Archivio | ottobre, 2024

Speranza, andare insieme all’incontro col Signore

30 Ott

Presente come attesa attiva del compimento in Dio: Prolusione del Vescovo alla Scuola di teologia 

Si avvicina l’inizio del tanto atteso Giubileo 2025 e si avvicina anche il 60° dalla pubblicazione della Costituzione pastorale “Gaudium et spes”. La nostra Scuola diocesana di teologia per laici ha scelto quindi di dedicare il suo programma 2024-2025 al tema della speranza, al centro dell’anno giubilare. Lo scorso 22 ottobre a Casa Cini il nostro Arcivescovo è intervenuto per la Prolusione di inizio anno dal titolo “Giubileo 2025, guardare il mondo con gioia e speranza”.

«Sperare – ha esordito – significa tendere con l’animo verso un bene futuro, desiderato. La speranza è attesa, tensione verso la pienezza, a partire da una mancanza, da un presente lacunoso. È uno slancio verso un traguardo buono, con un’attesa di miglioramento, di un orizzonte positivo. Sperare vuol dire quindi essere protesi, aperti».

LA SPERANZA CRISTIANA

Ma nello specifico, la speranza cristiana è qualcosa di più di questa speranza solo umana. Attingendo principalmente dalla “Spe salvi” di Benedetto XVI, il Vescovo ha spiegato come la speranza sia una «virtù per poter affrontare il presente», ma «non una generica attesa in un futuro positivo e indeterminato». È, invece, «attesa di Dio, di Colui che crea e sostiene la vita, di Colui che è il futuro». La speranza coincide quindi con «l’incontro col Signore». È anche miglioramento del presente e attesa, ma è molto di più: «è l’eschaton, il compimento della vita, Gesù stesso, cioè Dio dentro la storia, Dio con un volto». La speranza cristiana «non è quindi un tempo (il futuro), né un luogo (il Paradiso) ma una Persona, l’incontro con una Persona. L’Oltre è un incontro: quello con Dio». Diversi, poi, gli accenni di mons. Perego al tema della speranza in Paolo, o alla “Teologia della speranza” di Moltmann, differente dal “principio-speranza” laico-marxista di Bloch.

Avere speranza per noi cristiani significa dunque «sapere qual è la meta e raggiungerla assieme agli altri», anche e soprattutto nel dolore. L’orizzonte non può quindi che essere «un orizzonte buono, un orizzonte di salvezza. Solo così l’uomo può dirsi davvero libero dalla tentazione della desperatio, dal un fato cieco o dalla presunzione di essere il protagonista solitario della storia».

COME RENDERNE RAGIONE

Ma affinché la speranza cristiana non resti una semplice idea, è essenziale capire come darle carne e sangue. C’è solo un modo: «andando incontro alle donne e agli uomini, sentendosi solidali con loro e con la loro storia». Forti della speranza che non delude, «Cristo Risorto, pur nelle crisi della nostra società, nelle tenebre, nelle nostre difficoltà. 

La storia è teocentrica perché ha per protagonista Dio, è una storia di salvezza che ha come destino l’incontro dell’uomo con Dio. Non è una storia solo terrena, solo umana». La speranza cristiana ha quindi radicalmente «a che fare con la vita», non è – come pensavano Marx o Feuerbach – fuga, alienazione dalla realtà. Al contrario, la visione cristiana è «critica di ogni passività, di ogni fuga dal mondo e promuove invece la cittadinanza attiva». Segni di speranza – citando ancora “Spe salvi” e “Gaudium et spes” – sono la preghiera, l’azione, la sofferenza, così come la solidarietà, la collaborazione, il dialogo e il servizio.

ANDARE OLTRE

La speranza è dunque «un uscire da sé nel tempo e nello spazio, ha una dimensione costitutivamente comunitaria: per il cristiano non esiste l’io senza l’altro». Una concezione, questa, rifiutata dalla modernità. «Nessuno è una monade chiusa in sé stessa ma è aperto essenzialmente ed eternamente agli altri», ha proseguito mons. Perego. Come scrive Benedetto XVI sempre in “Spe salvi”, la speranza è sempre anche «speranza per gli altri». Ciò richiama un concetto (ancora travisato) di Hans Urs von Balthasar secondo cui non si può non sperare che l’inferno sia vuoto. Insomma, la speranza cristiana «ci fa passare dal sé al noi, dal singolo alla comunità». «Spero in Te, per noi», scriveva Gabriel Marcel.

«Non ha quindi senso – si è avviato alla conclusione il Vescovo – una speranza che non sfoci nella carità, come non si può comprendere una speranza priva di fede». 

L’incontro ha poi visto il confronto fra l’Arcivescovo e alcuni dei tanti partecipanti, i quali han posto domande e riflessioni. A una di queste, mons. Perego ha risposto spiegando che quando prega lo fa innanzitutto «affinché la vita sia accolta e difesa sempre, e che qualche nostro giovane diventi sacerdote». Ma la difficile situazione nella nostra Diocesi, come nel resto d’Italia e d’Europa, non deve farci pensare, a tal proposito, che sia così in tutto il mondo. In diversi Paesi africani e dell’Oriente, crescono le vocazioni al sacerdozio e le congregazioni religiose. Anche questo può aiutarci a non disperare, anche questo è un “segno dei tempi”.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° novembre 2024

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Pieve di Argenta sommersa e invasa dalle acque

29 Ott

Il monumento più antico della provincia diventa simbolo 

L’acqua, fonte di vita, a volte può diventare funesta minaccia per le popolazioni, le case e per l’equilibrio ecologico. Lo sanno bene, ultimamente, i liguri e da alcuni anni gli emiliano-romagnoli. Nella città di Ferrara i danni sono stati molto limitati rispetto ad altre zone della Romagna e del bolognese ancora una volta duramente colpiti, escluso lo spavento per le aree in zona Po.

Ma nella nostra provincia i danni e i disagi  sono stati di sicuro più consistenti. E nel Ferrarese, fuori dalla nostra Arcidiocesi, c’è un’immagine-simbolo di questa eterna lotta tra l’uomo e la natura, che è – in un altro senso – anche l’eterna lotta tra il bene e il male.

