberi nella nostra terra”, scriveva. Fondamentali per la sua decisione furono i progrom di cui erano vittime gli ebrei nell’est Europa (l’antisemitismo violento), e, in Francia, l’affaire Dreyfus, caso di antisemitismo sottile, intellettuale, ma non meno grave. Un sogno, il suo, che passa anche da Ferrara. Nel 1904 Herzl, infatti, viene in Italia per tentare di avere un colloquio diplomatico sia col re Vittorio Emanuele III sia con papa Pio X, al fine di convincerli della bontà del suo progetto. Due incontri assolutamente fondamentali, resi possibili dall’intermediazione dell’avvocato ferrarese Felice Ravenna (1869-1937), figlio di Leone, residente in via Voltapaletto. Nei suoi diari parla dell’“amico Ravenna” e dei suoi famigliari, persone dai “cuori molto caldi”. Herzl e Ravenna si scambiarono ben 17 lettere tra il 1902 e il 1904. Mentre il re esprime positività nei confronti del sionismo, il pontefice è netto nella sua contrarietà al progetto di uno Stato ebraico: “gli ebrei – era il suo pensiero – non hanno riconosciuto nostro Signore”, quindi “non possiamo riconoscere lo Stato ebraico”. Non poche critiche i sionisti ricevettero anche da giornalisti e politici italiani, nonostante in quel periodo, ad esempio, 18 erano i parlamentari ebrei nel nostro Paese, fra cui Giacobbe Isacco Malvano, meglio noto come Giacomo Malvano (1841-1922), che fu in contatto con Herzl.

Musica, una scala che eleva a Dio

Della figura e dell’opera di Arnold F. W. Schönberg (1874-1951), compositore ebreo austriaco naturalizzato statunitense, uno dei teorici del metodo dodecafonico, ha parlato, invece, Torrefranca. Convertito nel 1908 al protestantesimo per profonda convinzione (non per opportunismo, come invece era uso fare), e tornato all’ebraismo nel 1933, iniziò a comporre l’oratorio “La scala di Giacobbe” negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Come nel racconto biblico, l’oratorio rappresenta una sorta di “elevazione spirituale verso Dio”, anche se fondamentale è la figura dell’Arcangelo Gabriele.

Agente di trasformazione, strumento contro la “dimenticanza”

Gavriel Levi  ha, invece, riflettuto su come il sogno notturno “condensa desideri e censure verso gli stessi, quindi i conflitti profondi della persona”, e come dunque sia “un continuo racconto di se stessi, sempre aggiornato dalle spinte dell’esistenza”. Inoltre, “come la Torà scritta è quasi insignificante senza la cosiddetta Torà orale, cioè senza le interpretazioni, così il sogno coincide con la sua interpretazione, quindi anche con chi lo interpreta”. Levi ha poi analizzato i sogni nella vita del patriarca Giuseppe, figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, bisnipote di Abramo: due sogni è Giuseppe a farli (quello dei covoni, e quello del sole, della luna e delle stelle). Negli altri casi, invece, Giuseppe è interprete di sogni altrui: prima quelli del coppiere e del panettiere coi quali divide la prigionia in Egitto, poi del faraone stesso. Questa sequenza, per Levi, dimostra bene il passaggio di Giuseppe “dal pensare se stesso all’interagire con gli altri e dunque, ancora più in grande, all’intero Egitto”, e, aspetto importante, “preannuncia l’esilio e la schiavitù del popolo d’Israele, conditio sine qua non per diventare popolo. Per essere ebrei, insomma, bisogna passare per la schiavitù, per la perdita di legami”. In conclusione, questo significa che, “qualunque avvenimento tragico possa accadere, la vita fiorirà”, ha spiegato il relatore. Fondamentale è, perciò, il sogno, che “ci evita la dimenticanza, ci permette di ricordare le cose nuove, ci mette in crisi, dicendoci qualcosa di importante su noi stessi. Sta a noi, dunque, usarlo come agente di trasformazione, di liberazione”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 20 settembre 2019

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“La letteratura aiuta a trasformarci, per ritrovare il nostro vero ‘io’ ”

20 Mag

Magistrale intervento dello scrittore israeliano David Grossman il pomeriggio di domenica 19 maggio al Teatro Comunale “Abbado” di Ferrara, in occasione della Festa del Libro Ebraico organizzata anche quest’anno dal MEIS

