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«Speranza, fatica e memoria: ecco la mia canzone per Aldro»

13 Dic

FEDERICO ALDROVANDI. A 20 anni dall’uccisione del giovane, Patrizio Fergnani gli ha dedicato il brano Il Coraggio di ieri è la strada di oggi. Lo abbiamo intervistato

di Andrea Musacci

Da alcuni giorni è disponibile su tutte le piattaforme online la canzone Il Coraggio di ieri è la strada di oggi, testo e musica di Patrizio Fergnani e riferita alla storia di Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni ucciso il 20 settembre 2025 da quattro agenti di polizia in zona Ippodromo a Ferrara. 

L’immagine di copertina scelta è a cura di Nicola Fergnani: si vede Federico sorridente a tavola durante una festa di compleanno a casa di Patrizio Fergnani il 3 ottobre del 2000.Ai tempi Federico aveva 13 anni.

Abbiamo incontrato Fergnani per farci raccontare la genesi e il senso di questo progetto musicale della memoria.

Patrizio, come e quando è nato in te il desiderio di comporre e quindi cantare questo brano? Possiamo dire sia stata una sorta di “urgenza” sopraggiunta nel tuo cuore?

«Quest’anno sono vent’anni dalla morte di Federico. Mi è capitato di incontrare più volte Lino, suo papà, e confrontarmi con lui su diversi temi partendo dalle nostre esperienze di padri. Ho trovato in lui una forza e una dignità che mi hanno toccato profondamente. Luigi Manconi, alla presentazione delle iniziative previste per ricordare Federico, mi ha emozionato rilanciando il dolore dell’esperienza vissuta come uno stimolo per guardare avanti. 

Ero un po’ scombussolato e ho provato a scrivere qualcosa con la chitarra e il piano: in un paio di giorni ho finito la canzone. Come dici tu è stata una specie di urgenza che ho vissuto pochissime volte». 

Raccontaci se vuoi del tuo legame con Federico e dell’amicizia storica con la sua famiglia.

«Federico è coetaneo e compagno di scuola di mio figlio Andrea: alla Sacra Famiglia sono stato catechista del loro gruppo dalla prima confessione alla cresima. È stato così che ho conosciuto Lino e Patrizia. 

Dopo la morte di Federico li ho seguiti “a distanza”, incapace di accettare fino in fondo la tragedia che li ha coinvolti. È un legame di solidarietà alimentato anche dalla conoscenza di Stefano, il fratello di Federico, amico di mia figlia Irene».

Quando e come hai reso partecipi i suoi famigliari e i suoi amici di questo tuo progetto di una canzone a lui dedicata? E come hanno reagito?

«Ai primi di luglio avevo la versione “grezza” della canzone: ho chiamato Lino e sono andato da lui a fargliela sentire. C’era anche sua mamma: per me è stato un momento molto intenso e loro, commossi, mi hanno incitato a proseguire. Insieme abbiamo scelto il titolo che è l’inizio dell’ultima strofa. 

Successivamente ho inviato la prima registrazione, fatta alla buona con lo smartphone, e il testo a Patrizia, la mamma di Federico: anche lei mi ha incoraggiato. A seguire ho inviato il tutto al gruppo degli amici del Comitato Federico Aldrovandi 2005–2025 che mi hanno inserito nel programma del concerto del 27 settembre. L’esecuzione poi è saltata a causa del fortissimo temporale che si è scatenato proprio nel tempo a nostra disposizione».

Come sempre capita per i tuoi progetti musicali, anche questo brano vede diverse collaborazioni artistiche: ce ne vuoi accennare? 

«Conosco i miei limiti da “chitarrista da parrocchia” e da pianista che ha smesso di studiare nel secolo scorso: per questo sono fortunato ad avere amici a cui posso rivolgermi. Corrado Calessi ha fatto un bellissimo arrangiamento e ha coinvolto musicisti di grande valore a cui si è aggiunta Erika Corradi con la sua bella voce (che supporta la mia che a volte rivela la mia emozione) e ha curato i riempimenti vocali. 

Abbiamo registrato nella taverna-studio di Corrado: per me una sensazione speciale sapendo che al piano di sopra abita il maestro Pierluigi Calessi che tanti lettori della Voce ricorderanno come direttore storico dell’Accademia Corale Vittore Veneziani. Era pronto ad accompagnarmi dal vivo anche un quartetto d’archi ma il temporale di cui sopra lo ha impedito».

In questo tuo brano ci trovo un’ambivalenza: da una parte un senso di sconforto, di disillusione, di crudo realismo nei confronti dell’ingiustizia che spesso sembra dominare questo mondo (la «menzogna», il «marcio», la «miseria» umana, «l’indifferenza»); dall’altra parte una speranza sempre viva (un futuro vivo, una luce che sempre si accende…). In quale tensione stanno i due poli, nel tuo cammino di fede e nella vicenda di Federico?

«La tensione fra questi poli penso sia il nucleo dell’esperienza di molte persone: sicuramente vale per me. Tra lo sconforto e la fiducia ci si muove quotidianamente: penso alla forza con cui Patrizia, Lino e Stefano affrontano ogni giornata da vent’anni a questa parte. Nella canzone ho espresso una possibilità inserendo nel ritornello il salmo 85 (“Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”): mi sembra uno slancio che non implica necessariamente uno sguardo di fede. 

Subito dopo, però, appare la fatica nella consapevolezza che “la speranza non è consolazione”».

Un’ultima domanda: quattro anni fa hai presentato il tuo brano dedicato a un’altra giovane prematuramente scomparsa, la Serva di Dio Laura Vincenzi. La storia di Laura e quella di Federico – pur diverse – hanno qualcosa in comune?

«Per me sono due canzoni nate entrambe quasi come volessero scriversi da sole e questo mi fa riflettere molto. Poi le loro diverse storie di sofferenza hanno in comune il coinvolgimento successivo di tante persone: Aldro vive con noi e Laura canta insieme a noi testimoniano una presenza importante.

Infine li immagino insieme, nel posto riservato a loro in Paradiso, a scrivere nuove canzoni da mandare qui da noi attraverso qualche persona».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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Il Vescovo Bovelli guida nel turbine della guerra

25 Nov

Dal suo epistolario negli anni 1943-45 emerge forte la figura del Pastor et defensor di Ferrara, alle prese con le autorità locali, con quelle d’occupazione, con i preti e altre personalità (Schönheit, Cadorna…): ecco le ricerche di Rossi e Piffanelli

di Andrea Musacci

“Questioni private” e affari pubblici. Aneddoti feriali, aspetti ameni e controversie gravi, drammatiche. È davvero un intero universo quello che emerge dall’epistolario di mons. Ruggero Bovelli (Vescovo dell’Arcidiocesi di Ferrara dal 1929 al 1954), in parte presente nel “Fondo Bovelli” conservato nel nostro Archivio storico diocesano. 

Alcune di queste missive sono state al centro dell’incontro pubblico svoltosi nel pomeriggio dello scorso 17 novembre nella sede dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO) di Ferrara. L’incontro dal titolo Un vescovo tra guerra e liberazione: Ruggero Bovelli “Pastor et defensor” nel 150° della nascita, curato da ISCO e promosso dalla Sezione di Ferrara dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani (ANPC), ha visto la presenza di oltre 50 persone e gli interventi dello storico e Consigliere nazionale ANPC Andrea Rossi e di Riccardo Piffanelli (foto piccola)dell’Archivio storico diocesano. L’iniziativa è stata introdotta dalla Direttrice ISCO Anna Quarzi («è un mio sogno – ha detto – quello di mettere il nome di Bovelli nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme») e dal Vicario Generale diocesano mons. Massimo Manservigi: «Bovelli – ha spiegato – fino all’ultimo è stato un uomo molto attivo. Ricordo anche il suo legame con don Calabria e il suo ruolo nella nascita della Città del Ragazzo. Sapeva sempre fare le scelte giuste e mantenere vive le comunità a lui affidate». 

TELEFONO, BICI E PNEUMATICI

«Il Fondo Bovelli – ha spiegato Piffanelli – è composta da 54 cartelle (buste) su 8 metri lineari. È quindi un fondo corposo, ma discontinuo, non sempre lineare».

Leggi l’intero articolo qui.

