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Donna, speranza e coraggio: il libro di Dalia Bighinati

1 Feb


Si intitola “Senza paura” il volume della giornalista ferrarese: l’8 febbraio a Casa Cini la presentazione pubblica assieme al nostro Arcivescovo

di Andrea Musacci

«Quando ascolti, devi essere in grado di cogliere non solo i fatti, ma le singole personalità». Questa sorta di “promemoria” o di primo comandamento del giornalismo, Dalia Bighinati lo pone nell’introduzione del proprio libro “Senza paura. Geniali, libere, coraggiose: Ventisei ritratti di donne che non si sono arrese” (Book ed., 2024). Leggendo le pagine del volume, possiamo dire ancora una volta che l’autrice è stata in grado di incarnare questa “legge” che dovrebbe guidare non solo chi fa il nostro mestiere ma ogni relazione. Volto storico di Telestense, Bighinati presenterà “Senza paura” il prossimo 8 febbraio alle ore 16.30 a Casa Cini, Ferrara. Per l’occasione, dialogherà col nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e l’incontro sarà moderato da mons. Massimo Manservigi, Direttore de “La Voce” e dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali.

“Donna, vita, libertà” è lo slogan divenuto famoso nel mondo soprattutto dall’autunno 2022, grazie alle manifestazioni e alla ribellione delle donne iraniane contro l’opprimente regime degli Ayatollah. E quelle tre parole sono quelle che risuonano anche in tutte le storie che Bighinati racconta, attraverso incontri, interviste e approfondimenti nel corso degli anni: troviamo ritratti di donne famose (Rita Levi Montalcini, Rigoberta Mentchu, Letizia Battaglia, Laura Boldrini, Elly Schlein), altre meno celebri, altre ancora legate alla nostra città (Simonetta Della Seta, Laura Ramaciotti, Monica Calamai, Mariella Ferri).

DONNE SALVATE DA ALTRE DONNE

Accenneremo qui solo ad alcune di loro, che in parte verranno raccontate durante l’incontro dell’8 febbraio. 

Sono due, nel libro di Bighinati, i profili di religiose, entrambe impegnate nell’ambito della lotta alla tratta delle donne. La prima è suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata classe ’39 di origini milanese, che nel ’91 obtorto collo accetta la volontà dei suoi Superiori e torna dalla missione in Kenya (dove si trovava dal ’67) per stare vicino ed aiutare le tante donne obbligate a prostituirsi lungo le strade di Torino. «Non è stato facile accettare – è scritto nel libro – di non tornare più nella mia amata Africa». “Help me, sister, help me”, l’ha implorata un giorno Maria, giovane obbligata a prostituirsi. «È stata lei – confessa – a farmi capire che la missione non è un fatto di geografia, ma è dove porti la luce di Dio». «Queste ragazze – dice suor Eugenia – sono merce in vendita per il racket dei trafficanti, il cui obiettivo è di sfruttarne i corpi fino allo sfinimento».

Suor Rita Giaretta, classe ’56, è invece un’Orsolina residente a Roma dove ha aperto Casa Magnificat che, assieme a Casa Rut a Caserta, accoglie donne salvate dallo sfruttamento e dalla prostituzione, dando loro la possibilità di rinascere a nuova vita. «Sulla strada – sono parole di suor Rita citate nel libro – non ci siamo mai sentite delle salvatrici, ma soltanto donne che incontravano altre donne. Per noi era importante posare su di loro uno sguardo di benevolenza, di amore e di rispetto che le facesse sentire di nuovo persone». Nel libro spazio anche per la storia della nigeriana Joy, 31 anni, salvata dalle strade di Castel Volturno dov’era obbligata a prostituirsi, accolta a Casa Rut per 8 anni. Lo scorso ottobre si è sposata, suor Rita l’ha accompagnata all’altare. La sua storia è raccontata anche nel libro “Io sono Joy” (Edizioni San Paolo), con prefazione di Papa Francesco.

Un’ulteriore e specifica denuncia di suor Rita trova spazio nelle pagine del volume di Bighinati: «La pandemia e il lockdown  – dice – hanno fatto diminuire la prostituzione lungo le strade di periferia, ma le ragazze non sono scomparse. Sono diventate soltanto meno visibili, costrette ad esercitare negli appartamenti e a prestarsi al sesso on line. Il fenomeno resiste, ma è più difficile da quantificare».

ARMENIA, HAITI, RWANDA: SPERANZE NELL’ORRORE

Il volume di Bighinati si apre col doloroso e coraggioso ritratto della scrittrice italiana di origini armene Antonia Arslan, dal 2021 cittadina onoraria di Ferrara e che lo scorso 16 gennaio nel Ridotto del Comunale della nostra città ha presentato la nuova edizione de “La masseria delle alloddole”. Nel libro di Bighinati, Arslan racconta la sua scelta di raccontare le vittime – soprattutto femminili – del genocidio armeno: «Non è stato facile prendere questa decisione, ma era importante farlo anche per onorare le donne armene. Il disegno che guidò il genocidio era di uccidere subito gli uomini e di deportare le donne nel deserto, avviarle ad una morte lenta e terribile, fra stenti, stupri, violenze di ogni genere».