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di Andrea Musacci

Spesso si associa la letteratura alla finzione, a qualcosa di distante dal reale, in un certo senso di alienante, di sfuggevole. E’ di tutt’altro avviso David Grossman, romanziere israeliano tra i più apprezzati a livello globale, intervenuto domenica 19 maggio al Teatro Comunale “Abbado” di Ferrara in occasione della Festa del Libro Ebraico organizzata dal MEIS – Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, in collaborazione con il Teatro Comunale e con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara. La mattinata ha visto nella struttura di via Piangipane la presentazione di cinque libri, di altrettante donne, dedicati a ebrei italiani: “La mia vita incisa nell’arte. Una biografia di Emma Dessau Goitein” (Mimesis, Milano, 2018) di Gabriella Steindler Moscati che ne ha parlato con la storica dell’arte Martina Corgnati; “Rita Levi Montalcini. La signora delle cellule” (Pacini Fazzi, Lucca, 2018) di Marcella Filippa, che ne ha discusso col genetista e scrittore Guido Barbujani; “Un impegno controcorrente: Umberto Terracini e gli ebrei, 1945-1983” (Zamorani, Torino, 2018) di Marta Nicolo, che invece ne ha parlato con Fausto Ciuffi, Direttore della Fondazione Villa Emma. Infine, due “casi letterari”, “Il caso Kaufmann” (Rizzoli, Milano, 2019) di Giovanni Grasso, che ne ha discusso con la storica Anna Foa, e “Anita” (Bompiani, Milano, 2019) di Alain Elkann, in dialogo con Vittorio Sgarbi. Nel pomeriggio, al Comuale, l’atteso incontro con Grossman ha visto innanzitutto i saluti di Dario Disegni, Presidente del MEIS, e poi il dialogo-intervista tra lo scrittore israeliano e il Direttore MEIS Simonetta Della Seta. “Quando creo un personaggio – ha esordito Grossman -, devo prima cercare di identificarmi con lui fisicamente, immaginandone la voce, il corpo, le abitudini. Quando scrivo, quindi, sento come il bisogno di vedere nelle persone ciò di cui devo scrivere, è come se la realtà mi venisse incontro, vicino, in ogni suo dettaglio: quando ciò avviene, provo una grande gioia”. Ad esempio, per il romanzo “Qualcuno con cui correre” (2000) – ha proseguito -, “cercavo un’adolescente dura e tenera al tempo stesso, ma non la trovavo. Un giorno, vicino Gerusalemme, vidi una 16enne vestita di blu, i pantaloni lisi: da alcuni suoi modi di fare capii che era lei il tipo di ragazza che cercavo”. E a proposito di persone dell’altro sesso, o di altre età o provenienze, Grossman ha raccontato un altro aneddoto: “quando stavo scrivendo ‘A un cerbiatto somiglia il mio amore’ (2008. ndr), non riuscivo a ’catturare’ un personaggio femminile, allora le scrissi una lettera: ‘cara, perché non ti arrendi?’, e nel scrivere queste parole capii che ero io a dovermi arrendere a lei, perché si rivelasse. Ognuno dentro di sé – è il suo pensiero – possiede tantissimi personaggi, anche se spesso, col passar degli anni, ci autolimitiamo, mentre se vogliamo possiamo essere molti personaggi, se solo scavassimo dentro di noi. Così supereremmo i limiti, gli schemi, ad esempio, del nostro sesso, del nostro luogo – ad esempio se io immaginassi di essere un palestinese -, riuscendo a trovare forme diverse, a trasformarci”. Lo stesso discorso vale “quando scrivo libri per bambini, così da dovermi immedesimare in loro: i bambini hanno il dono, non conoscendo ancora bene la realtà, di poterla moltiplicare all’infinito, di poterle dare tante forme. In questo sono simili all’uomo primordiale”. Ma al tempo stesso questo mistero che è la realtà “provoca in loro tante paure”. E come il bambino nel conoscere il reale conosce sempre più se stesso, così il protagonista del suo ultimo libro, “Applausi a scena vuota” (2014), riuscirà a ritrovare se stesso, “quel se stesso che era durante l’infanzia”. Così, “l’arte e la letteratura – ha spiegato ancora Grossman – sono strumenti che ci aiutano a capire chi siamo, a uscire dagli schemi nei quali spesso ci troviamo, ritrovando il nostro ‘io’ vero, e riuscendo noi stessi a raccontare storie sempre più autentiche, sempre più aderenti alla realtà e a ciò che noi davvero siamo”. Nella parte conclusiva del dialogo-intervista, si è riflettuto nello specifico sul ruolo della lingua ebraica nella letteratura: “una lingua – l’ha definita Grossman – che è come un fiume, sul cui letto si depositano tante cose, e così nell’ebraico in 4mila anni si sono depositate storie, persone, tradizioni. Anche per questo – ha spiegato – è molto importante studiare i testi sacri, e lo dico da laico, un laico che si sente però parte della grande tradizione del suo popolo”.