(Articolo pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025)

Anna Kolodziejczak: una storia del ‘900 tra guerra in Polonia e riscatto a Ferrara

22 Nov
Anna e Sauro Benassi

Padre polacco e madre indiana Lakota-Sioux, Anna nel ’44 in un campo di prigionia nazista incontra il bondenese Nessauro “Sauro” Benassi, che diventerà suo marito e col quale vivrà a Burana e Ferrara. Il figlio Carlo (morto nel 2020) ha raccontato la storia in un libro ora curato dalla vedova Magda Beltrami. Un’epopea tra impegno politico e fede, spaccato agrodolce del secolo breve

di Andrea Musacci

A 5 anni dalla scomparsa di Carlo Benassi, primo Segretario della Funzione Pubblica CGIL di Ferrara e Dirigente del Comune della stessa città, è stato pubblicato il libro da lui redatto dedicato alla madre Anna Kolodziejczak, di origini per metà polacche e per metà indiane d’America. Una storia affascinante che unisce Paesi diversi, che parla di guerra e del riscatto dell’amore, della politica come liberazione e del potere come oppressione. Il volume dal titolo “Anna. Le quattro dimensioni di una donna” è stato curato dalla vedova di Benassi, Magda Beltrami, docente di Fisica Ambientale, ricercatrice, saggista e curatrice di mostre documentarie e fotografiche. La pubblicazione promossa da SPI CGIL Ferrara (con testo di presentazione di Delfina Tromboni) viene presentata il 18 novembre nella sede della CGIL Ferrara (Camera del Lavoro di piazza Verdi) con inizio alle ore 17 e saluto di Sandro Arnofi (Segretario Generale SPI CGIL Ferrara), introduzione di Mara Guerra (insegnante), moderazione di Mario Mascellani (volontario SPI CGIL Ferrara) e presentazione a cura di Magda Beltrami.

TRA GLI INDIANI E LA POLONIA

Le origini di Anna sono complesse e affascinanti: suo padre Stanislaw, polacco di origini cosacche, era emigrato con la famiglia in America a inizio Novecento per sfuggire alle persecuzioni prussiane. Stanislaw sposa la giovane Theodosia, figlia di un guerriero indiano della tribù dei Lakota-Sioux, ucciso dall’esercito USA. I due hanno sette figli: la primogenita è Anna, nata a South Heart, nel Nord Dakota, nel 1917 e battezzata nella chiesa cattolica di San Bernardo a Belfield. La narrazione dei soprusi subiti dalla famiglia materna e dagli altri indiani nella terra natia non si interromperà mai nei suoi racconti.

Quando lei è adolescente, si trasferisce con la famiglia a Danzica, in Polonia. Qui, il cortile della fattoria della sua famiglia viene invaso il 3 settembre 1939 da due camionette di soldati tedeschi che requisiscono la casa e i terreni. La madre Theodosia è costretta a rimanere lì col figlio più piccolo per servire gli occupanti, il padre è mandato alla frontiera russa per lavori militari, i fratelli a lavorare in fabbrica in Germania, Anna a lavorare come domestica a Danzica in una famiglia benestante; dopo due anni viene portata nel vicino campo di lavoro nazista di Zoppot-Gdynia, dove rimarrà quattro anni. Conoscendo bene l’inglese, il polacco e il tedesco, almeno viene usata non solo per duri lavori manuali ma anche come traduttrice: quest’aspetto le salverà la vita, mentre molti muoiono per la fame e le vessazioni. 

L’AMORE NELL’ORRORE

Viene quindi trasferita nel campo di Oliwa (Stalag XX-B, a Marienburg-Danzica, sottocampo di Stutthof) e la fanno lavorare in Waggonfabrik, fabbrica per costruire motosiluranti per il Reich: è qui che conosce Nessauro Benassi, detto Sauro, militare (uno degli IMI – Internati Militari Italiani) fatto prigioniero a Scutari, in Albania l’8 settembre 1943, dopo aver combattuto in Grecia. Classe 1920, nato a Burana vicino Bondeno, viene arruolato giovane; e prima di Oliwa passerà per altri 5-6 campi, fra cui Thorn (Stalag XX-A) e Konigsberg. Scriverà: «Usciti dal campo di concentramento non eravamo più né uomini né donne, avevamo perso il senso, sia ben chiaro non eravamo più essere umani…». Nell’estate del ’44 i bombardamenti alleati su Danzica e dintorni mettono a repentaglio anche la vita dei due giovani. «Sauro lascia sempre ad Anna qualche piccolo segno del suo passaggio come quel berretto di lana che lei calcherà sulla testa per nascondere gli occhi ai bagliori delle bombe», scrive il figlio Carlo. A inizio ’45 i due sono tra i sopravvissuti dell’incendio delle baracche dove vivono causato dai tedeschi in fuga. Si salvano mangiando patate bollite e marmellata trafugata. Poi scappano insieme diretti verso la casa di lei, a Danzica, a 50 km, ma per prudenza si fermano prima, a Tczew: si muovono con «un carretto dissestato al quale Sauro sostituisce due ruote con quelle di una motocicletta abbandonata e sottrae ai tedeschi un cavallo ferito». 

NOZZE SPECIALI

Poi riescono ad arrivare nella casa di Anna, abbandonata e depredata, dove ritrovano parte della sua famiglia. Sauro visita una città lì vicino, Bydgoszcz, finalmente libero di girare, «sulla manica della giubba un’appariscente bandiera italiana» da lui assemblata e cucita. Grazie a diversi soldati italiani, la casa-fattoria di Anna viene ristrutturata, «si riprende la lavorazione della terra e si produce wodka fermentando patate e crusca», wodka che usano come mezzo di baratto. Nel settembre ’45 Anna e Sauro si sposano nel Campo Internazionale Prigionieri Liberati n. 163 della Croce Rossa Italiana, a Bydgoszcz. Il celebrante è don Pierino Alberto, Cappellano militare del 6° Reggimento Alpini, Brigata “Val Chiese”: «i loro abiti sono stati confezionati con tendaggi e vecchie coperte tedesche», il pranzo nuziale è «servito su tavoli assemblati con porte e finestre». Questo il menù: «tagliatelle cucinate da italiani, capriolo cacciato nei boschi vicini ed abilmente scuoiato e cucinato da Theodosia, torta preparata con moltissimo burro recuperato per l’occasione e decorata con gusto e tanta, tanta wodka».

NUOVE GIOIE, NUOVE LOTTE

Nel gennaio ’46 Anna e Sauro vanno a vivere in Italia, con loro «quattro capienti valigie di legno» da lui costruite; partono il 4 gennaio, il 22 sono a Burana: Anna si segna nel diario tutte le tappe del viaggio; ma per lei ora iniziano nuove difficoltà: «non parla italiano ed è solo “la polacca”. Questo appellativo marcherà la diffidenza nei suoi confronti e ne dichiarerà la marginalità».

Intanto il marito diventa funzionario della CGIL, lavorando a Ferrara (nel ’48 diventa primo Segretario dei pensionati CGIL) e in Sicilia, negli anni del bandito Giuliano («passa le notti in luoghi sempre diversi e tiene una pistola sotto il cuscino»), fino all’aprile del ’48, quando nasce suo figlio Carlo. Anna non solo non si abbatte nonostante la solitudine e le diffidenze della gente, ma sceglie di impegnarsi, di essere una donna attiva, soggetto di trasformazione: così, nel 1947 aderisce al Partito Socialista Italiano. Ma la Guerra Fredda e la rigidità del regime polacco le danno ulteriori motivi di sofferenza: «La corrispondenza con i genitori è censurata, spesso non parte o neppure arriva e se arriva è aperta, violata», quindi «si riduce allo scambio di banali informazioni e alla trasmissione di fotografie. A lei ormai cittadina italiana è negato il permesso di ingresso in Polonia per gli undici anni successivi». Nella sua patria, il padre Stanislaw aderisce al Partito Unificato Contadino (ZSL), satellite obbligato del Partito Operaio Unificato Polacco, ma che nel 1989, in nome di un socialismo agrario non stalinista, appoggia Solidarnosc.

La resistenza attiva di Anna continua – nel ’50 il Tribunale di Ferrara la nomina interprete ufficiale per la lingua polacca, a metà anni ’50 si trasferiscono a Ferrara – ma l’aver contatti con un Paese sovietico e l’esser moglie di un sindacalista le faranno perdere il lavoro. Tornerà quindi alla fatica nei campi e nel ’57, grazie alla CGIL, riuscirà a compiere un viaggio in Polonia col figlio: Sauro è già lì, partito con una delegazione sindacale in visita al Paese. La famiglia trascorre alcuni mesi felici. Lei negli anni tornerà più volte nella sua patria, ora triste e senza libertà. Nel ’65 avrà l’onore di poter fare la traduttrice in occasione delle celebrazioni per il gemellaggio tra l’Università di Ferrara e quella polacca di Torun.

QUELLA MADONNA NERA

Nel ’46 un giovane li aveva accompagnati nel viaggio, fino a Udine, aiutando Anna con le pesanti valigie: indossava la divisa dell’esercito italiano, si diceva istriano, parlava varie lingue ma male l’italiano. Molti anni dopo, l’allora parroco di Bondeno mons. Guerrino Ferraresi «porge a Sauro i saluti di un alto prelato che viveva in Vaticano»: era quel misterioso ragazzo, un russo in fuga dal suo Paese per farsi prete. Sauro allora lo incontra a Roma: l’emozione è grande. 