È l’immagine dell’antica Pieve di San Giorgio ad Argenta sommersa in buona parte – e in parte invasa – dalle acque.  Le abbondanti precipitazioni di questo periodo hanno ingrossato i fiumi del territorio, facendo loro superare la soglia. L’Idice ha rotto l’argine, all’altezza della Chiavica Cardinala e le famiglie residenti in zona sono state evacuate. E nella Pieve di San Giorgio tecnici del Comune, Vigili del Fuoco e Carabinieri sono dovuti entrare per un sopralluogo. La chiusura dei ponti aveva isolato la chiesa di Sant’Antonio a Campotto, dove però non ci sono stati danni.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° novembre 2024

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(Foto: https://www.comune.argenta.fe.it/)

Paolo sempre in viaggio «là dove le cose nascono»

29 Ott

Paolo Micalizzi. L’ultimo saluto al critico e storico cinematografico. Mons. Manservigi: «la sua vita era un viaggio, era sempre altrove, dove le cose nascevano e accadevano. Oggi di uomini così ce ne sono sempre meno. Raccoglieva idee e le portava agli altri»

Le parole, nella vita di ogni giorno, e in particolare in un mestiere come quello del giornalista, possono essere un’arma o una carezza, una via di incontro o di conflitto. Vanno usate, più che mai, con attenzione, con una parresia sempre intrisa di attenzione all’altro, di un desiderio pieno: che quando quelle parole si interromperanno, avvenga l’incontro, il cuore e la mente si elevino, le vite e i volti delle persone si incrocino e si affianchino.

Ci sono state persone come Paolo Micalizzi che per una vita hanno tentato di usare le parole in questo modo: come ponte, come sempre nuovo sprone per continuare la ricerca.Nel pomeriggio dello scorso 24 ottobre, in chiesa e sul sagrato della Sacra Famiglia a Ferrara, in occasione delle sue esequie, le parole scorrevano discrete fra le tante persone accorse. Erano vocaboli di dolore e di riconoscenza, di un’incredulità ancora bruciante, di affetto, parole di pietà per la moglie Mara e la figlia Federica. Parole discrete, sì, ma che si rincorrevano, tanti erano gli aneddoti su Paolo da raccontare, i suoi progetti portati a compimento, le relazioni intessute, gli intrecci. C’era l’Amministrazione Comunale – nella persona dell’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Marco Gulinelli -, il mondo accademico, dell’associazionismo, di tutte le varie anime della cultura ferrarese che Paolo ha attraversato e alimentato.

Le parole, quindi. Tante ora sono raccolte e si continueranno a raccogliere in un blog a lui dedicato (https://mostramicalizzi.blogspot.com), altre commoventi le ha pronunciate mons. Massimo Manservigi nell’omelia per l’amico e collega:«questo – ha detto – non è un saluto estremo ma il nostro saluto terreno, diverso da quell’abbraccio di quando il Signore tornerà per portarci là dove ci ha già preparato una dimora. E ora Paolo è col Signore, perché Lui lo conosce, perché Dio è attento a ciascuna persona come se fosse l’unica». Uno dei tratti di Paolo – ha proseguito – «era di prendere congedo, sempre pronto per andare da un’altra parte: “devo andare” in quel tal posto, diceva sempre, aveva «questa dinamica.Era sempre in ciò che doveva fare, nel luogo che doveva raggiungere, guardava sempre avanti». Come “Voce” stavamo lavorando assieme a lui per un libro che raccoglierà diversi suoi articoli usciti sul nostro Settimanale diocesano: «avrei dovuto chiamarlo a breve per dirgli che a livello di impaginazione il volume è pronto», ha proseguito mons. Manservigi. «Sembrava sempre giovane,  Paolo, sempre attivo, mai si rallentava nei suoi impegni. Era uno che – citando il Vangelo – andava a preparare posti, perché amava condividere con gli altri. La sua vita era un viaggio, era costantemente altrove, andava a vedere dove le cose nascevano e accadevano. Oggi di uomini così ce ne sono sempre meno».

E ancora: «per lui valeva sempre il motto “prendi quel che ami e portalo da un’altra parte”: era un “accumulatore seriale” di oggetti, cimeli, libri, di tutto ciò che riguardava il cinema, soprattutto ferrarese». Da qui, l’idea di donare tutto al “Centro Documentazione Studi e Ricerche Cinema Ferrarese” con sede a Palazzo Roverella, Centro di cui era ideatore e Responsabile. «La sua vita – se ci pensiamo – è la misura del tempo in cui il cinema è vissuto a Ferrara. Questo suo raccogliere, materiale e non, è un’eredità che lascia e che ora dovremmo far nostra. Lo dobbiamo a una persona equilibrata, pronta al dialogo, anche se a volte poteva sembrare sbrigativo, preoccupato com’era di arrivare al dunque, di portare a termine i suoi tanti progetti, ma sempre rispettoso delle persone con le quali aveva a che fare. Paolo ci ha donato qualcosa che nessun altro potrà donarci».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° novembre 2024

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(Foto: https://www.cdscultura.com/)

La “Voce” senza Paolo

26 Ott

Un ricordo del critico e storico cinematografico Paolo Micalizzi, scomparso la notte tra il 19 e 20 ottobre

di Andrea Musacci

Già quando nella tarda mattinata di sabato 19 ottobre mi aveva chiamato, la voce stanca, ero dispiaciuto nel sentirgli dire: «non so se faccio in tempo a inviarti il pezzo per Cinenotes perché ho avuto la febbre alta». La mia risposta – «va bene, saltiamo una settimana, non succede niente» – pur sincera non faceva trapelare la stranezza di immaginare un numero della Voce senza la sua rubrica. Poi aveva aggiunto: «riesci a riempirlo comunque quello spazio?». «Sì, Paolo, non ti preoccupare…». Certo, lo abbiamo riempito, ma sembra rimasto vuoto. 

In questo mio ricordo avrei voluto raccontare i tanti progetti e attività della sua vita, ma avremo tempo per farlo con più calma e in parte lo fa chi lo ricorda in questa pagina (v. qui “La Voce” del 25 ottobre 2024). Voglio solo aggiungere che Paolo nasce a Reggio Calabria nel 1938 e a soli 21 anni (il 1° maggio ’59) viene assunto dalla Montecatini di Ferrara, dove lavorerà fino alla pensione. Come critico cinematografico esordisce alla Gazzetta Padana di Ferrara: un secondo lavoro che lo affaticava ma che – mi raccontava poche settimane fa – faceva con enorme passione. Nel giugno 2021 lo intervistai per La Voce e come ultima domanda gli chiesi i suoi progetti per il futuro: «Continuare a tenere viva con articoli, libri e iniziative che intendiamo attuare come Cineclub Fedic Ferrara, la tradizione di Ferrara e il suo cinema…». Lo ha fatto fino all’ultimo, finché ne ha avuto le forze. 