“La parte più profonda della persona non si può eliminare”

Il 19 maggio al MEIS inaugurata la mostra di Manlio Geraci, “Libri proibiti”, dedicata ai deportati da Milano e Ferrara: “ogni volta che si brucia un libro si brucia l’anima dell’uomo”

Si chiamano Bücherverbrennungen, “roghi di libri”, le tremende azioni compiute dai nazisti nel 1933 per eliminare volumi di ebrei, oppositori politici e di tutto ciò che non rientrava dentro lo spietato universo nazionalsocialista. Manlio Geraci (foto sotto), artista palermitano, ha voluto metaforicamente “salvare” dalle fiamme dell’odio 774 libri, lo stesso numero dei deportati ad Auschwitz che partirono dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano con il primo convoglio. Salvare i libri, la memoria, la cultura, lo spirito critico, per salvare vite, corpi, futuri. L’installazione, intitolata “Libri proibiti”, è stata presentata nel pomeriggio di domenica 19 maggio al MEIS, nel Giardino delle domande, in occasione della Festa del Libro Ebraico. “Ho voluto dedicare a queste persone deportate e poi uccise – ha spiegato l’artista durante l’inaugurazione – un diario cromatico, un ricordo che possa riflettere la loro spiritualità, la loro interiorità più profonda, che non si può cancellare”. Il nero delle bruciature sui dorsi dei volumi rappresenta “l’oscurità, la morte, le tenebre dalle quali comunque si è riusciti a uscire”. “Quando si brucia un libro si brucia l’anima dell’uomo”, ha invece riflettuto il curatore Ermanno Tedeschi, ferrarese d’origine. Nell’installazione al MEIS, ha spiegato, l’artista ha scelto di aggiungere un secondo mucchio di volumi, nel numero di 156, come i deportati dalla città di Ferrara. I libri – in legno – contengono diversi effetti cromatici, il rosso del sangue, il blu del cielo, il giallo del tradimento, oppure chiodi, o, ancora, pezzi di vetro, simbolo della Notte dei Cristalli del ’38. “L’odio per il diverso e il razzismo sono tornati nelle nostre società – ha riflettuto il curatore -, e quindi mi rivolgo soprattutto ai giovani: è importante fare qualcosa, e l’arte può essere un mezzo”. L’arte, certo, è di casa al MEIS ma per la prima volta un’esposizione d’arte contemporanea viene ospitata nella struttura di via Piangipane. Ha portato il saluto dell’Amministrazione e della Città anche il Sindaco Tiziano Tagliani: “un museo non è un luogo statico ma di dinamismo e di ricerca. La cultura continua a riprodursi e a creare qualcosa di nuovo, che provoca domande più che dare risposte”. E le domande sono quelle che fioriscono anche nel libro, che, come ha detto il Direttore MEIS Simonetta Della Seta, “è sia memoria – per sapere cos’abbiamo dietro, per non ‘inciampare’ – sia ponte verso il futuro”. Quel futuro rappresentato dai giovani, presenti all’evento, provenienti da quattro scuole medie di Asti, tra cui la Scuola Olga Leopoldo Jona, deportati e poi uccisi a Birkenau.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 maggio 2019

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“Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio”

28 Gen

Raccontare l’Olocausto attraverso le vite di alcune persone: fra quelle scelte dal MEIS per il Giorno della Memoria, Etty Hillesum e Schulim Vogelmann. Due straordinarie testimonianze di amore e di perdono in mezzo all’orrore