Il tempo passa, nel ’76 il figlio Carlo si sposa, e ad Anna e Sauro sono riconosciute onoreficenze: entrambi ricevono il diploma d’onore di Combattenti per la Libertà d’Italia 1943-1945 e lei anche quello di Deportata Politica non Collaborazionista. Ma una malattia invade il corpo e la mente di Anna: schizofrenia senile: allora «prega la Madonna nera di Czestochowa, trova conforto e si sente meno sola»: “Una cura serve più di una candela accesa davanti alla Madonna?”, si chiede.

Una domanda che facciamo nostra.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Shoah, fare memoria del male per un avvenire diverso 

5 Feb

A S. Spirito “Il giardino dei Finzi Contini” con dibattito. Il terrore e quel finale dolce

di Andrea Musacci

L’urgenza non solo della memoria del male che è stato, ma della denuncia di quello che è ancora e del rischio di quel che potrà essere. E l’urgenza contro il tempo che corre e che rischia di seppellire il ricordo di quei fatti. Di questo si discute ogni Giorno della Memoria – e non solo -, perché gli anni passano e il periodo in particolare fra il 1938 (entrata in vigore delle leggi razziali nel nostro Paese) e il 1945 si allontana sempre più, forse anche dalla coscienza e dal cuore delle nuove generazioni.

Di questo si è riflettuto la sera dello scorso 27 gennaio nel Cinema S. Spirito di Ferrara in occasione di un incontro promosso dallʼUfficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso, che ha visto la presenza di circa 120 persone. La proiezione della versione restaurata de “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica (’70) è stata preceduta da un momento di confronto – moderato da Alberto Mion – che ha visto gli interventi del nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego, di Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS Ferrara), di Anna Quarzi (ISCO Ferrara) e Carlo Magri (docente UniFe ed esperto di cinema locale).

IL DIBATTITO: DOVERE E DIFFICOLTÀ DEL RICORDARE

«Bisogna sempre cercare il dialogo e prestare attenzione all’antisemitismo che dà segnali preoccupanti. Mai dimenticare l’importanza della relazione con l’altro e con la diversità, anche religiosa», ha detto il Vescovo. Dicevamo della memoria, e Spagnoletto ha così esordito: «Mi interrogo sempre su quale sarà il futuro della memoria della Shoah». Ha poi raccontato un aneddoto su Edith Bruck, scrittrice classe ’31 di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz e ad altri campi tedeschi: «ieri l’ho intervistata. “Testimonierò – mi ha detto – finché avrò un alito di vita. Ritengo che i semi che abbiamo piantato daranno frutti”. Liliana Segre invece è molto preoccupata che fra qualche anno sulla Shoah possano rimanere solo poche righe nei libri di scuola». 

Ricordiamo che il giorno successivo, Edith Bruck si è collegata con la nostra città in un incontro organizzato dal MEIS e riservato alle scuole. Al MEIS «in questi giorni – ha spiegato quindi Spagnoletto – abbiamo promosso ancor più visite del solito. Il nostro impegno è rivolto soprattutto ai più giovani, con attività pensate appositamente per loro. L’ultimo anno è stato difficile». Il riferimento è alla strage del 7 ottobre 2023 e alla guerra: «spesso nella comunicazione e nel dibattito alcuni decontestualizzano la Shoah e fanno un uso sbagliato delle parole». La memoria, invece, «è come un giardino che va annaffiato costantemente. E le erbacce – antisemitismo, razzismo, mancanza di dialogo – vanno tolte di continuo. Per voi, essere qui stasera – ha concluso -, significa voler ricordare le responsabilità che anche la città di Ferrara ha avuto dal 1938 al ‘45».

Senza nulla togliere al regime di terrore instaurato dal Fascismo fin dai suoi esordi (e prima di prendere il potere), giustamente Quarzi ha ricordato come a Ferrara fino al 1938 il podestà fosse ebreo (Renzo Ravenna), così come ebrei erano il Presidente della Cassa di Risparmio, quello dei Consorzi Agrari e i Presidi dei Licei Classico e Scientifico. «Nel film – ha proseguito – la tragica perdita dei diritti viene narrata in un’atmosfera ovattata: Ferrara è “la città dalle persiane socchiuse”, come la chiamò Guido Fink. Ed è la stessa Segre a parlare spesso del pericolo dell’indifferenza». 

Magri ha poi raccontato diversi aneddoti legati alla genesi e alla realizzazione del film, partendo anche dal suo recente libro “Ferrara, città e provincia nel cinema”, dov’è presente anche un capitolo sulla “Ferrara ebraica”. «De Sica all’inizio non era molto propenso a girare il film – ha detto -, avendo dubbi su alcuni aspetti della sceneggiatura, ad esempio sull’uso dei flashback».

IL FILM: DOLORE E SPERANZA NELLA REALTÀ

La famiglia protagonista del romanzo di Bassani, e poi del film di De Sica, è ispirata a quella dei Finzi Magrini: Silvio Finzi Magrini ha infatti “suggerito” nello scrittore la figura di Ermanno Finzi Contini, capostipite della casata e padre di Micòl. I Magrini a Ferrara vissero al numero 76 di via Borgo dei Leoni. «Persino il cane Ior che si vede nel film – ha spiegato Quarzi – è identico a quello della famiglia Magrini». Nella pellicola, la dolce atmosfera di una serena giornata di sole sembra rompersi, quasi fin da subito, per la presenza del cane che enorme giace poco dopo il grande ingresso, intimorendo così i giovani diretti verso il campo da tennis. Non fa male, non aggredisce, non aggredirà: di lui si può dire, non di quella fiera disumana che è il nazifascismo. Alberto (Helmut Berger), fratello di Micòl (Dominque Sanda), confessa il timore di essere aggredito là fuori, gli altri no, non si sa se per incoscienza o rimozione di ciò che li terrorizza. Sta di fatto che man mano che le vicende si susseguono, anche la luce esterna si spegne sempre più, il buio diventa padrone. Quel buio nei cuori, che non concede rifugio né pietà. Nemmeno le mura di cinta della proprietà dei Finzi Contini – che sembra sconfinata – sono sufficienti per evitare l’avanzata del male. E l’assurdo dell’Olocausto è anticipato dall’assurdo di Micòl che nega il proprio amore (antico e ancora vivo) per Giorgio (Lino Capolicchio): come se la morte terribile che la attende iniziasse a roderla dentro nella forma dell’odio, dell’isolamento che stringe lei e gli altri ebrei in una lenta morsa fatale. 

Solo la sequenza finale sembra poter restituire – a noi, inerti spettatori – un ricordo e un sogno della sua bellezza, della sua giovinezza spensierata. Sulle note di “El Maalè Rahamim” (canto poetico in lingua ebraica usato come preghiera per le persone morte di morte violenta), Micòl, Alberto e gli amici sembrano venirci incontro trasfigurati, coi loro corpi e col loro amore folle della follia dei bambini. 

«Che dunque il Signore di Misericordia / lo nasconda tra le Sue ali per sempre / e avvolga la sua anima nella vita eterna. / Dio sia la sua eredità / e possano riposare in Paradiso».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 febbraio 2025

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Dagli angeli ai suini: una Porta, mille usi

21 Dic

Porta degli Angeli a Ferrara. Perché da molti è chiamata “Casa del boia”? Ecco alcune ipotesi

di Andrea Musacci

A volte le vicende della storia rendono l’identità di un luogo tormentata, complessa, imprevedibile. E capita anche che nessuna tragedia si tramuti in farsa ma che un’ironia diabolica trasformi spazi di lusso e potere in patiboli, veri o immaginari. È il caso della Porta degli Angeli, stupenda e travagliata (spesso abbandonata o sottoutilizzata) struttura alla fine di corso Ercole I d’Este, luogo di fascino e ristoro per “pellegrini” più o meno sportivi che amano solcare il lungo braccio murario di Ferrara. Soglia, anche, fendente la città all’altezza del Parco Urbano.

Da molti ancora denominata “Casa del boia” (“Ca’ dal boia”), ma a torto: questo inganno deriva dalla falsa convinzione che o la Porta stessa o l’edificio antistante, oggi sede del “Tiro a Segno Nazionale”, anticamente ospitasse la residenza del temuto carnefice. Di sicuro, diverse in passato furono le abitazioni cittadine del boia. Una, documentata, al civico 27 di via San Romano, di fianco al Museo della Cattedrale. Un’altra in quella che nel 1908 diventò via della Concia. Oppure, come scrive Francesco Scafuri, la denominazione “Casa del Boia” applicata alla Porta degli Angeli «è entrata da qualche tempo nell’uso comune di molti ferraresi forse perché la storica costruzione prima dei restauri appariva isolata, poco illuminata, assumendo così un aspetto quasi sinistro» (“Porta degli Angeli o Casa del boia?”, cronacacomune.it, 2002). O ancora, «forse alle “grida” dei maiali al macello, così simili a quelle umane, si deve il nome di casa del boia», ipotizza Silvana Onofri (“Archeologia urbana. La Porta degli Angeli e le mura rossettiane”, “Quaderni dell’Ariosto”, n. 62).

