Una vicenda quasi inedita: l’industriale, politico e mecenate ferrarese fu riconosciuto dalla madre solo a 13 anni, e dal padre a 18. La causa? Lei era già sposata. Indagine sull’infanzia di uno degli uomini più potenti del Novecento italiano
diAndrea Musacci
La vita di Vittorio Cini, si sa, è stata nelle grazie e nelle disgrazie una vita anomala…
Donna Gracia Mendes Nassì, Emanuel Merdinger e Vittorio Cini: dal XVI secolo al Novecento, avventure e aneddoti per capire l’importanza delle libertà religiosa e culturale
A cura di Andrea Musacci
Una trama complessa di relazioni, sempre illuminate dal desiderio di libertà e verità. Sono le storie raccontate il 25 gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, a Palazzo Roverella a Ferrara. L’incontro “Muri confini dialoghi incontri” – organizzato da “De Humanitate Sanctae Annae”, Assoarma Ferrara, Circolo Negozianti e Istituto del Nastro Azzurro – ha visto al centro le vicende di Donna Gracia Mendes Nassì, Emanuel Merdinger e Vittorio Cini. Introdotto e moderato da Riccardo Modestino, il pomeriggio ha visto le conclusioni affidate a don Claudio Vanetti, parroco del Gesù: «la cultura è la chiave per costruire un ponte, anzi è il ponte stesso. E la cultura è anche un luogo teologico, aprendo nell’uomo lo spazio per Dio. Sono le religioni, non le fedi, a fare la guerra», ha aggiunto. «Le prime, infatti, fan Dio sulla loro misura, mentre la vera fede cerca di fare l’uomo a misura di Dio». Le storie che vi raccontiamo sono esempi di persone che hanno scelto quest’ultima possibilità.
Donna Gracia Mendes Nassì, pioniera dello Stato di Israele
Nata nel 1510 a Lisbona, battezzata con il nome di Beatrice De Luna a causa delle imposizioni dei “cristiani” sovrani portoghesi, a 18 anni diventa sposa di uno zio importante commerciante di spezie. Dopo essere rimasta vedova giovanissima e con una figlia, e a causa dell’Inquisizione, si trasferisce ad Anversa dove aiuterà i Mendes a far espatriare tanti marrani. Ma non rimane ferma, Beatrice, spostandosi prima a Venezia e, nel 1548, a Ferrara. Qui potrà tornare, grazie agli Este, Donna Gracia Nassì, ebrea. Sarà l’unica donna che nella Ferrara del XVI secolo potrà godere di ampia autonomia. Per tre anni vive a Palazzo Roverella. La tappa successiva della sua vita diventa Costantinopoli, dove ha buoni rapporti col sultano Solimano, sempre continuando a gestire gli affari di famiglia e ad aiutare i propri correligionari.
Ma vi è un aneddoto poco noto riguardante il destino degli ebrei in Israele, solo appena accennato da uno dei relatori della giornata, Carlo Magri. Donna Gracia a fine anni ’50 ha, infatti, un’idea: offre al Sultano di ricostruire la città di Tiberiade, ormai in rovina, aumentando così, per l’impero ottomano, le ricchezze ricevute dalle tasse. Di fatto, Donna Gracia diviene governatrice della città. Il suo progetto era destinato a entrare nella storia: far convogliare tutti gli ebrei sparsi nel mondo finalmente nella Terra d’Israele. Sogno che, in buona parte, si realizzerà invece solo dopo il 1948. Nel 1561 Don Yosef Nasi (successivamente nominato “Signore di Tiberiade”) e il rabbino Yosef Ben Aderet iniziano la costruzione delle mura della città, poi abbellita e resa ricca. Come fecero poi i loro eredi nel Novecento, il loro primo progetto è quello di piantare alberi – aranci, pini e soprattutto gelsi – e di introdurre l’apicoltura per produrre miele. Ebrei iniziano ad arrivare dalla Spagna e dal Portogallo, e Donna Gracia vi fa costruire anche una sinagoga e una Bet HaMidrash, una casa di studio della Torah.
Purtroppo, però, la situazione si complica quando diversi musulmani iniziano a condannare il fatto che gli ebrei vivono non più sottomessi a un potere islamico (e solo così tollerati), ma che stanno diventando indipendenti. Qualcosa che non piace nemmeno a molti ambasciatori europei. Alla fine, dunque, il Sultano cede e il glorioso progetto si conclude.
A Donna Gracia lo Stato di Israele ha dedicato un francobollo e alcune medaglie, mentre nel 2018 Amos Gitai ha realizzato un film su di lei, proiettato in anteprima al MEIS, e nel 2020 le è stato dedicato un fumetto, “L’ebrea errante” (uscito su Lanciostory), oltre ad alcuni cartoons e filmati reperibili su You Tube.
