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«Accompagniamo famiglie e disabili al confine»: il racconto di don Cattelan da Leopoli

9 Mar
Profughi in partenza dalla Comunità “Don Orione” di Leopoli

Don Moreno Cattelan racconta a “La Voce” l’impegno nell’aiutare le persone a raggiungere la frontiera ungherese per poi arrivare in Italia. La loro comunità è diventata centro di accoglienza dei tanti profughi

Sono veri e propri viaggi della speranza quelli che migliaia di ucraini da giorni stanno compiendo per sfuggire alla furia distruttiva dell’invasore russo. Viaggi che non sarebbero possibili senza il forte spirito solidale della popolazione e, nello specifico, senza l’aiuto dei tanti sacerdoti e delle tante opere cristiane radicate sul territorio. 

Fra i più attivi in questo senso c’è don Moreno Cattelan, missionario padovano della congregazione di Don Orione, la “Piccola Opera della Divina Provvidenza”, opera presente dal 2000 nella periferia di Leopoli, impegnata nell’animazione giovanile e nell’accoglienza di giovani disabili. Lo abbiamo contattato telefonicamente per farci raccontare la situazione. «La notte tra il 25 e il 26 febbraio da Kiev mi sono trasferito a Leopoli insieme a don Egidio Montanari», presente in Ucraina dal 2000. Un viaggio durato 18 ore. «Qui, abbiamo raggiunto il chierico Mykhailo Kostiv, mentre don Fabio Cerasa», altro sacerdote orioniano, «è andato a Tortona per dare una mano all’accoglienza dei profughi e per tenere i contatti tra noi e le comunità in Italia. A Kiev io e don Egidio in questi due anni abbiamo cercato di iniziare la nostra missione, ma prima il covid e poi la guerra non ci hanno aiutato». In ogni caso, «qualche progetto nel nostro quartiere l’avevamo iniziato, soprattutto coi bambini».

Don Moreno Cattelan

A Leopoli il centro di accoglienza nel Monastero dispone di 30 posti letto e di un grande refettorio. In queste settimane è un flusso continuo di persone provenienti da ogni zona dell’Ucraina: alcuni si fermano, altri invece proseguono verso il confine con l’Ungheria per raggiungere l’Europa. 

E in questi viaggi verso il confine – finora un centinaio di persone hanno accompagnato da Leopoli -, in direzione dell’Italia e di altri Paesi europei, i due sacerdoti italiani sono attivi in prima linea. Solo nella giornata del 3 marzo, quando riusciamo a parlare per la prima volta con don Moreno, hanno portato al di là del confine 42 persone, di cui oltre la metà bambini. Ad attenderli, un pullman diretto in Italia: metà di loro, i ragazzi disabili ospitati nella comunità di Leopoli, sono stati accolti dal Centro “Mater Dei” di Tortona dell’Opera “Don Orione”, una decina in una struttura orioniana di Fano e altri a Torino. Altri ancora, invece, arrivati a Mestre, si sono fermati in zona da alcuni parenti. Domenica 6 hanno accompagnato al confine ungherese dieci bambini con le madri. 

Ma il viaggio da Leopoli all’Ungheria, normalmente di circa 7 ore, non è facile: «già per noi – ci racconta don Moreno – è stata un’odissea fuggire da Kiev», un lungo viaggio «su strade spesso bombardate». E ora questi viaggi quotidiani per portare i profughi al confine, spostamenti nei quali, «oltre alla difficoltà di trovare pullman disponibili, si aggiunge il fatto che molti sono sprovvisti di passaporto. «È gente umile, non abituata a viaggiare. Per fortuna, per loro scatta automaticamente la protezione umanitaria». Tra le persone che hanno accompagnato, anche una bimba di un anno e un mese provvista del solo certificato di nascita. E a proposito dei bambini, don Moreno sottolinea come da poche settimane avevano ripreso ad andare a scuola. «Quando li ho lasciati al confine diretti verso l’Italia, ci siamo promessi di rivederci fra una settimana. Ma sarà molto dura. In Italia vengono accolti e integrati bene», per ricostruirsi una normalità, ma per loro, soprattutto per loro, è stato uno sradicamento non da poco, feroce e improvviso. Ma le dogane sono intasate e quindi don Moreno ci spiega che stanno cercando altri punti di confine dove portare i profughi.