Dall’Armenia a un Paese lontano, Haiti, ancora oggi depredato da USA e da alcuni Paesi europei delle proprie ricchezze e della propria bellezza. Nel libro ne parla la scrittrice Yanick Lahens. Inevitabile partire dal tremendo terremoto che ha colpito il suo Paese nel gennaio 2010, con 230mila morti e milioni di persone senza casa, cibo né acqua. 71 anni, Lahens dopo gli studi in Francia ha deciso – a differenza di molti altri – di tornare subito a vivere nel suo Paese, impegnandosi a livello statale anche in progetti formativi e culturali. Come scrive Bighinati, Lahens «denuncia con forza la vergogna della schiavitù ancora presente nell’isola e difficile da sradicare». Si pensi solo al fatto che a volte i bambini «sono ceduti dalle madri più povere a famiglie benestanti o semplicemente meno povere, in cambio della possibilità di sfamare il resto della famiglia. Sono bambini comprati per essere sfruttati nei lavori più umili». «Essere donna – dice Lahens – in molti posti del mondo è una sfida. Lo è anche ad Haiti».

Da Haiti ci spostiamo ancora in un’altra parte del globo per incontrare Honorine Mujyambere (foto), ingegnere rwandese 43enne che nel 2008 ha potuto conseguire un Master in Italia grazie al Soroptimist club di Ferrara e d’Italia. Master di Economia Applicata all’Urbanistica utile anche per progetti di sviluppo di diversi Paesi africani. Ma Mujyambere è anche tra le sopravvissute del genocidio del 1994 nel suo Paese, quando oltre 800mila Tutsi furono barbaramente uccisi dagli Hutu. In quello sterminio Mujyambere perse i genitori e un fratello. Ora è sposata, ha due figli e vive nell’hinterland milanese. Un segno forte di speranza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2025

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«Riscoprire il tempo di Dio, tempo di festa e di ascolto»

4 Dic


L’intervento a Casa Cini di suor Elena Massimi: «la liturgia come memoria di Eterno»

Il tempo della liturgia e quello della festa come tempo di rottura, di apertura all’Altro, “inutile”. Sono state tante, e affascinanti, le suggestioni proposte lo scorso 27 novembre a Casa Cini da suor Elena Massimi, intervenuta per una lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. “La speranza nel tempo della liturgia”, il titolo della religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Docente di Teologia Sacramentaria alla Pontificia Università Salesiana e all’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina in Padova, oltre che Presidente dell’Associazione Professori di Liturgia (APL) e Coordinatrice della sezione Musica per la Liturgia dell’Ufficio Liturgico Nazionale CEI.

Oggi – per la relatrice – viviamo nel tempo della «perdita della memoria», quindi «del legame del presente col passato». Tutto ciò è difficilmente conciliabile con la liturgia, che è «tempo lento». Ma la liturgia è «una grande risorsa: la liturgia, e così il concetto autentico di festa, interrompe infatti il ciclo feriale». Come ha ben analizzato il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, il cosiddetto “tempo libero” serve ormai come «mera pausa per tornare poi a essere ancora più prestanti lavorativamente». Il tempo libero, invece, dovrebbe essere «tempo di rottura dall’ordinario, tempo differente, tempo dell’esperienza di senso, tempo comunitario». La festa è «qualcosa di originario sia rispetto al tempo libero sia rispetto al tempo di lavoro», è «memoria di un tempo fondamentale per la comunità», memoria dell’origine e della meta (individuale e collettiva), «memoria della nostra identità originaria». Questo discorso a maggior ragione vale per la festa religiosa, nella quale «si fa memoria del tempo della salvezza». La festa è “a perdere”, «non segue una dinamica economica, eccede il quotidiano» e, come diceva Guardini, è di per sé «gioco: dà, cioè, senso e gratuità alla vita». E così, la liturgia «dà senso, ci fa vivere in un tempo sacro, nel tempo di Dio». L’aver tolto la festa – quindi – «ci fa vivere l’ansia di prestazione e ci fa essere succubi di tutto quel che bruciamo, cioè produciamo e consumiamo. Viviamo nel culto dell’attivismo, forma di idolatria in quanto pensiamo che tutto dipenda da noi e non da Dio», ha proseguito suor Massimi.

Nella liturgia legata al giorno di festa, «camminiamo, cantiamo e leggiamo in modo diverso». La liturgia, ricordandoci che esiste «un Ulteriore», è essa stessa «anticipazione dell’eternità, rallentamento del tempo e apertura a una dimensione altra». Nella liturgia, tutto – anche il tempo – diventa «simbolico». E tutto ci fa capire che «siamo fatti per la relazione con gli altri e con Dio. È un tempo santificato, quindi, il suo».

Così, anche la liturgia quotidiana, la Liturgia delle ore, possiamo viverla dalla lode mattina alla sera come cammino da una sempre rinnovata speranza, da un «sempre nuovo inizio», a un ritorno in sé per abituarci a prepararci alla morte. Un tempo di silenzio e di ascolto, come potrà essere l’Anno Santo alle porte: «tempo di speranza, di lode, di grazia, di letizia, di rinascita». Tempo santo e di pellegrinaggio, quindi – come detto prima riguardo la festa – tempo rallentato, di rottura, tempo condiviso coi fratelli e le sorelle, in una osmosi unica di «intensità vitale e contemplazione».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024

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«Le migrazioni sfidano le nostre società»

28 Nov

L’intervento di Laura Zanfrini (Università Cattolica) a Casa Cini

Il moderno principio di cittadinanza, che si realizza concretamente  nell’uguaglianza fra le persone, nel rispetto della pari dignità di ognuno, col conseguente aumento dei diritti civili e sociali, è sfidato dalle migrazioni di massa del nostro tempo. Su questo ha riflettuto lo scorso 21 novembre Laura Zanfrini, professoressa ordinaria di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica all’Università Cattolica di Milano, intervenendo a Casa Cini per la “Scuola diocesana di teologia per laici” sul tema “Cambiare rotta verso l’accoglienza”.