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“Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in un modo sbagliato, senza dignità. Io non odio nessuno, non sono amareggiata: una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito”. E’ stata questo Etty Hillesum, una straordinaria donna d’amore e di fede, alla vita, alle persone e a Dio. Il MEIS ha scelto di dedicarle uno degli eventi del Giorno della Memoria, svoltosi nella sede di via Piangipane a Ferrara nel pomeriggio di lunedì 21 gennaio. “Etty Hillesum. Osare Dio” (Edizioni Cittadella) è il nome dell’antologia (con testi dalle sue lettere e dai suoi diari) presentata, curata da Alessandro Barban (monaco camaldolese) e Antonio Carlo Dall’Acqua (foto a sinistra). “Questo libro è anche una lettura cristiana del suo pensiero”, ha esordito il Direttore MEIS Simonetta Della Seta. “Dei ‘sommersi’ della Shoah ci sono poche voci. Etty è una di queste, che ci ha lasciato un messaggio di amore”. Barban, non potendo essere presente, ha lasciato un messaggio nel quale spiega come “leggere gli scritti di Etty è un cammino di crescita spirituale e di consapevolezza profonda. I suoi sono testi utili contro tutti i razzismi, e per i diritti dei più deboli della nostra società”. “Etty – ha spiegato invece Dall’Acqua – è morta 45 giorni prima di compiere 30 anni, e il suo diario l’ha iniziato a scrivere a 27 anni. Il tempo, perciò, non è qualcosa di fisso, ma di variabile: per questo possiamo dire che Etty ha vissuto veramente in pienezza tutta la vita, ma ha vissuto più gli ultimi tre anni della sua vita che i precedenti”. I genitori Levi e Rebecca si sposano nel 1912 e, oltre a Etty, hanno due figli maschi, Mischa e Jaap. Etty si laurea in giurisprudenza all’Università di Amsterdam, e si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave, ma a causa della guerra deve interrompere i suoi studi. Conclude invece il percorso di Lingua e Letteratura russa, e negli anni successivi impartisce sia lezioni private sia lezioni di russo all’Università popolare di Amsterdam. All’inizio della guerra si interessa della psicologia analitica junghiana, grazie al lavoro dello psico-chirologo Julius Spier che conosce il 3 febbraio 1941 come paziente, divenendo in seguito la sua segretaria e una delle amiche più intime. Una conoscenza, ha spiegato Dall’Acqua, “che le ha permesso di maturare molto a livello spirituale”. La sua terra, l’Olanda, viene invasa e occupata dai nazisti nel ’41, le deportazioni inizieranno l’anno successivo. Ma come Etty scrive nel suo diario nel ’42, “ho un grande bisogno di lavorare profondamente, per diventare un essere adulto e completo”. “Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia”. Nello stesso anno lavora come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico. Diverse volte Etty rifiuta di accettare l’aiuto di amici non ebrei che insistevano per ospitarla e nasconderla. In seguito, arrivò a pentirsi di aver accettato il lavoro al Consiglio ebraico, si sentiva in colpa. “Voglio condividere il destino del mio popolo”, scrisse. In seguito lavora nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale. Qui riesce comunque anche a leggere delle poesie di Rilke, “per non perdere la propria umanità”, ha spiegato il relatore che si è poi soffermato su un episodio legato all’arrivo di un treno nel campo di Westerbork nel giugno ’43, di cui Etty, che ne è molto addolorata, ne parla in una sua lettera: nei vagoni bestiame vi erano “donne con bambini piccoli, 1600 in tutto (altri 1600 arrivano stanotte)”. “I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qui e là mancavano delle assi e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga”. “Etty mentre scrive – sono ancora parole di Dall’Acqua – naturalmente è cosciente che sarà deportata, anche se non subito. Ma nonostante questo, è serena”. Il 21 giugno ’43, però, da un treno che arriva nel campo, vede, attraverso alcuni assi mancanti, i genitori e il fratello Mischa. Scriverà: “questo è il giorno più triste della mia vita”. Il 7 settembre ’43 scrive a Christine van Nooten, e la lettera viene trovata perché è la stessa Etty a gettarla fuori dal treno prima della partenza, direzione Auschwitz: “Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, mamma e papà molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty”. E’ la sua ultima lettera. Mentre Etty, i genitori e il fratello Mischa mouoiono poco tempo dopo il loro arrivo ad Auschwitz, l’altro fratello, Jaap, perde invece la vita a Lubben, in Germania, dopo la liberazione, il 17 aprile 1945, durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi. La data della morte di Etty è il 30 novembre 1943. Da Westerbork, in una delle ultime lettere, Etty scrive ad un amico queste parole “scandalose”: “la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina”. Per Dall’Acqua ciò significa “salvare la propria umanità: il suo, quindi, è un messaggio che non tramonta, un messaggio di pace e di amore, che ci dice che alla violenza si può reagire con l’amore”. “Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio”, scrive lei stessa. “Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio”. A 27 anni ad Amsterdam scrive: “Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso è coperto da sassi e sabbia: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri”.

“Il falsario di Schindler”

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Il giorno dopo, il 22 gennaio, il MEIS ha ospitato Daniel Vogelmann (foto a destra), che ha parlato di suo padre Schulim, “il falsario di Schindler”, introdotto dal Presidente del MEIS, Dario Disegni , che ha spiegato l’importanza di raccontare storie come questa in quanto “oggi corriamo tanti rischi, vi è un ritorno di fenomeni di razzismo, intolleranza, antisemitismo, vi è tanta indifferenza verso chi soffre e intolleranza verso tutti quelli considerati diversi”. “Mio padre Schulim – ha spiegato Daniel – mi ha sempre raccontato poco della sua vita, e non solo riguardo alla sua prigionia ad Auschwitz. Certe cose, poi, le ho sapute soltanto molti anni dopo la sua morte, come, per esempio, che c’era anche lui nella lista di Schindler. E io, purtroppo, non gli ho mai chiesto nulla, anche perché è morto quando avevo solo ventisei anni. Qualcosa, però, è giunto miracolosamente fino a me, e così ho scritto questa piccola autobiografia per le mie nipotine. Ma non solo per loro”. Schulim Vogelmann nasce in Ucraina ma a 15 anni si traferisce a Vienna e poi in Palestina, dove si arruola come caporale nell’esercito britannico, e nel ’22 a Firenze, dove già risiedeva il fratello Mordechai, e viene assunto alla Tipografia Giuntina, allora di proprietà dell’editore Leo Samuele Olschki. Schulim nel 1928 diviene direttore della tipografia. Nel ’33 si sposa con Annetta Disegni (insegnante di lettere, parente di Dario) e la coppia nel ’35 ha una bambina, Sissel (nella foto col padre). Dopo l’8 settembre 1943 la famiglia cerca di rifugiarsi in Svizzera, ma fermati dalla polizia a Sondrio vengono rinchiusi al carcere di San Vittore a Milano e di lì deportati ad Auschwitz il 30 gennaio 1944, dal famigerato binario 21 della Stazione di Milano. La moglie e la figlia vengono immediatamente uccise. Schulim si salva grazie alla sua abilità di tipografo che i tedeschi cercarono di sfruttare nei campi di lavoro per coniare sterline false. Unico italiano incluso nella lista di Oskar Schindler, Schulim rientra nel dopoguerra a Firenze dove riprende a lavorare alla Tipografia Giuntina. Risposatosi con Albana Mondolfi, la coppia ha un figlio Daniel, nato nel ’48, come ha spiegato lui stesso, “14 giorni dopo la nascita dello Stato di Israele”, sottolineando “l’importanza straordinaria di far nascere un bambino ebreo, quando, fino a pochi anni prima, i bimbi ebrei venivano sterminati (furono un milione e mezzo in totale)”. Schulim muore a Firenze nel 1974. “Poco prima di morire legge ’Se questo è un uomo’ di Primo Levi”. Quattro anni dopo, nel ’78 nasce il figlio di Daniel, Shulim Vogelmann. Daniel nel 1980 fonda la casa editrice La Giuntina. “Mio padre – ha spiegato Daniel al MEIS – aveva un forte senso della vita, ed era essenzialmente una persona ottimista e buona, e oggi, segno dei tempi, chi è buono viene definito con disprezzo ‘buonista’ ”. “Non gioire mentre il tuo nemico cade e quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi 24, 17): “questo passo biblico me lo ripeteva spesso”. Una grande domanda ha lasciato Daniel ai tanti ferraresi accorsi per ascoltarlo: “chi decide il destino degli uomini? Questo ci ha insegnato la Shoah…”.

