Archivio | dicembre, 2025

Una Certezza nel cuore per affrontare i dolori dell’esistere

19 Dic

Immerso nell’amore è il nuovo libro di Alberto Fogli: un cammino verso la luce

di Andrea Musacci

Immerso nell’amore. Il buio profondo e il faticoso ritorno alla vita. Una misteriosa vigilia di Natale (Gruppo Sigem/Celloni Editori, ottobre 2025) è il titolo dell’ultimo libro di Alberto Fogli, ex docente e giornalista, che firma il volume con lo pseudonimo Albert Fohy.

Siamo nel 2020, in quello che verrà per sempre ricordato come l’anno del covid, con «bare e bare di chi era purtroppo caduto sotto la falce della morte senza un qualche giustificato motivo e, tanto meno colpa; fu uno shock generalizzato». 

VIA CRUCIS, VIA CAELESTIS

Alfred Taylor, residente in Italia, protagonista di questa storia, è un uomo anziano, un padre, un nonno, da alcuni anni rimasto vedovo dopo la morte della sua Myriam. Nel 2020 Alfred viene intubato in terapia intensiva. Si troverà fisicamente ma soprattutto spiritualmente, in una sorta di limbo, vivendo un’esperienza anche simile a quella della pre-morte (ne parla ad esempio Antonio Socci in Tornati dall’Aldilà e in Caterina). Un viaggio “allucinato”, drammatico e sublime, che lo porterà a Roma per un convegno culturale, sequestrato, poi in giro per l’Umbria. In questi viaggi “altrove”, «provava come un senso di leggerezza mai scoperto prima. Si librava in un cielo di un azzurro quasi celestiale. Volava in leggerezza in un infinito incredibile. Non esisteva più niente: né tempo, né spazio. Solo un grande silenzio ed una serenità mai provata nella vita; una serenità che gli parlava solo di Amore e che lo faceva sentire immerso nell’Amore». Ma il presente per Alfred è il coma farmacologico, la «disperazione», la «sofferenza senza fine», la «battaglia immane». E poi ancora i “viaggi”, fuga e lenitivo da quel dolore, da quella solitudine: Alfred si trova sulla spiaggia di Milano Marittima con le sue due nipotine, alle Dolomiti bellunesi (torneranno nelle memorie legate ai primi viaggi con Myriam). Ma anche qui la minaccia del nemico, l’agguato dell’estraneo è realtà, pur nella fantasia. Come lo è nella veglia, con un crollo della sua salute poco prima di Natale. E proprio la vigilia del giorno tanto atteso, avviene il miracolo: «Alfred apre gli occhi, sorride ai presenti e inizia a respirare autonomamente». Il respiro che è ruah, Spirito. Il successivo passaggio nel reparto di degenza rappresenta però un nuovo abisso, quel «vuoto in cui vagava senza luogo e senza tempo».

AMORE CHE REDIME…

E qui appare il viso angelico, eterno di Myriam (lui la chiama Jho), cuore più intimo del suo cuore, sua amata, volto dell’amore eterno. Colei che diventerà sua moglie. Apparizione, divina epifania: il nascere dell’Eterno nella carne sarà rappresentato, qui, dal rinascere spirituale di Alfred anche grazie alla presenza femminile – in carne e spirito –, del volto dell’amata. Dell’altro-da-me che ancora una volta, sempre, mi salva.

Il tempo è quello che un’esperienza del genere, però, permette di recuperare, certo trasfigurando volti e ricordi, ma pur sempre salvandoli dall’oblio. Così, nella terza parte del libro, Fohy ripercorre i momenti indimenticabili dell’incontro e dell’innamoramento con Myriam: la «paziente attesa», il profumo dei fiori, il primo bacio, il ballo «sulla celestiale musica di Strauss», il matrimonio nel mese di maggio, la nascita dei due figli, i pellegrinaggi nei luoghi della cristianità per rafforzare il loro sposalizio. “Licenze” al romanticismo più puro non solo concesse ma anzi ben accolte, che il clima di dramma e sofferenza evita di trasformare in sdolcinatezze. Il loro amore è pieno non perché perfetto ma perché relazione che si svolge nella reciproca fiducia, nel dono e nell’abbandono, nella fede. «E così pensando pregavano…». E la preghiera si fa anche contemplazione della bellezza dei doni di Dio nel creato, «mentre esprimevano, nel loro intimo, il desiderio di conoscere l’Autore di tanta bellezza. La bellezza del cuore umano. La bellezza dell’amore».

…AMORE OLTRE LA MORTE

Amore più forte della morte intesa come limite terreno ultimo e come anticipo della fine nella sofferenza. Quella che colpirà Myriam, tornata al Padre nel giugno del 2018: «Questi ultimi sette anni li ha trascorsi sulla sua croce in un deserto umanamente sempre più arido ma illuminato dalla Fede non mancando di sostenere i suoi cari nei loro impegnativi incarichi nel mondo del volontariato, sociale ed ecclesiale. Sempre presente e lucida, aveva ricevuto il conforto ultimo dei Sacramenti. La sua apparente serenità meravigliava il personale sanitario data l’estrema sofferenza fisica stampata sul suo volto».

LA CROCE DEL RIMPIANTO

Una nuova croce – dolorosa ma “necessaria” – ora la dovrà portare Alfred: quella del «rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, per ciò che si voleva dire e non si è detto, per ciò che si voleva fare e non si è fatto e per quanto si poteva amare e non si è amato». «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio», per dirla con San Paolo (Rm 7, 19). Un rimpianto che, come tale, non dà compagnia a chi lo vive ma anzi accentua la solitudine, la rende più pesante, più angosciosa. E rimpianto che è anche rimorso: «vorresti rivolgerti al cielo chiedendogli di rimandarti la tua Jho, anche solo per qualche tempo, per poter scaricare la tua amarezza per certi tuoi comportamenti mai corretti e chiederle perdono ricevendo, possibilmente, un abbraccio liberatorio». Il distacco della morte, dunque, segna un solco tra Alfred e la pace anelata, un abisso tra un passato agrodolce ma comunque vissuto nell’amore, e un presente da ricostruire. Il passato si avvelena, il rimpianto lo adultera, spegnendo così le luci dell’avvenire. Il passato diventa una pietra scagliata su una serenità tanto desiderata. Non “il passato”, ma “un passato”: perché la memoria è sempre selettiva e l’assenza di speranza nel cuore la rende amara, insopportabile.

CERTEZZA

Ma come una prima rinascita di Alfred avvenne col primo incontro con l’amata, così anche ora le mani e gli occhi di lei tornano ad essere rassicuranti, a lenire le ferite, a ridare conforto, pur non più nella forma del corpo, per la via dei sensi.

Ora, la Speranza di Alfred è la Certezza di Myriam.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 dicembre 2025

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(Foto Ivan S – Pexels)

Un treno che si chiama Carità: il libro postumo di Gianni Fiocchi

17 Dic

«Venite e vedrete», dice Gesù ai primi due discepoli. Messaggio ripreso – come lascito – da Gianni Fiocchi, barelliere Unitalsi a Lourdes, nel suo libro uscito postumo

di Andrea Musacci

«Venite e vedrete», dice Gesù ai primi due discepoli che si mettono alla sua sequela (v. Gv 1, 29-42). L’invito a incontrare la Verità, a sperimentarla direttamente con gli occhi di carne e soprattutto con quelli del cuore, è l’invito che si rinnova, da allora, ogni qual volta parole di scherno o di scetticismo vengono proferite riguardo alla Bellezza e all’unicità del vivere seguendo il Risorto. 

E sono quelle che chissà quante volte, col tono fermo e lo sguardo dolce, ha pronunciato Gianni Fiocchi, barelliere volontario dell’Unitalsi di Ferrara e dirigente del locale Serra club, tornato al Padre lo scorso marzo all’età di 72 anni. Proprio l’Unitalsi ferrarese e il Serra club hanno da poco dato alle stampe il suo libro dedicato all’esperienza che gli ha sconvolto la vita, dal titolo Quel treno per Lourdes (novembre 2025).

Libro che, oltre a un testo dell’Assistente spirituale don Giovanni Pisa, contiene due significative prefazioni: quella di Neda Barbieri, Presidente sottosezione Unitalsi Ferrara, e quella di Alberto Lazzarini, Governatore del Serra club dell’Emilia-Romagna. Barbieri nel libro scrive: «Gianni era l’animatore delle feste di Capodanno, colui che alleggeriva momenti complessi con una battuta e un sorriso, che leggeva sempre la preghiera finale nelle celebrazioni e che raccontava con passione la bellezza di un’amicizia con una persona malata o fragile in particolare dopo essere stato lui stesso toccato dalla malattia».