«Le società moderne, legate a quel concetto di cittadinanza, si pensavano come chiuse, delimitate da confini nazionali e di conseguenza omogenee sotto il profilo  culturale, etnico e religioso», ha riflettuto la relatrice. Di conseguenza, ancora oggi gli immigrati «in quanto stranieri» spesso vengono percepiti come «potenziali nemici». Inoltre, la maggior parte delle volte sono «poveri» e quindi «percepiti come “competitori”» in quanto «consumatori illegittimi di welfare», del “nostro” welfare. Ragionando così, però, si scade in una «concezione darwinista dell’appartenenza sociale», dando vita a «una società che produce scarti umani». Spesso – per Zanfrini – anche «chi difende l’immigrazione sbaglia, quindi, quando usa argomentazioni economicistiche del tipo “gli immigrati ci servono per certi lavori” o “gli immigrati ci pagheranno le pensioni”». Dobbiamo accogliere chi ha bisogno «perché è giusto in sé, anche se nell’immediato non è utile». E iniziare seriamente a ragionare sul tema della «partecipazione, coinvolgendo le persone immigrate a livello civile e politico». Oltre alla nostra concezione dei confini e di omogeneità, le migrazioni mettono in discussione «la nostra idea di stanzialità. Ma sono le nostre stesse vite a essere sempre più transnazionali», ha aggiunto la relatrice, che ha giustamente accennato al fatto che in ambito sanitario-assistenziale – ma il discorso si potrebbe allargare – «l’immigrazione di donne e uomini nei Paesi ricchi per essere impiegate come oss, badanti o colf impoverisce, e di molto, i loro Paesi di origine» di professionalità fondamentali. Dovremmo, quindi, «esportare i nostri sistemi di welfare, non solo i nostri sistemi produttivi».

Un altro aspetto molto delicato dell’immigrazione è quello della «diversità quando mette in dubbio, o rischia di mettere in dubbio, il principio di uguaglianza davanti alla legge». Si pensi alla sharia islamica, che spesso contrasta con gli ordinamenti dei Paesi europei. Infine, ma non meno importante, la migrazione «sfida la Chiesa, mettendo in dubbio la nostra idea di Chiesa nazionale, tradizionale e l’idea stessa di laicità, cioè il ruolo della religione nello spazio pubblico». Temi complessi sui quali è sempre necessario un di più di discernimento all’interno delle nostre comunità ecclesiali.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 29 novembre 2024

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Speranza, andare insieme all’incontro col Signore

30 Ott

Presente come attesa attiva del compimento in Dio: Prolusione del Vescovo alla Scuola di teologia 

Si avvicina l’inizio del tanto atteso Giubileo 2025 e si avvicina anche il 60° dalla pubblicazione della Costituzione pastorale “Gaudium et spes”. La nostra Scuola diocesana di teologia per laici ha scelto quindi di dedicare il suo programma 2024-2025 al tema della speranza, al centro dell’anno giubilare. Lo scorso 22 ottobre a Casa Cini il nostro Arcivescovo è intervenuto per la Prolusione di inizio anno dal titolo “Giubileo 2025, guardare il mondo con gioia e speranza”.

«Sperare – ha esordito – significa tendere con l’animo verso un bene futuro, desiderato. La speranza è attesa, tensione verso la pienezza, a partire da una mancanza, da un presente lacunoso. È uno slancio verso un traguardo buono, con un’attesa di miglioramento, di un orizzonte positivo. Sperare vuol dire quindi essere protesi, aperti».

LA SPERANZA CRISTIANA

Ma nello specifico, la speranza cristiana è qualcosa di più di questa speranza solo umana. Attingendo principalmente dalla “Spe salvi” di Benedetto XVI, il Vescovo ha spiegato come la speranza sia una «virtù per poter affrontare il presente», ma «non una generica attesa in un futuro positivo e indeterminato». È, invece, «attesa di Dio, di Colui che crea e sostiene la vita, di Colui che è il futuro». La speranza coincide quindi con «l’incontro col Signore». È anche miglioramento del presente e attesa, ma è molto di più: «è l’eschaton, il compimento della vita, Gesù stesso, cioè Dio dentro la storia, Dio con un volto». La speranza cristiana «non è quindi un tempo (il futuro), né un luogo (il Paradiso) ma una Persona, l’incontro con una Persona. L’Oltre è un incontro: quello con Dio». Diversi, poi, gli accenni di mons. Perego al tema della speranza in Paolo, o alla “Teologia della speranza” di Moltmann, differente dal “principio-speranza” laico-marxista di Bloch.

Avere speranza per noi cristiani significa dunque «sapere qual è la meta e raggiungerla assieme agli altri», anche e soprattutto nel dolore. L’orizzonte non può quindi che essere «un orizzonte buono, un orizzonte di salvezza. Solo così l’uomo può dirsi davvero libero dalla tentazione della desperatio, dal un fato cieco o dalla presunzione di essere il protagonista solitario della storia».