VARCO DEI POTENTI

Di certo, c’è che la Porta che prese il nome dalla vicina chiesa di Santa Maria degli Angeli (distrutta nel XIX secolo), era stata prevista alla fine del Quattrocento nel piano dell’Addizione Erculea in fondo alla via degli Angeli (oggi Corso Ercole I d’Este) in ricordo del duca che, insieme all’architetto Biagio Rossetti, realizzò a partire dal 1492 l’ampliamento della città a nord del Castello Estense. «Nel periodo estense – scrive ancora Scafuri – la Porta degli Angeli era considerata una delle strutture più prestigiose dell’intera cerchia muraria, perché di norma da qui entravano ed uscivano non solo i duchi quando si recavano a caccia nel Barco (oggi “Parco Urbano”), ma anche i personaggi importanti e gli ambasciatori; questi ultimi erano sottoposti in ogni caso ad un accurato controllo in prossimità ed in corrispondenza della Porta, difesa da un efficiente sistema militare. Tra i nobili che la attraversarono, ricordiamo il futuro re di Francia Enrico III, che nel 1574 fu accolto da un arco trionfale, allestito per l’occasione proprio nei pressi del “nobile accesso”». E come scrive ancora Onofri, «tradizione vuole che da questa porta sia uscito Cesare d’Este, l’ultimo duca di Ferrara quando, nel 1598, la città fu devoluta allo Stato Pontificio e che immediatamente dopo, in ricordo dell’evento, il fornice a nord sia stato murato. Si tratta solo di una leggenda, dato che nel XVIII secolo la porta era ancora aperta con funzione di dogana».

MATTATOIO E CASA DI FAMIGLIA

È documentato, invece, che dal 1820 divenne un macello – o mattatoio – per maiali e poi magazzino e polveriera. A proposito di questa ultima truce dimora dei suini, lo scavo effettuato nel 1986 nell’area immediatamente a Sud della Porta ha rivelato un piccolo pozzo a destra della porta e parte di muri perimetrali dei box, appartenenti alle strutture del macello. Inoltre, le Mura divennero terreno rustico prativo concesso in appalto per la falciatura e raccolta dei foraggi e il camerone della Porta usato come magazzino. E infine, fino al 1984, abitazione privata: «dal 1945 al 1984 (…) la struttura era diventata casa d’abitazione di una famiglia affittuaria del Comune: nonni, figlia, genero e due nipoti. Il genero era falegname e aveva il suo laboratorio sopra la torre, i suoi due figli vi erano nati e adolescenti scorrazzavano nel sottomura, dove era anche l’orto tenuto dai nonni» (articolo a cura di “Arch’è”, cronacacomune.it, 2012).

DALLE TORTURE AL TURISMO

Dopo anni di quasi totale inutilizzo, in futuro la Porta degli Angeli diverrà il punto di riferimento per promuovere la fruizione turistica e culturale del sito UNESCO “Ferrara città del Rinascimento e il suo Delta del Po”. «All’interno dell’edificio – è stato spiegato dal Comune – sarà allestito un percorso di visita, sviluppato sulle due sale al piano terra. (…) Il percorso guiderà i visitatori attraverso testi, immagini e video alla scoperta del patrimonio culturale e naturale identificativo dei riconoscimenti per l’inserimento di Ferrara e il suo Delta del Po nella lista del patrimonio mondiale».

(Oltre alla citata Onofri, grazie anche a Claudio Gualandi, Linda Mazzoni, Carlo Magri e Marialucia Menegatti per l’aiuto)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024

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La Ferrara di Pasolini: in Borgo dei Leoni abitò uno zio pilota

12 Dic

Il ferrarese Naldini sposò una zia materna del noto intellettuale. Ecco la storia di questa famiglia, le parole inedite di una cugina di Pasolini e altri aneddoti

di Andrea Musacci

Molto è stato scritto dei profondi legami tra Pier Paolo Pasolini (PPP) e l’Emilia-Romagna: le origini ravennate, gli anni a Bologna, quelli a Parma e a Scandiano. Ma poco o nulla si sa delle parentele ferraresi del grande intellettuale tragicamente scomparso nel 1975.

Enrichetta, una delle zie materne di Pasolini, infatti, sposò un ferrarese, Antonio Naldini. Pilota di auto da corsa (e nei registri di leva indicato come chauffeur), Antonio nasce a Ferrara il 26 maggio 1893, ed è figlio di Massimo Naldini, cuoco, che sposa Ernesta Chiozzi, possidente. Sarà la guerra a portare Antonio in Friuli – a Casarsa, terra di Pasolini -, assieme a Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo.

L’ALBERO GENEALOGICO

Ma ricostruiamo la parte dell’albero genealogico che ci interessa. 

I nonni materni di Pier Paolo Pasolini (PPP) sono Domenico Colussi e Giulia Zacco: i due hanno sei figli: Vincenzo (morto a 19 anni in USA in circostanze misteriose); Susanna (morta nell’81 a Udine), che nel dicembre ’21 sposa il ravennate Carlo Alberto Pasolini e i due avranno Pier Paolo e Guidalberto, quest’ultimo partigiano cattolico ucciso dai titini nel 1945 nell’eccidio di Porzûs; Chiarina; Giannina; Luigi (detto “Gino”); Enrichetta. Quest’ultima, sarta (aprì a Casarsa una sua bottega), è così descritta da Siciliano, biografo di PPP: «ha il sorriso dolcissimo: la testa bianca, il fisico abbandonato in una mollezza da buona madre di famiglia: una corporatura che addita una positiva sensibilità». Enrichetta sposa il ferrarese Antonio Naldini e i due hanno tre figli: Domenico (detto “Nico”, scrittore e poeta), Anna Maria (1918-2002, detta Annie) e Franca. Quest’ultime due sono nate a Ferrara. Anna Maria sposa Umberto Chiarcossi e i due hanno due figlie: Graziella e Giulietta (classe 1941). Franca, invece, sposa Giorgio Mazzon e anche loro hanno due figli, Guido e Margherita. 

I PARENTI ESTENSI DI PASOLINI

Il nostro Antonio Naldini aveva un fratellastro «fornaio e comunista», Giuseppe Naldini (nato a Ferrara il 31 ottobre 1899 e morto il 9 febbraio ’51), che Carlo Alberto Pasolini, fascista, sembra volesse denunciare come “sovversivo”; Giuseppe ebbe una figlia, Ernesta (o Ernestina), nata nel 1921. Antonio aveva anche una sorellastra, Rosa Naldini, nata a Ferrara il 14 gennaio 1898 ed emigrata a Casarsa il 4 ottobre 1923, forse assieme ad Antonio. 

Giuseppe e Rosa erano figli di Massimo Naldini ed Ernesta Chiozzi. Antonio Naldini è figlio di Massimo, e risulta come figlio di Ernesta Chiozzi solo nei registri di leva (non in quelli dell’Archivio Storico comunale di Ferrara): nato 5 mesi dopo il loro matrimonio, o è frutto di una relazione extraconiugale del padre (madre ignota), oppure la famiglia Naldini è una famiglia affidataria e Antonio era un bambino esposto. 

Dall’Archivio Storico comunale di Ferrara risulta che dal 1901 la famiglia Naldini abita in via Borgo dei Leoni, 132.

I COLUSSI A FERRARA DAI NALDINI

Nel libro “Storia di una casa. Pier Paolo Pasolini a Casarsa” si racconta come “Casa Colussi” – la casa di Casarsa della famiglia Colussi (la madre, le zie e i nonni materni di Pier Paolo) – fu da loro abbandonata dopo Caporetto nell’ottobre 1917 e occupata dalle truppe austriache dilagate in Friuli. Scrive Enzo Siciliano nella “Vita di Pasolini”: «Al momento della ritirata di Caporetto, i Colussi sfollarono: si rifugiarono a Ferrara presso i Naldini, la famiglia del fidanzato di Enrichetta».

Al ritorno, le cose non andavano bene, ma anni dopo «Enrichetta aprì una cartoleria accanto al portoncino d’ingresso» di Casa Colussi. 

Dopo la morte del vecchio Domenico – avvenuta nel 1928 -, al primo piano ci andarono ad abitare anche i coniugi Enrichetta e Antonio Naldini, e successivamente anche i loro figli Anna Maria, Franca e Nico.