Grazie di tutto, Paolo.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2024

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«È il nostro momento, il momento della carità»

25 Ott

Mons. Elios Giuseppe Mori. Presentato il libro con le sue lettere negli anni ’40 da Roma a mons. Bovelli

Un giovane seminarista prima, un sacerdote poi, immerso nella realtà, la cui fede vive nell’esperienza degli incontri.È questo che emerge dalle circa 50 lettere che  negli anni ’40 da Roma il giovane seminarista Elios Giuseppe Mori (Mizzana 1921- Verona 1994) scrive al suo Vescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli. Mori fu a Roma dal 1940 al 1946, ospite del Pontificio Seminario Lombardo, allora diretto da mons. Franco Bertoglio. Nella Capitale si trova per studiare alla Pontificia Università Gregoriana e viene ordinato sacerdote il 23 dicembre ’44 in San Giovanni in Laterano.

Le lettere di Mori a mons. Bovelli, conservate nell’Archivio storico diocesano di Ferrara, ora sono al centro del nuovo Quaderno del CEDOC – Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana, in occasione del 30° anniversario della morte del sacerdote.

Il volume “E. G. Mori, L’amicizia: il primo apostolato. Lettere di don Elios Giuseppe Mori a mons. Ruggero Bovelli (1940-1947)”, è a cura di Paolo Gioachin, Francesco Paparella e Miriam Turrini, e ha la postfazione di Marcello Musacchi. È disponibile in cartaceo (a offerta libera) nella segreteria della Scuola di teologia a Casa Cini, mentre a breve sarà disponibile anche gratuitamente in digitale a questo link http://santafrancesca.altervista.org/biblioteca.html

Il volume è stato presentato proprio a Casa Cini lo scorso 17 ottobre nella prima lezione (eccezionalmente aperta a tutti) della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi” (foto).

Quasi 200 i partecipanti all’incontro (dei quali 50 presenti in sala e i restanti collegati on line da casa).

Si diceva della concretezza di don Mori; e Miriam Turrini nel proprio intervento il 17 ottobre ha spiegato come il seminarista/sacerdote «ricercava sempre nuove forme di apostolato in un mondo secolarizzato».Questi raccolti, ha proseguito, «sono documenti fondamentali per comprendere gli anni della formazione di Mori» («è il nostro momento», scrive lui stesso a mons. Bovelli); lettere dalle quali emergono anche tratti del suo carattere come la grande ironia e la vivacità intellettuale. Ma nel rapporto epistolare col suo Vescovo «al centro c’è sempre Ferrara e le sue prospettive pastorali, connesse anche al suo ritorno in città». A Roma lavora anche, dall’autunno 1940 alla primavera 1943, nell’oratorio del quartiere Monte Celio con i ragazzi di strada e, appena può, va anche a San Pietro ad ascoltare il Papa; scrive a tal proposito: «Ho una grande gioia nel cuore (…). Gli ho gridato ancora che gli voglio bene».

Sono gli anni terribili della guerra – come ha spiegato Gioachin -, con tanti profughi che arrivano a Roma nell’illusione, in comune con tanti residenti, che la CittàSanta potesse essere risparmiata dai bombardamenti. Ma non sarà così, San Lorenzo è un nome che sta a lì a ricordarlo tragicamente. Dal settembre ’43 al giugno successivo Roma sarà occupata dai nazisti con gli orribili episodi, solo per citarne due, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del ghetto. Dopo l’8 settembre ’43, lo stesso Pontificio Seminario Lombardo ospiterà un centinaio di rifugiati, fra cui atei, comunisti, ebrei (quest’ultimi almeno una 30ina e che Mori, per ragioni di sicurezza, nelle lettere chiama «circoncisi»). Ma, scrive lo stesso Mori a mons. Bovelli – che considerava come un padre -, «portare Cristo a chi non lo conosce (…) è un miraggio che mi esalta». «È questo il momento della carità senza limiti, senza distinzioni», continua. E ancora, riferito ai rifugiati: «la carità di Cristo non guarda al colore, alla religione, alla razza».

Paparella nel suo intervento ha raccontato l’accoglienza e l’irruzione dei nazisti (la famigerata “banda Koch”) nel Seminario Lombardo la notte del 21 dicembre ’43, rastrellamento che, per fortuna, non andò a buon fine in quanto gli ospiti, prevedendolo, si erano organizzati per fuggire in tempo rifugiandosi in un vicino edificio.

Nel ’44 don Mori ritorna a Ferrara, in una città – così la descrive – «sconquassata  e febbricitante». Ma anche qui, e per il resto della sua vita, centrale sarà la pastorale d’ambiente (basti pensare alla “Gioventù Operaia Cristiana” a Ferrara), vera e propria pastorale dell’incontro, dell’amicizia, della prossimità, anche con gli operai e i sottoproletari, ma senza rinunciare alla dimensione mistica: a tal proposito, nel ’41 a Bovelli don Mori riflette come, alla fine, il «soprannaturale, la preghiera fanno tutto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2024

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Regal e Berco: 557 licenziamenti. Il lavoro che manca o è sottopagato

19 Ott
Foto Kateryna Babaieva


I 77 dipendenti della sede di Masi Torello hanno ricevuto la notifica via mail mentre lavoravano. Ma l’azienda USA non è per nulla in crisi. I dati delle delocalizzazioni e dei salari in Italia

di Andrea Musacci

In un’epoca nella quale a dominare l’immaginario collettivo vi sono miti come quello del lavoro autonomo che rende automaticamente liberi, del lavoro ideale da casa, di quello automatizzato, del self made man, una mattina, in un piccolo Comune come quello di Masi Torello mentre tu, operaio, sei a lavorare, vieni a scoprire da una mail che sei stato licenziato. È quello che è accaduto – senza nessun preavviso – lo scorso 7 ottobre a 77 lavoratrici e lavoratori della Regal Rexnord (ex Tollok), azienda del Wisconsin che produce componenti per pale eoliche. Si tratta di 49 operai, 25 impiegati e 3 dirigenti. 75 i giorni per avviare la procedura di fine rapporto. Fra questi, 4 coppie di coniugi, con figli piccoli a carico e un mutuo da pagare.