«PER CONFONDERE I SAPIENTI»

«In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”» (Mt 11, 25).

Fiocchi era stato a Lourdes molte volte negli ultimi 30 anni, come barelliere capo dei treni bianchi e come hospitalier. Dicevamo del “venire e vedere” come regola del vivere. «Che cos’ha questo luogo in più di altri? Lo scoprirai venendo a Lourdes – scriveva Fiocchi -, vivendo intensamente i giorni del tuo pellegrinaggio, raccogliendoti in preghiera alla grotta, visitando i luoghi dove ha vissuto Bernardette. Una bella storia quella di Lourdes che si ripete anno dopo anno, viaggio dopo viaggio e non finisce mai».

Una storia iniziata nel 1844 con la nascita di Bernadette Soubirous nel mulino di Boly, dove visse felice i primi anni: in questi momenti «Dio ci sembra vicino», ma Bernardette «sperimenterà la fedeltà di Dio che non abbandona mai quelli che ama». La Vergine Maria – prosegue Fiocchi – in lei «ha scelto la persona più povera e ignorante per rivelarci che ognuno di noi occupa un posto unico nel cuore di Dio. (…) la “follia” di Lourdes non è altro che la “follia” del Vangelo (…). Dio, come tante altre volte, si è servito di un povero per confondere i sapienti, al punto che ha affidato il messaggio di Maria nelle umili mani di Bernardette». Parole che richiamano il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva (…) ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».

QUELL’ACQUA CHE MONDA DAL PECCATO

L’umiltà, certo: «Quello che succede a Bernardette, è ciò che noi tutti siamo invitati a scoprire nella nostra vita», scrive ancora Fiocchi. «Dobbiamo essere umili nel chiedere aiuto e non chiuderci nel nostro orgoglio, e proseguire il nostro cammino nonostante la nostra povertà, la sfiducia, lo sconforto, la paura di ricevere rifiuti da chi ci circonda, così come è stato per Bernardette». Aquerò (“Quella là”, come Bernardette chiamava la Madre di Dio) il 18 febbraio, nella terza apparizione, «le ha rivelato che lei, Bernardette è importante per Dio, ed è amata da Lui». 

E la giovane in queste visioni scopre anche «il senso del peccato: è quello di non amare Dio che ci ama tanto. Il peccato sporca, deforma la somiglianza con Dio che è in noi in forza del battesimo (…) ma la ragazza non si scoraggia, l’acqua della sorgente poco a poco diventa limpida, il suo volto lavato dall’acqua ritrova finalmente la sua luce, e torna la gioia e così anche la folla. È la gioia ritrovata del peccatore perdonato». 

Bernardette – riflette ancora Fiocchi – «non è santa perché ha visto la Madonna, lo è diventata per grazia di Dio, per la sua risposta di fedeltà nel compiere la volontà e nell’abbracciare la pesante croce che l’ha macinata come il grano del suo mulino. Bernardette ha così tracciato un solco, un cammino di santità che tutti, anche se con modalità diverse, possono percorrere con l’aiuto della Vergine».

L’ENTUSIASMO» DI QUEI «QUATTRO PAZZI»

«Estate 2002, il mio primo viaggio, sembra ieri…sono trascorsi dieci anni. Mi avevano “avvisato”, “prendi quel treno e non scenderai più”». E Fiocchi, infatti, da quel treno non c’è mai sceso, come scrive Lazzarini nella sua prefazione: «anzi è ancora là con gli ammalati, con chi vive la solitudine e la sofferenza, ma anche con i suoi colleghi “carrettieri” e suoi amici e conoscenti…».

Quel «treno bianco, carico delle sue sofferenze, delle sue miserie, delle sue speranze ma soprattutto carico di una fortissima fede, mai messa in discussione, che si rinnova sempre, anno dopo anno, viaggio dopo viaggio». Sono oltre 20 le ore di viaggio in treno per arrivare a Lourdes. Fiocchi scrive che più che “bravo” per ciò che fa si ritiene “fortunato” dato «che in cambio di un semplice gesto riceve, quale prezioso compenso, un sorriso da chi soffre, un momento di felicità da chi è meno fortunato». Nessuna risposta razionale può spiegare quel non riuscire, una volta saliti, a scendere da quel treno, se non materialmente, con tutta l’anima: «so solo che inspiegabilmente continuo a riprenderlo con immutato entusiasmo».

Un treno normale, come tanti, ma con un carico «speciale»: «non normali viaggiatori che si servono del treno per i propri spostamenti, ma persone, abili e non abili, legate da un rapporto comunitario dove ricevere e donare non ha più significato, dove la sostanza di scambio è esclusivamente amore vero». Quasi 24 ore di viaggio «trascorse in letizia uno accanto all’altro, dove scompaiono le umane etichette che ci separano nella vita di ogni giorno, dove l’uguaglianza regna sovrana». «Sì, forse siamo matti, siamo felicemente contagiati dal virus, benigno, di Lourdes», scrive ancora Fiocchi; «scusate, quei quattro uomini, come riportato nel Vangelo di Marco, che scoperchiano una casa pur di mettere al cospetto di Gesù un ammalato, non sono quattro pazzi? Ma quattro pazzi da ricevere la gratitudine di Gesù…».

PIANTO LIBERATORE

Per concludere, uno dei commoventi aneddoti legati a Lourdes che Fiocchi racconta nel libro, una sorta di testamento nel testamento: «Pellegrinaggio, giugno 2007, sono di servizio con altri fratelli alle “piscine”, entra un uomo in evidente stato di agitazione. Spogliatosi, lo invito ad un suo personale momento di raccoglimento prima di essere immerso nell’acqua di Lourdes. Questi con fare di sfida mi guarda dritto in faccia e mi dice che non ci crede. È venuto a Lourdes, si sta per bagnare in quell’acqua fatta sgorgare da Maria per mezzo di Bernardette e non crede. Pochi attimi e scoppia in un pianto dirotto, entra nella vasca, va verso l’immagine di Maria, si inginocchia, la bacia e la ringrazia perché il figlio è uscito dal tunnel della droga. Ci ha abbracciati uno per volta, lentamente è uscito con uno sguardo nuovo, non più sprezzante ma pieno di Fede».

Insomma, in questo libro-testamento Fiocchi, alla fine, ci lascia un unico grande messaggio: per assaporare «l’intensità» dell’emozione tipica di Lourdes, «la devi solamente provare, la devi solamente vivere».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 dicembre 2025

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«Speranza, fatica e memoria: ecco la mia canzone per Aldro»

13 Dic

FEDERICO ALDROVANDI. A 20 anni dall’uccisione del giovane, Patrizio Fergnani gli ha dedicato il brano Il Coraggio di ieri è la strada di oggi. Lo abbiamo intervistato

di Andrea Musacci

Da alcuni giorni è disponibile su tutte le piattaforme online la canzone Il Coraggio di ieri è la strada di oggi, testo e musica di Patrizio Fergnani e riferita alla storia di Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni ucciso il 20 settembre 2025 da quattro agenti di polizia in zona Ippodromo a Ferrara. 

L’immagine di copertina scelta è a cura di Nicola Fergnani: si vede Federico sorridente a tavola durante una festa di compleanno a casa di Patrizio Fergnani il 3 ottobre del 2000.Ai tempi Federico aveva 13 anni.

Abbiamo incontrato Fergnani per farci raccontare la genesi e il senso di questo progetto musicale della memoria.

Patrizio, come e quando è nato in te il desiderio di comporre e quindi cantare questo brano? Possiamo dire sia stata una sorta di “urgenza” sopraggiunta nel tuo cuore?

«Quest’anno sono vent’anni dalla morte di Federico. Mi è capitato di incontrare più volte Lino, suo papà, e confrontarmi con lui su diversi temi partendo dalle nostre esperienze di padri. Ho trovato in lui una forza e una dignità che mi hanno toccato profondamente. Luigi Manconi, alla presentazione delle iniziative previste per ricordare Federico, mi ha emozionato rilanciando il dolore dell’esperienza vissuta come uno stimolo per guardare avanti. 

Ero un po’ scombussolato e ho provato a scrivere qualcosa con la chitarra e il piano: in un paio di giorni ho finito la canzone. Come dici tu è stata una specie di urgenza che ho vissuto pochissime volte». 