IL RACCONTO DI NICO NALDINI

Domenico “Nico” Naldini – morto nel 2020 a 91 anni nella sua casa di Treviso – in un’intervista al Corriere della Sera nel 2011 racconta così del padre Antonio: «Mio padre, che era un pilota di automobili da corsa, dopo il matrimonio, a 21 anni, ebbe il morbo di Parkinson. Venne ricoverato in cliniche di lusso con medici che promettevano la guarigione in cambio di quote mensili tremende: in realtà per calmarlo un po’ allora c’era solo l’estratto di belladonna. Mia mamma spese così anche i soldi che non aveva e l’infanzia mia e delle mie due sorelle fu di totale povertà». Suo padre sarebbe morto nel ’50 corroso dalle medicine: «Non ho avuto rapporti con lui, se non nell’aiutarlo a vestirsi o a scendere le scale. Mia mamma l’ha difeso anche contro di noi: era dedita completamente a lui e si inventò diversi mestieri, per colmare i debiti».

Nel 2014, il Palazzo delle Esposizioni a Roma ospita la mostra “Pasolini Roma”. In un incontro legato alla mostra, Nico Naldini parla così di Enrichetta: «mia madre era segretaria del fascio femminile e quindi [in occasione delle adunate fasciste] si portava 2-300 contadine e le raccomandava di battere le mani (…)». Un lato oscuro della zia di Pasolini, ma che purtroppo accomunò tanti in quel periodo.

GRAZIELLA CHIARCOSSI: «QUEL MIO NONNO MALATO»

Abbiamo contattato Graziella Chiarcossi per farci raccontare quel che ricorda di suo nonno Antonio Naldini. Graziella, nata a Casarsa nel ’43, vedova del noto scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami (dal quale ha avuto un figlio, Matteo), visse insieme a PPP e a sua mamma Susanna a Roma dai primi anni ’60 (dove quest’ultimi due si erano trasferiti nel ’50, con l’aiuto di Gino, fratello di Susanna, antiquario, che viveva già nella Capitale). A Roma si iscrive e laurea alla Facoltà di Lettere, poi nella stessa Università diventa contrattista. Tornando ad Antonio Naldini, Graziella racconta alla “Voce”: «Il mio unico ricordo diretto è legato al giorno della sua morte a Casarsa della Delizia, nella vecchia casa di famiglia. Mio zio, Nico Naldini, non ha voluto che mia sorella e io entrassimo in camera perché eravamo bimbe». Siamo nel ’50, Graziella ha 7 anni. «Nei miei ricordi – prosegue -, nonno Antonio è solo una persona malata. E per lungo tempo dopo la sua morte ho fatto compagnia a nonna Enrichetta dormendo nel lettone insieme a lei».

PPP A COMACCHIO CON BASSANI

Dalle “Lettere 1940-1954” di PPP e dal libro “Pasolini Requiem” ricostruiamo almeno in parte i giorni in cui PPP venne nelle Valli comacchiesi. Ai primi di marzo del 1954 Pasolini e Bassani, ormai amici, partono insieme in macchina da Roma «alla volta di Ferrara, per compiere sopralluoghi nelle paludi di Comacchio» per la sceneggiatura del film “La donna del fiume” assieme al regista Mario Soldati. Il 14 marzo ’54 da Roma PPP scrive a Biagio Marin che è a Trieste: «Caro Marin, sono secoli che devo scriverti, ma: prima ho dovuto fare un viaggetto a Ferrara e Comacchio, e son tornato a Roma con un’angina e il connesso febbrone […]». Disguido di cui parlerà anche in un’altra lettera del 29 marzo 1954 da Roma a Leonardo Sciascia. Oltre a Bassani, Pasolini ebbe anche un’altra amicizia ferrarese: quella con la poetessa e traduttrice Giovanna Bemporad (Ferrara, 1923 – Roma, 2013), anch’essa studentessa al Liceo “Galvani” di Bologna e che con PPP trascorse il periodo della guerra vicino Casarsa.

FRAMMENTI DALLE LETTERE

Dei legami fra PPP e Ferrara esistono anche tracce frammentarie ma che dicono di una relazione del poeta con la nostra città, indebolitasi sempre più dagli anni ’60. L’11 febbraio 1950, PPP è da poco arrivato a Roma con la madre. Scrive all’amica Silvana Mauri: «Mia madre, forse, si sistemerà presso una signora di Ferrara, molto simpatica: la sistemazione sarebbe ottima: ma se la cosa non dovesse andar bene, allora mi rivolgerei senz’altro a quella tua amica». Chi è questa signora di Ferrara? Mancando altri riferimenti, vien comunque da pensare la madre non sia mai stata sua ospite. Il padre Carlo Alberto, poi, li raggiungerà a Roma. Il 10 luglio 1955 PPP da Bolzano invia questa lettera ai genitori: «Miei carissimi, sono stato due giorni a Ferrara. Adesso sono di nuovo a Bolzano, ma solo per questa sera: domani mattina partiamo per Ortisei dove ci fisseremo definitivamente a lavorare per 20 giorni». A Ortisei, PPP avrebbe realizzato con Giorgio Bassani e col regista Luis Trenker la sceneggiatura del film “Il prigioniero della montagna”. Ma non spiega perché si è fermato due giorni a Ferrara: forse con Bassani, suo ospite? Non vi è traccia sul “Carlino” locale dell’epoca. Un altro mistero estense è nella lettera del novembre 1956 che da Roma scrive a Nico Naldini a Casarsa, dove PPP cita un misterioso «vitellone ferrarese»…

In un’altra lettera da Roma del 4 dicembre 1958 ai redattori di “Officina” a Bologna, PPP scrive: «[…] A Milano non potrò esserci il tredici, perché devo lavorare alle mie quattrocento pagine. Però è quasi sicuro che verremo a passare il natale e il capodanno in Emilia (Parma, Ferrara, Ravenna e Bologna) con Moravia e la Morante: così ci vedremo mentre “Officina” è nel forno […]». Il 19 dicembre 1958 a Roma, però, muore suo padre, e quindi forse PPP rimanderà queste vacanze per stare con la madre. Un altro legame di PPP col nostro territorio riguarda il suo periodo come studente al Liceo Galvani di Bologna: qui, tra i professori ebbe il centese Mario Borgatti, esperto di dialetto e cultura tradizionale. Infine, nel luglio 1959 PPP è a Siracusa e nel suo diario scrive: «Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa». Un “declassamento” che non intacca l’amore di Pasolini per la nostra città.


Alcune sue visite dal 1953 al ’70

Il 21 settembre 1953 PPP visita Casa Ariosto a Ferrara, come risulta dal registro delle firme. Sul “Giornale dell’Emilia” dell’epoca non vi è, però, traccia. Era, forse, in visita privata con Bassani? Tornerà a Ferrara il 26 febbraio 1962 per intervenire a Casa di Stella dell’Assassino in un incontro organizzato dal Comitato Cittadino Manifestazioni Culturali. Infine, Vittorio Sgarbi nel catalogo “Arte e letteratura nel nome di Roberto Longhi. Bassani, Pasolini, Testori” racconta di aver incontrato Pasolini nel 1970 a Casa Ariosto.

FONTI BIBLIOGRAFICHE

P. P. Pasolini, “Lettere 1940-1954”, 1986. P. P. Pasolini, “Lettere 1955-1975”, 1986. Angela Felice (a cura di), “Storia di una casa. Pier Paolo Pasolini a Casarsa”, 2015. Barth David Schwartz, “Pasolini Requiem”, 1992. Enzo Siciliano, “Vita di Pasolini”, 1978. Nico Naldini, “Mio cugino Pasolini”, 2000. Davide Ferrari, Gianni Scalia (a cura di), “Pasolini e Bologna”, 1998. Alessandro Gnocchi, “PPP. Le piccole patrie di Pasolini”, 2022. Simonetta Savino, Alda Lucci (a cura di), “Bassani, Pasolini, Trenker: una singolare collaborazione”, 2010.

Grazie a Riccardo Piffanelli (Archivio Storico Arcidiocesi Ferrara-Comacchio), all’Archivio Storico comunale di Ferrara e all’Archivio di Stato di Ferrara.

(Foto: http://www.artribune.com)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2024

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Gesuiti missionari in Paraguay: evangelizzare senza violenza

6 Dic

Il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri (con prefazione di don Andrea Zerbini) indaga, tra il 1609 e il 1768, l’opera educativa e spirituale in Sud America

Si intitola “Gesuiti e missioni in Paraguay (1609-1768). Evangelizzazione ed educazione dei guaraní” il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri, con prefazione di don Andrea Zerbini, Moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado ed ex Direttore del nostro Centro Missionario diocesano. Il libro è stato presentato lo scorso 21 novembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara e Maestri ne ha inviato copia al Santo Padre Francesco il quale, tramite la Segreteria di Stato, le ha risposto in tempi brevi con un ringraziamento e la Benedizione Apostolica. 

L’autrice è stata Cultrice della materia a UniFe, docente alle Superiori e oggi fa parte della Redazione della rivista letteraria “L’Ippogrifo”, del Direttivo del Gruppo Scrittori Ferraresi, ed è Presidente dell’Associazione di promozione sociale “Baffo John Potter”. 