Non tutti però raggiungono la comunità orioniana di Leopoli per starci solo qualche giorno prima del viaggio verso il confine. Alcuni decidono di rimanervi, come le tre famiglie, tutte con bambini, fra cui un neonato nato i primi di febbraio, o alcune anziane, provenienti da Kiev e da Kharkiv, una delle città più martoriate dalla furia distruttiva russa. «Stasera – ci spiega don Moreno venerdì 4 – un’altra madre coi figli partirà da qui verso l’Ungheria, mentre il padre tornerà a Kiev per combattere con l’esercito di difesa cittadino. Alcune persone che arrivano qui da noi a Leopoli tremano dalla tensione, e dopo tre giorni senza aver mangiato. Qui si autogestiscono e si aiutano reciprocamente con la cucina e la lavanderia. C’è un forte senso di familiarità». 

Ma anche mentre scriviamo, tante sono le persone che continuano a raggiungere Leopoli, ormai centro di raccolta e smistamento delle migliaia di sfollati che lasciano le città di un Paese che il governo di Putin sta cercando di schiacciare e sottomettere.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 marzo 2022

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«Uniti nella preghiera e nella resistenza»: il racconto di Padre Roman Fedko dall’Ucraina

9 Mar

Testimonianza da Drohobych a “La Voce”. «Qui ognuno è volontario, tutti aiutano in qualche modo»

di Andrea Musacci

Drohobych è una località nella zona occidentale dell’Ucraina, a quasi 80 km da Leopoli e vicina al confine con Slovacchia e Polonia. Qui vive Padre Roman Fedko, sacerdote cattolico di rito bizantino, sposato e con tre figli di 16, 10 e 4 anni. Parla bene l’italiano perché dal 2001 al 2009 ha studiato e conseguito la licenza e il dottorato all’Istituto Patristico Augustinianum dell’Università Lateranense di Roma. 

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare la situazione nella zona in cui vive. «Per il momento è relativamente tranquilla. Alle 4.30 del 24 febbraio scorso, primo giorno di guerra, siamo stati svegliati da missili esplosi a 25 km da qui. Solo dopo abbiamo saputo che ne sono stati lanciati quattro in una piccola zona militare», una delle tre del territorio. Missili che, però, hanno colpito anche tutti gli edifici circostanti, con diversi feriti. «Poi abbiamo visto aerei militari volare basso e velocissimi. Qui non se l’aspettava nessuno, fino al giorno prima si parlava di dialogo». Le giornate di padre Roman come di tutti gli abitanti di Drohobych sono impastate di paura, dolore, ma non di rassegnazione. «La notte, anche per due o tre volte sentiamo il suono delle sirene: le persone scappano nei sotterranei», negli scantinati, nei piani interrati. Padre Roman e la sua famiglia non ne hanno uno. «Ma anche i miei figli dopo più di una settimana di guerra in un certo senso si sono abituati».

«La popolazione qui è molto unita, tutti sono volontari: davvero enorme e commovente è stato il risveglio della gente. Tanti sono quelli che si arruolano volontari nell’esercito, c’è sempre la fila davanti alle sedi militari». Otto anni fa, durante la guerra in Crimea non fu così: «molti sentivano la guerra comunque come più lontana». Altri, invece, hanno combattuto anche in quel conflitto, e quindi hanno molta esperienza. Chi non impugna le armi prepara il cibo per chi ha bisogno, i pacchi con i beni di prima necessità, aiuta gli anziani di un ospizio, le famiglie povere, oppure costruisce barriere anti carro armato: «sono barricate con sacchi pieni di sabbia», ma anche veri e propri «blocchi di cemento armato che vengono posizionati su diverse strade che portano alla città per impedire ai carri armati russi di passare».

Per quanto riguarda, invece, l’accoglienza dei profughi, a Drohobych e Truskavets, quest’ultima nota città termale poco distante, «molti edifici, tra cui quelli termali, sono stati messi a disposizione dei profughi, e in tanti hanno aperto le porte delle proprie case alle famiglie che arrivano da Kiev o da altre zone». In molti, però, sono di passaggio, si fermano due giorni per proseguire verso il confine con la Polonia, nella speranza di arrivare in Europa. Ma la solidarietà e la resistenza si concretizzano anche in altri modi: «diverse donne della mia parrocchia realizzano reti, tende nere di diverse stoffe per mascherare gli edifici, in modo che gli aerei russi senza pilota non li possano vedere e colpire».

E naturalmente c’è la preghiera, diffusa, continua, popolare, 24 ore su 24: sia in chiesa sia on line sulla pagina Facebook di padre Roman, con collegate ogni giorno centinaia di persone. Ma i soldati, padre Roman, li aiuta anche confessandoli: «in questi giorni – ci racconta – avrò confessato e benedetto una 30ina di soldati. A ognuno di loro regalo anche il rosario. Ieri di rosari ne abbiamo benedetti un centinaio».

Insieme al dolore, da ogni parola di padre Roman si sente anche l’orgoglio. Quello di un popolo che i russi vogliono schiacciare. «O siamo uniti e resistiamo oppure l’Ucraina non ci sarà più. Ora i missili arrivano anche dalla Bielorussia (alleata di Putin, ndr), e temiamo che anche il loro esercito ci invada in appoggio alla Russia». Un ringraziamento nasce in lui spontaneo prima di lasciarci: «Grazie di cuore a voi ferraresi per tutto l’aiuto che ci state dando. E grazie all’Italia e all’Europa che ci sostengono».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 marzo 2022

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Nessuno può toglierci la nostra umanità, ci insegna Etty Hillesum

9 Mar

La mostra dalle Clarisse presentata il 1° marzo: «dobbiamo sempre cercare di scoprire questo debordare dell’umano, la positività nel reale»

Nulla ci viene strappato per sempre. Se immersi nell’orrore e nella miseria di un campo di concentramento, questa certezza è possibile solo grazie a un’assurda e smisurata fede.

È la fede di cui era piena Etty Hillesum, ebrea olandese deportata ad Auschwitz, dove muore il 30 novembre 1943 all’età di 29 anni. Di questo legame intimo con l’Assoluto, Etty lasciò traccia in un lungo Diario e in diverse Lettere (edite in Italia da Adelphi).

Fino al 9 marzo è possibile avvicinarsi al cammino di fede e di umanità di Etty grazie alla mostra realizzata dal Meeting di Rimini nel 2019 ed esposta nel coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara. La mostra è visitabile ogni pomeriggio dalle 15.30 alle 17.45. Per le visite guidate è possibile contattare Elisabetta Urban (cell. 351-5512283) o Giorgio Irone (3348045353), due giovani del CLU – Comunione e Liberazione Universitari di Ferrara. Negli stessi orari è possibile visitare la cappella del forno, alle ore 18 partecipare al Vespro e alle 18.30 alla Celebrazione Eucaristica. 

La mostra è stata presentata la sera del 1° marzo, davanti a una 40ina di persone, da uno dei curatori, il giornalista e scrittore Gianni Mereghetti, affiancato da Elisabetta Urban e Giorgio Irone. Proprio dal CLU è nata l’idea di portare l’esposizione dalle Clarisse. Una proposta nata grazie al fatto che da un po’ di tempo gli universitari di CL la Scuola di Comunità la svolgono proprio nel Monastero di via Campofranco.

Quello spiraglio di positività sempre da scoprire

Qualsiasi cosa accada non ci possono togliere nulla, non possono toglierci la nostra umanità: «questo pensava, viveva Etty Hillesum», ha spiegato Mereghetti.

«Etty ci insegna il metodo dell’ascoltare la realtà, per comprendere le cose vere», nella loro verità. «Un ascolto possibile solo nel pieno coinvolgimento».

Nel 1941 avviene l’incontro decisivo della propria vita, quello con lo psico-chirologo Julius Spier. È lui che la aiuterà ad ascoltarsi nel profondo, «ad aprirsi all’altro e a Dio in maniera autentica». Da qui la certezza che dentro la realtà «c’è sempre qualcosa di positivo, uno spiraglio di positività. Dobbiamo sempre cercare di scoprire questo debordare dell’umano». Di conseguenza, il compito che d’ora in poi si darà, sarà quello di «dissotterrare nel cuore dell’altro la positività della vita, di disseppellire Dio».

Nel campo di transito di Westerbork, dove Etty lavorerà come assistente sociale prima di essere deportata ad Auschwitz insieme ai genitori e al fratello Mischa, «non troverà solo miseria e disperazione» ma anche, nelle persone lì costrette, «un desiderio di bene e una grande umanità». Un “ascolto”, anche questo, fatto col cuore, tipico di chi «ha sempre vissuto l’impatto col reale, non difendendosi da esso ma vivendolo fino in fondo».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 marzo 2022

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