COME RENDERNE RAGIONE

Ma affinché la speranza cristiana non resti una semplice idea, è essenziale capire come darle carne e sangue. C’è solo un modo: «andando incontro alle donne e agli uomini, sentendosi solidali con loro e con la loro storia». Forti della speranza che non delude, «Cristo Risorto, pur nelle crisi della nostra società, nelle tenebre, nelle nostre difficoltà. 

La storia è teocentrica perché ha per protagonista Dio, è una storia di salvezza che ha come destino l’incontro dell’uomo con Dio. Non è una storia solo terrena, solo umana». La speranza cristiana ha quindi radicalmente «a che fare con la vita», non è – come pensavano Marx o Feuerbach – fuga, alienazione dalla realtà. Al contrario, la visione cristiana è «critica di ogni passività, di ogni fuga dal mondo e promuove invece la cittadinanza attiva». Segni di speranza – citando ancora “Spe salvi” e “Gaudium et spes” – sono la preghiera, l’azione, la sofferenza, così come la solidarietà, la collaborazione, il dialogo e il servizio.

ANDARE OLTRE

La speranza è dunque «un uscire da sé nel tempo e nello spazio, ha una dimensione costitutivamente comunitaria: per il cristiano non esiste l’io senza l’altro». Una concezione, questa, rifiutata dalla modernità. «Nessuno è una monade chiusa in sé stessa ma è aperto essenzialmente ed eternamente agli altri», ha proseguito mons. Perego. Come scrive Benedetto XVI sempre in “Spe salvi”, la speranza è sempre anche «speranza per gli altri». Ciò richiama un concetto (ancora travisato) di Hans Urs von Balthasar secondo cui non si può non sperare che l’inferno sia vuoto. Insomma, la speranza cristiana «ci fa passare dal sé al noi, dal singolo alla comunità». «Spero in Te, per noi», scriveva Gabriel Marcel.

«Non ha quindi senso – si è avviato alla conclusione il Vescovo – una speranza che non sfoci nella carità, come non si può comprendere una speranza priva di fede». 

L’incontro ha poi visto il confronto fra l’Arcivescovo e alcuni dei tanti partecipanti, i quali han posto domande e riflessioni. A una di queste, mons. Perego ha risposto spiegando che quando prega lo fa innanzitutto «affinché la vita sia accolta e difesa sempre, e che qualche nostro giovane diventi sacerdote». Ma la difficile situazione nella nostra Diocesi, come nel resto d’Italia e d’Europa, non deve farci pensare, a tal proposito, che sia così in tutto il mondo. In diversi Paesi africani e dell’Oriente, crescono le vocazioni al sacerdozio e le congregazioni religiose. Anche questo può aiutarci a non disperare, anche questo è un “segno dei tempi”.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° novembre 2024

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«È il nostro momento, il momento della carità»

25 Ott

Mons. Elios Giuseppe Mori. Presentato il libro con le sue lettere negli anni ’40 da Roma a mons. Bovelli

Un giovane seminarista prima, un sacerdote poi, immerso nella realtà, la cui fede vive nell’esperienza degli incontri.È questo che emerge dalle circa 50 lettere che  negli anni ’40 da Roma il giovane seminarista Elios Giuseppe Mori (Mizzana 1921- Verona 1994) scrive al suo Vescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli. Mori fu a Roma dal 1940 al 1946, ospite del Pontificio Seminario Lombardo, allora diretto da mons. Franco Bertoglio. Nella Capitale si trova per studiare alla Pontificia Università Gregoriana e viene ordinato sacerdote il 23 dicembre ’44 in San Giovanni in Laterano.

Le lettere di Mori a mons. Bovelli, conservate nell’Archivio storico diocesano di Ferrara, ora sono al centro del nuovo Quaderno del CEDOC – Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana, in occasione del 30° anniversario della morte del sacerdote.

Il volume “E. G. Mori, L’amicizia: il primo apostolato. Lettere di don Elios Giuseppe Mori a mons. Ruggero Bovelli (1940-1947)”, è a cura di Paolo Gioachin, Francesco Paparella e Miriam Turrini, e ha la postfazione di Marcello Musacchi. È disponibile in cartaceo (a offerta libera) nella segreteria della Scuola di teologia a Casa Cini, mentre a breve sarà disponibile anche gratuitamente in digitale a questo link http://santafrancesca.altervista.org/biblioteca.html

Il volume è stato presentato proprio a Casa Cini lo scorso 17 ottobre nella prima lezione (eccezionalmente aperta a tutti) della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi” (foto).

Quasi 200 i partecipanti all’incontro (dei quali 50 presenti in sala e i restanti collegati on line da casa).

Si diceva della concretezza di don Mori; e Miriam Turrini nel proprio intervento il 17 ottobre ha spiegato come il seminarista/sacerdote «ricercava sempre nuove forme di apostolato in un mondo secolarizzato».Questi raccolti, ha proseguito, «sono documenti fondamentali per comprendere gli anni della formazione di Mori» («è il nostro momento», scrive lui stesso a mons. Bovelli); lettere dalle quali emergono anche tratti del suo carattere come la grande ironia e la vivacità intellettuale. Ma nel rapporto epistolare col suo Vescovo «al centro c’è sempre Ferrara e le sue prospettive pastorali, connesse anche al suo ritorno in città». A Roma lavora anche, dall’autunno 1940 alla primavera 1943, nell’oratorio del quartiere Monte Celio con i ragazzi di strada e, appena può, va anche a San Pietro ad ascoltare il Papa; scrive a tal proposito: «Ho una grande gioia nel cuore (…). Gli ho gridato ancora che gli voglio bene».