AUTONOMIA E OBBEDIENZA

L’elezione a Pontefice del gesuita Jorge Mario Bergoglio – scrive nel libro – ha «incentivato ancor più il mio desiderio di rivedere e pubblicare uno studio affrontato negli anni ‘93/’94 in occasione della mia tesi di laurea in Pedagogia», relatore il prof. Carlo Pancera. Ricca la bibliografia utilizzata, con testi conservati in archivi, biblioteche e presso la Casa Madre dei Gesuiti per consultare la Litterae Annuae, lettere che i missionari da oltreoceano inviavano a Roma per la rendicontazione ai loro superiori. Di particolare importanza e utilità nel suo studio, un manoscritto spagnolo del XVIII secolo custodito presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’Exacta relación de las missiones del Paraguay, «scritta da chi ha vissuto direttamente l’esperienza e, una volta espulso dal Paraguay, è stato mandato nello Stato pontificio». Da questo studio – spiega – «è emersa una pedagogia gesuitica nella quale convivono il rigore delle regole e dell’obbedienza, l’autonomia e la flessibilità degli esercizi spirituali, voluti dal fondatore della Compagnia di Gesù Sant’Ignazio di Loyola nel 1534. Un umanesimo ignaziano in cui il missionario sa aprirsi alla popolazione indigena guaranì».

MISSIONARI, UNO STILE DIVERSO

Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo la Spagna e il Portogallo dettero avvio alla conquista e alla colonizzazione del continente americano recentemente scoperto: «da un lato – scrive Maestri – l’Europa esporta in Sud America i propri strumenti e modelli culturali, mentre dall’altro lato il contatto con il nuovo continente si traduce in occasione di sperimentazione di nuove forme di governo e di rinnovamento dell’Europa stessa». Questo processo riguarda soprattutto il Paraguay. «Alla conquista delle armi succede la conquista spirituale che, oltre al ruolo evangelizzatore, assume il compito di formulare nuovi strumenti di comunicazione e di omogeneizzazione della società indigena». I gesuiti avranno il monopolio sul Paraguay, dove daranno vita a collegi urbani, riduzioni (i nuovi villaggi creati dai missionari in cui gli indigeni vivevano in pace assieme ad altri gruppi), Università e centri di cultura, «assumendosi la tutela e la difesa degli indios dagli effetti devastanti della colonizzazione». Nelle riduzioni paraguiane «è certamente la Compagnia di Gesù che conduce il dialogo, ma il modello che esporta si coniuga con una pluralità di modelli (…). In pratica, accanto al disegno progettuale dirigisticamente perseguito, si instaura anche una sorta di processo osmotico, una dialettica tra le due culture». «Le riduzioni gesuitiche si proponevano per la trasformazione della società indigena e lavoravano per dare stabilità e continuità a questo processo», commenta don Zerbini nella Prefazione. «L’ambizione era di ricondurre un popolo bambino e indigente a una collettività urbana, strutturata come città educante capace di generare una cittadinanza laboriosa. Un nuovo modello sociale aperto all’autonomia e fondato sui diritti dell’altro (…). Ne risultò un modello poliedrico i cui elementi costitutivi erano radicati nell’umanesimo cristiano e recepivano, integrandoli, gli aspetti comunitari-collettivi mutuati dalla cultura incaica dei nativi».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024

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Donatello riemerso a Ferrara: Marco Scansani ci racconta la sua scoperta

13 Nov

In una collezione privata vicino S. Stefano, il giovane ricercatore ha trovato la metà di una terracotta  raffigurante i funerali della Vergine Maria, opera di Donatello del 1450 (l’altra metà è stata rubata nel 1916), oltre a due frammenti con alcuni evangelisti. La nostra intervista

a cura di Andrea Musacci

«Mi trovavo a Ferrara per portare avanti la mia indagine sulle terrecotte ferraresi tra XV e XVI secolo. E nella collezione di un privato in zona Santo Stefano ho ritrovato un frammento particolare: ho capito subito fosse la metà mancante di una terracotta di Donatello raffigurante i Funerale della Vergine Maria. L’emozione è stata indescrivibile». 

Marco Scansani, 32 anni, è assegnista di ricerca dell’Università di Trento e autore del libro “Il fuoco sacro della terracotta” (Tre Lune ed., settembre 2024). Laureatosi all’Università di Bologna, ha conseguito il Dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Quando lo raggiungiamo al telefono per farci raccontare la sua scoperta, percepiamo la gioia ancora viva nel ripensare a questo risultato imprevisto. Che non si limita a quel frammento “bozzetto”: nella stessa collezione privata, infatti, ha trovato anche altre due terrecotte a suo tempo scoperte da un avo dell’attuale proprietario in un pozzo di questa casa privata e rappresentanti due evangelisti: «Anche in questo caso mi sento di attribuirle a Donatello», prosegue Scansani. Donatello che «è documentato fosse a Ferrara nel 1450», oltre che a Modena e Mantova, anche l’anno successivo. Nella sua Firenze vi farà ritorno tra fine 1453 e inizio 1454. Ma per il genio fiorentino fu un periodo stranamente improduttivo. O forse non del tutto. In ogni caso, «in quel momento tutti lo volevano, dai Gonzaga agli Este. Lui andava dal miglior offerente ma poi si disamorava delle commissioni».

Scansani, parliamo innanzitutto del progetto di mappatura delle terrecotte quattro-cinquecentesche in area padana: di cosa si tratta? 

«Il Progetto C.Re.Te. (Toward a Catalogue of Renaissance Terracotta Sculpture in North Italy) coordinato dal prof. Aldo Galli (Università di Trento) e dal prof. Andrea Bacchi (Università di Bologna), finanziato con fondi PNRR (PRIN – Progetti di Rilevante Interesse Nazionale), si occupa della catalogazione di tutte le sculture in terracotta realizzate in area padana tra il XV e il XVI secolo. Stiamo realizzando il primo database di tutte queste opere. Al termine del progetto sarà liberamente fruibile online. Io sono assegnista di ricerca presso l’Università di Trento proprio per questo progetto e proprio l’indagine sulle terrecotte ferraresi mi ha portato a scoprire quei bozzetti di Donatello».

Partiamo da oltre un secolo fa. Anno 1916: ritrovamento del frammento nella chiesa di Santo Stefano a Ferrara, donazione e furto. Ci racconta un po’ meglio? Dove si trovava di preciso? E perché fu attribuito a Donatello?

«Come racconta perfettamente Corrado Ricci sulla rivista L’Arte del 1917, “nella primavera del 1916 il Municipio di Ferrara stabiliva di liberare l’abside della chiesa di S. Stefano dall’addossamento di alcune casette, e di ristaurarla. Durante i lavori, e precisamente il 29 dicembre, in un tratto di muratura slegata (che riempiva un vano e che rimaneva coperta dall’intonaco), tra diversi frammenti di terracotta ornata, fu rinvenuto quello che qui riproduciamo e che ora trovasi nel Museo di Schifanoia”. Tutta la critica si accorse immediatamente del valore della scoperta, e condivise l’attribuzione a Donatello. Ad esempio Arduino Colasanti scrisse: “la geniale originalità della composizione, l’energica plastica e quasi fulminea di ogni steccata, l’efficacia sintetica del modellato, la potenza del pathos e della vita, resa con pochi tratti di immediata evidenza, convengono perfettamente al grandissimo scultore fiorentino”. L’entusiasmo per la terracotta donatelliana ritrovata durò però pochissimo: nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1921 alcuni ladri – dopo aver reciso ben tre reti metalliche, essersi arrampicati mediante una scala fino alla finestra del Museo, aver tagliato il vetro con una punta di diamante e forzato la porta che immetteva nella Sala degli Stucchi – trafugarono il rilievo fittile oltre a numerose medaglie, monete, placchette e bronzetti. Da allora la critica sembra essersi via via dimenticata del valore di quella scoperta e ha perfino iniziato a dubitare sull’attribuzione, non potendo più studiare il pezzo dal vivo, ma solo attraverso le fotografie».

Riguardo alle altre due terrecotte, quelle con gli evangelisti: può azzardare ipotesi più specifiche? 

«Una delle due con tutta evidenza raffigura un evangelista che tiene la mano sul libro. Per la seconda – purtroppo acefala – possiamo solo ipotizzare che si trattasse di un altro evangelista in posa speculare. Anche queste terrecotte furono trovate negli anni Sessanta insieme al rilievo nel pozzo di una casa privata non distante dalla chiesa di Santo Stefano, dove fu trovato il primo rilievo nel 1916».

Esattamente dove e quando?

«Come ricordato dagli attuali proprietari e da un’iscrizione a pennarello nel retro di uno dei supporti lignei sui quali sono stati montati i frammenti, queste tre terrecotte furono ritrovate casualmente il 20 luglio 1962 sul fondo di un pozzo di una casa privata situata in via Saraceno, quindi a 800 metri da S. Stefano».