Raccontaci se vuoi del tuo legame con Federico e dell’amicizia storica con la sua famiglia.

«Federico è coetaneo e compagno di scuola di mio figlio Andrea: alla Sacra Famiglia sono stato catechista del loro gruppo dalla prima confessione alla cresima. È stato così che ho conosciuto Lino e Patrizia. 

Dopo la morte di Federico li ho seguiti “a distanza”, incapace di accettare fino in fondo la tragedia che li ha coinvolti. È un legame di solidarietà alimentato anche dalla conoscenza di Stefano, il fratello di Federico, amico di mia figlia Irene».

Quando e come hai reso partecipi i suoi famigliari e i suoi amici di questo tuo progetto di una canzone a lui dedicata? E come hanno reagito?

«Ai primi di luglio avevo la versione “grezza” della canzone: ho chiamato Lino e sono andato da lui a fargliela sentire. C’era anche sua mamma: per me è stato un momento molto intenso e loro, commossi, mi hanno incitato a proseguire. Insieme abbiamo scelto il titolo che è l’inizio dell’ultima strofa. 

Successivamente ho inviato la prima registrazione, fatta alla buona con lo smartphone, e il testo a Patrizia, la mamma di Federico: anche lei mi ha incoraggiato. A seguire ho inviato il tutto al gruppo degli amici del Comitato Federico Aldrovandi 2005–2025 che mi hanno inserito nel programma del concerto del 27 settembre. L’esecuzione poi è saltata a causa del fortissimo temporale che si è scatenato proprio nel tempo a nostra disposizione».

Come sempre capita per i tuoi progetti musicali, anche questo brano vede diverse collaborazioni artistiche: ce ne vuoi accennare? 

«Conosco i miei limiti da “chitarrista da parrocchia” e da pianista che ha smesso di studiare nel secolo scorso: per questo sono fortunato ad avere amici a cui posso rivolgermi. Corrado Calessi ha fatto un bellissimo arrangiamento e ha coinvolto musicisti di grande valore a cui si è aggiunta Erika Corradi con la sua bella voce (che supporta la mia che a volte rivela la mia emozione) e ha curato i riempimenti vocali. 

Abbiamo registrato nella taverna-studio di Corrado: per me una sensazione speciale sapendo che al piano di sopra abita il maestro Pierluigi Calessi che tanti lettori della Voce ricorderanno come direttore storico dell’Accademia Corale Vittore Veneziani. Era pronto ad accompagnarmi dal vivo anche un quartetto d’archi ma il temporale di cui sopra lo ha impedito».

In questo tuo brano ci trovo un’ambivalenza: da una parte un senso di sconforto, di disillusione, di crudo realismo nei confronti dell’ingiustizia che spesso sembra dominare questo mondo (la «menzogna», il «marcio», la «miseria» umana, «l’indifferenza»); dall’altra parte una speranza sempre viva (un futuro vivo, una luce che sempre si accende…). In quale tensione stanno i due poli, nel tuo cammino di fede e nella vicenda di Federico?

«La tensione fra questi poli penso sia il nucleo dell’esperienza di molte persone: sicuramente vale per me. Tra lo sconforto e la fiducia ci si muove quotidianamente: penso alla forza con cui Patrizia, Lino e Stefano affrontano ogni giornata da vent’anni a questa parte. Nella canzone ho espresso una possibilità inserendo nel ritornello il salmo 85 (“Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”): mi sembra uno slancio che non implica necessariamente uno sguardo di fede. 

Subito dopo, però, appare la fatica nella consapevolezza che “la speranza non è consolazione”».

Un’ultima domanda: quattro anni fa hai presentato il tuo brano dedicato a un’altra giovane prematuramente scomparsa, la Serva di Dio Laura Vincenzi. La storia di Laura e quella di Federico – pur diverse – hanno qualcosa in comune?

«Per me sono due canzoni nate entrambe quasi come volessero scriversi da sole e questo mi fa riflettere molto. Poi le loro diverse storie di sofferenza hanno in comune il coinvolgimento successivo di tante persone: Aldro vive con noi e Laura canta insieme a noi testimoniano una presenza importante.

Infine li immagino insieme, nel posto riservato a loro in Paradiso, a scrivere nuove canzoni da mandare qui da noi attraverso qualche persona».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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“Passione cinema”: il libro con 25 anni di Micalizzi sulla “Voce”

13 Dic

Paolo, nostro collaboratore dal 1967, ci ha lasciati il 20 ottobre 2024: lo ricordiamo col libro che tanto desiderava e un incontro giovedì 18 dicembre a Casa Cini

[Qui la locandina dell’iniziativa del 18 dicembre]

di Andrea Musacci

È con grande commozione che come Voce presentiamo il libro di Paolo Micalizzi dal titolo Passione cinema. Oltre un secolo di film, volti e storie, che esce come supplemento della nostra rivista. Paolo ci ha lasciati il 20 ottobre 2024 (erano giorni miti e piovosi) e fino all’ultimo è stato un fedele e costante collaboratore del nostro Settimanale.

Il libro è una sorta di antologia-testamento: raccoglie oltre 25 anni di collaborazione con la Voce, dal 1999 al 2024. Ho avuto la fortuna di curare questo volume, ma più che curatore ne sono stato co-curatore, insieme a Paolo. Questo, infatti, non è un libro dedicato a lui ma è il suo libro, il libro che lui ha desiderato, sognato, che ha ideato e organizzato, col sostegno mio, di don Massimo Manservigi e di Laura Magni.

Il volume verrà presentato – in collaborazione col Circolo della Stampa di Ferrara – giovedì 18 dicembre alle ore 17.30 a Casa Cini, Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24 – v. locandina a pag. 5). Il volume (prezzo 15 euro) sarà acquistabile in quell’occasione o successivamente a Casa Cini (contattare il numero 350-5210797) o nella Libreria Paoline di via San Romano.

IL LIBRO: GENESI E STRUTTURA

Gli articoli contenuti in questo volume sono stati pubblicati nella rubrica settimanale Panorama Cinema, poi diventata Cinenotes. Il lavoro per la pubblicazione inizia nel 2024 con la scelta degli articoli, la correzione, il disporli in senso cronologico (il più vecchio è del giugno 1999 ed è dedicato a Mario Soldati; i più recenti sono dell’aprile 2024 e sono due articoli “religiosi”, uno sulla Cattedrale di Ferrara e l’altro sulla figura di Gesù Cristo nel cinema); e poi il dividerli per macro sezioni (Cinema italiano, Cinema internazionale, Cinema ferrarese, Cinema religioso); e le prime due macrosezioni – le più corpose – nel suddividerle a loro volta in cinque sottosezioni: Dive&Divi, Maestri della regia, Storia, arte e letteratura, Protagonisti della settima arte, Coppie: gli indivisibili. Poi vi è stata la stesura degli indici (quello generale e quello dei nomi) e la scelta delle immagini. E a proposito di queste, Paolo per la copertina mi aveva suggerito di usare una locandina del cinema dei fratelli Lumière del 1895.

(Leggi l’articolo intero e il ricordo scritto da Maurizio Villani qui).

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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Unitalsi, storia di gioia e di autentica consolazione 

12 Dic

La sottosezione di Ferrara festeggia i suoi primi 90 anni di vita: in crescita i soci e i partecipanti ai pellegrinaggi. Il ricordo delle origini, con il gruppo alla Montedison

Era gremito di volti e storie il Salone di Casa Cini lo scorso 6 dicembre in occasione dello storico Convegno dell’Unitalsi di Ferrara, che cade in occasione del 90° dalla nascita (1935-2025). Convegno a cui è seguita la Messa nella chiesa di Santo Stefano e un momento conviviale nella canonica di Santo Stefano.

A Casa Cini han preso innanzitutto la parola per un breve saluto Alberto Gardini, Vicepresidente regionale Unitalsi Emilia-Romagna – che poi ha donato all’Unitalsi di Ferrara una pergamena in ricordo del 90° anniversario – e l’Assessora di Ferrara Cristina Coletti. L’Assistente spirituale don Giovanni Pisa ha guidato la preghiera iniziale prima della relazione di Neda Barbieri, Presidente Unitalsi Ferrara: «l’Unitalsi unisce l’esperienza di fede al volontariato di tutti i giorni», ha detto, prima di presentare il libro “Quel treno per Lourdes” di Gianni Fiocchi, volontario dell’Unitalsi Ferrara e del Serra club locale, tornato al Padre lo  scorso marzo (del libro parleremo in maniera più approfondita nel prossimo numero). «Le bozze del libro – ha raccontato Barbieri – ci sono state consegnate come Unitalsi da Mario Cova delSerra club ferrarese; così, abbiamo raccolto un po’ di donazioni per la stampa, avvenuta pochi giorni scorsi». A tal proposito, a seguire è intervenuto anche il ferrarese Alberto Lazzarini, alla guida del Serra club regionale, che ha illustrato il Quaderno di Fiocchi, «uomo capace di forti testimonianze di fede, semplici nella modalità ma grandi nella consistenza effettiva».