Sono gli anni terribili della guerra – come ha spiegato Gioachin -, con tanti profughi che arrivano a Roma nell’illusione, in comune con tanti residenti, che la CittàSanta potesse essere risparmiata dai bombardamenti. Ma non sarà così, San Lorenzo è un nome che sta a lì a ricordarlo tragicamente. Dal settembre ’43 al giugno successivo Roma sarà occupata dai nazisti con gli orribili episodi, solo per citarne due, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del ghetto. Dopo l’8 settembre ’43, lo stesso Pontificio Seminario Lombardo ospiterà un centinaio di rifugiati, fra cui atei, comunisti, ebrei (quest’ultimi almeno una 30ina e che Mori, per ragioni di sicurezza, nelle lettere chiama «circoncisi»). Ma, scrive lo stesso Mori a mons. Bovelli – che considerava come un padre -, «portare Cristo a chi non lo conosce (…) è un miraggio che mi esalta». «È questo il momento della carità senza limiti, senza distinzioni», continua. E ancora, riferito ai rifugiati: «la carità di Cristo non guarda al colore, alla religione, alla razza».

Paparella nel suo intervento ha raccontato l’accoglienza e l’irruzione dei nazisti (la famigerata “banda Koch”) nel Seminario Lombardo la notte del 21 dicembre ’43, rastrellamento che, per fortuna, non andò a buon fine in quanto gli ospiti, prevedendolo, si erano organizzati per fuggire in tempo rifugiandosi in un vicino edificio.

Nel ’44 don Mori ritorna a Ferrara, in una città – così la descrive – «sconquassata  e febbricitante». Ma anche qui, e per il resto della sua vita, centrale sarà la pastorale d’ambiente (basti pensare alla “Gioventù Operaia Cristiana” a Ferrara), vera e propria pastorale dell’incontro, dell’amicizia, della prossimità, anche con gli operai e i sottoproletari, ma senza rinunciare alla dimensione mistica: a tal proposito, nel ’41 a Bovelli don Mori riflette come, alla fine, il «soprannaturale, la preghiera fanno tutto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2024

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«Nel Mediterraneo si muore gridando il proprio nome»: le storie dei migranti

1 Ott

Giornata del migrante e del rifugiato. Fofana, Kimia, Hajar e gli altri: i racconti di dolore e riscatto

di Andrea Musacci

Guardare negli occhi le persone migranti, ascoltare dalla loro viva voce ciò che hanno vissuto, fermarsi a parlare con loro. Non si può affrontare il tema dell’immigrazione e dell’integrazione senza questo livello immediato di confronto.

Lo scorso 28 e 29 settembre anche a Ferrara si è svolta la 110^ Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, organizzata dal nostro Ufficio Migrantes Diocesano diretto da don Rodrigo Akakpo assieme alle diverse comunità linguistiche presenti nella nostra Arcidiocesi, i cui rappresentanti hanno portato la propria testimonianza diretta durante la giornata del 28 settembre a Casa Cini, Ferrara, luogo scelto per la ricca giornata di testimonianze e riflessioni. Una giornata moderata egregiamente da Chanel Tatangmo Kenfack, avvocato e membro della Commissione diocesana Migrantes.

Domenica 29 settembre, invece, Santa Messa in Cattedrale a Ferrara celebrata dal Vicario Generale mons. Massimo Manservigi. La Messa ha rappresentato uno spazio di dialogo tra diverse culture e tradizioni: vi hanno, infatti, partecipato tutte le comunità linguistiche delle parrocchie diocesane (Comunità francofona, filippina, inglese, latino-americana, polacca, ucraina, romena), oltre agli italiani, ed è stata animata dal coro multietnico, con letture e canti in diverse lingue. Inoltre, alcuni fedeli delle comunità etniche presenti nella nostra Diocesi, vestiti con abiti tradizionali, hanno offerto doni caratteristici durante l’offertorio. La stessa preghiera del “Padre nostro” è stata pronunciata nelle varie lingue delle comunità presenti.

Qui tutti i racconti di fuga, di integrazione, dei salvataggi, di nuove vite.

Cooperazione e mutualismo, nomi della democrazia

25 Set

Giornata di Ateneo per la Cooperazione internazionale: credenti e laici per rapporti diversi tra i popoli

Pace, ecologia, difesa dei diritti umani.Temi più che mai al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale che, per essere affrontati seriamente e in profondità, necessitano di un approccio diverso fra Stati e non solo.Questo approccio si può riassumere nel termine “cooperazione”, concetto al centro della seconda Giornata di Ateneo per la Cooperazione internazionale dal titolo “Democrazia, diritti e cooperazione”, organizzata dal Centro di Ateneo per la Cooperazione allo sviluppo internazionale di UNiFe, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Diocesana “Casa G.Cini” di Ferrara. L’iniziativa si è svolta nel pomeriggio del 20 settembre proprio a Casa Cini. L’evento è anche parte del programma “Aspettando la notte europea dei ricercatori 2024” promossa dall’Università degli Studi di Ferrara.

L’introduzione e la moderazione dei diversi interventi è stata di Alfredo Alietti, docente UniFe e direttore del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo sviluppo internazionale).