Può avanzare ipotesi anche sulla destinazione finale sia della terracotta della Vergine sia di quelle con gli evangelisti?

«Purtroppo non è facile fare ipotesi: Donatello in quegli anni era conteso dalle maggiori città del Nord Italia, accettava molti incarichi che però spesso non portava a termine. Ad esempio, avrebbe dovuto realizzare un monumento dedicato a Borso d’Este a Modena e l’arca del patrono di Mantova Sant’Anselmo, ma nessuno di questi vide la luce. Posso solo dire che i frammenti “ferraresi” ritrovati sono senz’altro bozzetti, oggetti di studio che consentivano all’artista di studiare le composizioni prima di realizzare le opere definitive destinate alla fruizione».

***


Funerali della Vergine: analisi dell’opera e ipotesi sull’artista

Il ritrovamento di Scansani è stato al centro di un articolo pubblicato da “The Burlington Magazine”, storica (e inglese) rivista accademica d’arte. Di seguito, alcuni passaggi dalla traduzione dell’articolo stesso:

le due metà della terracotta – scrive Scansani – compongono «una formella rettangolare alta 33 cm, larga 47 cm e spessa 2 cm con la raffigurazione – come già intuito da Ricci – della morte della Vergine. La composizione è suddivisa in due registri orizzontali sovrapposti che compongono idealmente un’architettura a due livelli messi in comunicazione da una scala che principia dal vertice in basso a sinistra della formella e si conclude al suo centro ove è collocato il cataletto della Vergine, fulcro dell’affollatissima scena. (…) 

Al secondo piano la scena, a partire da sinistra, si apre con quattro pingui angioletti che parrebbero sorreggere con grande sforzo un sepolcro dotato di un coperchio a spiovente (…). Dietro il sarcofago parte il corteo dei dodici apostoli (tutti dotati di aureola): il primo si rivolge con sguardo mesto al sepolcro, il secondo – di profilo – si dirige verso il cataletto portandosi una mano al volto in segno di disperazione, il terzo procede nella stessa direzione – ormai ai piedi della Vergine – ma è in parte illeggibile poiché coincide con il margine frammentario della terracotta trafugata. In questo punto il rilievo non combacia perfettamente con quello riemerso in collezione privata poiché è andata perduta una porzione in cui verosimilmente doveva essere raffigurato un ulteriore apostolo: è sopravvissuta solo una piccola parte della sua veste. (…) La Madonna è rigidamente distesa, quasi priva di un corpo, è infatti totalmente coperta da un ampio panno che grava copioso oltre il cataletto e in corrispondenza dei sostegni verticali: si riconoscono solo le sagome dei suoi piedi che premono sotto il lenzuolo e una parte del viso esanime in gran parte celato dal velo che le ricade sugli occhi. Davanti ai larghi manici della portantina funebre sono modellati ben cinque angioletti abbigliati con piccole tuniche: due trattengono un cero a testa, gli altri tre sembrano volersi fare spazio, aggrappandosi alle spalle dei primi, per poter vedere il corpo della Vergine. (…) Le terrecotte riemerse consentono di gettare nuova luce sulle pratiche realizzative dello scultore, più in generale sulla sua attività nell’Italia Settentrionale e forse anche sull’impatto che ebbero le sue invenzioni nel contesto emiliano. Non è possibile stabilire con certezza se gli artisti dell’Officina ferrarese ebbero la possibilità di vedere e studiare questi bozzetti che avrebbero fornito una formidabile scorciatoia per conoscere le mirabolanti novità che Donatello stava imponendo nel contesto padovano».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2024

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«È il nostro momento, il momento della carità»

25 Ott

Mons. Elios Giuseppe Mori. Presentato il libro con le sue lettere negli anni ’40 da Roma a mons. Bovelli

Un giovane seminarista prima, un sacerdote poi, immerso nella realtà, la cui fede vive nell’esperienza degli incontri.È questo che emerge dalle circa 50 lettere che  negli anni ’40 da Roma il giovane seminarista Elios Giuseppe Mori (Mizzana 1921- Verona 1994) scrive al suo Vescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli. Mori fu a Roma dal 1940 al 1946, ospite del Pontificio Seminario Lombardo, allora diretto da mons. Franco Bertoglio. Nella Capitale si trova per studiare alla Pontificia Università Gregoriana e viene ordinato sacerdote il 23 dicembre ’44 in San Giovanni in Laterano.

Le lettere di Mori a mons. Bovelli, conservate nell’Archivio storico diocesano di Ferrara, ora sono al centro del nuovo Quaderno del CEDOC – Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana, in occasione del 30° anniversario della morte del sacerdote.

Il volume “E. G. Mori, L’amicizia: il primo apostolato. Lettere di don Elios Giuseppe Mori a mons. Ruggero Bovelli (1940-1947)”, è a cura di Paolo Gioachin, Francesco Paparella e Miriam Turrini, e ha la postfazione di Marcello Musacchi. È disponibile in cartaceo (a offerta libera) nella segreteria della Scuola di teologia a Casa Cini, mentre a breve sarà disponibile anche gratuitamente in digitale a questo link http://santafrancesca.altervista.org/biblioteca.html

Il volume è stato presentato proprio a Casa Cini lo scorso 17 ottobre nella prima lezione (eccezionalmente aperta a tutti) della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi” (foto).

Quasi 200 i partecipanti all’incontro (dei quali 50 presenti in sala e i restanti collegati on line da casa).

Si diceva della concretezza di don Mori; e Miriam Turrini nel proprio intervento il 17 ottobre ha spiegato come il seminarista/sacerdote «ricercava sempre nuove forme di apostolato in un mondo secolarizzato».Questi raccolti, ha proseguito, «sono documenti fondamentali per comprendere gli anni della formazione di Mori» («è il nostro momento», scrive lui stesso a mons. Bovelli); lettere dalle quali emergono anche tratti del suo carattere come la grande ironia e la vivacità intellettuale. Ma nel rapporto epistolare col suo Vescovo «al centro c’è sempre Ferrara e le sue prospettive pastorali, connesse anche al suo ritorno in città». A Roma lavora anche, dall’autunno 1940 alla primavera 1943, nell’oratorio del quartiere Monte Celio con i ragazzi di strada e, appena può, va anche a San Pietro ad ascoltare il Papa; scrive a tal proposito: «Ho una grande gioia nel cuore (…). Gli ho gridato ancora che gli voglio bene».

Sono gli anni terribili della guerra – come ha spiegato Gioachin -, con tanti profughi che arrivano a Roma nell’illusione, in comune con tanti residenti, che la CittàSanta potesse essere risparmiata dai bombardamenti. Ma non sarà così, San Lorenzo è un nome che sta a lì a ricordarlo tragicamente. Dal settembre ’43 al giugno successivo Roma sarà occupata dai nazisti con gli orribili episodi, solo per citarne due, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del ghetto. Dopo l’8 settembre ’43, lo stesso Pontificio Seminario Lombardo ospiterà un centinaio di rifugiati, fra cui atei, comunisti, ebrei (quest’ultimi almeno una 30ina e che Mori, per ragioni di sicurezza, nelle lettere chiama «circoncisi»). Ma, scrive lo stesso Mori a mons. Bovelli – che considerava come un padre -, «portare Cristo a chi non lo conosce (…) è un miraggio che mi esalta». «È questo il momento della carità senza limiti, senza distinzioni», continua. E ancora, riferito ai rifugiati: «la carità di Cristo non guarda al colore, alla religione, alla razza».

Paparella nel suo intervento ha raccontato l’accoglienza e l’irruzione dei nazisti (la famigerata “banda Koch”) nel Seminario Lombardo la notte del 21 dicembre ’43, rastrellamento che, per fortuna, non andò a buon fine in quanto gli ospiti, prevedendolo, si erano organizzati per fuggire in tempo rifugiandosi in un vicino edificio.

Nel ’44 don Mori ritorna a Ferrara, in una città – così la descrive – «sconquassata  e febbricitante». Ma anche qui, e per il resto della sua vita, centrale sarà la pastorale d’ambiente (basti pensare alla “Gioventù Operaia Cristiana” a Ferrara), vera e propria pastorale dell’incontro, dell’amicizia, della prossimità, anche con gli operai e i sottoproletari, ma senza rinunciare alla dimensione mistica: a tal proposito, nel ’41 a Bovelli don Mori riflette come, alla fine, il «soprannaturale, la preghiera fanno tutto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2024

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Guido Angelo Facchini fascista? Violenza, paura ed eterni rancori

18 Ott

Il “papà del Palio ferrarese” fu nel Ventennio un protagonista della vita culturale. E come tanti cattolici aderì al fascismo non per ideologia ma per paura delle violenze del socialismo massimalista. È possibile contestualizzare senza fare revisionismo? Se ne parla nel libro “Ferrara Sorgente di Poesia” di Laura Facchini e Francesco Paparella

di Andrea Musacci 

Gli anni del secondo dopoguerra nel nostro Paese e soprattutto in Emilia, sono stati particolarmente difficili e complessi, con tratti spesso tragici. Sono gli anni nei quali l’Italia tenta di rialzare la testa dopo il cupo ventennio fascista e le atrocità della guerra. Ma sono anche gli anni fratricidi costellati da vendette e rancori a lungo sopiti. E forse non ancora del tutto superati.