Tornando alla storia del’Unitalsi, la sottosezione di Ferrara nasce nel maggio del 1935 con primo presidente l’avv. Giuseppe Devoto (morto nel ’52). «Ma ai pellegrinaggi a Lourdes e a Loreto alcuni ferraresi partecipano fin dal 1931», ha detto Barbieri. Dalla sottosezione Unitalsi di Ferrara nacquero poi quella di Comacchio e quella alla Montecatini nella nostra città: «l’Unitalsi ai tempi era una delle poche associazioni con sottosezioni anche nelle fabbriche. A inizio anni ’50 la Montedison offriva viaggi in Francia per dipendenti meritevoli: alcuni ferraresi nel ’53 andarono a Lourdes rimanendo molto colpiti dalla fede che si respirava e dai tanti volontari». Uno degli operai disse di ritorno da Lourdes: «Abbiamo vissuto un’esperienza sconvolgente, un totale cambio di indirizzo alla nostra esistenza (…). Il Signore aveva fatto la Sua chiamata e noi come figli abbiamo risposto».

Da loro quindi iniziò il servizio per gli operai malati della Montedison, «e ancora oggi facciamo ogni Pasqua una Messa al Petrolchimico, grazie in particolare a Tonino Savadori», ha aggiunto la Presidente. 

L’Unitalsi nazionale nacque invece nel 1903 grazie alla conversione di Giovanni Battista Tomassi, nobile 23enne affetto da una grave forma di artrite deformante irreversibile che lo costringeva in carrozzella da quasi dieci anni. Tomassi chiese di partecipare al pellegrinaggio con l’intenzione di togliersi la vita con un colpo di pistola davanti alla grotta di Massabielle. E invece proprio lì inizio una nuova vita, si convertì e in lui nacque il desiderio di dar vita a un’associazione, quella che sarebbe diventata l’Unitalsi.

Barbieri ha poi spiegato come Unitalsi sia presente in tutta Italia con diverse Case di accoglienza, sia attiva con la Protezione civile e col Servizio civile, e come dal 2009 sia parte del progetto Cuore di latte col quale aiuta, sempre con una Casa, bambini disabili a Betlemme.

La Presidente ha poi spiegato come il servizio di Unitalsi Ferrara si basi sulla preghiera, la formazione, l’amicizia, le vacanze condivise, le feste e altri momenti conviviali (concerti, pranzi, compleanni, ricorrenze). E la festa di Capodanno che, come da tradizione, «si svolgerà anche quest’anno». Venendo ai numeri, nel 2025 sono stati 1427 i partecipanti ai pellegrinaggi di tutte le Unitalsi della nostra Regione, di cui 123 ferraresi (dei quali 22 persone con disabilità, 39 volontari e il resto semplici pellegrini).Dati in aumento: ad esempio, nel 2024 erano stati 49 i pellegrini per Lourdes, diventati 60 quest’anno.  Così come in aumento sono i soci, 211 nel 2025 (nel 2021 erano 133). Sempre nel 2025, per l’Unitalsi di Ferrara sono state 300 le uscite con accompagnamenti, oltre 100 le visite in casa o struttura, 236 i trasporti, oltre 50 le assistenze e le visite in ospedale. Ma si guarda già al futuro: per il 2026 sono previsti diversi pellegrinaggi, fra cui dal 9 al 13 febbraio, in pullman, il primo a Lourdes. Una novità per il prossimo anno riguarda, poi, di nuovo la possibilità di pellegrinaggi in treno: si tratta di quello a Lourdes del 23-28 agosto e di quello ancora a Lourdes del 23-29 settembre, quest’ultimo con anche la possibilità del pullman.

È poi intervenuto il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego che ha riflettuto a partire dall’Esortazione Dilexi te di Papa Leone XIV (ma iniziata da Papa Francesco): «la qualità della fede cristiana dipende dalla qualità dell’amore cristiano», ha detto.«La carità cristiana non è nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione», scrive il Papa: «in ogni gesto d’amore, infatti, facciamo nostro l’amore che Dio ha avuto e ha per noi». La preferenza per i poveri e i malati «non è esclusiva, cioè non esclude tutti gli altri, ma anzi è inclusiva, cioè è la base di partenza per l’amore verso ogni persona». IlVescovo ha poi ripercorso brevemente il ruolo della Chiesa, delle sue donne e dei suoi uomini nei secoli a favore dei poveri, compresa la nascita del primo nucleo dell’Ospedale Sant’Anna a Ferrara nel 1443 grazie al Vescovo Tavelli.E ha quindi parlato del forte impegno, anche oggi, delle varie associazioni cattoliche e dei diversi ordini religiosi della nostra Chiesa – locale e non – nell’ambito dell’assistenza e dell’accompagnamento ai malati.

Nell’omelia della Messa a S.Stefano ha invece detto in un passaggio: «Il Bollettino ufficiale della nostra Arcidiocesi del maggio del 1935, mentre augurava al Consiglio “fecondo lavoro di pace e di bene” ricordava che il primo Consiglio era formato dal Presidente, avv. Devoto Giuseppe e di consiglieri: avv. Maffei Giuseppe, Marta Nonato Castellani, Maria Bottoni, Avv. Filippo Lodi e dall’assistente ecclesiastico don Antonio Abetini. Era l’anno in cui l’Arcidiocesi festeggiava solennemente l’VIII centenario della dedicazione della Cattedrale. Da allora, in questi 90 anni l’Unitalsi ha superato il tornante di una guerra, con la distruzione e la morte di molti concittadini, la ricostruzione e la Democrazia, le crisi economiche, le migrazioni, il covid che hanno segnato profondamente le famiglie, la riforma sanitaria e l’accompagnamento dei malati, i giubilei e i pellegrinaggi a Lourdes e nei diversi santuari. Un patrimonio di umanità nasce da questi 90 anni dell’Unitalsi, di gratuità, di consolazione, di festa».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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«Ascolto della cittadinanza, sinergia e visione: ecco ciò che oggi manca a Ferrara»

10 Dic

Romeo Farinella (urbanista di UniFe) è intervenuto per la presentazione del libro Spazi pubblici, usi privati di Italia Nostra: «così non c’è futuro»

di Andrea Musacci

Una città senza visione, quindi senza futuro, dove le società private la fanno sempre più da padrone, a scapito del governo pubblico e del ruolo della partecipazione dei cittadini.

È un’analisi dura ma necessaria quella emersa lo scorso 4 dicembre dall’incontro svoltosi nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, incontro dal titolo Spazi pubblici, usi privati: l’impatto dei grandi eventi sui luoghi storici e naturali

Il titolo è lo stesso del libro (ed. La Carmelina) presentato per l’occasione, curato da Lucia Bonazzi, promosso da Italia Nostra – Sezione di Ferrara, e uscito lo scorso giugno. Proprio Bonazzi ha dialogato con Romeo Farinella, urbanista dell’Università degli Studi di Ferrara, mentre le introduzioni sono state affidate a Giuseppe Lipani, presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, e a Patrizio Bianchi, titolare della Cattedra Unesco “Educazione, crescita, uguaglianza” dell’Università degliStudi di Ferrara.

FARINELLA: «SERVE PIÙ SINERGIA E RUOLO DEL PUBBLICO»

«Si parla tanto di partecipazione, ma la vera partecipazione è un gioco di attori, deve riguardare tanto la cittadinanza attiva quanto le istituzioni»: così Romeo Farinella fin dalle prime battute del suo intervento ha messo il dito nella piaga di una delle contraddizioni o meglio, mistificazioni, dell’ambito del confronto pubblico nella nostra città. «Se manca l’interlocuzione tra queste parti», se – cioè – la partecipazione è solo quella dal basso, dei cittadini, «è a senso unico, è meramente formale, burocratica», ha aggiunto. Partecipazione che significa anche «conflitto, elemento essenziale nelle democrazie».