Emanuel Merdinger, ebreo coraggioso e amico dei cristiani
Lo stesso Magri, insieme a Francesco Paparella, ha parlato anche delle vicende di Emanuel Merdinger (nella foto, insieme a Bruno Paparella), a cui i due hanno dedicato il libro “Distillare o essere distillati” (Ed. Carmelina, 2021). Merdinger, ebreo, nasce nel 1906 a Suceava in Bucovina, regione allora parte dell’Impero austro-ungarico, oggi tra Ucraina e Romania, e nel ’31 si laurea in farmacologia all’Università di Praga. Si traferisce a Ferrara dove nel ’34 e ’35 consegue all’Università le lauree in Farmacia e Chimica. Diviene docente e amico di molti in città, anche cattolici. «A fine anni ’30 – ha raccontato Magri – un giorno si reca alla Casa del Fascio per fare un’offerta per i poveri, ma i fascisti li rispondono che a Ferrara i poveri non esistono…Allora la donazione la fa tramite la Chiesa. A Ferrara – ha proseguito – era talmente famoso che nella corrispondenza indicavano solo nome e cognome, senza bisogno di aggiungervi l’indirizzo».
Nel ’38, a causa delle leggi razziali, diventa “apolide” in quanto straniero ebreo, ma riesce a rimanere a Ferrara due anni grazie alle amicizie, che arrivano fino al Prefetto di Ferrara. «Si manterrà con piccoli lavoretti – ha raccontato Paparella -, ad esempio insegnando il tedesco ad alcuni sacerdoti». Il 20 maggio 1940 viene, però, cacciato dall’Italia e finisce nei campi di concentramento delle sue zone d’origine, prima prigioniero dei tedeschi poi dei russi, ma nel luglio ’45 riesce a tornare a Ferrara, sua patria d’adozione. È mons. Bovelli, su spinta di Alighiero Paparella, amico di una vita di Merdigner, a informarsi sulle sue condizioni di prigionia: vengono coinvolti anche la Santa Sede e la Croce Rossa. Un comandante del campo dove l’avevano imprigionato, esclamò a ricevere la missiva vaticana: «Come spiega il fatto che il Vaticano sia interessato a Lei?». Grazie a questo intervento, riesce a tornare a Ferrara: «qui – ha proseguito Paparella – arriva con le scarpe rotte e risuolate con pezzi di pneumatico. Appena giunto in città va subito a suonare a casa dell’amico Alighiero», padre di Bruno, Ercolino, Edmondo e Lydia.
Proprio dai racconti di quest’ultima, 94 anni, l’unica rimasta dei quattro figli, sono nate le ricerche e quindi l’idea della pubblicazione su Merdinger. Quest’ultimo nel ‘47 si trasferisce negli Stati Uniti dove diviene un ottimo ricercatore universitario. Muore 50 anni dopo, nel 1997.
Le riunioni ferraresi di Cini che fecero cadere Mussolini
A Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nato a Ferrara in quella che oggi è Casa Cini, sulla “Voce” del 13 gennaio scorso abbiamo dedicato un ampio servizio, soffermandoci in particolare sulla sua “riconversione” al cristianesimo (servizio citato da Francesco Scafuri il 25 gennaio).
A Palazzo Roverella tre interventi hanno cercato di delineare questa figura eclettica, imprevedibile, decisiva per la storia d’Italia. Un aneddoto, in particolare, è ancora poco noto. Ne ha parlato il nipote Giovanni Alliata di Montereale: «tra giugno e il 25 luglio del 1943 mio nonno Vittorio (per due mesi Ministro delle Comunicazioni, ndr) si incontrò diverse volte con altri Ministri, tra cui Grandi e Bottai, a Casa Cini a Ferrara» per decidere della caduta del governo Mussolini. Casa Cini fu, dunque, luogo simbolo della maturazione di quella svolta che cambiò la storia del nostro Paese.
Da lì inizia una delle “riconversioni” di Cini, quella politica, che lo portò anche a finanziare, come ha spiegato Scafuri, la Resistenza veneta, donandole 5milioni di lire al mese. «Mio nonno Vittorio – ha raccontato Giovanni Alliata – «aiutò anche diversi ebrei, fra cui il critico e storico dell’arte Bernard Berenson, intervenendo presso la Prefettura di Firenze. Non era davvero un fascista, fu obbligato da Mussolini a diventare Ministro» e dopo due mesi, appunto, «si ribellò cercando di convincere il Duce a uscire dalla guerra».