La Regal Rexnord ha comunicato via Pec i licenziamenti, motivando la scelta con la decisione di delocalizzare la produzione in India e in Cina, dove il costo del lavoro è più basso e le condizioni fiscali più vantaggiose. Il gruppo Regal Rexnord ha chiuso il 2022 con un fatturato di 5,2 miliardi, in crescita del 36%; il 2023 invece è stato chiuso a 6,2 miliardi, con un utile ipotizzato a 270 milioni. I conti di Regal Rexnord Corporation, comprensivi di fatturato, spese, profitti e perdite sembrano solidi: il fatturato totale per l’ultimo trimestre è di 1,55 miliardi di dollari, in calo del 0.01% rispetto al trimestre precedente. L’utile netto nel secondo quadrimestre 2024 è di 62,5 milioni di dollari. Nessuna crisi dell’azienda, quindi. Anzi. I sindacati si sono subito mobilitati con presidio permanente davanti ai cancelli, la proclamazione dello sciopero a oltranza e un incontro nella sede di Confindustria Ferrara lo scorso 9 ottobre, che ha portato a un nulla di fatto. Il 15 ottobre è previsto un tavolo in Regione convocato dall’Assessore Colla per cercare di trovare una soluzione.

Appena due giorni dopo, a pochi km di distanza, la Berco, azienda   del gruppo Thyssen Krupp specializzata in sottocarri agricoli, annuncia 550 esuberi (oltre alla cancellazione della contrattazione aziendale), dei quali 480 nella sede di Copparo che conta circa 1250 dipendenti, gli altri in quella di Castelfranco Veneto (Treviso), dove lavorano 150 operai. Situazioni gravi in un contesto non felice per l’automotive: ad oggi la richiesta di ammortizzatori sociali riguardano lo stabilimento della VM (Cento), Sagom Tubi (Cento), ZF (zona SIPRO), Sirtec e Tecopress (Dosso), Reflexallen (Cento). 

DELOCALIZZAZIONE E COSTO DEL LAVORO

Da uno studio di Porsche Consulting (società di consulenza tedesca) del 2023, il costo del lavoro in Cina è del 400% inferiore a quello italiano, del 300% a quello americano, del 600% a quello tedesco e francese. Si parla poi di “riglobalizzazione selettiva”: un’azienda europea può pensare a delocalizzare in Romania dove il costo del lavoro è solo del 17% superiore a quello cinese (quindi quasi tre volte meno che in Italia) e al Mediterraneo in generale. Secondo dati dell’agenzia Eurofound (Fondazione UE per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), tra il 2003 e il 2016 sono stati 752 i casi di delocalizzazione, di cui 352 a destinazione di un altro Stato membro dell’Unione Europea; e dei 197.927 impieghi persi in 13 anni, 118.760 possono essere collegati ad un trasferimento della produzione aziendale verso un altro Paese membro dell’UE, soprattutto dell’est Europa.

IN ITALIA SALARI IN CALO

Ma nel nostro Paese, anche dove il lavoro rimane, i salari calano: rispetto a gennaio 2021, sono scesi, infatti, del 10%. È quanto emerge dall’indagine realizzata alcuni giorni fa da Legacoop con Prometeia, che analizza andamento dei prezzi e impatto dell’inflazione. Secondo lo studio, da inizio 2021 a oggi i salari orari sono cresciuti in media in Italia dell’1,2%, contro il +3,3 dell’area euro. Le cause risiedono nei «ritardi nei rinnovi contrattuali», nell’«assenza di un salario minimo e di meccanismi di indicizzazione». E dopo il picco registrato nell’ottobre 2022 al culmine della crisi energetica, il tasso di inflazione in Italia continua a scendere, collocandosi al di sotto della media dell’eurozona. Ma se le imprese sono riuscite a difendersi trasferendo i maggiori costi sui beni finali, i salari hanno invece subìto, soprattutto in Italia, una forte erosione del potere d’acquisto.

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Workers buyout: quando i lavoratori salvano l’azienda comprandola

Di cosa si tratta e quanti sono in Italia. Il caso della “Girasole” a Porto Garibaldi

In inglese si chiama workers buyout (WBO) ed è il salvataggio di un’impresa in crisi (o senza successori) da parte dei lavoratori che subentrano nella proprietà e nella conduzione, quasi sempre organizzandosi in cooperativa e investendo risorse proprie, come l’indennità di disoccupazione e il Tfr. Con le “imprese rigenerate dai lavoratori” si preservano il sapere tecnico, le abilità professionali e le relazioni commerciali già esistenti e si può arrivare anche a uno sviluppo significativo del giro di affari, a fronte di un fallimento altrimenti già segnato. Può essere, questa, una soluzione alle tante possibili crisi. E in questo l’Italia è avanti rispetto ad altri Paesi. Il primo caso è stato quello della Scalvenzi di Brescia, salvata nel 1985 e ancora in attività: produce compattatori e, dal 2015, anche componenti per scooter elettrici.

Nel 1986 nasce CFI (Cooperazione Finanza Impresa) a seguito dell’entrata in vigore della Legge Marcora e, da allora, ha finanziato 332 workers buyout, per un totale di oltre 10mila posti di lavoro, con il sostegno delle organizzazioni sindacali. CFI è vigilata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, è partecipata da 393 cooperative e dai fondi mutualistici di Confcooperative, Legacoop e Agci, le tre associazioni cooperative che ne hanno promosso la nascita.

Nel 1996 l’apertura da parte della Commissione Europea di una procedura d’infrazione aveva bloccato l’operatività della legge, ma nel 2001 la legge di riforma ha recepito le intese raggiunte con la Commissione Europea. Nel 2014, ai lavoratori riuniti in cooperativa è stato attribuito il diritto alla prelazione nelle procedure che prevedono l’affitto o l’acquisto delle aziende o dei rami d’azienda di cui essi erano dipendenti. CFI ha sostenuto 584 imprese cooperative di lavoro – e, a partire dal 2002, sociali – realizzando investimenti per complessivi 335,7 milioni di euro e contribuendo al mantenimento di 28.486 posti di lavoro. Se si considera solo l’ultimo periodo, dal 2011 ad oggi, i workers buyout sono 93. Con un apporto di 49,3 milioni di euro, sono state instradate e assistite imprese cooperative che occupano oltre 2mila lavoratori e arrivano a un valore della produzione consolidato superiore a 500 milioni di euro. In 12 anni, il ritorno per lo Stato, tra imposte dirette, imposte sul lavoro e contributi previdenziali, è stato superiore a 300 milioni di euro. 