Altro punto importante toccato da Farinella riguarda «l’importanza di ragionare in termini sinergici tra città, tra realtà locali: Ferrara purtroppo lo fa poco». Ad esempio, «gli Atenei di Ferrara, Modena e Bologna, pur vicini, non dialogano e collaborano tra loro» (considerando anche il fatto che «Ferrara è una città con l’università ma non ancora una città universitaria»). In questo, la gestione dei grandi eventi è emblematica, essendo «all’insegna della competizione fra le città». 

Nella nostra città – ha proseguito Farinella – «il Progetto Mura e dell’Addizione verde invece di essere considerati un punto di ripartenza, e quindi un laboratorio per ripensare la città e i suoi spazi pubblici, sono stati e sono vissuti come un punto di arrivo». Insomma, anche negli attuali amministratori pubblici di Ferrara «manca un progetto di città, una visione, una strategia; anzi, una strategia c’è ed è proprio quella che l’attuale Amministrazione sta attuando: sempre più parcheggi, anche in centro e in luoghi tutelati come la Certosa, e un aumento dell’accesso dei veicoli nel centro storico». Servirebbero invece «più treni invece di pensare al rafforzamento delle strade». Una critica Farinella l’ha rivolta anche in merito a un recente incontro pubblico: «alcuni giorni fa all’iniziativa in Municipio in occasione dei 30 anni dal riconoscimento UNESCO per Ferrara e il Delta, non si è parlato di quest’ultimo e non vi sono stati interventi riguardanti i problemi di Ferrara e della sua urbanistica».

«Perché – si è chiesto ancora il relatore – UniFe non ha dato vita a un laboratorio sulla città?»: questo è un altro esempio di mancata sinergia/dialogo tra le istituzioni.E vale anche per le precedenti Amministrazioni comunali». E a proposito di dialogo e di partecipazione, per Farinella risulta «imbarazzante» che nella nostra città «non esista più un Urban Center», cioè l’organismo  che fino a pochi mesi fa svolgeva funzioni cruciali come «attività di ascolto, informazione, analisi di casi, accompagnamento delle comunità, supporto alla promozione delle iniziative», oltre alla gestione degli strumenti online e al coordinamento del Gruppo di lavoro “Beni comuni”.

Altrettanto «imbarazzante» è il fatto che «non esista un Museo della Città di Ferrara, altro segno della mancanza di strategia di chi ci amministra», oltre alla «scarsa manutenzione dello spazio pubblico, all’interno di un serio “Piano del verde”. Ma anche di questo, a livello delle istituzioni non se ne parla…».

Le riflessioni conclusive di Farinella sono state più generali, ancor più profonde e han riguardato «il venir meno, negli ultimi decenni, di una dimensione comunitaria, e di un crescere di quella individualistica». A ciò si affianca sempre più il problema del «modello di sviluppo» delle nostre società, nelle quali «il governo pubblico dei processi è sempre più debole», ad esempio «nell’assumere sempre meno professionisti» nello stesso pubblico, «delegando a privati attività un tempo a carico dell’Amministrazione pubblica»; mentre sempre più potere – si veda riguardo alla stessa scelta e gestione dei grandi eventi – «lo hanno società private». Senza pensare al fatto che «quando una città esalta i grandi eventi come volàno di sviluppo, vuol dire – appunto – che è una città senza visione, quindi senza futuro».

GLI ALTRI INTERVENTI: NUOVE REGOLE E  MAGGIOR TUTELA DEI BENI COMUNI

«Come Italia Nostra ci auspichiamo che si arrivi a un Regolamento ufficiale, quindi nei termini di legge, su cosa si può fare e cosa no al Parco Urbano di Ferrara», ha detto Lucia Bonazzi: «quali e quanti eventi, con quanti spettatori, con quanti decibel».E «chiediamo che il Parco Urbano sia maggiormente tutelato, o attraverso un vincolo paesaggistico o rendendolo zona di protezione speciale della Rete UE “Natura 2000″», nato appunto per la conservazione della biodiversità. Per i grandi eventi, andrebbe invece «valorizzata l’area nella zona meridionale della città». 

Lipani ha invece auspicato nella nostra città un «guardare in maniera integrata»: sviluppo e tutela possono andare assieme» e lo sviluppo, quindi, «non segua la mera logica del mercato». Se i beni comuni sono «il  patrimonio ereditato dai padri», la loro tutela «non può non essere partecipata»: non vanno quindi considerati come «un insieme di risorse da consumare», ma beni per cui «mettere a disposizione le proprie competenze e conoscenze». Lavorare assieme, insomma, «all’insegna della reciproca responsabilità», una «co-produzione di conoscenze che diventa co-progettazione».

Sprazzi utili per la riflessione  li ha regalati anche Bianchi, trattando innanzitutto della partecipazione da intendere come «capacità di sentire individualmente e collettivamente la responsabilità», o del «rapporto tra patrimonio e sviluppo, da ridefinire considerando non solo il patrimonio tangibile, ma soprattutto quello intangibile, immateriale». E infine, l’accento sull’importanza di «tornare a ragionare sul lungo periodo, anche riguardo ai grandi eventi», e «pensando a tutte le possibili ricadute, considerando la città tutta assieme, non a comparti separati».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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Gian Pietro Testa pittore “sacro”: il Cristo e l’amicizia con Baratella

6 Dic
Foto Giorgia Mazzotti

Gian Pietro Testa, morto nel gennaio 2023, oltre che giornalista affermato e scrittore originale, coltivava anche una passione per la pittura. Giorgia Mazzotti ci parla dei suoi soggetti cristici e della sua profonda e antica amicizia con Baratella

Appena due mesi prima dell’amico  Paolo Baratella (e due settimane prima di Gianfranco Goberti), il 7 gennaio 2023 moriva il giornalista e scrittore ferrarese Gian Pietro Testa. In occasione dei 90 anni dalla nascita (il 24 settembre 1936) nella sua città gli viene dedicata una mostra, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. A Palazzo Turchi di Bagno (corso Ercole I D’Este, 32), fino all’8 dicembre sono esposti alcuni suoi dipinti oltre a foto e documenti che delineano la sua figura eclettica di giornalista, scrittore e pittore.

La mostra è stata inaugurata il 24 novembre, il 29 ha visto un incontro di presentazione ed è visitabile tutti i giorni dalle 10 alle 18 (festivi inclusi) a ingresso gratuito. La mostra è a cura di Giorgia Mazzotti e vede testi critici di Ada Patrizia Fiorillo, Francesco Franchella, Marco Luca Pedroni, Alessandro Zangara. 

La stessa Mazzotti aveva curato la mostra Gian Pietro testa, il giornalista che amava dipingere, esposta nel marzo 2024 all’Idearte Gallery di Ferrara.

IL TEMA CRISTICO

Ci soffermeremo proprio sul Testa pittore e in particolare su alcune delle sue opere con riferimenti cristici. Innanzitutto, come scrive Lucio Scardino nel catalogo della mostra del 2024 (nella quale compare anche l’opera Pannello con volti di prelati), come pittore Testa «fu allievo negli anni ’50 di Edgardo Rossaro (che gli ha insegnato il disegno e a impastare i colori sulla tavolozza)». Rossaro (Vercelli 1882-Rapallo 1972) è un amico del padre nelle vacanze estive in Liguria. «È interessante – ci spiega Mazzotti – come fra le sue opere abbiamo trovato tre immagini di Cristo da lui dipinte, oltre a immagini di povertà, come il ritratto intitolato Miseria». Uno dei due soggetti cristici è presente in mostra (tecnica mista su pannello, cm 102×66,5). Le altre due sono una crocifissione con Cristo e i due «malfattori» e il Crocifisso inedito.

Il Cristo di Testa inedito

L’INEDITO: Quel suo Cristo trovato sopra il letto

Giorgia Mazzotti a La Voce racconta per la prima volta un aneddoto sul legame di Testa con la figura di Cristo: «lo scorso 15 novembre ho compiuto un sopralluogo  nella sua abitazione di via Carlo Mayr a Ferrara, per il recupero di alcune opere da esporre, su autorizzazione del figlio Enrico e  con la collaborazione del nipote Paolo Sandali. Eravamo increduli alla vista di questo Cristo che teneva affisso sopra al suo letto e che – data la firma sul retro (pure dipinto) – è sempre suo…». 