La seconda parte dell’intervento di Scafuri e poi quello di Marialucia Menegatti si sono, infine, concentrati sulle questioni riguardanti Ferrara – con Palazzo Renato di Francia donato da Cini al Comune per dedicarlo all’istruzione (e infatti divenne sede del Rettorato, ma dal 2012 è chiuso per lavori) -, e sul suo ruolo di mecenate. Qui Menegatti ha citato il riconoscimento ricevuto da Cini nel ’64, il Premio Assostampa Ferrara, ex aequo con Giovanbattista Dell’Acqua – e una sua espressione, emblematica dell’amore del conte per il sacro e per il bello: bisogna accogliere la bellezza con «devozione fervente», difenderla e conservarla. Un bell’insegnamento da chi ha cercato di modellare la propria vita su Dio.
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023
Il conte che si riscoprì cattolico. Imprenditore, politico e mecenate ferrarese, negli anni ’40 ritrovò la sua fede cristiana. Un aspetto della sua vita ancora poco indagato
di Andrea Musacci
Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nasce proprio in quella che poi diventò Casa Cini in via Boccacanale di Santo Stefano, 24 a Ferrara. La sua, è stata una vita grandiosa e tragica, che ha segnato la storia della nostra città e dell’Italia per buona parte del Novecento. Massone, poi cattolico “rinato”, ministro fascista e poi sostenitore della Resistenza, uomo d’affari e amante del bello, Cini non perse mai il suo profondo legame con la città natale.
Casa Cini e i dialoghi coi gesuiti
Dopo la seconda guerra mondiale, la deportazione a Dachau e, soprattutto, la morte del figlio Giorgio, fanno maturare in Vittorio Cini una non scontata rinascita del sentimento religioso. Una “nuova conversione” che lo porta ad abbandonare la Massoneria – a cui fu legato per molti anni nella nostra città -, a creare la Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Marco a Venezia e, a Ferrara, nel ‘50 a donare il palazzo di Renata di Francia all’Università e la casa di famiglia di via S. Stefano alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù in onore del figlio scomparso. Con una clausola: di farne un centro culturale e di formazione educativa e morale dei giovani.
La donazione della casa paterna («la mia casa», continuò poi a chiamarla) ai Gesuiti avviene per esplicito interessamento dell’Arcivescovo Bovelli. Presenza, quella dei Gesuiti, che si concluderà nel 1984 con la donazione dell’immobile, degli arredi e della biblioteca all’Opera Archidiocesana della Preservazione della Fede e della Religione, che ancora l’amministra. Due lettere presenti nell’Archivio storico della nostra Diocesi attestano del rapporto tra Cini e l’allora Vescovo Bovelli. Quest’ultimo il 13 febbraio 1950 gli scrive a tal proposito: «Ferrara ha bisogno, estremo bisogno di queste opere: la Provvidenza si è servita di Lei ed io ne gioisco e ringrazio dal profondo del cuore. Però la gioia del dono è diminuita al pensiero che ella voglia rompere completamente i legami con la città natale: ciò sarebbe per me veramente doloroso. Penso però che se anche lontano colla persona, ella sarà con noi col cuore. Vicino all’amato figliuolo che ancora ricordiamo e raccomandiamo al Signore». Il 29 dicembre dello stesso anno, il conte scrive al Vescovo: «Sono sicuro che l’opera affidata al fervido zelo dei benemeriti Padri della Compagnia di Gesù darà frutti sempre più fecondi di bene, tali da confortare la Ecc. Vostra nel Suo apostolato».
Mail legame di Cini con Ferrara non si interrompe con la donazione della casa di famiglia. Racconta Alessandro Meccoli su “Ferrara. Voci di una città” (n. 7/1997): «Vi si recava, puntualissimo com’era in tutto, ogni primo venerdì del mese. Qualche volta l’ho accompagnato: si andava al cimitero, dove oggi anch’egli riposa accanto ai suoi cari; poi a gustare la salama da sugo dal notaio Brighenti; quindi nella sua casa natia, da lui donata alla Curia e trasformata in centro culturale». Il gesuita p. Vincenzo D’Ascenzi scrive sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978: «veniva a Ferrara puntualmente ogni mese, ogni primo del mese, con qualunque stagione entrava di mattina presto in Certosa, ascoltava la Messa in suffragio dei suoi cari Giorgio padre, Giorgio figlio e Lyda Borrelli consorte, la nota attrice (…). In questa occasione veniva spessissimo a rivedere la sua casa paterna che amava come la “sua casa”, ne conosceva la storia mattone per mattone. Si intratteneva volentieri in conversazione con i padri di Casa Cini scherzando amabilmente e argutamente». Sembra che dormisse nel suo vecchio “appartamento”, dove ora ha sede la Cattolica assicurazioni. Ma in questa testimonianza, più unica che rara, emerge la fede del conte Cini: «Mai che avesse parlato di problemi economici e amministrativi», continua D’Ascenzi; «amava parlare piuttosto dell’uomo, del futuro del mondo, della necessità di portare gli uomini ad incontrarsi al livello mondiale; della funzione della cultura per l’unificazione e la pace dei popoli. Ma spesso parlava di temi religiosi: della fede, dei valori, e della sua fede inquieta».
