Un normale conflitto tra amici: a teatro l’opera di Serraute

2 Mar
Foto Marco Caselli Nirmal

Si intitola “Pour un oui ou pour un non”  l’opera di Nathalie Sarraute portata in scena lo scorso fine settimana al Teatro Comunale di Ferrara da Umberto Orsini e Franco Branciaroli. I confini tra amico e nemico sono sempre così netti? Le parole sono davvero così fondamentali per comprendersi, oppure spesso non sono controproducenti?

di Andrea Musacci

Un dramma travestito da commedia che inizia nel proprio epilogo, nella propria catarsi. Un uomo irrompe in casa di un amico, preoccupato (o solo curioso?) del fatto che quest’ultimo da un po’ non si faccia più sentire. Da qui erompono rancori sopiti, malumori, incomprensioni. Chi fra i due è l’accusato e chi l’accusatore?

Un’ora e dieci di vita distillata è “Pour un oui ou pour un non”, commedia di Nathalie Sarraute portata in scena lo scorso fine settimana al Teatro Comunale di Ferrara dagli attori Umberto Orsini e Franco Branciaroli.

Non comprendo quindi sono

Arriva l’amico, l’intruso irrompe. E dice: «io sento che…io voglio cercare…». È l’inquieto. Vuole capire il perché dell’assenza e del silenzio dell’altro che, placido, risponde, nega finché può (poco): «niente che si possa dire…». Cioè, nessuno può capire, può capirmi. Fin da subito, la questione si pone come radicale. O tutto o niente. O sì o no. D’ora in poi non varranno fughe, nascondimenti, ironie o virgolettati. La verità dovrà essere sbattuta sul tavolo, sezionata, osservata fino all’osso. Con lo scacco come inevitabile finale (che ne siamo o no consapevoli).

Insomma, l’inquieto che irrompe nella calma vita domestica dell’ospitante da “accusatore”, indagatore, si trasforma ora in “accusato”. È amico ma visto come hostis, nemico, non più hospes (ospite). Perché è lo stesso ospitante che si pone come ostile. Inizia una lotta, un processo reciproco, dove insieme, controvoglia o con acredine, ci si potrà ancora una volta illudere di poter fondare un’amicizia sulla totale comprensione. Non è così, mai. L’altro – amico o nemico poco importa – irrompe nella mia esistenza e in quanto altro non può non stravolgerla. La mia posizione per quanto prossima alla sua sarà sempre distinta, distante, altra.

Questo di Sarraute è, niente più niente meno, che un dramma, il dramma dell’uomo, “obbligato” a confrontarsi, a dialogare, quindi anche a fraintendersi e scontrarsi.

L’oggetto iniziale del contendere rimane, com’è normale, molto vago, indefinito, è qualcosa che riguarda incomprensioni sulle rispettive carriere. Ciò che importa è la vera sostanza di ogni dialogo: quella di muoversi – sempre, inevitabilmente – dal nulla dell’incomprensione, sul vuoto del non capire l’altro, di non poterlo afferrare. E da questo ni-ente mai del tutto potersi distaccare. 

«La vita è là». Ma dove?

A un certo punto l’ospite apre la finestra e fa entrare il mondo sotto forma di una musica dolce e malinconica che arriva dalla strada. Una nuova incomprensione si ha quando uno dei due cita (forse involontariamente) Verlaine: «La vita è là», dice indicando il mondo oltre l’appartamento. «Mio Dio, mio Dio, la vita è là / semplice e tranquilla, / questo rumore quieto / viene dalla città», sono in effetti alcuni versi del poeta francese.

Da qui il contrasto io–tu si fa contrasto «noi»-«voi», dove «voi» a dir dell’ospitante sarebbero quelli come l’amico: gli arrivati, gli ironici, gli uomini di mondo che il mondo, però, lo schematizzano, lo ingabbiano in categorie. Sono i superficiali. Per contrasto, la solitudine dell’ospitante diventa distacco, coscienza critica, ma anche, come detto, rancore. E degnazione: atteggiamento, questo, all’inizio affibbiato, al contrario, dall’ospitante all’ospite. 

I ruoli, dunque, sempre più si invertono, si confondono: l’accusatore diventa accusato, il distacco è quello dell’ospite inconsapevole o quello del solitario ospitante? Quest’ultimo da riservato e pudico si trasforma in viscerale, esplicito, costringendo l’altro invece a difendersi. Allora, dov’è la vera vita? Chi fra i due è più libero? L’ospite, leggero, vitale, realizzato ma in realtà inquieto, sempre deciso se indossare il proprio soprabito e andarsene, oppure l’amico ospitante, «inafferrabile», anch’esso inquieto ma forse più profondo?

Senza parole

Un’ora abbondante, dunque, in cui non si è parlato di nulla di concreto. Ma è proprio questo il punto: a prescindere dal tema specifico, dall’oggetto del contendere, ogni confronto si basa sul non comprendere, sul fraintendimento.

E allora in quest’ora così satura di parole, il finale lascia aperto un dubbio: vincerà quella musica dalla strada, quel richiamo divino nella propria inafferrabilità, nella sua non-necessità di parole, oppure l’atto estremo, la tentazione di risolvere l’irrisolvibile conflitto eliminando l’altro?

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 marzo 2022

https://www.lavocediferrara.it/

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