«Si capisce che Testa venne toccato in particolare dal tema dell’uomo e del suo dolore», scrive Mazzotti. «Una sensibilità acuita probabilmente dallo strazio e dalla visione di morti atroci di cui si è ritrovato testimone come giornalista a seguito delle stragi che raccontò e indagò tra il 1969 e il 1980. L’uomo che prende quella sofferenza su di sé è incarnato nella figura per eccellenza di colui che si carica dei peccati del mondo. Così Cristo nei suoi dipinti – pur di uomo laico e lontano da ogni credo – diventa una figura umanissima e sofferente, che assume in sé il male altrui. Una tematica condivisa con l’amico fraterno Paolo Baratella, artista affermato e in tante occasioni alle prese con i temi della cristianità».

L’AMICO BARATELLA

Come riporta sempre Mazzotti nel sopracitato volume del 2024, «all’indomani della morte di Gian Pietro, sulla sua pagina social, Baratella ricorda: “Dire che Gian Pietro Testa è stato per me un fratello non è sufficiente, è stato qualcosa di più, sembrava che i nostri pensieri fossero gemelli, ogni giorno a Milano confrontavamo le nostre opinioni sulla politica, sull’arte e sulla attualità e su ogni cosa che ci veniva in mente per farci sghignazzare sulla vita alla quale davamo un valore relativo(…). Ora è corso via in uno spazio infinito stanco di sentire uomini che non dicono la verità (…)”».

E in casa sua, Testa, «ben in vista nel salotto-studio, teneva il bozzetto preparatorio tracciato a matita proprio dal suo caro amico Baratella in preparazione dell’affresco della sagrestia del Duomo» (cm 33×48), con la figura di Cristo in croce e la dedica sul fronte “A Elettra e Gian Pietro con amore”. Elettra era Elettra Testi, scrittrice e moglie di Testa, morta nel 2022. Significativo che abbia scelto anche un particolare dell’affresco della Sacrestia di Baratella per la copertina di uno dei suoi libri, Il vestito di Taffetà (Este Edition, 2018). E in mostra a Turchi di Bagno è presente anche un ritratto di Testa realizzato da Baratella, un disegno a penna su carta, cm 15,6×21.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

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«Convocato all’avvenire»: la luce divina di Paolo Baratella

5 Dic

90 anni fa nasceva un artista ferrarese forse ancora troppo sottovalutato: lo vogliamo ricordare in particolare nelle sue realizzazioni sacre: l’affresco per la Sacrestia del Duomo di Ferrara e il Risorto per la chiesa di Santa Francesca Romana

di Andrea Musacci

Del tempo e dell’eterno, fra le altre cose, parlava l’artista Paolo Baratella in un’intervista all’amico Gian Pietro Testa, circa 20 anni fa1. E proprio del tempo dobbiamo trattare, col tempo misurare e misurarci, ma coscienti che quest’abito artificioso, kronos, ci sta stretti, noi creature elette alla dura e sublime veste dell’Eterno. Dura finché chiusa fra le maglie terrene, noi che «ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro»; ma già capaci di un abbandono di quel che verrà, nel Dio vivente e veniente, attraverso forme che, pure tali, rompono il gioco del kronos: le forme dell’arte. E Baratella questo lo sapeva bene, cristiano inquieto ma capace di abbandonarsi nella dolce luce della fede.

Lo vogliamo ricordare a 90 anni dalla nascita e in occasione della mostra dedicata in questo periodo a Ferrara proprio a quel suo sopracitato e quasi coetaneo amico, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. Mostra nel quale compare anche Baratella (ne parliamo a pagina 10).

Baratella ha fatto ritorno al Padre il 3 marzo 2023, quando nel Castello Estense a lui era dedicata l’apertura e la menzione alla carriera del IX premio internazionale della Fondazione VAF, alla presenza della figlia Silvia Baratella e di Vittorio Sgarbi. Nove mesi prima, il 31 maggio 2022, in Biblioteca Ariostea e introdotto da Lucio Scardino, aveva presentato il suo libro autobiografico Davanti allo specchio.

Tante le sue mostre in Italia e all’estero nel corso di una vita, ma qui vogliamo ricordare quando esattamente dieci anni prima di morire, nel 2013, aveva dipinto il Risorto nella chiesa ferrarese di Santa Francesca Romana e nel 2006 gli affreschi della sagrestia della Cattedrale.

Ma prima alcuni accenni biografici.

DALLA CITTÀ «FANTASMATICA» A MILANO (CON RITORNO)

Baratella nasce a Bologna il 5 luglio 1935 da genitori ferraresi e trascorre l’infanzia nella città felsinea, in via Lame. Il negozio del papà sarto in via Zamboni è al servizio del regio esercito. Nel 1940 con la famiglia torna a Ferrara, in via Bellaria, 10, casa dei nonni materni; così la racconterà in una poesia2: «mondo-cortile / di via Bellaria numero dieci / immensamente grande / luogo di accanite osservazioni, / sguardi, miraggi / all’interno e oltre / i tanti muri impassibili, / inaccessibili confini / di mondi-giardini / al di là. / Giardini sognati / e mai visti, / luoghi di sogni proibiti». Poco dopo, all’età di 6 anni, decide che sarà un pittore.

Nella sopracitata intervista all’amico Testa racconterà così quel turbinio ancora confuso ma vivo, vivissimo della sua infanzia e adolescenza: «La tragedia della guerra, lo sfollamento, i rifugi antiaerei, le bombe, i bengala, le buche scavate nella terra per nascondersi, le grandi passioni trasmesse dal burattinaio Forni (…), la compagnia teatrale Doriglia-Palmi con quella Passione e Morte di Cristo fatta di vapori e sangue di pomodoro con l’uomo respirante sulla croce, e Gigetto il gelataio di vicolo Ocaballetta [vicino alla chiesa di S. Spirito, ndr] con i sontuosi carri di cigni e draghi (…): realtà che negli occhi del fanciullo che ero, costituirono la valle della visione, il mondo dello stupore, la tensione delle forti emozioni legate alla lotta per la sopravvivenza: scuola di estetica, di forme e di contenuti». E ancora: «L’immensità della chiesa di S. Spirito» – dove di fronte, a Palazzo Calcagnini, civico 33, aveva abitato il giovanissimo De Pisis -, «gli addobbi per le grandi festività…stupore, estraniazione, sospensione del tempo, portati dentro come tono esistenziale nei viaggi di attraversamento della città misteriosa, schiacciata dal sole furente, fantasmatica nella nebbia profumata di bagnato, i trasalimenti per le prospettive immaginate e viste, quando cavalletto, cartone, colori e pennelli sostavo vergognoso, un po’ nascosto, là dove queste prospettive si disegnavano». E poi i maestri a Schifanoia, veri maestri della giovinezza.

Ma la vita per il giovane Paolo è altrove, nel cuore del boom economico, dove il dedalo degli affari e degli scambi culturali brulicano giorno e notte: dal 1960 inizia così ad vivere e ad esporre a Milano e in altre città italiane ed europee (fra cui Londra, Parigi, Berlino). Risale al 1961 la sua prima personale nel capoluogo lombardo. Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 1974 e 1994 è alla Biennale di Milano, nel 1986 e 1999 espone alla Quadriennale di Roma e nel 1992 alla Triennale di Milano. Tra la città meneghina (dove dal ’92 al 2002 sarà anche docente all’Accademia di Belle Arti di Brera) e Lucca vivrà gli ultimi anni, e a Lucca si spegnerà. Ma mai conobbe quella alterigia capace di allontanarlo dalla sua piccola città di provincia, che anzi – come accennato – arricchirà.

L’AFFRESCO NELLA SACRESTIA DELLA CATTEDRALE

L’affresco a secco realizzato nel 2006 su incarico del Capitolo della Cattedrale (allora presieduto da mons. Nevio Punginelli) nella nuova Sacrestia della Cattedrale merita di essere raccontata – per quanto possibile – a fondo e grazie anche alle voci di suoi amici, collaboratori, ammiratori. L’opera di Baratella occupa il soffitto cuspidato della Sacrestia realizzata negli anni ’90 dopo la demolizione da parte delle bombe alleate dell’antico edificio sul lato di piazza Trento e Trieste.

Nel suo testo contenuto nel libro La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, mons. Punginelli raccontava di quando un giorno l’allora Vicario Generale diocesano mons. Giulio Zerbini gli disse, in mano un bozzetto per una vetrata istoriata: «”Cosa ne dici?, l’architetto [Caro Bassi, ndr] vorrebbe qualcosa per abbellire la Sacrestia. C’è un certo Paolo Baratella, l’architetto lo conosce, è ferrarese ed è stato mio ragazzo quando ero in Azione Cattolica. Ai campiscuola ogni tanto si isolava e lavorava con i suoi colori…è un poco estroso…maniaco della pittura ma molto bravo”». Poi la malattia, e la morte (nel 2001), colpiscono mons. Zerbini. Nel suo testo nello stesso libro3, proprio Bassi spiega: mons. Zerbini «ebbe il piacere e la consolazione di vedere le prime fasi dello studio condotte dal pittore: una piccola mostra di bozzetti fu allestita in occasione della benedizione dei locali e ne fu soddisfatto e commosso». 

E lo stesso Bassi nel 2006 su Ferrara. Voci di una città dedica un altro bell’articolo all’opera di Baratella nella Sacrestia; questo un passaggio: «Il suo cielo è squassato da venti impetuosi di azzurro intenso che generano le figurazioni e danno loro sostanza quasi fosse il vento dello Spirito che soffia dove vuole e rende la forza materica della croce dominante su tutto». Sarà lo stesso Bassi a consigliare di far richiesta di accesso a un finanziamento europeo per la sistemazione della zona absidale e per la decorazione della Sacrestia.

È don Massimo Manservigi a intervistare Baratella sulla nostra Voce del 4 marzo 2006 (con servizio fotografico di Luca Pasqualini), poco prima della conclusione dell’opera: «Mons. Zerbini è rimasto subito convinto del progetto che ora si è realizzato, del quale ha potuto vedere in opera solo la vetrata», raccontava Baratella. «Il dipinto l’ho iniziato ai primi di ottobre e non posso negare che al principio è stato molto difficile, mi ha procurato ansia ed emozione (…). Quando sono arrivato per iniziare l’opera mi sono reso conto che la struttura quadripartita non funzionava più, lo spazio doveva diventare un tutt’uno, un unico atto di fede capace di abbracciare l’unico mistero della vita di Cristo in diverse tappe. Infatti la fede vuole che si creda contemporaneamente all’Annunciazione e alla Resurrezione, al valore salvifico della Croce e al peccato originale. Così ho risolto il problema trasformando il soffitto in una cupola, con alcuni accorgimenti pittorici, accentuando le linee curve per dare una sensazione di movimento e molteplicità di linee di forza».

E così descrive la sua opera: «Partirei dall’Annunciazione che resta sopra all’ingresso ed è rappresentata da una Madonna fortemente ispirata a Cosmé Tura (…). In ordine orario segue la Natività con i simboli dell’Agnello mistico, una testa di San Giovanni, San Giuseppe, l’Angelo glorificante e l’arrivo dei Re Magi (…). A seguire la Crocifissione, ai cui piedi stanno il serpente, Adamo ed Eva da un lato, e la Pietà dall’altro: la causa della crocifissione e le sue “conseguenze terrene”. L’ultimo quadro rappresenta la “conseguenza divina” della crocefissione ovvero la Resurrezione (…). Ai lati del Risorto due Angeli, specularmente, indicano con una mano il Cristo risorto e con l’altra noi, spettatori, creature terrene». Sotto il dipinto c’è una scritta: «Si tratta di stralci di una preghiera di Giovanni Paolo II a Maria. Sono stati scelti dall’architetto Bassi».

In conclusione spiega: «È la prima volta che concludendo un lavoro sento di essere “convocato all’avvenire”. Mi ritengo un privilegiato perché avverto come questo lavoro sia per i posteri».

IL MISTICISMO DI BARATELLA

Ma dove nasce in lui questo legame col sacro? «E giù a dipingere in un solaio al n. 8 di via Montebello, a parlare le notti di Kante Nietzsche, mentre turbamenti mistici continuavano a minacciare l’integrità dell’atleta ciclista, alla ricerca solitaria di Dio».

Così racconta sempre all’amico Testa4 della sua iniziazione al rapporto con Cristo: le radici – parla di sé in terza persona – «affondano lontano, quando quel ragazzo ferrarese, stupito, estraniato e sospeso, nell’odore di incenso della chiesa di S. Spirito, alla vista del Cristo morto nell’urna sotto la grande pala raffigurante il crocifisso tra panneggi viola, oro e neri della quaresima, rimuginava pensieri metafisici. Il trascendente allora prendeva forma nella fantasia (…). Mise ordine in queste suggestioni e rapimenti mistici l’allora don Giulio Zerbini, divenendo mio maestro e fratello maggiore (…). Decisi di abbandonarmi e di farmi trasportare dalla fede nella verità, nei percorsi così insidiosi, predisposti da me (…), in quella “zona” che è l’anima. Alcune volte non sono arrivato alla luce che scaturisce dal luogo più recondito della “zona”, che è la stanza dove risiede il nocciolo duro della realtà. Ma altre volte mi è accaduto di entrare e finalmente con il segno dell’immaginazione arrivare a scrivere la “cosa”: aletheia, verità. Con questo atteggiamento, sottomesso alla più grande angoscia, mi sono disposto a realizzare l’affresco nella Sacrestia della Cattedrale di Ferrara».

Questo sguardo religioso glielo riconosceva il poeta e scrittore Roberto Pazzi5, parlando dell’affresco della Sacrestia: «Si avvertiva in quelle grandiose figure l’afflato del credente, di colui che non gioca con gli elementi figurali del Cristianesimo come fossero figure dei tarocchi, indifferente alla loro più intima significazione. Non era insomma il laico a tenere in mano quel pennello, ma il convinto cristiano della nostra inquieta postmodernità». 

Dello stesso affresco don Franco Patruno diceva6: «È come un roveto, lo scintillio di colori e i voluttuosi e mai circoscritti contorni (…)». E così invece descriveva Barbara Giordano questo capolavoro di bellezza7: «L’impressione è quella di una stanza illuminata dalla luce a tratti crepuscolare di un camino dimenticato acceso, solo più tardi ti accorgi che quella luce fatta colore, prende la forma di poche e decise figure, che non si lasciano indovinare dietro una fumosa cortina, ma penetrano lo spazio architettonico per disegnare una maggiore ariosità».

QUELLA PICCOLA PAROLA

È il 2013 quando Baratella realizza, nel periodo pasquale, la sua opera pittorica dedicata al Cristo Risorto nell’aula battesimale della chiesa di Santa Francesca Romana, in via XX settembre a Ferrara. Così il parroco don Andrea Zerbini, in memoria dell’amico artista, sulla Voce del 17 marzo 2023 lo ricordava: «Un grazie di vero cuore al maestro Paolo Baratella, scomparso lo scorso 5 marzo, perché continuerà a ricordarci lo splendore del Cristo Risorto e con essa quella della sua vita, il suo sentire di artista che le sue mani hanno mescolato, fissato, impresso insieme ai colori sulla grande tela del risorto dai morti (2,65 x 1,75 metri), le cui mani segnate da ferite gloriose hanno tratto fuori dallo Sheol, dal grande e irreversibile abisso, con Adamo, l’intera umanità. Era il 2013, appena terminato il restauro del battistero ad opera dell’arch. Andrea Malacarne, al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale».

A Gian Pietro Zerbini su La Nuova Ferrara lo stesso Baratella raccontava: «Mi hanno particolarmente colpito le figure giottesche dei meravigliosi affreschi di Sant’Antonio in Polesine, il monastero che si trova a due passi dalla chiesa di Santa Francesca. Ho studiato per mesi anche il volto del Cristo che nei disegni di Sant’Antonio appaiono in trequarti, mentre a me serviva di fronte. Diciamo che mentre nella realizzazione degli affreschi della sacrestia del Duomo mi sono ispirato all’Officina ferrarese del Quattrocento, per questo quadro del Cristo ho avuto interessanti spunti dalla pittura giottesca ferrarese».

E sempre nel 2013, Baratella rilascerà per la nostra Voce del 12 aprile 2013 un’intervista a don Andrea Zerbini; così il pittore ci raccontava la sua opera: «Risorto, parola minima per dire tutta l’intensità dello sforzo umano per arrivare alla luce. Così ho pensato al Cristo che con forza sbuca dai subtettonici recessi, scardinando le porte che dividono il chiaro dallo scuro, l’inganno dalla verità, travolgendo il demonio menzognero, trascinando con sé alla luce i Padri dell’umanità. Non c’è parola più simbolica e satura di significato attivo, veniente, arrivante, risorgente, che questa piccola parola: RISORTO».