Molto più riservato, su questo tema, era con altre persone, come ci testimonia Maurizio Villani, storico frequentatore di Casa Cini, dove ha anche insegnato nell’Istituto di Scienze Religiose: «da giovane lo conobbi personalmente ed ebbi con lui diversi incontri, tutti di argomento storico, economico o artistico. Sulla sua “conversione” ha sempre mantenuto assoluto riserbo». Coi padri di Casa Cini, invece, l’approccio era diverso: «Specialmente quando ci si trovava in conversazione intima era capace di affrontare il discorso della fede in termini del tutto personali e inediti», scrive ancora p. D’Ascenzi nel sopracitato articolo. «Cini, dietro quel sorriso aperto e accogliente, era un uomo inquieto e l’inquietudine più profonda era forse quella della fede; voleva credere come un bisogno istintivo che non riusciva a giustificare razionalmente. Un animo profondamente pascaliano; a Pascal infatti si riferiva spessissimo. Era anche innamorato di Teilhard de Chardin (…). Non potrò dimenticare l’intensità e la profondità di questo animo – prosegue – capace di entrare spietatamente entro sé stesso giudicandosi con estrema severità; capace di guardare il mondo e la storia (…) oltre la contingenza; capace soprattutto di guardare oltre la storia, verso la Trascendenza, proteso chiaramente verso la luce di Dio».
Prosegue poi D’Ascenzi: «Si occupava del resto, del mondo finanziario, sì; ma quel mondo era fuori della dimensione del suo spirito; anzi oso dire che guardava quel mondo con un certo occhio di disgusto e di disprezzo, come la zavorra che ci portiamo dietro nella vita come terreno del peccato».
Donazioni per la nostra Diocesi
Il sostegno economico di Cini per la Chiesa di Ferrara non si concluse con la donazione della Casa di S. Stefano. Lo attestano alcune lettere che abbiamo ritrovato nel nostro Archivio diocesano. Partiamo dagli aiuti economici che Cini fece nel 1942 a favore degli Olivetani di San Giorgio e delle Benedettine di Sant’Antonio in Polesine. In una missiva a Cini del 25 agosto 1942, l’allora Vescovo Bovelli scriveva: «Le buone Monache Benedettine, come pure i Monaci Olivetani a S. Giorgio mi hanno messo al corrente dei progetti magnanimi che V. E. ha ideato per venire incontro alla indigenza di quei poveri locali da essi abitati. Sento quindi il dovere di rivolgermi (…) a V. E. e dopo aver ringraziato Iddio che ha saputo ispirare a sì munifico benefattore tale urgente indispensabile necessità, ringraziarvi dal più profondo del cuore».
Undici anni dopo, sarà una delle figlie di Cini, Yana, a offrire donazioni alla nostra Chiesa locale. Da tramite farà il padre, che il 12 febbraio 1953 scrive a mons. Bovelli: «in occasione delle sue nozze mia figlia Yana desidera fare alcune elargizioni benefiche: e non può, naturalmente, dimenticare Ferrara. Le invia, mio tramite, l’accluso assegno di E. 2.000.000, che La prega distribuire come Ella meglio crederà, avendo presenti anche la Parrocchia di S. Stefano e la “Casa Giorgio Cini”».
Una settimana dopo, il Vescovo gli risponde che oltre a S. Stefano e a Casa Cini («una fucina di bene intelligente e fattiva e sta imponendosi alla Città»), hanno beneficiato dell’elargizione di Yana le Benedettine, il «povero» Monastero delle Carmelitane di Borgo Vado, «le quali versano in miseria e sono tutte malate», il Seminario «ed alcuni chierici poveri che sono a carico della Diocesi». Le Monache di entrambi gli ordini scriveranno al Conte per ringraziarlo dell’aiuto.
Progetto mancato a San Giorgio?