IN EUROPA

Anche in Europa gli esempi di aziende salvate dai lavoratori sono numerosi, ma concentrati soprattutto in Paesi come Francia e Spagna. In Spagna, la confederazione delle cooperative di lavoratori COCETA, è composta da circa 17.600 cooperative di lavoratori, per un totale di oltre 305.000 posti di lavoro e, negli ultimi cinque anni, ha sostenuto oltre 500 workers buyout. In Francia, invece, secondo i dati della Confédération générale des Scop, delle 300 nuove cooperative create nel Paese lo scorso anno, l’8% è nato dall’acquisizione di un’azienda in difficoltà mentre il 15% dal trasferimento di un’azienda sana.

IN EMILIA-ROMAGNA

Dal 2007, in Emilia-Romagna il workers buyout è in continua ascesa, una risposta ai tanti casi di crisi aziendali. Ad oggi – come riportato dal sito della Regione Emilia-Romagna – sono 56 le nuove cooperative create, quasi 1200 posti di lavoro salvati. Più di 10 nuove cooperative all’anno dal 2012. Il meccanismo distribuito su tutto il territorio regionale (2 a Rimini; 8 a Reggio Emilia; 3 a Ravenna; 1 a Parma; 4 a Modena; 2 a Ferrara; 30 a Forlì-Cesena; 6 a Bologna) e che si indirizza verso tutti diversi settori (il 5%nel settore agricoltura; il 60% nell’industria di cui quasi la metà nell’edilizia; il 35% nel settore dei servizi).

Un esempio nel Ferrarese è quello della Cooperativa Lavanderia “Girasole” a Porto Garibaldi, guidata da Matteo Tomasi: da 14 dipendenti, nel tempo sono diventati 25 e con un fatturato in espansione.

LA PROPOSTA DEL FORUM DISUGUAGLIANZE DIVERSITÀ

Il Forum Disuguaglianze e Diversità (nato nel 2018 e di cui fa parte anche Caritas Italiana), per promuovere un maggiore ricorso ai WBO fa alcune proposte: «prendere in considerazione l’opzione WBO come prima alternativa nell’affrontare le crisi aziendali – ai cosiddetti “tavoli di crisi” che lo Stato organizza con imprenditori e imprenditrici e sindacati – e prima ancora di questo stadio, per pianificare con i rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici e dell’azienda le azioni in grado di garantire continuità all’attività imprenditoriale; introdurre un premio fiscale all’impegno dei lavoratori e delle lavoratrici nella rigenerazione dell’azienda; accelerare i tempi per l’acquisizione dell’impresa e il suo avvio come WBO; rafforzare la formazione dei lavoratori e delle lavoratrici affinché essi possano svolgere con effettiva competenza e autonomia la nuova funzione di soci-imprenditori e socie-imprenditrici». Il tutto, con un maggiore coinvolgimento di sindacati, organizzazioni imprenditoriali, sistema cooperativo, istituzioni e sistema bancario-finanziario.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2024

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Telepace, una storia ferrarese: la nostra città al centro del progetto

19 Ott

Lo scorso 8 ottobre è tornato al Padre il fondatore don Guido Todeschini. Angiolina Gallani ci racconta come Ferrara fu importante per questa tv

Telepace è il nome di una delle più note emittenti televisive cattoliche, nata quasi mezzo secolo fa. Ma in pochi sanno che il nome di Telepace per molto tempo è stato strettamente legato a quello di Ferrara.

A raccontare questa storia a “La Voce” è Angiolina Gallani, Ministra dell’Ordine Francescano Secolare di Ferrara e 40 anni fa colei che, assieme al marito, ha portato Telepace a Ferrara. L’occasione per questo ricordo è il recente ritorno al Padre (lo scorso 8 ottobre) a 88 anni di mons. Guido Todeschini, fondatore dell’emittente televisiva a Cerna, nel veronese, in quella “Casa Gioiosa” ancora oggi sede di Telepace. E sempre a Cerna, sul Colle della Pace, su invito di San Giovanni Paolo II, don Todeschini realizzò un Santuario dedicato a Maria “Stella dell’Evangelizzazione”.

Ma torniamo a Ferrara, a inizio anni ’80. «Una sera – ci racconta Gallani – a me e mio marito, l’ing. Nino Masina, ci telefona padre Guglielmo Gattiani» – cappuccino ai tempi a Faenza, morto nel ’99 e oggi Venerabile – per chiederci se eravamo disponibili a diventare animatori di Telepace a Ferrara. Padre Guglielmo andò da don Todeschini, che da poco aveva aperto Telepace, per parlargli del suo sogno di avere una tv cattolica mondiale…». La casa di Angiolina e del marito diviene quindi la sede ferrarese di Telepace. «Ai tempi non c’era internet – prosegue Gallani – e quindi ci recavamo regolarmente a Verona per prendere il palinsesto di Telepace e diffonderlo a Ferrara. Don Casaroli, ai tempi Direttore della “Voce”, lo pubblicava anche sul nostro Settimanale diocesano». Ben presto a Ferrara nasce quindi il gruppo degli “Amici di Telepace” per sostenere l’emittente tv: sede del gruppo erano i locali della parrocchia di San Biagio e Santa Maria Nuova allora guidata da mons.Italo Marzola. Don Todeschini viene anche due volte a Ferrara per incontrare personalmente i volontari di Telepace.

«La prima trasmissione locale a Ferrara mediante Telepace – prosegue Gallani – avviene in occasione della festa della Madonna delle Grazie nell’ottobre del 1988». Uno dei giorni dell’anno più importanti per la nostra Diocesi, diventa anche un giorno memorabile a livello di comunicazione. 