Dopo i saluti della Prorettrice Evelina Lamma (intervenuta al posto della Rettrice Laura Ramaciotti, impossibilitata a essere presente), ha preso la parola il nostro Arcivescovo mons. Gian CarloPerego: «in una visione liberista o socialista – ha detto quest’ultimo -, il tema della cooperazione rischia di essere slegato dal tema dei diritti e della democrazia, mentre invece i tre termini van tenuti assieme». È ciò che fa la Chiesa. Mons.Perego ha quindi ripercorso la nascita del movimento cooperativo nella seconda metà del XIX secolo, in ambito socialista, anarchico o cattolico, e di quest’ultimo, ha citato in particolare il ruolo di Giovanni Grosoli. Da questo movimento popolare si è arrivati alla formulazione nella Costituzione del nostro Paese (art. 45): «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata (…)». La cooperazione rimanda quindi a un «mutuo aiuto, a una mutua solidarietà e alla democrazia dal basso».Cooperazione che, tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso, ha caratterizzato anche il Piano Mattei, nato dopo diversi anni di studio e preparazione, e finalizzato allo sviluppo economico e democratico dell’Africa. Un modello virtuoso di cooperazione, ben diverso dal «falso Piano Mattei» proposto dall’attuale Governo italiano, «calato dall’alto e fatto per il controllo delle migrazioni e per determinati interessi economici, non certo per quelli dei Paesi africani».

Nella seconda parte del suo intervento, il nostro Arcivescovo ha invece delineato a grandi linee lo sviluppo del concetto di cooperazione nel Magistero della nostra Chiesa, dalla Gaudium et spes (1965, Paolo VI) alla Fratelli tutti (2020, Francesco), passando per la Populorum Progressio (1967, Paolo VI), la Sollicitudo Rei Socialis (1987, Giovanni Paolo II) e la Caritas in veritate (2009, Benedetto XVI). Una storia che ha portato, e continua a portare, a una vera e propria «rivoluzione culturale, con un’attenzione alle persone e alle comunità, contro ogni forma di assistenzialismo». Centrale è il tema della «fraternità» e della «cittadinanza globale», contro le «strutture di peccato» che creano «povertà, disuguaglianza e nuove forme di schiavitù».

Silvia Sitti, presidente Associazione Ong Italiane (AOI), è fra i promotori della campagna “Il mondo ha fame. Di sviluppo”, portata avanti da Focsiv, AOI, CINI e Link 2007, con il patrocinio di ASVis, Caritas Italiana, Forum Nazionale del Terzo Settore e MISSIO. Fra gli obiettivi, l’introduzione nella legislazione italiana di un preciso vicolo per il raggiungimento dello 0,70% per l’aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2030. Nel suo intervento Sitti ha riflettuto sulla legge 49/1987 dedicata proprio alla cooperazione, «legge fondamentale ma spesso non applicata, con conseguenze  serie sulla democrazia. Non vi è – ha aggiunto – solidarietà senza reciproca mutualità, e ciò vale anche per la cooperazione», compresa quella internazionale. «Ma la pandemia del Covid sembra non averci insegnato nulla riguardo all’importanza della dimensione globale nell’affrontare i problemi».

L’ultimo intervento prima del dialogo col pubblico presente, è spettato ad Agostino Petrillo, docente del Politecnico di Milano: «dagli anni ’90 del secolo scorso – ha riflettuto – si è avuta una crisi dell’associazionismo e una deriva affaristica della grande cooperazione». Negli anni della globalizzazione, quindi con la trasformazione degli equilibri economico-geopolitici, «non possiamo più concepire una cooperazione come intervento esterno di un Paese verso un altro ma come reale reciproco scambio», per affrontare la nuova «questione sociale planetaria, anche attraverso il sistema universitario. Vi è dunque – ha concluso – la necessità di aprire una nuova epoca della cooperazione».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 27 settembre 2024

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La preghiera: l’eterno in me, che esco dal mio tempo

7 Giu

Quel «canto che Cristo ha introdotto nel mondo»: l’ultimo incontro con don Federico Giacomin

La preghiera non è un mero «esercizio pietistico, “donabbondiano”» ma «l’ingresso del tempo della Pasqua nel mio tempo». Anche un ottimo oratore non è detto sia capace di trasmettere l’essenza…dell’orante. Don Federico Giacomin, presbitero della Diocesi di Padova, con la sua passione e l’originale talento oratorio che lo contraddistingue, vi è riuscito, appassionando i tanti partecipanti dei tre incontri da lui tenuti in questi mesi a Casa Cini, Ferrara. La sera del 29 maggio – sul tema “Come pregare?: Prega solo chi si compromette. L’ecclesiologia dell’orante” – si è tenuto l’ultimo dei tre, parte del progetto dedicato alla preghiera organizzato proprio tra Casa Cini e il Duomo.

ANTI-TECNICA E RIBELLIONE

Come pregare, quindi. Ma un “come” tutto da definire, trattandosi di un mistero, anzi del Mistero più grande. Mistero che – ha spiegato il relatore – «esula dalla “tecnica” del pregare. A forza di spiegarle, le tecniche distruggono il mistero». 

Se il mistero/sacramentum è «quell’azione che mentre la fai realizza qui e ora la presenza viva e vera del Signore Gesù», allora «tantissime nostre azioni, anche quotidiane, sono sacramento». Per questo, la domenica quando ci ritroviamo per la liturgia diventiamo realmente, nella nostra comunione, «Chiesa come Corpo di Cristo, ecclesia». La preghiera, che portiamo anche nella liturgia domenicale, è un vero e proprio «atto di ribellione»: sì, «ribellione al proprio tempo personale per entrare in quello di Cristo» e ribellione al tempo in cui ci è dato di vivere, così dominato dall’individualismo.