Un aneddoto molto interessante riguarda anche il Monastero di San Giorgio a Ferrara. In un’intervista al nostro Settimanale del 28 maggio 2021, padre Roberto Nardin, olivetano, ci spiegò perché, probabilmente, il conte alla fine scelse Venezia e non Ferrara per il suo progetto del polo culturale e della Fondazione: «Dalla testimonianza di alcuni monaci che hanno vissuto nel monastero di S. Giorgio di Ferrara durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, si può affermare che Vittorio Cini avesse intenzione di ricostruire completamente il monastero olivetano quasi totalmente distrutto a seguito delle soppressioni di fine ’700, per riportarlo allo stato originario, con l’intento, probabilmente, di costituirvi una fondazione, come poi avvenne a Venezia, dedicandola al figlio di nome Giorgio, prematuramente scomparso in un incidente aereo nel 1949. È doveroso precisare – prosegue – che la testimonianza dei monaci, che io stesso ho sentito, riferiva dell’intenzione del Cini di ricostruire il monastero, non della Fondazione. Tuttavia è molto verosimile che l’intento ultimo fosse proprio la costituzione della Fondazione, perché essa divenne realtà a Venezia dopo pochi anni, nel 1951, e in un monastero ancora dedicato a S. Giorgio, lo stesso nome del figlio, dopo ampi lavori di ristrutturazione. Il progetto che Cini intendeva realizzare con il monastero di S. Giorgio di Ferrara lo possiamo concretamente vedere, quindi, in ciò che è stato realizzato nel monastero di S. Giorgio a Venezia».
Albino Luciani amico fraterno e quel sogno dell’isola
Accennavamo prima al rapporto di Vittorio Cini con Venezia, sua patria d’adozione, e luogo dove si spense nel ‘77.
Per onorare la memoria del figlio Giorgio – morto il 31 agosto 1949 nel rogo del suo aereo all’aeroporto di Cannes, sotto gli occhi della fidanzata Merle Oberon – Vittorio riscatta dal degrado la famosa isola di San Giorgio, dove dà subito inizio a imponenti lavori di restauro del vecchio convento dei Benedettini, riuscendo, inoltre, a rintracciare e recuperare, con una spesa enorme, le antiche biblioteche e rarissimi mobili sparsi in tutta Europa. Qui nasce la Fondazione Giorgio Cini che, come accennato, avrebbe forse dovuto nascere nel Monastero olivetano di S. Giorgio a Ferrara. Così, nel ’57, i Benedettini fanno ritorno a S. Giorgio a Venezia, dopo esservi stati sfrattati da Napoleone. Cini viene, inoltre, nominato Primo Procuratore di S. Marco tra il 1955 e il 1967 (la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica di Venezia, subito dopo il Doge), durante la quale appoggia importanti restauri nella Basilica di S. Marco. In questi anni instaura anche un intenso rapporto con i pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI. Cini, inoltre, fu per oltre mezzo secolo parrocchiano della chiesa dei Gesuati alle Zattere.
L’amicizia con Albino Luciani
Albino Luciani, poi divenuto papa Giovanni Paolo I, dal ’69 al ’73 è Patriarca di Venezia. In quanto tale, era membro d’ufficio del Consiglio Generale della Fondazione Cini. Come citato da Stefania Falasca (articolo pubblicato nella rivista “Lettera da San Giorgio”, Fondazione Giorgio Cini, Anno XI, n. 21, settembre 2009 – gennaio 2010), il 27 aprile 1970, partecipando per la prima volta alla riunione del Consiglio Generale, così si espresse: «L’altro giorno il conte Cini ha avuto la bontà di accompagnarmi a visitare il complesso intero di San Giorgio in Isola. Non c’ero mai stato. Ne sono tornato via con un’idea veramente grandiosa di quello che è stato fatto qui». «Le affinità elettive che lo legarono ad essa – scrive Falasca – s’intrecciano indissolubilmente con quelle del suo primo ispiratore, con l’uomo Vittorio Cini, che dei tempi aveva saputo capire, interpretare e far vivere ciò che ha una validità profonda e duratura. Non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del patriarcato di Luciani venne sancito, per volere di Cini, di trasmettere al patriarca protempore di Venezia i compiti che egli aveva riservato a sé stesso come fondatore». Inoltre, «il 5 aprile 1971 Albino Luciani, Vittorio Cini e Vittore Branca, ricevuti da Paolo VI, fecero omaggio al Papa del prestigioso volume sui tesori di San Marco, in occasione dei venti anni della Fondazione».
Il giorno del funerale del conte nel settembre del 1977, Luciani lo ricorda con queste parole: «A me Vittorio Cini guardava più come a un figlio. Mi minacciava, scherzando, col dito, mi rimproverava: “lei non mi chiede mai nulla”; “lei non sa quanto bene le voglia”; “lei lavora troppo”. Devo confessare che mi piaceva riscontrare in lui un caso in cui l’intelligenza e la cultura aiutavano la fede, invece che ostacolarla. Vedere come alla raffinatezza sorridente e garbatamente ironica del gentiluomo, soggiacesse una vera e profonda umiltà. Quando ieri appresi la sua morte mi sono sentito un po’ orfano, non mi vergogno a dirlo. Ed è con cuore di figlio che prego il Signore affinché lo riceva presto nel suo Paradiso».