Due anni dopo, don Todeschini e i tecnici di Telepace saranno impegnati per immortalare la storica Visita Pastorale a Ferrara-Comacchio di papa Giovanni Paolo II il 22 e 23 settembre 1990. «Io e mio marito li accompagnavamo», sono ancora parole di Gallani. «Siamo stati anche a Pomposa, tante sono state le interviste a sacerdoti e a semplici fedeli, e le riprese in diversi luoghi, fin dai precedenti mesi estivi». E in quell’occasione, Angiolina assieme al marito, ai loro due figli, a don Todeschini, ad altri volontari ferraresi di Telepace e a padre Guglielmo Gattiani hanno potuto incontrare riservatamente il Santo Padre in Arcivescovado a Ferrara: «è stato un grande dono per noi, che non dimenticherò mai».

Successivamente, una signora ferrarese (che ha sempre voluto mantenere l’anonimato) ha finanziato per tre anni il passaggio di Telepace al satellite, dal 1998 fino al Giubileo del 2000. Sul satellite, Telepace vi è rimasta fino al 2001, e ora si trova sul digitale (canale 76 per il Veneto e Mantova, per Roma e Rieti 75), in streaming qui https://www.telepace.it/diretta-streaming/ o sull’app per smartphone e tablet.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2024

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Guido Angelo Facchini fascista? Violenza, paura ed eterni rancori

18 Ott

Il “papà del Palio ferrarese” fu nel Ventennio un protagonista della vita culturale. E come tanti cattolici aderì al fascismo non per ideologia ma per paura delle violenze del socialismo massimalista. È possibile contestualizzare senza fare revisionismo? Se ne parla nel libro “Ferrara Sorgente di Poesia” di Laura Facchini e Francesco Paparella

di Andrea Musacci 

Gli anni del secondo dopoguerra nel nostro Paese e soprattutto in Emilia, sono stati particolarmente difficili e complessi, con tratti spesso tragici. Sono gli anni nei quali l’Italia tenta di rialzare la testa dopo il cupo ventennio fascista e le atrocità della guerra. Ma sono anche gli anni fratricidi costellati da vendette e rancori a lungo sopiti. E forse non ancora del tutto superati.

Di questo, e non solo, si parla nel volume da poco edito dal titolo “Ferrara Sorgente di Poesia. Spunti biografici su Guido Angelo Facchini (foto grande) un intellettuale ferrarese fra le due guerre”, di Laura Facchini (nipote di Guido Angelo) e Francesco Paparella, con prefazione di Carlo Magri (membro del Consiglio Superiore del Palio nominato dalla famiglia Facchini). Di Facchini, che negli anni ’30 a Ferrara fece rinascere lo storico Palio, Paparella ha scritto tanto sulla “Voce”. L’ultimo articolo, nell’edizione del 20 settembre scorso, anticipa il racconto, contenuto nel libro, delle tre vite salvate da Facchini dopo l’8 settembre ’43: quelle del prof. Carlo Zaghi (storico e giornalista) e dei collaboratori del “Corriere Padano” Guido Aristarco (critico cinematografico) e Giuseppe Gorgerino (scrittore e sceneggiatore), finiti nelle grinfie della polizia  fascista. Episodi eroici come questo ci rendono assurdo oggi quel «silenzio “comprensibilmente rancoroso” »  che nel secondo dopoguerra cadde anche sul Palio, sui personaggi in vista in quegli anni», tra cui lo stesso Facchini.

IL BIENNIO ROSSO E LO SQUADRISMO 

La “scelta fascista” di Facchini fu, come per molti, non motivata da chissà quale culto della violenza o della supremazia razziale, o da idee particolarmente reazionarie. Scrive Paparella nel libro: durante il Ventennio «il suo animo romantico, la sua fede e il suo idealismo lo portarono rapidamente verso la sponda del fascismo ferrarese che tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio degli anni ’20 si erge, nella propaganda dell’epoca, a difensore dei valori dell’ordine e della Patria e a difesa da un socialismo spesso anticlericale e violento, pur usando metodi spesso ancora più violenti». Il socialismo massimalista avrà come reazione la nascita del cosiddetto “fascismo agrario”. «Due opposti estremismi», prosegue Paparella: «il socialismo alimentato da una devastante disoccupazione e da una situazione economica drammatica» e «il fascismo squadrista che riesce in poco tempo ad aggregare e avvicinare a sé un largo strato della popolazione ferrarese, con il palese appoggio e contributo economico dei proprietari terrieri, della nobiltà ferrarese, di buona parte della comunità ebraica e anche di largo settore del movimento cattolico. Quest’ultimo, contrariamente ad alcune esperienze in altre parti d’Italia, dove si aggregò attorno al Partito Popolare in aperta opposizione al movimento fascista, a Ferrara per la maggior parte si consolidò nel Centro Nazionale Cattolico, noto per posizioni collaborazioniste e di cui esponente di spicco fu il Conte Giovanni Grosoli». Lo stesso Vescovo Francesco Rossi e il giornale “La Domenica dell’Operaio”, fondato da Grosoli, denunciarono le violenze di questo socialismo radicale e i conseguenti pericoli anche per la libertà dei cattolici. Violenze denunciate in quegli anni anche da Alcide De Gasperi, dal liberale Pietro Niccolini, da socialisti riformisti e antifascisti come Gaetano Salvemini e Alda Costa. Dopo l’eccidio del Castello del 1920 (in cui oltre a tre fascisti morì anche il socialista Giovanni Mirella), «anche coloro che erano rimasti incerti o comunque neutrali passeranno ad appoggiare più o meno direttamente il movimento fascista se non altro per un anelito di ordine e protezione e un sempre maggior sostegno anche in ambienti cattolici». Lo stesso Facchini, quindi, vive in questo clima di paura. La morte del coetaneo e amico Edmo Squarzanti lo segnò nel profondo: il 25 febbraio 1921 Squarzanti «si trovava sul camion carico di fascisti di ritorno dalla partecipazione, a Lendinara, all’inaugurazione di un gagliardetto. Arrivati a Pincara, di fronte alle finestre del capolega di quel paese, furono fatti oggetto di colpi di rivoltella. Uno di questi colpì alla gola il giovane ferrarese che morì poco dopo. Da lì si scatenò uno scontro che portò alla morte dell’autore stesso». Da una lettera di Facchini alla “Gazzetta ferrarese” del 16 dicembre 1921, si può «desumere che pure lui fosse presente a quella trasferta a Lendinara e pertanto anche da questo potremmo immaginare la conferma o comunque il consolidarsi della sua scelta di adesione al fascismo come opposizione alla violenza del massimalismo socialista».