Andrea Musacci

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Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 1° febbraio 2019

“Una persecuzione durissima con la complicità di molti italiani”

28 Gen

In occasione del Giorno della Memoria, il 22 gennaio al MEIS Fabio Isman ha parlato delle leggi razziali nel nostro Paese e della complicità di molti italiani nel rendere la vita impossibile a migliaia di connazionali ebrei

leggi-razziali-fasciste-1030x615-2Quando si parla del periodo delle leggi razziali, è importante parlare delle sofferenze patite da ciascuno dei 50mila ebrei in Italia, dei rischi che correvano, da ciò che gli è stato portato via (tutto), da ciò che gli è stato restituito dopo (poco), e del fatto che il Parlamento non ha mai chiesto loro scusa”. Non ha usato giri di parole Fabio Isman, giornalista e saggista (che in passato si è occupato tanto anche di terrorismo), lo scorso 22 gennaio al MEIS di Ferrara in occasione della presentazione del suo libro “1938. L’Italia razzista” (Il Mulino, 2018). Le leggi razziali in Italia, precedute da un censimento – una vera e propria schedatura “essenziale per chi dopo andrà a prelevarli per deportarli nei campi di concentramento” -, e anticipate da una violenta campagna antisemita, esclusero gli ebrei dalla scuola, dal lavoro, dalla vita civile e sociale. Isman ha compiuto una capillare ricerca in diversi archivi sul territorio nazionale (ma “il lavoro sarebbe infinito…”, ha spiegato lui stesso) per portare a galla informazioni, aneddoti, storie di persone in carne e ossa sentitesi all’improvviso stranieri indesiderati nel luogo dove vivevano, tranquillamente, da cittadini. “La persecuzione contro di loro – ha spiegato Isman – in Italia non è stata, come dicono alcuni, ‘all’acqua di rose’, ma durissima, ed è iniziata non nel ’43, ma nel ’38”. E’ infatti, pubblicato il 14 luglio del ’38, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia”, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Tra i firmatari vi è il medico Nicola Pende (al quale è ancora intitolato un Istituto Comprensivo, il Gramsci-Pende, a Bari). Pend nel ’38 sostenne pubblicamente “la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza”. E’ di pochi mesi successivo – del 17 novembre – la promulgazione del decreto governativo n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – anche se sono 420 in totale, fino al 1945, le norme e i decreti razzisti emanati in Italia, “che il re sottoscrisse senza vergogna. Queste norme razziste – ha proseguito lo scrittore – sono state l’anticamera della Shoah”. Insomma, “molti italiani non erano affatto ‘brava gente’ ”, e lo dimostrano, ad esempio “le istanze ai prefetti, dove nostri connazionali chiedevano, per citarne una, se potevano occupare appartamenti requisiti dopo il ’38 a ebrei”, senza nessun scrupolo al riguardo. Nel ’39 nasce l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (Egeli), con sede a Roma e guidato da un presidente e da un consiglio d’amministrazione nominati direttamente da Mussolini, chiuso definitivamente solo nel 1997. “Agli ebrei presero tutto – sono ancora parole di Isman -, non si contano le ruberie e le razzie ai loro danni, con schedatura dei loro beni di una minuzia straordinaria. Dopo il censimento, gli ebrei dovevano autodenunciarsi alle autorità, dichiarando di appartenere alla ‘razza ebraica’ ”. “Papa Pio XI fu uno dei pochi oppositori alle leggi razziali, ma molti dei parroci erano assolutamente favorevoli”, ha proseguito. “Pio XI scrisse un’enciclica contro fascismo e nazismo, mai pubblicata dal suo successore, la trovarono sul suo comodino quando morì”. Si tratta di Humani generis unitas (Sull’unità del genere umano), che conteneva una condanna categorica dell’antisemitismo, del razzismo e della persecuzione degli ebrei. Fu invece pubblicata l’enciclica di Pio Xi del ’31, “Non abbiamo bisogno”, a difesa dell’Azione Cattolica, dove il Pontefice scrive: “[il fascismo è] una vera e propria statolatria pagana, non meno in contrasto con i diritti naturali della famiglia che con i diritti soprannaturali della Chiesa”. Isman ha poi proseguito sottolineando ad esempio come le discriminazioni antiebraiche iniziarono dalle scuole: “prima vennero espulsi infatti insegnanti e studenti, alcuni di loro finirono ad Auschwitz, come Enrico e Luciana Finzi”, iscritti al Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma, deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, e mai tornati. “Espulsi dalle scuole furono anche i libri di testo di 114 autori ebrei. Grazie alle norme razziali – proseguendo -, gli ebrei venivano ad esempio anche tolti dagli elenchi telefonici, non potevano più praticare più l’arte fotografica…”. “Oltre 40 ebre italiani” non resistettero a questo clima d’odio assurdo, e si suicidarono. Tra questi, Giuseppe Jona, medico veneziano, dal giugno 1940, anche se non ebreo praticante, alla guida della comunità israelitica locale. Dopo l’8 settembre 1943 scelse di rimanere a Venezia come riferimento per chi non voleva o non poteva fuggire. Di fronte alla richiesta delle autorità tedesche di consegnare una lista aggiornata degli ebrei rimasti in città, Jona il 14 settembre redasse il proprio testamento, lasciando gran parte dei suoi beni ad opere sociali e caritatevoli, e tre giorni dopo si tolse la vita, dopo aver distrutto ogni documento in suo possesso che potesse rivelare l’identità e il domicilio degli ebrei veneziani. Fra alcune altre storie da non dimenticare, citate da Isman, vi è quella del primo deportato italiano, Renzo Carpi, mantovano residente a Bolzano, e quella di Renato Terracina, fra i 4.450 ebrei che si sono salvati garzie all’accoglienza trovata in 180 strutture ecclesiali cattoliche.