E come ricorda p. Vincenzo D’Ascenzi in un articolo sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978, «il rito religioso (nel ’78, primo anniversario della morte, ndr) l’avrebbe dovuto celebrare il Card. Patriarca Albino Luciani; ma la sua imprevista elezione al Pontificato lo ha costretto a malincuore a delegare Mons. Loris Capovilla, già Segretario particolare di Papa Roncalli a cui Cini del resto era affezionatissimo».
Il rapporto con La Pira
Nel libro “Lo specchio del gusto. Vittorio Cini e il collezionismo d’arte antica nel Novecento” (a cura di Luca Massimo Barbero, Marsilio, 2021) si narra anche del particolare incontro di Cini col Servo di Dio Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze dal ’51 al ’57 e dal ’61 al ‘65. A metà degli anni ’50, in occasione della crisi delle Officine Galileo di Firenze, la cui proprietà era detenuta dalla SADE, (Società elettrica di cui Cini era presidente), «si intrecciò un rapporto particolare con il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che coinvolse il comune sentire spirituale delle due personalità individuali e collettive in economia. La Pira, convinto e accorato sostenitore che “una fabbrica è sacra, come è sacra la Cattedrale”, supplicava Cini: “Non licenziare, ne avrai benedizione dal Cielo e dalla terra”; Cini rispondeva fermamente ricordando la distinzione del piano spirituale da quello laico: “Sensibile ai richiami del Vangelo, io credo di essere tra coloro che maggiormente avvertono le esigenze sociali ed umane; ma penso che in una società bene ordinata è funzione dello Stato creare le condizioni necessarie perché il diritto al lavoro possa essere esercitato, o di provvedere alle conseguenze di una eventuale disoccupazione”». Una divergenza che rispecchiava però reciproca stima, «testimoniata anche dagli incontri avuti in occasione dell’avvio e delle prime iniziative della Fondazione Giorgio Cini».
Cini in fuga dai nazifascisti fu accolto a Padova dai francescani?
Una tappa importante della rinascita religiosa del Conte Cini, sulla quale vogliamo soffermarci in conclusione di questa nostra ricerca, è quella che va dal 1943 al 1947 e che riguarda Padova e Monselice.
Da Dachau alla Svizzera
Dopo il discorso del 19 giugno 1943, nel quale Cini esterna l’impossibilità di continuare la guerra con la Germania, seguito dalle proprie dimissioni – richieste il 24 giugno e accettate da Mussolini solo un mese dopo, il giorno prima del Gran Consiglio – Mussolini intende vendicarsi dell’ex Ministro, come avvertimento per gli altri Ministri che avrebbero voluto schierarsi contro il Duce. Lo fa quindi arrestare a Roma, nell’Hotel Excelsior dove il senatore risiede, il 24 settembre dello stesso anno. Cini viene inviato nella prigione del campo di concentramento di Dachau, in Germania, con altri sei italiani. Grazie al figlio Giorgio, dopo sei mesi viene trasferito nella clinica del dottor Bieling, un sanatorio a Friedrichroda, in Turingia. Il figlio gli fa visita, corrompe le guardie tedesche e il medico, e scappa col padre. «Oggi sappiamo che Giorgio dovette corrompere il colonnello delle SS di Roma, Eugen Dollmann, per salvare il padre», scrive Anna Guglielmi Avati, nipote di Vittorio Cini (Dal libro “Vittorio Cini. L’ultimo Doge”, “Il Cigno GG Edizioni”, 2022). Dollman non volle soldi ma chiese i favolosi smeraldi di Lyda Borelli, moglie di Vittorio Cini. Fabrizio Sarazani su “Il Borghese” del 9 ottobre 1977 propone una versione diversa sulle donazioni: «A Kappler regalarono un sarcofago etrusco e questi concesse il “visto” per il viaggio di Giorgio, il quale riuscì a salvare il padre conducendolo in Svizzera. Non era facile, nell’inverno 1943-1944, anche possedendo lingotti d’oro, giade, sarcofaghi etruschi, aver coraggio con tipi come Kappler! Giorgio, partendo, sapeva di poter finire in un forno crematorio».