L’8 SETTEMBRE ’43 (E UN PRESENTE CHE SIA DIVERSO) 

Dopo l’8 settembre 1943, anche Ferrara fu occupata dal terribile governo repubblichino-nazista. Pochi mesi prima, la caduta del regime. «Il figlio Aldo ha un ricordo indelebile della notte del 25 luglio 1943», racconta Paparella. «Tornando a casa non vide suo papà. La nonna gli disse che era nell’interrato di villa Melchiori, nascosto per evitare di coinvolgere i familiari». I Facchini abitavano proprio di fianco Villa Melchiori. «Si era diffusa la notizia della caduta di Mussolini e del fascismo e anche Guido Angelo aveva ricevuto minacce di morte. Pertanto quando Aldo lo raggiunse nella villa Melchiori lo vide nel buio con la faccia tesa, seduto sui gradini con una pistola appoggiata a fianco». Insomma, anche chi come lui aveva salvato alcuni antifascisti, non si sentiva al sicuro. Troppo caldo era ancora il sangue di tanti che si erano ribellati alle angherie fasciste. E troppo era il carico di odio, il desiderio di rivalsa (giusta) contro 20 anni di tirannia. Ci sono voluti molti altri decenni per riscrivere la storia di Facchini senza sentirsi additare come “revisionisti” se non nostalgici. O almeno ci auguriamo che così sarà.

Vita di Guid’Anzul, tra impegno e poesia


Guid’Anzul (così lo chiamavano gli amici) nasce a Ferrara nel 1904 da Aldo ed Eugenia Paparella. Ancora adolescente, la casa editrice francescana di Assisi gli pubblica le sue liriche “Canti della Verna”. A 19 anni è già responsabile della pagina culturale della “Gazzetta ferrarese”, che nel ’28 confluirà nel “Corriere Padano” creato da Italo Balbo. Ha ruoli nel Gruppo Universitario Fascista, collabora con l’Unione dei Sindacati, nella Società Benvenuto Tisi, nel comitato esecutivo della Settimana ferrarese e nel “Comitato Ferrarese dell’Ottava d’oro”. A 23 anni sposa Renza Mariotti: i due avranno un figlio, Aldo (foto qui sopra). Nel ’30 diventa direttore dell’Unione Provinciale dei Professionisti ed Artisti, fino al 1933 quando si concentra sugli eventi ferraresi legati alle manifestazioni per il centenario dell’Ariosto e all’organizzazione del Palio. Fra gli altri impieghi, sarà Segretario e poi Presidente dell’Istituto di Cultura di Ferrara, consultore di Ferrarie Decus, Presidente dell’Istituto di Cultura italo-germanica di Ferrara, Direttore della rivista “Il Diamante”. Scrive anche “La storia di Ferrara illustrata nei fatti e nei luoghi”. In quegli anni viene avviato a lezioni private di tedesco presso il prof. Emanuel Merdinger, dal ’38 aiutato a non essere deportato – in quanto ebreo – da una rete di amicizie nella quale vi erano anche Facchini e mons. Bovelli. Nel dopoguerra Facchini va con la famiglia prima sul lago d’Iseo poi a Prato, dove morirà nel ‘77.


Il 21/10 presentazione del libro al Comunale


Lo scorso dicembre per volontà delle Contrade, del Comune di Ferrara e della famiglia Facchini, si è creata la Fondazione Palio “in memoria di Guido Angelo Facchini e Nino Franco Visentini”, unendo così i padri delle due epoche storiche del Palio ferrarese. Il 21 ottobre alle ore 21 (Sala Foà del Teatro Comunale Abbado) è in programma il secondo appuntamento del ciclo “Il Palio è Ferrara”, con la presentazione di “Ferrara Sorgente di Poesia” di Laura Facchini e Francesco Paparella. Si tratta del primo Quaderno della Fondazione Palio Città di Ferrara.Il volume ha la prefazione di Carlo Magri.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2024

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Essere Chiesa nella carne e in profonda comunione

16 Ott


Madre Noemi Scarpa, la testimonianza alla S. Famiglia: «annunciamo a tutti la salvezza del Signore»

Nel mese dedicato alle missioni, la parrocchia della Sacra Famiglia di Ferrara fa una scelta solo apparentemente controcorrente, invitando per un doppio incontro Madre Noemi Scarpa, 45enne Abbadessa del Monastero delle Benedettine di S.Anna a Bastia Umbra (PG).  L’11 ottobre la religiosa ha incontrato gli adulti (prima di cena) e poi i giovani dopo cena (foto).

Ora et labora, adagio antico che si crede appartenente a un passato lontano: «proprio stamattina raccoglievo le olive nel nostro orto e ora, eccomi qui in mezzo a voi», ha detto M.Scarpa all’incontro con gli adulti. La sua è una vera e propria missione: portare il Signore – missione di ogni cristiano – tanto nella preghiera quanto nella semplicità del lavoro quotidiano.Ora et labora, appunto. E, nel suo caso specifico, anche girando l’Italia per spiegare a giovani e a meno giovani la bellezza di vivere nella propria carne il Vangelo.Che significa amare e perdonare, a partire dal proprio familiare, dal conoscente o parrocchiano che ci ha offesi. «Io stessa – ha raccontato – alcuni giorni fa ero “tentata” da non fare gli auguri di buon compleanno a una persona che mi aveva seriamente offesa e trattata male.Poi glieli ho fatti e tutto è cambiato». Sì, perché la nostra diversità – che è la bellezza e l’immensa grandiosità del Signore  -è di amare i nostri nemici, chi porta il male nelle nostre vite.

DAL DESERTO ALLA CHIAMATA

Sveglia alle 5, tre ore di preghiera, lavoro, pranzo, ancora preghiera e condivisione: questa la giornata tipo di Madre Scarpa e delle sue consorelle. Lei in monastero ci vive da 26 anni, e da 10 è Abbadessa. Originaria dell’isola di Murano (Venezia), è nata e cresciuta in una famiglia «molto cattolica», seconda di sette figli. «Ero una ragazzina vivace e da piccola volevo fare…la santa. Con la Bibbia donatami per la Prima Comunione, volevo andare nel “deserto” – l'”abbandonato” di Murano, dietro il cimitero – e vivere lì». Ma a 18 anni il richiamo del mondo diventa più forte: Noemi smette di andare a Messa, continua a giocare a basket. E d’estate gira le capitali europee con una cugina. A metà del viaggio, però, l’Imprevisto che sconvolge la sua vita: «vengo a sapere della morte di Madre Teresa di Calcutta. Mi chiedo: come questa donna così piccola è riuscita a donare la sua vita e a essere più felice di me? Allora prego Santa Teresina e sento forte dentro la chiamata del Signore ad abbracciare la vita religiosa.Sempre sarò grata a Lui per tutti i doni che mi ha fatto, nonostante le fatiche che non mancano».