Non poteva esserci maniera migliore per concludere il ricordo di questo artista così unico nel panorama ferrarese contemporaneo.

*

NOTE

1 – Dall’intervista a G.P. Testa contenuta in La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, a cura di Carlo Bassi,Editrice Ariostea, 2006.

2 – Dalla poesia Via Bellaria, presente nel catalogo Baratella prima di Baratella, Studio d’arte Dolcetti, 2011 (catalogo edito in occasione dell’esposizione presso il Centro Frau di Ferrara, 29 gennaio-27 febbraio 2011, a cura di Angelo Andreotti).

3 – La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, op. cit.

4 – Idem.

5- Idem.

6 – Idem.

7 – B. Giordano, Come in una nuova Officina Ferrarese, la Voce di Ferrara-Comacchio del 4 marzo 2006.

*
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

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Wokismo e pol.corr.: «dove c’era dialogo e verità oggi c’è ideologia»

3 Dic

A UniFe gli interventi degli studiosi Andrea Zhok e Lorena Pensato

Spesso i “nemici” delle sacrosante battaglie a difesa delle minoranze sono proprio coloro che queste battaglie sì le combattono ma con metodi e fini sbagliati in sé e controproducenti per le battaglie stesse. Sulle radici storiche e ideologiche di tutto ciò si è riflettuto nel Seminario pubblico dal titolo Natura umana o costruzione sociale? Cultura woke, patriarcato e il nuovo bellum omnium contra omnes,organizzato dalla prof. Fulvia Signani, docente del Corso di Sociologia di genere del Dipartimento di Studi Umanistici di UniFe, lunedì 24 novembre nella sede di via Paradiso a Ferrara.

DOVE NASCE TUTTO

«L’attuale fase storica coincide con la rivoluzione neoliberale, nata negli anni ‘70 negli USA e poi arrivata nel nord Europa e quindi nel resto del nostro continente», ha esordito il primo relatore, Andrea Zhok (Professore di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano). Fino a quel periodo, «l’obiettivo del femminismo era l’uguaglianza fra i generi, obiettivo sostanzialmente raggiunto», nonostante contraddizioni e resti del passato; poi, il femminismo si è spostato su «una posizione “rivendicativa”, che non cerca l’uguaglianza ma la differenza». Questo cosiddetto “femminismo della differenza” «nasce dalla New Left statunitense, che non crede più «nel soggetto rivoluzionario marxiano “classico”» come soggetto di trasformazione, ma vede al suo posto «le minoranze oppresse. Il proletariato però – ha riflettuto Zhok – aveva quel tipo di ruolo perché era la classe universale di tutti coloro che lavoravano e in quanto tali erano sfruttati». Al posto dell’approccio politico, «con la New Left domina un approccio meramente rivendicativo-sindacale»: di conseguenza «il mondo maschile viene messo al posto di quello che era la classe padronale e la metà femminile vista come “classe” oppressa».

UNA “RIVOLUZIONE” CHE PIACE AL POTERE

Questa «morte della dinamica della lotta di classe» porta la lotta su un altro piano, quello «quasi del tutto intellettuale, culturale, quindi nel mondo accademico», con l’obiettivo di «convertire» l’avversario e un conseguente «rifugio nel privato» e la «politicizzazione» di quest’ultimo. Ad essere al centro del dibattito sono «i gruppi naturali», fondati sul genere e l’etnia. Ma per Zhok tutto ciò è utilissimo per le classi dirigente, «perché rende inerte il soggetto collettivo che dovrebbe criticarle, metterne in discussione la posizione dominante». 

E questo spiega perché «qualcosa che nasce dentro gruppi minoritari diventa questione nazionale»: perché si sposta l’attenzione delle masse dalle tematiche che criticano strutturalmente il potere e chi ce l’ha. Si tratta, quindi, «semplicemente di una variante del liberalismo, che non ha nulla a che fare col socialismo e il comunismo».

NEMMENO PIÙ L’INDIVIDUO

A livello antropologico, il terremoto che ha provocato il passaggio da una dinamica classica a quella post moderna, è fortissimo: «per Marx il sistema liberal-capitalistico provoca alienazione e la competizione del tutti contro tutti», andando quindi «contro l’uomo e i suoi bisogni naturali, umani: c’era quindi una natura umana oggettiva da difendere». Superare tutto ciò porta invece al considerare che «non ci sia più una natura umana, cioè una base oggettiva riconosciuta», né una razionalità storica. La mancanza di una base comune riconosciuta porta la libertà ad essere meramente «negativa: il soggetto è libero se gli altri non interferiscono su quel che lui vuole; e l’unico che decide di ciò che ha valore è solo il soggetto»: siamo dunque arrivati all’«autodeterminazione individuale assoluta». Ma l’uomo, da sempre, per Zhok «è ciò che è solo all’interno di una comunità», pur nella sua libertà: «è individuo sulla base di relazioni sociali, innanzitutto quelle costitutive. Il soggetto non nasce come un fungo dal nulla: questa – che è poi la concezione liberale – a livello antropologico è una finzione». Col postmoderno «nasce quindi un individualismo che in realtà è senza individuo, perché c’è un devastante infragilimento dell’identità personale, in quanto questa se estraniata dal contesto storico e dalle forme relazionali comunitarie primarie (famiglia ecc.), si forma da altre “fonti”: ma così si ha un vuoto educativo primario». 

POLITICALLY DAVVERO CORRECT?

Altro aspetto di questa nuova cultura meramente rivendicativa e ultraindividualista è «la radicale culturalizzazione e politicizzazione della sessualità, cioè la dimensione sessuale diventa un fattore in cui la componente naturale non ha nulla da dire», ha proseguito Zhok; per cui «il sesso – anzi, il genere, cioè un’identità pensata, non più naturale – diventa oggetto di opinioni e di dibattito come fosse un abito. Tutto ciò è catastrofico, perché la sessaulità è una sfera delicata e complessa». Da qui nasce il cosiddetto politically correct: «le parole considerate inappropriate diventano elementi di discredito, di ghettizzazione immediata e di aggressione politica, avvelenando drammaticamente gli ambiti per la ricerca del vero», quello giuridico e quello accademico. Di conseguenza, «molti scelgono di non parlare più per paura di essere pubblicamente distrutti».

NON TUTTO È “FEMMINICIDIO”

La seconda relatrice chiamata a riflettere su un aspetto specifico di questa visione ideologico-rivendicativa è stata Lorena Pensato, autrice del libro Non è patriarcato!, uscito lo scorso marzo, nel quale tratta dei cosiddetti «omicidi relazionali»: «più che parlare di violenza di genere – ha detto -, dovremmo parlare dei vari generi di violenza. Abbiamo abusato del termine “violenza di genere” e infatti non esiste nessuna prevenzione sugli omicidi diversi dagli omicidi nei quali è un uomo ad uccidere una donna. La “lettura di genere” – pur importantissima – non può per essere l’unico strumento» e quindi «dentro quelli chiamati “femminicidio” vengono erroneamente messi casi che vanno interpretati diversamente». L’autrice ha analizzato 200 casi di cronaca accaduti fra il 2021 e il 2023, fra i quali, ad esempio, quelli riguardanti donne uccise da altre donne, figlie uccise da madri, donne uccise durante una rapina o per motivi economici o in coppia. Non femminicidi. «Dal dibattito pubblico – ha proseguito – abbiamo quindi escluso» come cause/fattori interpretativi di omicidi che vedono vittime le donne, la complessità del disagio psico-emotivo/disturbi della personalità: «diversi sono gli studi al riguardo ad esempio sul disturbo border line di personalità, o sul disturbo paranoide»; le dipendenze dagli stupefacenti, «comprese le “droghe leggere”, come dimostrerebbe uno studio pubblicato su Rivista psichiatrica del gennaio-febbraio 2013». Oltre ai cosiddetti «”fattori precipitanti”, ad esempio un lutto o una separazione». 

Ciò porta al paradosso per cui quello che viene definito “vizio di mente” «è riconosciuto dalla giustizia – articoli 88 e 89 del nostro Codice penale – ma non dalla prevenzione/informazione dominante», che appunto «non li riconosce come influenti nell’uccisione di donne». Questa visione limitante e ingiusta, secondo Pensato porta anche al fatto che «dai Centri Antiviolenza rimangano esclusi determinati soggetti come le donne maltrattate da altre donne, i figli maschi maggiorenni maltrattati, le persone disabili o quelle omosessuali».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

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(Foto: Mohamed elamine M’siouri – Pexels)