Vittorio e Giorgio raggiungono quindi l’Italia: dopo un mese di clandestinità (in una casa di cura presso Padova, scrive la Treccani, ma vedremo come forse non è del tutto esatto), nel settembre 1944 vanno in Svizzera per raggiungere il resto della famiglia. Rimangono lì in esilio fino al 3 luglio 1946 (secondo la Treccani, fino al dicembre ’46). Nella cittadina svizzera di Tour-de-Peilz, vicino Vevey, dove vivono, Vittorio Cini – scrive ancora Avati – «incontrò colui che divenne per sempre suo consigliere e confessore, suo amico spirituale: il padre gesuita don Mario Slongo, all’epoca cappellano militare della Svizzera romanda». Durante il soggiorno svizzero, don Slongo celebra sempre la Messa per la famiglia Cini. «La spiritualità del senatore, uomo di mondo, poco religioso, era accresciuta durante la prigionia a Dachau. Qui, un prete cattolico, prigioniero anch’egli, gli aveva regalato un libretto di preghiere e gli distribuiva regolarmente la comunione (con del pane all’interno del quale erano nascoste delle ostie). Tutto questo era stato per Cini di grande conforto. Più tardi, padre Slongo confessò Cini perfino a Roma tutte le volte che questi glielo chiese: del resto, il senatore aveva l’abitudine di chiedergli consiglio per ogni cosa che faceva».
Don Slongo svolge un ruolo importante anche nella vita sentimentale di Cini. Una giovane, Maria Cristina Dal Pozzo D’Annone, conosce il senatore nel 1932 e si infatua di lui, ma solo il 16 febbraio 1967 don Slongo li unisce in matrimonio nella Cappella della Missione cattolica italiana a Muttenz, vicino a Basilea. «Da quel giorno in poi – scrive ancora Avati -, ad ogni anniversario del loro matrimonio, Cini e la nuova moglie si recarono a Muttenz, a casa della sorella di don Mario per pranzare, partecipare alla Messa e ricevere la comunione dalle mani del loro fidato amico».
Ma un mistero, legato al periodo tra il ’44 e il ’46, riguarda il conte Cini e i Frati Minori di Padova.
Cini ospite dei francescani a Padova?
Fra’ Graziano Marostegan, vicentino d’origine, da una decina di anni si trova nella Basilica di San Francesco a Ferrara, guidata dai Frati Minori, proveniente dalla Comunità religiosa di Sanzeno, nella Val di Non. È lui a raccontarci un aneddoto difficilmente verificabile in maniera integrale ma di particolare interesse, riguardante il periodo di clandestinità di Vittorio Cini tra il 1944 e il 1946: «il Conte Cini è stato ospitato clandestinamente al Convento del Santo a Padova, ai tempi guidato dal suo amico, il Padre Provinciale Andrea Eccher. Me lo raccontarono alcuni frati ora deceduti». Il periodo potrebbe essere tra il ’45 e il ’46, ma è forse più probabile nell’estate del ’44 prima della fuga in Svizzera. «In quel periodo – prosegue fra’ Graziano – alcuni giovani frati erano malati di tubercolosi, allora padre Eccher chiese aiuto a Cini, il quale diede loro in comodato d’uso il suo castello di Monte Ricco, vicino Monselice». Un luogo salubre dove poter curare i giovani infermi. Nel corso della Prima guerra mondiale il castello venne requisito per scopi militari dal Regio Esercito, che lo lascerà, completamente devastato, nel 1919. Vittorio Cini, entratone in possesso per asse ereditario (dalla nonna paterna Domenica Giraldi, che sposò il ferrarese Paolo Cini, e che ereditò anche delle cave nel monselicense), lo fa interamente restaurare, divenendo così una delle residenze di famiglia. Lì nascono anche le sue figlie. E Cini vuole che la chiesetta venga dedicata alla memoria di nonna Domenica, che di fatto lo allevò. Come detto, nel ’47 Cini lo dona ai Francescani di Padova, che lo trasformano in una casa di ritiro spirituale, l’eremo di Santa Domenica (in memoria della nonna di Cini), con possibilità di ospitare 60 persone. Nel 1981 passa di proprietà alla Regione Veneto e nel 2003 i frati lo trasformano in comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti e per l’accoglienza di alcune famiglie in difficoltà. I frati si sono trasferiti nella sede principale della comunità a Monselice (fra’ Graziano è stato l’ultimo a lasciare l’eremo), ma la comunità va avanti sotto altra gestione.
Abbiamo contattato i frati minori di Padova per cercare ulteriori conferme sul periodo di clandestinità di Cini a Padova ospite degli stessi frati. «Non ho mai trovato conferme di una sua ospitalità qui al Santo in qualche documento scritto», ci spiega padre Alberto Fanton, archivista della Provincia Italiana di Sant’Antonio. «Non nego che sia successo, ma erano sempre atti che “si-facevano-ma-non-si-documentavano”, non si lasciava, cioè, traccia formale in documenti, cronache, atti, verbali di capitoli conventuali. Ed è anche facile capirne il perché…».
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023
Biografia: la carriera, il fascismo, Dachau, la morte del figlio Giorgio
Nato a Ferrara il 20 febbraio 1885, in quella che oggi è Casa Cini, figlio di Giorgio Cini, farmacista ferrarese, e di Eugenia Berti, eredita dalpadre alcune cave di trachite nel Veneto e alcuni terreni nel Ferrarese.