NELLA NOSTRA MANCANZA ESPLODE L’ETERNO

È necessario uno sguardo diverso, un tempo diverso. Un modo diverso di vivere il proprio corpo: «la preghiera del cristiano – ha proseguito don Giacomin – non è semplice, e non è sua». È una lotta continua, qualcosa di «non naturale». «L’uomo non prega volentieri, ogni altra cosa lo attrae», scriveva Guardini. Ed è il Corpo di Cristo che prega in noi. 

«O Dio vieni a salvarmi, Signore vieni presto in mio aiuto»: con questo Salmo inizia la preghiera nella Liturgia delle ore, a rappresentare la nostra mancanza, il nostro «non essere Dio», il nostro essenziale stato di «necessità». «Pregando vivo – quindi – una situazione estatica, nella quale, cioè, sto fuori di me, nel Corpo di Cristo». La Liturgia delle ore – pur nella sua «semplicità, canonicità, regolarità» – mi chiede di «andare in un altro Corpo, in un altro tempo». Di compiere, come accennato, qualcosa di non naturale, di particolarmente «difficile». Non si tratta di cercare a ogni istante la «concentrazione» ma di sentire quel «canto intra-trinitario che Cristo, incarnandosi, ha introdotto nel tempo»: la preghiera, dunque, «riempie di eternità il mio tempo». La partecipazione dei fedeli alla liturgia non consiste, dunque, semplicemente nel cantare o nel ripetere formule ma nel pregare con l’anima e col corpo, nel «partecipare alla Pasqua di Cristo, come corpo unico», il Suo. La preghiera è quindi «labbra e ritualità»: tutto ciò che viviamo, se vissuto in Lui, diviene pasquale.

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Percorso sulla preghiera: gli incontri rimanenti

Il 12 giugno alle ore 21 nella Cattedrale di Ferrara è in programma l’ultimo dei tre momenti di adorazione, guidato dal gruppo Taizè. I primi due sono stati guidati dalla Comunità Shalom.

Inoltre, sono previste due esperienze di preghiera in cammino in città accompagnati da Gian Maria Beccari (Insegnante di filosofia, religione e del metodo Feldenkrais): la prima si è svolta il 13 maggio, la seconda sarà il 17 giugno, ore 18-20, su “Mi fido di te?: Pregare attraverso il corpo nella relazione con l’altro”. Partenza dal Monastero del Corpus Domini di Ferrara.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 7 giugno 2024

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«Nella liturgia il Mistero è presente»

24 Mag

Riscoprire la «capacità simbolica» nell’era del web: la lezione di don Giacomo Granzotto

Quale liturgia nell’epoca del flusso senza sosta di informazioni e immagini via web? A questa domanda – decisiva, ma spesso ignorata – ha cercato di rispondere don Giacomo Granzotto, Direttore Ufficio Liturgico e Musica Sacra diocesano, in occasione dell’ultima lezione di quest’anno della Scuola di teologia per laici. “Per ritus et preces… Quale è la dynamis che anima i gesti liturgici?”, il titolo dell’incontro tenutosi lo scorso 17 maggio a Casa Cini, Ferrara.

«I gesti e le parole della nostra liturgia – ha spiegato il relatore – sono quelli di Gesù “medico celeste” che guarisce nel corpo e nell’anima». In altre parole, la liturgia «è il modo scelto da Dio per comunicare con noi, il primo strumento per entrare nel Suo Mistero». Documento fondamentale per rendere, dunque, la liturgia sempre più comprensibile pur nella sempre totale aderenza al modus operandi del Cristo, è la “Sacrosanctum Concilium” (1963) del Concilio Vaticano II, frutto anche del Movimento liturgico nato grazie all’abate Guéranger nel XIX secolo.

Spesso, però, oggi ai giovani «manca una capacità di lettura per comprendere la liturgia». La dimensione multimediale nella quale sono/siamo tutti, chi più chi meno, inghiottiti, secondo studi scientifici delle maggiori riviste internazionali, «ha modificato il nostro cervello». Le conseguenze riguardano la memoria, l’attenzione, la concentrazione e le interazioni sociali. Soprattutto molti giovani «hanno un rapporto patologico col web che porta a una dipendenza dalla dopamina e al mancato sviluppo di certe aree cognitive» (circa il 25% in meno…).

Riprendendo anche riflessioni di Pavel Florenskij, don Granzotto ha riflettuto quindi sull’importanza della «capacità simbolica» tipica dell’essere umano, cioè quella di «penetrare il mistero». Una capacità oggi che, appunto, si sta andando perdendo.Di conseguenza, «la ritualità liturgica diventa sempre più noiosa, difficile da sostenere, piena di gesti il cui senso si fatica a comprendere». Oggi – ha riflettuto don Granzotto – «manca la consapevolezza del Mistero, il messaggio evangelico spesso viene edulcorato o si dà troppo peso alla dimensione orizzontale a scapito di quella verticale, trascendente».