Di questo, e non solo, si parla nel volume da poco edito dal titolo “Ferrara Sorgente di Poesia. Spunti biografici su Guido Angelo Facchini (foto grande) un intellettuale ferrarese fra le due guerre”, di Laura Facchini (nipote di Guido Angelo) e Francesco Paparella, con prefazione di Carlo Magri (membro del Consiglio Superiore del Palio nominato dalla famiglia Facchini). Di Facchini, che negli anni ’30 a Ferrara fece rinascere lo storico Palio, Paparella ha scritto tanto sulla “Voce”. L’ultimo articolo, nell’edizione del 20 settembre scorso, anticipa il racconto, contenuto nel libro, delle tre vite salvate da Facchini dopo l’8 settembre ’43: quelle del prof. Carlo Zaghi (storico e giornalista) e dei collaboratori del “Corriere Padano” Guido Aristarco (critico cinematografico) e Giuseppe Gorgerino (scrittore e sceneggiatore), finiti nelle grinfie della polizia  fascista. Episodi eroici come questo ci rendono assurdo oggi quel «silenzio “comprensibilmente rancoroso” »  che nel secondo dopoguerra cadde anche sul Palio, sui personaggi in vista in quegli anni», tra cui lo stesso Facchini.

IL BIENNIO ROSSO E LO SQUADRISMO 

La “scelta fascista” di Facchini fu, come per molti, non motivata da chissà quale culto della violenza o della supremazia razziale, o da idee particolarmente reazionarie. Scrive Paparella nel libro: durante il Ventennio «il suo animo romantico, la sua fede e il suo idealismo lo portarono rapidamente verso la sponda del fascismo ferrarese che tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio degli anni ’20 si erge, nella propaganda dell’epoca, a difensore dei valori dell’ordine e della Patria e a difesa da un socialismo spesso anticlericale e violento, pur usando metodi spesso ancora più violenti». Il socialismo massimalista avrà come reazione la nascita del cosiddetto “fascismo agrario”. «Due opposti estremismi», prosegue Paparella: «il socialismo alimentato da una devastante disoccupazione e da una situazione economica drammatica» e «il fascismo squadrista che riesce in poco tempo ad aggregare e avvicinare a sé un largo strato della popolazione ferrarese, con il palese appoggio e contributo economico dei proprietari terrieri, della nobiltà ferrarese, di buona parte della comunità ebraica e anche di largo settore del movimento cattolico. Quest’ultimo, contrariamente ad alcune esperienze in altre parti d’Italia, dove si aggregò attorno al Partito Popolare in aperta opposizione al movimento fascista, a Ferrara per la maggior parte si consolidò nel Centro Nazionale Cattolico, noto per posizioni collaborazioniste e di cui esponente di spicco fu il Conte Giovanni Grosoli». Lo stesso Vescovo Francesco Rossi e il giornale “La Domenica dell’Operaio”, fondato da Grosoli, denunciarono le violenze di questo socialismo radicale e i conseguenti pericoli anche per la libertà dei cattolici. Violenze denunciate in quegli anni anche da Alcide De Gasperi, dal liberale Pietro Niccolini, da socialisti riformisti e antifascisti come Gaetano Salvemini e Alda Costa. Dopo l’eccidio del Castello del 1920 (in cui oltre a tre fascisti morì anche il socialista Giovanni Mirella), «anche coloro che erano rimasti incerti o comunque neutrali passeranno ad appoggiare più o meno direttamente il movimento fascista se non altro per un anelito di ordine e protezione e un sempre maggior sostegno anche in ambienti cattolici». Lo stesso Facchini, quindi, vive in questo clima di paura. La morte del coetaneo e amico Edmo Squarzanti lo segnò nel profondo: il 25 febbraio 1921 Squarzanti «si trovava sul camion carico di fascisti di ritorno dalla partecipazione, a Lendinara, all’inaugurazione di un gagliardetto. Arrivati a Pincara, di fronte alle finestre del capolega di quel paese, furono fatti oggetto di colpi di rivoltella. Uno di questi colpì alla gola il giovane ferrarese che morì poco dopo. Da lì si scatenò uno scontro che portò alla morte dell’autore stesso». Da una lettera di Facchini alla “Gazzetta ferrarese” del 16 dicembre 1921, si può «desumere che pure lui fosse presente a quella trasferta a Lendinara e pertanto anche da questo potremmo immaginare la conferma o comunque il consolidarsi della sua scelta di adesione al fascismo come opposizione alla violenza del massimalismo socialista».

L’8 SETTEMBRE ’43 (E UN PRESENTE CHE SIA DIVERSO) 

Dopo l’8 settembre 1943, anche Ferrara fu occupata dal terribile governo repubblichino-nazista. Pochi mesi prima, la caduta del regime. «Il figlio Aldo ha un ricordo indelebile della notte del 25 luglio 1943», racconta Paparella. «Tornando a casa non vide suo papà. La nonna gli disse che era nell’interrato di villa Melchiori, nascosto per evitare di coinvolgere i familiari». I Facchini abitavano proprio di fianco Villa Melchiori. «Si era diffusa la notizia della caduta di Mussolini e del fascismo e anche Guido Angelo aveva ricevuto minacce di morte. Pertanto quando Aldo lo raggiunse nella villa Melchiori lo vide nel buio con la faccia tesa, seduto sui gradini con una pistola appoggiata a fianco». Insomma, anche chi come lui aveva salvato alcuni antifascisti, non si sentiva al sicuro. Troppo caldo era ancora il sangue di tanti che si erano ribellati alle angherie fasciste. E troppo era il carico di odio, il desiderio di rivalsa (giusta) contro 20 anni di tirannia. Ci sono voluti molti altri decenni per riscrivere la storia di Facchini senza sentirsi additare come “revisionisti” se non nostalgici. O almeno ci auguriamo che così sarà.

Vita di Guid’Anzul, tra impegno e poesia


Guid’Anzul (così lo chiamavano gli amici) nasce a Ferrara nel 1904 da Aldo ed Eugenia Paparella. Ancora adolescente, la casa editrice francescana di Assisi gli pubblica le sue liriche “Canti della Verna”. A 19 anni è già responsabile della pagina culturale della “Gazzetta ferrarese”, che nel ’28 confluirà nel “Corriere Padano” creato da Italo Balbo. Ha ruoli nel Gruppo Universitario Fascista, collabora con l’Unione dei Sindacati, nella Società Benvenuto Tisi, nel comitato esecutivo della Settimana ferrarese e nel “Comitato Ferrarese dell’Ottava d’oro”. A 23 anni sposa Renza Mariotti: i due avranno un figlio, Aldo (foto qui sopra). Nel ’30 diventa direttore dell’Unione Provinciale dei Professionisti ed Artisti, fino al 1933 quando si concentra sugli eventi ferraresi legati alle manifestazioni per il centenario dell’Ariosto e all’organizzazione del Palio. Fra gli altri impieghi, sarà Segretario e poi Presidente dell’Istituto di Cultura di Ferrara, consultore di Ferrarie Decus, Presidente dell’Istituto di Cultura italo-germanica di Ferrara, Direttore della rivista “Il Diamante”. Scrive anche “La storia di Ferrara illustrata nei fatti e nei luoghi”. In quegli anni viene avviato a lezioni private di tedesco presso il prof. Emanuel Merdinger, dal ’38 aiutato a non essere deportato – in quanto ebreo – da una rete di amicizie nella quale vi erano anche Facchini e mons. Bovelli. Nel dopoguerra Facchini va con la famiglia prima sul lago d’Iseo poi a Prato, dove morirà nel ‘77.


Il 21/10 presentazione del libro al Comunale


Lo scorso dicembre per volontà delle Contrade, del Comune di Ferrara e della famiglia Facchini, si è creata la Fondazione Palio “in memoria di Guido Angelo Facchini e Nino Franco Visentini”, unendo così i padri delle due epoche storiche del Palio ferrarese. Il 21 ottobre alle ore 21 (Sala Foà del Teatro Comunale Abbado) è in programma il secondo appuntamento del ciclo “Il Palio è Ferrara”, con la presentazione di “Ferrara Sorgente di Poesia” di Laura Facchini e Francesco Paparella. Si tratta del primo Quaderno della Fondazione Palio Città di Ferrara.Il volume ha la prefazione di Carlo Magri.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2024

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