Studia economia e commercio in Svizzera, e in Italia è il primo a intraprendere importanti opere di bonifica. Compie lavori di canalizzazione e progetta una rete per la navigazione interna della Valle Padana. Trasferitosi a Venezia, dove acquista il palazzo sul Canal Grande a San Vio, intreccia un saldo legame soprattutto con Giuseppe Volpi, sviluppando interessi in imprese elettriche (SADE), del turismo d’élite (CIGA), di costruzioni, comunicazioni e trasporti.
Il 19 giugno 1918 sposa l’attrice Lyda Borelli (dalla quale avrà quattro figli: Giorgio nato nel 1918, Mynna nel 1920, le gemelle Yana e Ylda nel 1924). Tra le numerose cariche, è stato Presidente dell’ILVA (dal 1921 al 1939), “fiduciario del governo” per il riassetto della struttura agraria del ferrarese (1927), senatore del Regno dal 1934 e, dal 1936, commissario generale dell’Ente esposizione universale di Roma.
Si dissocia dal regime fascista nel giugno 1943, dopo essere stato per circa quattro mesi Ministro delle comunicazioni, anticipando il pronunciamento del Gran Consiglio del 25 luglio e per questo viene catturato dopo l’8 settembre dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Dachau, da dove viene liberato grazie al figlio. Vittorio si ritrova, quindi, con Volpi in Svizzera e nel loro esilio stringono amicizia con personaggi della futura DC. Vittorio poi sostiene, anche con consistenti contributi finanziari, il movimento della Resistenza.
Sul suo legame col fascismo, Alessandro Meccoli scrive (su “Ferrara. Voci di una città – n. 7 / 1997”): «Mi narrava (…) di Italo Balbo, che nel 1926 gli aveva portato la tessera del Fascio a casa, per essere sicuro che l’accettasse (attenzione dunque: di chiare origini liberal-giolittiane, Vittorio Cini, al pari del suo fraterno amico e socio Giuseppe Volpi a Venezia, aderì formalmente al fascismo soltanto nel Ventisei, a cose fatte)».
Il 5 marzo 1946, il Consiglio dei ministri, per impulso di Alcide De Gasperi e di Carlo Sforza, restituisce a Cini la legittimità del titolo di senatore, per aver egli preso «netta posizione contro le direttive del regime» e aver dimostrato «vivo patriottismo e violenta avversione al fascismo e al tedesco invasore».
Il 31 agosto 1949, a soli 30 anni, il figlio Giorgio muore in un incidente di volo presso Cannes: il padre in sua memoria istituisce il 20 aprile 1951 la Fondazione che ne porta il nome, a Venezia, e Casa Cini a Ferrara. Vittorio Cini muore a Venezia il 18 settembre 1977 ed è sepolto alla Certosa di Ferrara insieme alla moglie Lyda Borelli, deceduta il 2 giugno 1959 a Roma.
La Fondazione Cini di Venezia in occasione del trentennale dall’apertura della Galleria di Palazzo Cini e il 60° della nascita dell’Istituto di Storia dell’Arte – avvenuta nel 1954 per volontà dello stesso Vittorio Cini -, organizza per oggi alle 17.30 l’incontro “La Sala dei ferraresi della Galleria di palazzo Cini”. Luogo dell’evento, la casa natale di Cini, in via Boccacanale di Santo Stefano, 26 a Ferrara.
Alessandro Martoni dell’Istituto di Storia dell’arte illustrerà i capolavori della collezione di artisti quali Cosmé Tura, Ercole De’ Roberti, Baldassare d’Este, Dosso Dossi e Ludovico Mazzolino, donando ai ferraresi l’occasione di riappropriarsi della figura di Vittorio Cini – imprenditore e grande collezionista di opere d’arte, fondatore e mecenate della Fondazione Giorgio Cini di Venezia -, e di rivedere le opere della la Sala dei Ferraresi della Galleria.
L’incontro è promosso dal quotidiano on-line “Ferraraitalia.it” in collaborazione con Casa Cini e con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara, della Galleria di Palazzo Cini e dell’associazione Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi.
La conferenza sarà presieduta e introdotta dal vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara, Massim Maisto, da don Ivano Casaroli direttore di Casa Cini di Ferrara e da Gianni Venturi, Presidente Amici dei Musei di Ferrara.
La conferenza rappresenta la seconda tappa di un percorso, che ha visto lo scorso 20 ottobre una conferenza introduttiva alla visita della Galleria di Palazzo Cini, svoltasi al Circolo Unione in via Borgoleoni, 59. Il prossimo 31 ottobre, infine, vi sarà la visita alla Galleria di Palazzo Cini a Venezia.
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
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"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)