Andrea Musacci

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Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° febbraio 2019

“Che cosa avevo fatto di male? Ebrea, la mia sola colpa era di essere nata”

14 Gen

“Ho fatto ‘la scelta’, mentre molti rimasero indifferenti”. La straziante storia nel lager di Auschwitz che la senatrice a vita Liliana Segre l’11 gennaio a Ferrara ha raccontato a più di 700 studenti della nostra provincia

[Qui e qui le pagine con gli articoli]

1“Ho fatto la scelta dolorosa di raccontare, finché ne avrò la possibilità, l’orrore che ho vissuto e visto”. Rammentare, raccontare, rielaborare, per anni, giorni infiniti, sempre con la stessa domanda, “perché?”, scandita come una nenia, un mistero, un grido eterno a Dio. Così ha fatto e sempre farà Liliana Segre, 88 anni, senatrice a vita, che ha avuto, com’è lei stessa a dire, “una sola colpa, quella di essere nata”. Lei, in quanto ebrea, non avrebbe dovuto nascere, come tutti gli ebrei e le ebree al mondo, secondo il principio malefico dal quale partiva tutta la macchina di terrore, sterminio e desolazione messa in piedi dal regime nazista, con la complicità – mai denunciata abbastanza – degli alleati (o meglio: servi), tra cui l’Italia. Quello strazio la Segre ha chiesto di poterlo raccontare, come fa ormai da diversi anni, anche agli studenti di Ferrara e provincia, presenti in 718 al Teatro Nuovo in piazza Trento e Trieste a Ferrara la mattina dell’11 gennaio scorso. L’incontro, organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS, con il supporto dell’Istituto di Storia Contemporanea, è il primo pensato in vista del Giorno della Memoria 2019. All’arrivo in sala, tutti in piedi ad applaudirla, e lei, anche se di sfuggita, si è fermata a tratti per stringere la mano di alcuni ragazzini chiedendo i loro nomi. “Siete i miei nipoti ideali, ascoltatemi come se fossi una nonna”, ha esordito la Segre, una delle poche persone ancora vive a portare marchiato sull’avambraccio sinistro il numero assegnatole ad Auschwitz, il 75190. Nata a Milano il 10 settembre 1930, la Segre ha perso la madre, Lucia Foligno, quando non aveva nemmeno un anno. “Ero una bambina qualunque, felice, figlia unica in una famiglia italiana da 500 anni e profondamente inserita nel tessuto di Milano. Un giorno a tavola – era l’anno in cui avrei dovuto iniziare la terza elementare – mi dicono che sono stata espulsa da scuola. Penso di aver fatto qualcosa di molto grave. Dico: ‘perché?’, un ‘perché?’grave, che ripetevo con gli occhi pieni di lacrime. Ma anche i miei famigliari non riuscivano a trovare una risposta. Che cosa avevo fatto di male? Sono qui perché ancora non ho trovato una risposta. Da allora la vita diventa diversa, in casa mia vengono i poliziotti, ci perquisiscono, trattandoci come nemici della patria. Mia nonna mostrava loro le foto dei suoi figli soldati nella prima guerra mondiale”, per impietosirli. “Cambio dunque scuola, mi iscrivono a una privata. I parenti che ci fanno visita cercano di convincerci a fuggire in America con loro, ma i miei non vogliono, pensano che le cose si sarebbero aggiustate. Non vogliono lasciare la loro Italia. Per i bombardamenti, poi, anche noi nel ’42 ci spostiamo nelle campagne fuori Milano, ma non posso andare alla scuola pubblica. I miei coetanei mi chiedevano il perché. Io, che ho imparato a mentire, rispondo loro: ‘devo curare mio nonno’ ”. La dignità della senatrice Segre si è manifestata anche così: raccontando come si impara il male, lo si assorbe, prima incominciando a mentire, poi a diffidare, poi, come dirà, a non provare compassione per gli altri. E’ stato quindi, il suo, anche un forte mea culpa. Il suo insegnamento sta anche, però, nel far capire che si può scegliere la pietà e la vita. “Mio nonno – ha proseguito – era molto malato: io ero per lui, e lui per me. L’anno dopo lui e mia nonna vengono deportati, gasati e bruciati, per la sola colpa di essere nati”. Dopo l’8 settembre del ’43 “inizia la caccia a ogni uomo, donna, bambino o neonato ebreo. I tedeschi iniziano prelevando gli anziani dalle case di riposo. Vorrei ricordare però di quei giorni anche i ‘giusti’, anche se furono pochi, coloro che, rischiando di essere fucilati, salvarono molti ebrei: fecero la scelta”, dice proprio così la Segre. “La scelta è ciò che distingue l’uomo dall’indifferente, che è come una pecora che si fa guidare da un pastore”. Tra questi giusti, vi sono anche le due famiglie cattoliche che mi nascondono nella loro casa, e io, ingenua, e capricciosa, non voglio, però, lasciare la mia famiglia. Successivamente con mio padre tentiamo di scappare in Svizzera, ma dopo il confine ci accolgono uomini senza scrupoli, che fanno mercato delle persone, come gli scafisti di oggi. Appena arrivati, ci portano al Comando, dove il Comandante ci guarda con enorme disprezzo, come vigliacchi traditori della nostra patria. Ci rimanda allora indietro, veniamo arrestati e portati in carcere. Qui non faccio che piangere e chiedere ancora ‘perché?’