Sacramento e abbandono: Marina Salamon a Ferrara

3 Apr

La sera del 30 marzo a Casa Cini è intervenuta la nota imprenditrice. In dialogo con Piero Stefani e coi presenti, è emersa la  complessità di una vita tra fede, carriera e famiglia

di Andrea Musacci

Per don Lorenzo Milani era centrale l’aspetto sacramentale oppure quello caritatevole/pastorale? Era un esponente ante litteram della “Chiesa in uscita” o, semplicemente, un sacerdote della Chiesa pre Concilio Vaticano II, che cercava, ogni giorno, di incarnare il Vangelo?

Da questi dilemmi, escono, da decenni, accesi dibattiti. Uno di questi, si è svolto la sera del 30 marzo a Casa Cini, Ferrara, in occasione dell’ultimo incontro della Cattedra dei credenti organizzata dalla Scuola di teologia “L. Vincenzi” e coordinata da Piero Stefani. Proprio quest’ultimo ha dialogato con Marina Salamon, personalità eclettica del mondo imprenditoriale italiano, verve da ragazzina e forza da matriarca.

Anelli e catene: il dono, il denaro, la profezia

«Vengo da una famiglia borghese e non credente ma amante di don Milani, che diventava quindi un anello di congiunzione», ha esordito Salamon. Un anello, dunque, il primo che la tenne legata, per alcuni anni, alla Chiesa. Poi ne vennero altri, gli scout («ho avuto il grande dono di incontrare Dio attraverso lo scoutismo e S. Francesco d’Assisi»), Comunione e Liberazione, con quella Jeep comprata coi primi soldi guadagnati e donata a un amico ciellino missionario in Africa.

«La mia fede è un dono» ma ho passato parte della mia vita a sentirmi fuori posto, a essere considerata irregolare, per i figli che ho avuto fuori dal matrimonio e i miei due divorzi alle spalle». Quegli anelli, segno di profonda unione e di libertà, sono diventati catene da cui liberarsi. 

Marina inizia dunque la propria carriera imprenditoriale: da lì il successo, la ricchezza, la fama. Ma sempre senza diventarne schiava. Sì, perché le catene possono anche essere quelle del guadagno, della ricchezza e della sua ostentazione. «Da tanti anni faccio filantropia, ma solo da alcuni rifletto su come possa diventare metadone, cioè possa aiutare a tenere la propria coscienza a posto. Non amo la ricchezza che diventa simbolo del lusso, ostentazione», sono ancora sue parole. «Il denaro dovrebbe essere solo uno strumento e invece troppo spesso ho visto ricchi farsi del male perché non sapevano usarlo». Denaro che, «come ci insegna la Parabola dei talenti, non è davvero nostro», e quindi è da restituire e reinvestire.

Da qui, una riflessione sul mondo di oggi, dove ostentazione e speculazione dominano. «Il tema della finanziarizzazione è serio, grave, incombente, le disuguaglianze aumentano ma bisogna ancora tentare di creare nuove possibilità. Per questo, c’è bisogno di profezia, e di una profezia incarnata nel fare». Per Salamon, pensando anche alle lotte di queste settimane in Francia, «dobbiamo ridefinire l’impegno, l’utilità sociale e il senso del lavoro: perché lavoriamo? Per costruire quale società?». Il suo pensiero è quindi andato alla lettera che don Milani nel ’50 a San Donato a Calenzano scrisse a Pipetta, giovane comunista, suo “compagno” di battaglie, ma che ammonisce così: «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”». È questa la profezia, il non sentirsi mai appagati, il «saper andare oltre», il sapere che c’è sempre Qualcosa che ci supera. 

Sempre capaci di rimetterci davanti a Dio

Questo suo bisogno – di don Milani, e di Salamon – di andare sempre oltre il presente, la concretezza così velocemente tramutabile in grettezza, è stato ripreso da Piero Stefani, che ha posto l’accento sulla «spiritualità “tridentina”» di don Milani, nella quale «centrali erano i sacramenti e un’idea del peccato molto forte».

Ai suoi ragazzi di Barbiana una volta disse: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso (settimanale laico di sinistra, ndr). L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. (…). In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo». Don Milani era quindi, per Stefani, «il rappresentante di un cattolicesimo che non c’è più».

«Sento spesso il bisogno di rimettermi davanti a Dio – ha risposto Salamon -, perché quando senti la spaccatura dentro di te fra intelligenza e libertà, logica e desiderio di bene, di ciò hai bisogno, e solo di ciò: per questo, don Milani amava la Confessione». Senza, però, «rifugiarsi nei sacramenti» ma vi aderiva per appartenere alla Chiesa, «altrimenti penso avrebbe spaccato tutto… . Non credo, quindi – ha proseguito Salamon – che la sacramentalizzazione fosse centrale in lui». E a maggior ragione oggi, i sacramenti sono ancora fondamentali ma «dobbiamo anche riscoprire il bisogno, di ognuno, di sentirsi accolto, di potersi fidare e abbandonare all’altro».

Un dialogo, con Stefani e col pubblico, conclusosi con la commozione di Marina Salamon. Lacrime di dolore, le sue, per la giovane nipote morta suicida, e per il ricordo dei sei figli perduti in gravidanza. Ma anche lacrime di riconoscenza, segno sacro. Come segni sono quelle piccole chiese gotiche di cui Marina è sempre alla ricerca, e quel Santuario parigino della Medaglia Miracolosa tante volte sfiorato e solo dopo tanto tempo davvero “visto”, come una rivelazione. Un luogo dove potersi abbandonare, dove vedere – col cuore – sacramento e carità uniti oltre ogni falsa separazione.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

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