DALL’ARCIPELAGO ALLA COMUNITÀ VIVA DI CRISTO

Questa la testimonianza personale, importante per ricordarci come Dio ci chiami per nome, dentro le nostre vite, in modo inatteso. Ma ogni vocazione non è nulla senza la comunione coi fratelli e le sorelle in Cristo: «siamo chiamati a essere Corpo di Cristo, cioè Chiesa». Essere Chiesa «non coincide con l’andare in chiesa ma col sentirsi un unico Corpo. La Chiesa non è un arcipelago ma una comunità fondata sull’amore, nella quale ognuno cerca di essere cristiano e non di “fare” il cristiano». Solo l’amore, quindi, ci fa essere veri testimoni del Signore: «innanzitutto, a partire dalle nostre comunità ecclesiali, è importante sospendere il giudizio sugli altri».Giudizio che «spetta solo a Dio». Parallelamente, non ci è chiesto di essere indifferenti ma di andare verso chi è solo, malato, povero, infelice. Verso chi ha scelto di non far più parte della Chiesa. «Queste persone non deve conoscerle solo il parroco, ma ogni parrocchiano». “Dov’è tuo fratello?” Questa domanda dobbiamo continuamente sentircela rivolta. «Siamo tutti custodi l’uno dell’altro», ha proseguito Madre Scarpa. Questo significa essere cristiani: «dopo la Messa, portare fuori, a tutti, quello che assieme abbiamo celebrato». Andando a cercare il dolore, per alleviarlo, e «portando la gioia di essere cristiani, essendo in questo senso contagiosi.La salvezza, la vita eterna è il bene più grande che possiamo ricevere».Eche possiamo annunciare al mondo.

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2024

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Ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri

12 Ott

Festival Internazionale. L’analisi di Riccardo Staglianò: «perché in Italia crea scandalo chiedere più tasse per i più ricchi?»

“Hanno vinto i ricchi”, e non è una buona notizia.Con amara ironia, lo scorso 6 ottobre, in occasione del Festival Internazionale a Ferrara, Riccardo Staglianò ha presentato il suo libro “Hanno vinto i ricchi” (Einaudi, 2024). Il giornalista del “Venerdì di Repubblica” è intervenuto davanti a una sala 2 dell’Apollo gremita, soprattutto di giovani. 

Innanzitutto, i dati: secondo l’OCSE, dal 1990 al 2020 i salari medi in Italia sono diminuiti del 2,90%, unico Paese in cui sono calati. Fra le cause, la bassa produttività, la diminuzione del potere del sindacato, la globalizzazione, l’erosione dei diritti dei lavoratori. Riguardo, però, alla produttività, pur calata, c’è stata, ed «ad averne vantaggi, non sono stati di certo i lavoratori». In Italia, Paese delle medio e piccole imprese, 1 lavoratore su 5 non è tutelato dai contratti collettivi e spesso questi, quando vi sono, non sono rinnovati o lo sono con grave ritardo. Insomma, l’inflazione cresce ma i salari rimangono fermi.Inoltre, dal 2020 al 2022 le ore lavorative si sono ridotte dell’8%. Vi è poi il tema della crescente precarietà, incentivata da Governi di centro-destra e di centro-sinistra, a partire dal famigerato Pacchetto Treu. «Oggi siamo al punto che il lavoro precario è la norma, non l’eccezione», ha detto Staglianò. Tutto ciò porta ad avere in Italia 1 lavoratore su 4 – con regolare contratto – che guadagna 780 euro o meno al mese.  Per non parlare dell’Irpef, che in Italia (a differenza degli altri Paesi occidentali avanzati) si è sempre più ridotto per le fasce alte e altissime. Come denunciò Giulio Marcon, saggista ed ex deputato, in una sua inchiesta, nel nostro Paese diversi ricchi e ultraricchi si lamentano di essere «tartassati dalle tasse». Una posizione che farebbe ridere se non avesse conseguenze drammatiche. Negli USA, invece, Abigail Disney ha fondato il movimento dei “Milionari patriotici”, nato al grido di “Fateci pagare più tasse!”. Unici italiani presenti in questa particolare associazione, i Notarbartolo-Marzotto, attivi nel tessile.

Ma quali sono le cause storiche di questa crescita delle disuguaglianze? La crisi degli anni ’80 del secolo scorso e la nascita della cosiddetta globalizzazione, convinse molte imprese che la soluzione era nel delocalizzare in Paesi dove il costo del lavoro era molto più basso (in Cina, e poi ad esempio in quelli dell’est Europa), oppure far arrivare inItalia lavoratori dagli ex Paesi del blocco sovietico, sottopagandoli e dando così vita a una competizione al ribasso. Questa ideologia neoliberista – fondata anche su «una lotta perpetua contro i sindacati e contro le tasse» – si è presto sposata con una forma estrema di finanziarizzazione, che non ha fatto che aumentare le disuguaglianze e togliere potere agli Stati nazionali. Steve Jobs, spesso osannato anche a sinistra, non a caso dichiarò: «I sindacati sono la cosa peggiore che sia mai capitata all’istruzione, perché hanno ucciso la meritocrazia». Solo nel 2022, il sindacato è entrato per la prima volta in un negozio Apple, per la precisione nel Maryland. Per Staglianò, interventi come il reddito di cittadinanza o il salario minimo, «pur non essendo la soluzione al problema, hanno arginato la povertà» e, come nel caso del salario minimo, rappresentano misure minime che non ha senso non accettare in un Paese democratico. Di certo – e come dargli torto -, «non dovrebbe creare più scandalo l’aumento delle tasse per i ricchi e gli ultraricchi e il tornare a una tassazione fortemente progressiva, oltre che l’investire sull’istruzione e sulla formazione dei lavoratori».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 ottobre 2024

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