. Il carcere può essere duro per un criminale adulto, provate a immaginare per una 13enne innocente. La mia sola colpa era quella di essere nata. Violetta Silvera, altra ebrea nella mia cella, mi consola. Ci portano poi prima nel carcere di Como e poi in quello di San Vittore a Milano. Ero con mio padre, nella cella 202 del 5° raggio: è l’ultima ‘casina’ che condivido con lui, che subirà, come gli altri, percosse e torture. Quando tornava in cella, ci abbracciavamo: ormai, per lui, ero come una madre, una sorella, cercava consolazione in me, non il contrario”. Qui inizia il viaggio all’inferno. “Un giorno ci dicono che dobbiamo partire per ‘ignota destinazione’: siamo in 605, ne torneranno appena 22. Ci portano nella stazione dei treni di Milano dove scopriamo che ci sono binari sotterranei, segreti, fatti apposta per la deportazione. Ci fanno salire su un carro bestiame, senza luce né acqua, solo con un secchio per i bisogni – eravamo una 50ina di persone -, un po’ di paglia. Si sente un forte odore di urina, di paura, di morte. Dopo una settimana arriviamo al campo di Auschwitz. Il viaggio – di solito si raccontano troppo poco i viaggi verso i campi di concentramento – si può dividere in tre fasi: all’inizio tutti piangono disperati. Poi c’è la fase in cui gli uomini religiosi in certi momenti si riuniscono per lodare Dio, con canti lenti, melodiosi, stupendi. Io che non ero e non sono religiosa, li guardavo con invidia perché li consideravo molto fortunati ad avere almeno il sostegno della fede. Nella terza fase, negli ultimi due giorni, non vi erano né pianti né preghiere, ma il silenzio, essenziale per chi sta per morire, unica cosa possibile, un silenzio potente, indimenticabile. Al nostro arrivo ad Auschwitz, però, viene sostituito dai rumori osceni, i fischi, latrati, comandi dei soldati nazisti. Uomini che facevano parte di quell’immenso sterminio preparato da anni, a tavolino, e del quale tutti furono responsabili, politici, imprenditori, artigiani…tanti ‘uomini di buona volontà’ che hanno messo su un ‘teatro dell’orrore’. Ma io ricordo tutto, l’odore della carne umana bruciata, le persone che ho visto morire, i mucchi di cadaveri ischeletriti fuori dal crematorio, le esecuzioni. Non posso tacere, anche se a volte sul web mi scrivono cose del tipo: ‘Vecchia schifosa, perché non muori?’. Ho fatto la scelta dolorosa, il sacrificio di raccontare finché ne avrò la possibilità. Gli uomini vengono divisi dalle donne, lascio la mano di mio padre – non ci saremmo più rivisti. Allontanandoci, mi raccomanda di stare vicino a una donna, la signora Morais, che però non rientrava nel gruppo di 31 donne (tra cui io) e di una 70ina di uomini momentaneamente ‘graziati’ dai nazisti: la sera stessa era cenere nel vento. Rimango sola, non conosco nessuno, vedo una ciminiera – non so ancora che è il crematorio -, file interminabili di baracche, fucili, filo spinato, migliaia di donne ischeletrite e rasate, che trasportano pietre. ‘Dove sono – penso – è un incubo, ora mi sveglio! Perché? Perché? Perché?’. Vediamo qualcosa di impossibile, il nostro era lo ‘stupore per il male altrui’ ”, per usare le parole di Primo Levi ne ‘La tregua’. “Non ti capaciti che hai davanti centinaia di uomini, i soldati nazisti, che non hanno fatto la scelta (di essere umani, ndr), ma che sono persone orribili. Un giorno vengo scelta come schiava in una fabbrica di munizioni Union, della Siemens, all’interno del campo. Divento uno scheletro vestito di stracci. Per tre volte in un anno passo la selezione (che i soldati nazisti compivano per scartare quelle secondo loro da uccidere perché non più in grado di lavorare, ndr). Ci denudavano e mettevano in fila, ispeziondandoci davanti e dietro, ci controllavano i denti come fossimo bestie. E io ero ‘grata’ se facevano ancora il segno ‘sì’, a significare che non mi avrebbero ucciso: ero stata orribile, vigliacca, spaventosa perché l’operaia francese, Jeanine, per la quale facevo l’inserviente portandole i canestri di acciaio grezzo, era stata scartata, dunque gasata – aveva 21 anni -, in quanto il giorno prima in un incidente si era tranciata due falangi. Io, troppo contenta del fatto che mi permettevano ancora di vivere, non avevo nemmeno considerato il fatto che lei invece veniva esclusa. Per il senso di colpa, il suo nome è quello che più volte ho ripetuto nel corso della mia vita. I nazisti erano riusciti, allora, nell’intento di farmi diventare una persona orribile, una lupa”, senza umanità. “A inizio ’45 iniziamo la ‘marcia della morte’, in seguito all’avvicinamento dell’Armata Rossa. Durante il tragitto, chi cadeva, veniva fucilato all’istante con un colpo alla testa. Io non sono mai caduta, ce l’ho messa davvero tutta, una gamba davanti all’altra. Non dite mai ‘non ce la faccio più’ – scandisce rivolta agli studenti -, se vogliamo siamo fortissimi, dovete trasformare la marcia della morte in marcia della vita, della vita che vi aspetta. E abbiate coraggio, orgoglio, non seguite i bulli: chi fa il bullo da grande può diventare un kapò. Lungo la strada – ha poi ripreso il racconto -, nemmeno un tedesco si era impietosito. A volte succhiavamo gli ossi da loro spolpati. Arrivati nel campo di Ravensbruck, eravamo amebe, ectoplasmi, senza più forme femminili, non sentivamo più niente. Il 1° maggio 1945 vengo liberata”. E’ stata una dei 25 italiani di età inferiore ai 14 anni deportati nei lager nazisti a sopravvivere, su un totale di 776. “Di colpo sentiamo un accenno di primavera, e immaginate dopo un anno di campo e quella marcia, che impressione può fare, come un miracolo, avevamo voglia pure di sentire il sapore dell’erba. Arriviamo poi in Francia dove un gruppo di abitanti, vedendoci, prova pietà per noi: è la prima volta dopo anni… Eravamo talmente ridotte male, che non capivano che eravamo giovani. Un giorno vedo passare un comandante delle SS, una persona terribile, che per camuffarsi si veste in borghese e butta le proprie armi per terra. Io, nutrita di odio e di vendetta, penso: ‘adesso mi chino, prendo la sua pistola e gli sparo’. In quel momento sono molto tentata dal farlo. Ma in un attimo capisco che non sono come lui, che ho scelto la vita. Da quel momento sono stata, e sono ancora, una donna libera e di pace”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 gennaio 2019

(foto Francesca Brancaleoni)