Ma la liturgia verrebbe snaturata se si adeguasse ai tempi e alle forme del mondo digitale. Dobbiamo, al contrario, «cercare di tornare a una normalità comportamentale». Romano Guardini rifletteva – ad esempio ne “La Santa Notte” – sull’importanza del «silenzio per le parole, del riposo creatore, in una società dove dominano la produzione e il rendimento. È la mentalità del mondo che, purtroppo, spesso vince anche nelle nostre parrocchie: nella liturgia, ad esempio, rispettiamo i momenti di silenzio?».

Citando anche passi di Matta El Meskin (1919-2006), monaco copto egiziano e di OdoCasel (1886-1948), monaco e teologo benedettino, don Granzotto  ha dunque posto l’accento sull’importanza di riscoprire l’infinita bellezza della nostra liturgia, «Chi in essa davvero opera», cioè lo Spirito. In essa «il Mistero è presente», la memoria liturgica è «ripresentazione, non rappresentazione: non dimentichiamo mai la nostra relazione col Dio vivo, vero e vivente».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 maggio 2024

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Dalla «cava del bisogno» al “Tu” della preghiera

27 Apr

La sera del 17 aprile a Casa Cini il primo incontro del percorso sulla preghiera: 50 persone (metà giovani) assieme a don Federico Giacomin

«Ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te», scriveva Sant’Agostino nelle sue Confessioni e queste parole che un uomo rivolge a Dio rimangono scolpite, oltre il tempo e i confini, come le parole sgorganti dall’abisso di grazia e miseria che abita il cuore di ognuno.

Una fiamma che divampa, anche improvvisa, può essere l’orazione, imprevista nei tempi e nei modi, ad abbattere barriere e certezze, croste di odio e di disperazione. Non si impara mai abbastanza a pregare. Lo sapevano, sicuramente, le 50 persone (la metà delle quali giovani) che la sera del 17 aprile scorso si sono radunate nel Salone di Casa Cini a Ferrara per il primo dei tre incontri formativi sulla preghiera guidati da don Federico Giacomin, coinvolgente e appassionato presbitero della Diocesi di Padova, Direttore del Centro di Spiritualità”Villa Immacolata”.

“Perché pregare? Prega solo chi perde il controllo – Antropologia dell’orante” il titolo di questo primo appuntamento, introdotto da Gianfranco Conoscenti di Taizè Ferrara, uno dei soggetti organizzatori dell’ampio programma e iniziato con un coinvolgimento dei presenti.A questi, don Giacomin ha chiesto innanzitutto di presentarsi e di esporre con una parola la propria idea di preghiera. Ciò che è emerso riguarda principalmente l’ascolto, la consapevolezza, l’affidarsi, la fatica e la riconciliazione con sé e con Dio, la compagnia, l’abbandono a Qualcuno che ci sovrasta.

VISIONE, CORPO E IMMAGINE

Come dentro di sé «ognuno ha un bisogno, cioè ciò che desidero ma non ho», così «esiste qualcosa più grande di noi, che però abita la nostra storia»: da qui nasce la preghiera, da questo «materiale grezzo», da questa «cava», dal male, dalla sofferenza «che ci sveglia, come la fame ci fa desiderare qualcosa che non abbiamo». In questo senso – ha proseguito don Giacomin – il bisogno è «rivelativo del nostro essere intrinsecamente poveri, mancanti». Ma nella consapevolezza che in tutto ciò, «Qualcuno mi viene accanto e mi salva». Siamo sì sempre incompleti ma «non condannati in eterno all’incompletezzza». Nella cava del bisogno cerchiamo sempre, ma «se non cerchiamo ciò che davvero può riempirci, cadiamo nella disperazione», ha proseguito il sacerdote. Dobbiamo imparare, come il Santo di Ippona, a dare del “Tu” a «Colui che sta dietro alla realtà», passare dal bisogno al desiderio, dalla cava alla preghiera, dalle inquietudini a una relazione con Dio.

Ma «ogni nostro rapporto con la realtà passa per il vedere», dentro e fuori di noi, e facile è cadere «nel rischio di crearci illusioni, di vedere cioè ciò che vogliamo vedere, di dar vita a fantasie che mi fanno andare oltre le mie possibilità, fuori dal reale». Per stare lontani dalle illusioni, bisogna quindi «educare la propria fantasia».

Madeleine Delbrêl (1904-1964), mistica e poetessa francese, questo l’aveva intuito bene, percependo «l’esistenza di Dio come persona: così, non per fede, a 20 anni, dopo un periodo di ateismo radicale, spontaneamente si inginocchia». L’immaginazione (Dio come persona da incontrare) va, cioè, educata anche attraverso il corpo, attraverso «atti» (in questo caso, l’inginocchiarsi), «azioni precise e quotidiane», non formali né meramente rituali ma necessarie per fare in modo che «il male non intacchi la nostra stessa immaginazione». La preghiera è, dunque, un’azione che ci permette di «allenare la fantasia a vedere l’azione di Dio nella nostra vita».

In questo modo, il nostro «desiderio di salvezza, che vive dentro al Mistero, può essere colmato solo da Chi ci ama, da Chi ci salva».Pregare è dire un “Tu”, non concentrarsi sul proprio “io”. Come C.S. Lewis fa dire al demone nelle Lettere di Berlicche, per impedire alle persone di rivolgersi direttamente a Dio bisogna «stornare il loro sguardo da Lui verso loro stessi». In questo modo rimaniamo prigionieri nella cava del nostro bisogno  sempre frustrato, nelle sabbie mobili della disperazione. Ma fuori c’è Altro. È dentro di noi.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 26 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio