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Corpi intermedi, concretezza e limite: ridar vita alla fraternità

1 Apr


Cattolici in politica e democrazia. Il 29 marzo a S.Giacomo ap. l’incontro di AC, ACLI e altre sigle su temi di forte attualità

La crisi della politica, in Italia e in tutto l’Occidente, è sicuramente conseguente anche alla crisi delle forme organizzate della politica e del ruolo dei cattolici in essa.

Su questi e altri temi sempre di forte attualità lo scorso 29 marzo hanno riflettuto Italo Sandrini (vicepresidente nazionale delle Acli e fino ad alcuni mesi fa Assessore a Verona nella giunta di Damiano Tommasi), e Andrea Bonini (costituzionalista e coautore del libro “Democrazia: la sfida della fraternità” curato da Padre Francesco Occhetta, gesuita e segretario generale della Fondazione “Fratelli tutti”).

L’incontro svoltosi nel salone del complesso parrocchiale di San Giacomo Apostolo a Ferrara aveva come titolo “Democrazia e fraternità. Profezia di un mondo di Pace” ed era il secondo dedicato a questi temi, dopo quello svoltosi lo scorso 6 febbraio su “Scelte di pace”. Gli incontri sono stati organizzati da Azione Cattolica diocesana ed Acli Provinciali Ferrara, con il supporto di Agesci, Masci, Pax Christi e Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UniFe. 

Il 29 marzo, dopo i saluti di Francesco Ferrari (ACdiocesana) e Paolo Pastorello (ACLI Ferrara) è intervenuto per una breve introduzione Dario Maresca, moderatore dell’incontro, per dimostrare, anche attraverso ricerche statistiche, di come siano una minoranza nel mondo i Paesi che si possono definire “democratici” e di come nella percezione pubblica, anche italiana, si faccia sempre più spazio la legittimità di «sperimentare forme di governo nazionale tendenzialmente autoritarie».

Il primo relatore, Andrea Bonini, ha innanzitutto illustrato l’Associazione “Comunità di Connessioni”, rete a livello nazionale nata grazie a parte dell’associazionismo laicale cattolico per unire tra loro esperienze territoriali simili ma slegate. Associazione che opera prevalentemente attraverso «la formazione e l’autoformazione» e anche nelle istituzioni, ma «in seconda linea». Venendo al tema dell’incontro, Bonini ha riflettuto su come la fraternità sia «un termine lasciato fuori dalla politica», schiacciato tra il dominio del concetto di libertà (dal liberalismo-capitalismo-liberismo) e quello di uguaglianza (social-comunismo).«Per definirsi “fratelli”, innanzitutto – ha detto -, bisogna riconoscere un padre/Padre comune, e questo è molto difficile». La fraternità, però, tra i due termini sopracitati «ristabilisce una verità e un equilibrio, ridando anche forza ai corpi intermedi (partiti e sindacati, in primis)», per tornare a un’idea di pluralismo «che crea ponti e non lacci». Ma i corpi intermedi, per Bonini, «vanno ripensati», tornando ad esempio al «finanziamento pubblico diretto ai partiti e aumentando la loro democraticità interna». Questi, insieme alla «concezione personalista», possono oggi ridare valore alla fraternità attraverso «la riscoperta del concetto di “limite” che la possibilità tecnica – e l’individualismo – stanno distruggendo».

Per Bonini occorre, inoltre, «superare la divisione dei cattolici in politica fra destra e sinistra, frutto di un bipolarismo della seconda Repubblica», conseguente alla fine della DC. I cattolici in politica possono portare ancora «pragmatismo e verità, non per rinnegare i conflitti esistenti ma per ricomporli, come ad esempio sul complesso tema dell’immigrazione e dell’inclusione».

Nei suoi interventi, Italo Sandrini ha invece posto l’accento sul «problema generazionale», a partire dal fatto che molti giovani danno per scontato il poter vivere in un Paese democratico. In generale, è fondamentale in politica «la concretezza», cioè il «sporcarsi le mani». Altro problema sollevato da Sandrini sul tema “democrazia” è l’esistenza a livello elettorale dei listini bloccati.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 aprile 2025

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Minori stranieri non accompagnati, serve una rete di aiuto per salvarli

8 Mar

Il 1° marzo a San Giacomo Apostolo la tavola rotonda della Papa Giovanni XXIII col Vescovo, il Prefetto, le testimonianze di un giovane migrante e di chi è in prima linea: storie e progetti

di Andrea Musacci

“Esserci per accogliere. Ascoltare per custodire” è stato il titolo dell’importante tavola rotonda sul tema dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) tenutasi lo scorso 1° marzo nei locali di San Giacomo Ap. a Ferrara, organizzata dalla Papa Giovanni XXIII e moderata da Elisa Calessi, giornalista Rai di Porta a porta.

I DATI. «SERVONO PIÙ TUTORI»

Dopo la presentazione di Caterina Brina (Papa Giovanni XXIII), è intervenuto il nostro Arcivescovo mons.Gian Carlo Perego (Presidente Fondazione Migrantes), che ha preso le mosse dai recenti dati pubblicati dal Ministero del Lavoro, raccolti attraverso il SIM (Sistema Informativo nazionale dei Minori non accompagnati): al 31 dicembre 2024 erano presenti in Italia 18.625 MSNA. Di questi, il 15% ha meno di 14 anni ed il 12% sono ragazze. Aumentano le femmine e si abbassa sempre più l’età. «In Italia – ha detto mons.Perego -, sono sostanzialmente due le stagioni che riguardano gli MSNA: la prima è a inizio anni ’90, con l’arrivo in particolare di albanesi, rumeni e bulgari; la seconda, dal 2015 in poi, con picchi di 35mila MSNA annui». Dei 18.625 MSNA presenti in Italia, il 53% arriva dal mare, il 47% da terra (camion, volo in aereo, rotta balcanica ecc.). Il 12% sono femmine, un numero in aumento negli ultimi anni, e il 46% di queste ha tra i 7 e i 14 anni. Per quanto riguarda in particolare i maschi, i più piccoli di loro han perso la madre o i genitori durante la traversata in mare. Questi provengono da 66 Paesi, di cui quasi il 70% da 33 Paesi africani, e i restanti dall’estEuropa, da Paesi asiatici o latino-americani. Per quanto riguarda i maschi, negli ultimi anni vengono principalmente (il 75%) da – in ordine – Egitto, Ucraina, Gambia, Tunisia, Guinea, Costa d’Avorio, Albania, Bangladesh,Pakistan. Le femmine invece sono la quasi totalità ucraine e una minoranza ivoriane. Le Regioni che più accolgono gli MSNA sono Sicilia, Lombardia, Campania, Emilia-Romagna e Lazio. E l’86% è ospitato come prima accoglienza in strutture di emergenza o temporanee. Parte degli ucraini in questi 3 anni di guerra è stato accolto da famiglie ucraine già residenti nel nostro Paese.

«Ma chi li tutela?», si è chiesto il Vescovo. Domanda scottante, che ha aperto un interessante dibattito in sala: «prima della Legge Zampa del 2017, erano i Sindaci ad avere la tutela degli MSNA.Un compito arduo visti i numeri importanti. Ma la Legge Zampa non ha ancora i decreti attuativi, cioè le gambe per camminare.Oggi in Italia i tutori riconosciuti per gli MSNA sono 3783: un numero palesemente insufficiente. C’è anche da dire – ha proseguito mons. Perego – che il 35% degli MSNA si allontana volontariamente dalla struttura dov’è accolto, per lasciare l’Italia, che vede quindi solo come tappa intermedia». L’impegno coordinato di associazioni e istituzioni è, dunque, fondamentale: a fine dibattito, mons.Perego ha sottolineato con amarezza come «inItalia solo 80 Prefetture hanno un Consiglio territoriale per l’immigrazione funzionante».

PROGETTO ALLA CITTÀ DEL RAGAZZO

E dopo il Vescovo è intervenuto proprio il Prefetto di Ferrara Massimo Marchesiello: «ringrazio – ha esordito – chi nel nostro territorio fa accoglienza di MSNA». Dal 2017 al 2023 Marchesiello è stato prima Prefetto di Gorizia e poi di Udine, e a S. Giacomo ha quindi raccontato anche alcune esperienze positive in queste aree di frontiera che ha potuto vedere coi propri occhi, per poi ricordare il progetto che «come Prefettura diFerrara abbiamo avviato assieme a mons.Perego nella Città del Ragazzo di inserimento lavorativo per gli MNSA, con anche un percorso formativo e di alfabetizzazione».

L’ÉQUIPE DELL’AUSL FERRARA

Un ruolo fondamentale per gli MSNA lo svolge l’AUSL Ferrara, rappresentata nella tavola rotonda da Annalisa Califano che ha parlato del progetto dell’équipe multidisciplinare e multiprofessionale – interna proprio all’AUSL di Ferrara – , nata 1 anno e mezzo fa (e presente anche nelle altre AUSL della nostra Regione) e composta da un mediatore culturale, «indispensabile per costruire un rapporto col presunto minore»: un assistente sociale dell’ASP di Ferrara (invitato all’incontro del 1° marzo, invito che ha però declinato); un neuropsichiatra e una psicologa di psicologia infantile; un pediatra.«Abbiamo – ha aggiunto – un ambulatorio dentro la Casa della Comunità (Cittadella San Rocco, Ferrara, ndr) per l’accertamento del MSNA.Qui si compie un primo colloquio, molto doloroso, nel quale al presunto minore si chiede di ripercorrere la propria storia, spesso fatta di povertà, scarsa scolarizzazione, problemi lavorativi, abusi, violenze, torture subite durante il viaggio».

E a proposito della famosa “radiografia dei polsi” che si compie per valutare la maggiore età o meno del giovane migrante, Califano ha spiegato che «vale solo come primissimo accertamento, al quale poi ne devono seguire altri». È, dunque, un percorso lento e complesso: «ci interessiamo – ha aggiunto – della sua salute complessiva, comprendente anche l’alfabetizzazione, la conoscenza dei propri diritti, della terra che lo ospita».

“CASA DELL’ANNUNZIATA” 

In collegamento con San Giacomo c’era Giovanni Fortugno, Responsabile  di “Casa dell’Annunziata”, comunità di accoglienza per MSNA nel centro di Reggio Calabria. «Siamo nati 10 anni fa – a fine 2014 – grazie anche all’impegno di mons. Gian Carlo Perego e della Migrantes. Accogliamo bambini e ragazzi dai 9 ai 17 anni di età. Appena li accogliamo – ha spiegato -, togliamo loro lo smartphone per evitare che i trafficanti continuino a contattarli. Successivamente, gliene diamo un altro per tenersi in contatto coi familiari. E stiamo lavorando anche a progetti per i neomaggiorenni». Iniziai andando in Grecia, a Patrasso, dove vidi bimbi soli anche di 6-8 anni». Tra il 2014 e il 2019, sono ancora sue parole, «a Reggio Calabria sono arrivati quasi 8mila MSNA, numeri enormi per una realtà come la nostra, non attrezzata per questo tipo di accoglienza. Personalmente ho assistito a circa 400 sbarchi di migranti: ho visto uomini senza reni, perché asportati per il commercio illegale, gravemente ustionati, feriti, senza un occhio o un orecchio, con gli arti amputati a causa della disidratazione, fortemente denutriti, alcuni arrivati morti».

LE STORIE DEI BIMBI

Il giornalista Luca Luccitelli è insieme a Fortugno co-autore del libro “Figli venuti dal mare”: «sono 200 le storie che ho raccolto da Fortugno e una parte di esse le raccolgo nel libro: lui ci ha messo la vita, io le parole», ha detto. «Nel volume inizio dalle storie di chi non ce l’ha fatta, come una mamma somala e il suo bimbo, morti durante la traversata. O di quei tre bimbi – uno afghano, uno eritreo, l’altro dall’Africa occidentale – che hanno camminato da soli per alcune migliaia di km». Questi minori durante la loro odissea «sono potenzialmente vittime di qualsiasi tipo di abuso e violenza.E tra loro aumentano gli under 14 e le femmine, regolarmente abusate sessualmente durante il tragitto. A Reggio Calabria – ha proseguito – ho incontrato Fatima (nome di fantasia, ndr), bimba siriana col volto gravemente ustionato ma con uno sguardo sempre solare.Abbiamo poi constatato essere stata vittima di una delle bombe chimiche dell’esercito di Assad.Operata a Beirut, poi da lì ha viaggiato da sola fino in Italia, passando per la Libia (Bengasi), traversando il mare e arrivando a Roccella Jonica. Il padre le ha pagato il viaggio tra i 4 e i 6mila euro, indebitandosi pesantemente».

LA STORIA DI FAKOLI

Fakoli Sibide è invece il nome di un ragazzo senegalese di 18 anni, accolto alla Città del Ragazzo di Ferrara. A San Giacomo è intervenuto per raccontare la sua storia: «due anni  fa – ha detto – ho lasciato il mio Paese e la mia famiglia, e ho attraversato il Mali, il Niger,  la Tunisia e poi con un barcone sono arrivato in Italia». In Tunisia è rimasto 5 mesi, durante i quali ha anche lavorato in campagna. Fakoli ha viaggiato in parte a piedi, in parte in autobus, dormendo anche per strada. Sogna di fare il meccanico: alla Città del Ragazzo, infatti, ama molto il corso di meccanica che sta seguendo.

L’incontro è stato ulteriormente arricchito da alcuni interventi dal pubblico (una 70ina i presenti), fra cui Enrico Beccarini, Presidente Associazione “Tutori nel Tempo” di Ferrara (la prima nata in Italia, nel 2016): «inItalia – ha detto – ci sono 3 mila tutori, ma solo una piccola percentuale di questi riceve la nomina dal Tribunale dei minori. A Ferrara, ad oggi solo 2 su 28». Paola Mastellari, Presidente Associazione “Tutori Volontari Emilia-Romagna” ha invece spiegato come nella nostra Regione esiste anche un’altra associazione di tutori, a Bologna. «Sono 200 – ha aggiunto – i tutori in Emilia-Romagna, a fronte di 1406 MSNA (dati Ministero al 31 gennaio 2025)». Numeri bassi, che hanno conseguenze serie sulla vita di questi giovani.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 marzo 2025

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Don Benzi e quel senso di condivisione che significa «appartenerci a vicenda»

21 Feb

Nel 2025 si festeggia il centenario dalla nascita di don Oreste Benzi, fondatore dell’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”. A Ferrara l’incontro con le testimonianze di un sacerdote e di due coniugi suoi amici e collaboratori: «ha fatto entrare la luce nel buio della mia vita», «con lui mi sentivo di essere arrivato a casa»

di Andrea Musacci

Aprendo le proprie braccia, apriva vie. Irradiando luce, illuminava occhi e cuore delle persone che incontrava.Questo era don Oreste Benzi, sacerdote riminese fondatore dell’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII” (Apg23), di cui nel 2025 ricorre il centenario della nascita.

Anche la nostra Arcidiocesi ha inteso ricordarlo con una serata di testimonianze che rendesse l’idea di come la sua creatura sia ancora viva nelle tante persone che in Italia e non solo portano avanti la sua missione: far incontrare Cristo nella gioia, come realtà viva di liberazione per ognuno.

Lo scorso 12 febbraio è stato il salone del Complesso parrocchiale di san Giacomo Apostolo all’Arginone (Ferrara) a ospitare l’incontro sul tema “Don Oreste Benzi, innamorato di Dio e dell’uomo”. Relatori sono stati don Mario Zacchini e i coniugi Stefano Gasparini e Flora Amaduzzi, testimoni delle origini della Comunità Papa Giovanni XXII. La mattina dopo, in Seminario a Ferrara, incontro con gli stessi relatori ad hoc per il clero diocesano.

SOLO NEL DONO E IN GESÙ SI È FELICI

A San Giacomo, dopo l’introduzione da parte di don Michele Zecchin (Vicario Episcopale per la Carità Pastorale) e Piera Murador (Papa Giovanni XXIII di Ferrara – nella foto piccola con i tre relatori) ha preso la parola don Zacchini:«donBenzi – ha detto – sapeva aprire vie, dare spiegazioni profonde ai giovani. All’inizio degli anni ’90 sono partito in missione per la Tanzania dove, grazie anche a don Benzi, sono riuscito ad aprire una casa-famiglia per gli orfani, data l’alta mortalità fra i giovani genitori. Nel ’98, invece, in Italia è iniziata l’accoglienza nella mia parrocchia di donne obbligate a prostituirsi. Con don Benzi spesso andavamo a incontrarle per strada», ha proseguito ricordando uno dei tratti più noti del sacerdote riminese. «Era una persona molto affidabile», che credeva nel fondamento della Papa Giovanni XXIII:«conformare la propria vita a Gesù, povero, servo, sofferente, che espia le colpe del mondo», diceva lui stesso, «ma permettendoci di vivere ciò nella gioia e nella pace».

DonBenzi credeva che la vita «vada vissuta e donata a Gesù e agli altri: solo in questo modo si può essere davvero felici». Solo nel dono, nella preghiera e nell’Eucarestia. Niente di spettacolare, dunque, ma «l’adesione al Vangelo nella normalità e semplicità del quotidiano: questa è la concretezza del cristianesimo». Uno sguardo sulla realtà di chi non la subisce ma la stravolge: ad esempio, ha proseguito don Zacchini, «sapete che vi erano coppie di coniugi che nelle loro case-famiglia dell’Apg23 ospitavano bimbi con l’AIDS e li facevano vivere a fianco dei loro bambini naturali?

«SI LASCIAVA MANGIARE DAGLI ALTRI»

Stefano ha scelto di anticipare il proprio intervento con un video nel quale donBenzi racconta come in 2^ Elementare, dopo aver sentito da una sua insegnante parlare della figura del sacerdote, tornò a casa e disse alla madre: «mamma, io mi faccio prete!». DonBenzi che come un pioniere aveva «sempre nuove frontiere da scoprire», e come uno scienziato «non aveva mai perso la capacità di stupirsi». DonBenzi che «si lasciava mangiare dagli altri e a sua volta – ha poi aggiunto don Mario – sentiva sempre il bisogno di nutrirsi di Gesù Eucarestia». E che era sempre in ritardo «perché non diceva di “no” a nessuno e a volte dava appuntamento alle persone anche di notte, se magari doveva prendere un aereo molto presto…».

La sua intuizione della casa-famiglia (le prime, nate nel ’73) – ha proseguito Gasparini – nasceva dall’idea che «la famiglia per sua natura è qualcosa di composito, che vive nella complementarietà e nella quale, quindi, si crea una sinfonia». Aspetti spesso ignorati o rifiutati dal resto della società. Per don Benzi, il povero è «colui che non conta niente, che non ha nessuna importanza per il mondo, che è come se non esistesse, che non è stimato». Il ricco, invece, «è colui che detiene il potere ma è l’uomo più isolato del mondo, perché è da solo con le cose che ha».

Invece, diceva ancora don Benzi, «io sono veramente me stesso, nella mia vocazione, nella misura in cui sono comunità». E ancora: «non guardo al limite che ho ma a Colui che mi porta al di fuori di questo limite». «Con donBenzi – ha aggiunto Stefano – mi sentivo d’essere arrivato a casa».Qualcosa di inconcepibile per molti».

Don Benzi era infatti convinto che «i poveri gli dessero la libertà di vivere per Gesù: il suo amore per i piccoli era sconfinato». I piccoli sono coloro che «vivono ai margini della vita sociale» e il principio che lo muoveva era che «la carità è condivisione diretta. Le provocazioni che dava agli altri erano credibili perché lui stesso le viveva».

«Ho conosciuto don Oreste – ha detto invece la moglie Flora – circa 50 anni fa, quando avevo 21 anni ed ero in un periodo della mia vita di grande confusione a livello affettivo e lavorativo. Dentro di me percepivo un grande vuoto». Ma la sua vita cambia quando accetta l’invito del fratello a vivere per 1 mese in una casa-famiglia dell’Apg23 che accoglieva una decina di persone adulte disabili: «all’inizio ero a disagio, ma poi ho visto la grande allegria che dominava in quella casa, la condivisione, la grande gioia di vivere: lì ho incontrato Gesù. È come se Gesù per la prima volta nella mia vita fosse venuto a spalancare le finestre, a far entrare luce e aria fresca nel buio della mia vita». Lo stesso donBenzi «irradiava una luce, un calore che non avevo mai visto in nessuno: era sempre col sorriso, sempre con le braccia aperte pronto ad accogliere chiunque».  

«Per noi dell’Apg23, quindi, la condivisione è un modo d’essere, è oltre il servizio, lo supera e diventa appartenenza: insomma, non vi è più uno che fa un servizio e l’altro che lo riceve ma ci apparteniamo l’un l’altro, è uno scambio reciproco». Una bella descrizione del senso di comunione profonda che contraddistingue il cristiano.

***

Minori stranieri non accompagnati, il 1° marzo tavola rotonda e presentazione di un libro sul tema

“Esserci per accogliere.Ascoltare per custodire. L’accoglienza di minori migranti non accompagnati”: questo il titolo dell’importante incontro in programma il prossimo 1° marzo dalle ore 9 alle 12.30 nel Complesso parrocchiale di San Giacomo Apostolo all’Arginone a Ferrara.

Una tavola rotonda con testimoni, esperti e cittadini, moderata da un giornalista e con gli interventi di un giovane MSNA (minore straniero non accompagnato), che porterà la sua testimonianza personale, del nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego, di Giovanni Fortugno (responsabile Casa dell’Annunziata di Reggio Calabria) e Luca Luccitelli. Fortugno e Luccitelli sono autori del libro, che per l’occasione sarà presentato, “Figli venuti dal mare” (Sempre Editore, 2024).

Di cosa parla il libro

Li classifichiamo con una sigla: MSNA, minori stranieri non accompagnati. Ma ognuno di loro ha un volto e una storia. Fuggono da luoghi dove è impossibile restare. Partono nonostante i pericoli, perché la speranza è più forte della paura. In questo libro sono raccolte le loro storie e quella di chi ha scelto di accoglierli come figli.

Abel è arrivato a 2 anni e mezzo con la nave Diciotti. La mamma è annegata durante la traversata ed è sepolta nel cimitero di Armo, assieme a quelli che non ce l’hanno fatta. Lui, come tanti altri bambini e ragazzi venuti dal mare, è stato accolto nella Casa dell’Annunziata, a Reggio Calabria, e dopo mesi di ricerche è stato ricongiunto con il papà. Altri partono da soli nonostante abbiano 9, 12, 15 anni.

Giovanni Fortugno ha aperto con moglie e figli naturali una casa-famiglia in cui accolgono minori, anche con disabilità: dal 2004 è responsabile della “Casa dell’Annunziata” per minori stranieri non accompagnati.

Luca Luccittelli, sposato, ha 4 figlie, di cui 1 in affido. Ha vissuto in Africa e in zone di conflitto. È giornalista e capo ufficio stampa della Comunità Papa Giovanni XXIII.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 febbraio 2025

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Pace, una scelta di campo: quattro proposte concrete

15 Feb

Le Campagne attive nel nostro Paese: cancellare o ristrutturare i debiti ingiusti dei Paesi poveri per uno nuovo sviluppo; mettere al bando le armi nucleari; istituire un Ministero della Pace; non finanziare con le banche la produzione e il commercio di armi 

di Andrea Musacci

La pace fa parte di un triangolo di P, che compone assieme alla parola “preghiera” e alla parola “poveri”. Ma potrebbe anche far parte di un rombo, aggiungendo la parola “prossimità”.

Parlare di pace, quindi, puà non essere uno stanco esercizio retorico o astratto ma il racconto in prima persona di progetti concreti, di vicinanza alle persone che alla pace anelano.

Una serata ricca di queste narrazioni è stata quella dello scorso 6 febbraio nella parrocchia di San Giacomo Apostolo a Ferrara (via Arginone), grazie all’incontro “Scelte di pace” promosso dal Settore Adulti dell’Azione Cattolica diocesana, dalle Acli provinciali, dall’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXXIII” e da CCSI (Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale) di UniFe, in collaborazione con la Scuola diocesana di Formazione politica.La serata, introdotta da Francesco Ferrari (AC diocesana) e moderata da Dario Maresca – ha visto la partecipazione di un centinaio di persone, molte delle quali giovani. Il prossimo incontro sul tema della pace è in programma il 29 marzo sul rapporto fra democrazia e fraternità. Nei prossimi numeri vi daremo ulteriori dettagli.

PACE SIGNIFICA DEMOCRAZIA

«Nel dibattito pubblico, ormai la guerra non suscita più lo sdegno che meriterebbe«, ha incalzato Maresca. «Secondo stime ONU, 1 bambino su 6 nel mondo vive in situazioni di conflitto armato. La pace – chiediamoci – è per noi cristiani “solo” una promessa escatologica o anche una speranza per l’oggi?».

A questo interrogativo ha cercato di rispondere Andrea Michieli, Direttore dell’Istituto di Diritto internazionale della Pace “Giuseppe Toniolo”:«l’annuncio della pace – ha detto – è sia una prospettiva escatologica sia un impegno concreto da portare avanti, una scelta di campo».Nel concreto, però, cosa significa “lottare” per la pace? «La pace dovrebbe essere la prima bussola del nostro agire politico». Davanti a noi si pone un aut aut etico: «o costruiamo la pace o benediciamo la guerra, quindi l’uccisione. Ci è quindi richiesta una conversione».

Detto ciò, nelle politiche concrete, per Michieli, vi può essere una «gradualità», considerando quindi anche «la legittima difesa» come possibilità necessaria. Ma la teoria della “guerra giusta” già «viene scalfita nella Chiesa durante il Concilio Vaticano II con la “Pacem in terris”, ripresa, però, seriamente solo con la “Fratelli tutti” di Papa Francesco». In questo mezzo secolo . ha proseguito Michieli – si è passati dalla tensione della Guerra fredda «all’illusione post 1989 di un mondo senza conflitti grazie all’unificazione nel mercato globale e agli organismi internazionali. Non siamo, però, stati capaci di creare un mondo davvero multipolare». Andiamo, invece, nella direzione dei «vari imperialismi» – cinese, russo, turco, ad esempio – invece di andare «verso una convivenza e una democratizzazione sempre più ampie. Ma gli imperialismi rappresentano la morte del diritto internazionale e del diritto umanitario».

Una risposta a ciò risiede nella Costituzione Italiana pensata, in particolare nel suo articolo 11, per la «gestione del conflitto affinché non diventi armato»; ciò, «portandolo a livello costituzionale, quindi gestendolo, partendo dal concetto dossettiano di “democrazia sostanziale”». E a tal proposito, va denunciato il tentativo dell’attuale Governo italiano di riforma della legge 185/1990; legge nata 35 anni fa grazie alla mobilitazione dei missionari e della società civile, che regolamenta le esportazioni delle armi prodotte in Italia. E che ora rischia di essere smantellata.La seconda fase di questo grave tentativo di riforma è iniziato in Parlamento lo scorso 6 febbraio.

È dunque più che mai necessario – per Michieli – riprendere il discorso sulla «difesa nonviolenta della patria»: la guerra, infatti, «non è solo un discorso geopolitico»; e la pace, di conseguenza, è «strettamente legata alla democrazia e alla conflittualità latente nella società. Vanno quindi moltiplicati i momenti di dibattito su questi temi, per combattere l’indifferenza».

Micheli ha dunque accennato a quattro progetti concreti per costruire la pace con la democrazia dal basso e attraverso forme legali e costituzionali.

“Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”

Innanzitutto, la campagna “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”, mobilitazione nazionale collegata alla campagna globale “Turn debt into hope” promossa da Caritas International.  “Cambiare la rotta” mira a sensibilizzare sull’urgenza di ristrutturare o condonare i debiti dei Paesi poveri e a rimuovere l’iniquità dentro all’architettura finanziaria internazionale. «Un sistema che continua a sostenere modelli di produzione e consumo che causano il riscaldamento climatico, alluvioni e siccità, a danno soprattutto delle popolazioni più povere e vulnerabili», scrivono i promotori. La campagna si fonda su quattro punti essenziali: cancellazione e ristrutturazione dei debiti ingiusti e insostenibili, affrontando anche il debito da creditori privati; creazione di un meccanismo di gestione delle crisi di sovraindebitamento, con la costruzione di un sistema presso le Nazioni Unite; riforma finanziaria globale che metta al centro persone e pianeta, creando un sistema equo, sostenibile e libero da pratiche predatorie; rilancio della finanza climatica per sostenere la mitigazione e l’adattamento climatico nel Sud globale. Disinvestendo dal fossile, dall’economia speculativa, dalle industrie belliche.

La campagna è promossa da: Acli, Agesci, Aimc, AC, Caritas, Comunità Papa Giovanni XXIII, CVX, Earth Day Italia, Focsiv ETS, Fondazione Banca Etica, MCL, Meic, Missio, Movimento dei Focolari, Pax Christi, Salesiani per il sociale, Sermig. Media partner della campagna sono Agenzia SIR, Avvenire, Radio Vaticana – Vatican News, Famiglia Cristiana.

Info: https://cambiarelarotta.it/

“Italia, Ripensaci!”

La campagna “Italia, ripensaci!” per la messa al bando delle armi nucleari è promossa dalla Campagna Senzatomica e dalla Rete Italiana “Pace e Disarmo”. È rivolta al Governo Italiano affinché trovi le modalità per aderire al percorso del Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW), con l’impegno dei promotori di sensibilizzare i Comuni e le istituzioni a manifestare il proprio sostegno alla ratifica del Trattato da parte dell’Italia sottoscrivendo l’ICAN Cities Appeal;invitando i parlamentari a sottoscrivere l’ICAN Parliamentary Pledge affinché il Parlamento italiano manifesti il proprio sostegno alla ratifica del Trattato; sottoscrivendo all’ICAN Cities Appeal e all’ICAN Parliamentary Pledge, le istituzioni e i parlamentari richiedono all’Italia di farsi parte attiva del dibattito internazionale sul disarmo nucleare partecipando alla terza Conferenza degli Stati parte del TPNW che si terrà a New York nel marzo 2025, alla quale l’Italia può partecipare come “osservatore. La Campagna “Italia, ripensaci” si coordina con le altre campagne nazionali a sostegno dell’entrata in vigore del Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, in primo luogo con quelle portate avanti nei paesi la cui situazione è più simile a quella italiana: il Belgio, la Germania e i Paesi Bassi, tutti paesi europei membri della Nato e che ospitano armi nucleari statunitensi sul proprio territorio.

Info:

“Ministero della Pace, una scelta di governo”

La proposta del “Ministero della Pace, una scelta di governo”, promossa dall’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”, propone una “cabina di regia istituzionale” «per dar vita a un nuovo sistema nazionale per la promozione della pace». Il Ministero per la Pace – secondo i promotori – «potrebbe, in collaborazione con altri Ministeri e gli altri organi istituiti presso amministrazioni statali, individuare azioni coordinate nazionali e finalmente dare il nome ad una politica strutturale per la pace».  

Il nuovo Ministro, agendo in maniera trasversale ed in collaborazione con gli altri ministeri, avrebbe competenza su: promozione di politiche di Pace per la costruzione e la diffusione di una cultura della pace attraverso l’educazione e la ricerca, la promozione dei diritti umani, lo sviluppo e la solidarietà nazionale ed internazionale, il dialogo interculturale, l’integrazione; disarmo, con il monitoraggio dell’attuazione degli accordi internazionali e promuovendo studi e ricerche per la graduale razionalizzazione e riduzione delle spese per armamenti e la progressiva riconversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa;Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta, con particolare riguardo ai Corpi Civili di Pace al Servizio Civile quali strumenti di intervento nonviolento della società civile, nelle situazioni di conflitto e in contesti di violenza strutturale e culturale; prevenzione e riduzione della violenza sociale e promozione di linguaggi e comportamenti liberi dall’odio; qualificazione delle politiche di istruzione rispetto all’educazione alla nonviolenza, trasformazione positiva dei conflitti, tutela dei diritti umani e mantenimento della pace;infine, mediazione sociale, riconciliazione e giustizia riparativa, promuovendo misure concrete di “riparazione” alla società del danno commesso dal reo.

Info: https://ministerodellapace.org/

Campagna contro le banche armate

La Campagna di pressione alle “banche armate” è nata su iniziativa delle riviste “Missione Oggi”, “Mosaico di Pace” e “Nigrizia” nel gennaio del 2000 in occasione del Grande Giubileo della Chiesa Cattolica e della grande mobilitazione mondiale promossa dalla campagna internazionale “Jubilee 2000” che chiedeva la cancellazione del debito dei Paesi altamente indebitati.

«Il primo obiettivo – spiegano i promotori – è fare informazione, precisa e costante, circa il coinvolgimento degli istituti di credito nazionali ed esteri nella produzione ed in particolare riguardo all’esportazione di sistemi militari e di armi leggere italiane. Non si tratta, però, solo di informare e sensibilizzare, ma di promuovere cambiamento a diversi livelli. Innanzitutto a livello politico per richiedere a tutte le forze politiche, al parlamento e soprattutto al governo l’applicazione precisa e trasparente della legge n. 185/1990. L’obiettivo specifico e fondamentale resta comunque la richiesta agli istituti di credito, alle banche e al settore finanziario di non finanziare la produzione e la commercializzazione di armamenti e di armi comuni o, per lo meno, di definire delle direttive volte a autoregolamentare in modo rigoroso e trasparente la propria attività in questo settore».

Info: https://banchearmate.org/

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LA PACE SI FA VICINO AI POVERI

Famiglie, migranti, contadini resistenti: Sant’Egidio e Giovanni XXIII in prima linea

Nel corso dell’iniziativa pubblica dal titolo “Scelte di pace”, svoltasi lo scorso 6 febbraio nel Salone della parrocchia San Giacomo Apostolo a Ferrara, i tanti presenti hanno potuto ascoltare in prima persona le commoventi e coraggiose testimonianze di due donne che con le loro vite rappresentano possibili incarnazioni della parola “pace”.

POVERI, MIGRANTI, PROFUGHI: LA COMUNITÀ SANT’EGIDIO

A Ferrara ha portato la propria testimonianza Alessandra Coin della Comunità Sant’Egidio di Padova:«sono entrata in questa Comunità nel 1991, cercando un modo di vivere concretamente il cristianesimo». Sant’Egidio aPadova nasce proprio in quegli anni «attraverso il contatto diretto coi poveri: conobbi prima una famiglia povera che viveva in miseria in un quartiere popolare, e poi via via altre realtà simili, con varie forme di disagio. Partimmo con un progetto di doposcuola, alla quale affiancammo» – con uno sguardo aperto al mondo – «una preghiera per il Mozambico».

La guerra civile in Mozambico – che ha provocato oltre 1 milione di morti – «è stata alimentata dalle strategie e dagli interessi geopolitici dominanti durante il periodo della Guerra Fredda», come giustamente spiega Silvia C. Turrin su missioniafricane.it . «Infatti, il FRELIMO, il Fronte di Liberazione del Mozambico, è in origine un partito di ispirazione marxista-leninista. All’epoca della guerra civile era appoggiato dall’allora Unione Sovietica. La RENAMO, acronimo di Resistenza Nazionale Mozambicana, è un partito conservatore, inizialmente sostenuto dall’allora governo razzista della Rhodesia (Zimbabwe dal 1979) e dall’allora Sudafrica in cui vigeva il sistema di apartheid. Sostenere la RENAMO significava contrastare le forze filo-comuniste in Mozambico, ma anche in Rhodesia e in Sudafrica». Nel 1990 incominciano a Roma le trattative di pace con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio e del governo italiano. Nel 1992 FreLiMo e ReNaMo firmarono gli accordi di pace di Roma, definendo congiuntamente una nuova costituzione di stampo multipartitico. Nelle elezioni libere tenute negli anni successivi, il FreLiMo si confermò sempre il primo partito del Mozambico. «Il metodo di Sant’Egidio, infatti, – ha spiegatoCoin – è di cercare ciò che unisce, non ciò che divide». 

Lavorare per la pace non significa, però, solo lavorare negli scenari di guerra ma per i poveri e con i poveri, parlare con loro, passare del tempo con queste persone normalmente considerate “invisibili”: questa è una grande opera di pacificazione sociale».

Ma pace, per Sant’Egidio significa anche «creare corridoi umanitari per profughi e migranti; corridoi che tanti morti in mare hanno evitato in questi anni, assieme ai salvataggi in mare.

Ma come funzionano? I corridoi umanitari sono frutto di un Protocollo d’intesa tra la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese, la Cei-Caritas e il Governo italiano. Le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei Paesi interessati dal progetto; predispongono, quindi, una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi potranno presentare domanda di asilo.

I corridoi umanitari sono totalmente autofinanziati dalle associazioni che li promuovono: arrivati in Italia, i profughi sono accolti a spese delle stesse associazioni in strutture o case. Viene insegnato loro l’italiano e i loro bambini vengono iscritti a scuola per favorire l’integrazione nel nostro Paese e aiutarli a cercare un lavoro. Da febbraio 2016 a oggi sono già arrivate 7396 persone – siriani in fuga dalla guerra e rifugiati dal Corno d’Africa, dalla Grecia e da Gaza.

Il 6 febbraio a San Giacomo era presente anche Salif, giovane scappato anni fa dal suo Paese, il Mali, per fuggire alle persecuzioni che subiva dal potere. Arrivato in Libia ha subito diverse torture ed è stato ferito con un’arma da fuoco a una gamba; in quell’occasione, ha visto morire, allo stesso modo, un suo amico. Poi la traversata in barca per arrivare in Italia e la speranza concreta di una nuova vita.

Dal 1991 Sant’Egidio è presente anche in Ucraina. «Il radicamento nel paese e la vicinanza costante alla popolazione durante la guerra – scrivono dalla Comunità – hanno permesso a Sant’Egidio di avere un quadro articolato delle sofferenze e dei bisogni della società ucraina. Grazie alla presenza delle Comunità ucraine è stata realizzata un’estesa rete di aiuti umanitari, distribuiti sul territorio anche nelle zone più colpite dai combattimenti». Nei primi due anni di guerra, la Comunità ha distribuito in Ucraina 2000 tonnellate di aiuti umanitari. Sono attivi 5 Centri umanitari per sfollati interni, a Leopoli, a Ivano-Frankivsk e in tre quartieri di Kyiv, dove ogni mese vengono distribuiti 12.000 pacchi alimentari. 3000 vengono inviati nelle zone di guerra (regioni di Donetsk, Kharkiv e Dnipropetrovsk). Nel complesso hanno usufruito del sostegno alimentare di Sant’Egidio 370.000 persone, mentre si stimano in 2 milioni coloro che hanno ricevuto medicinali (circa 1 milione di confezioni inviate).

Un altro nome della pace, quindi, è «solidarietà», ha concluso Coin: «ciò che ti fa uscire dal gorgo della disperazione, che ti fa tornare a sperare».

COLOMBIA, OPERAZIONE COLOMBA PER LA DIFESA  NONVIOLENTA

La serata a San Giacomo si è conclusa con la testimonianza di Silvia De Munari, rappresentante di “Operazione Colomba” (OC), il corpo nonviolento di Pace della Papa Giovanni XXIII (APG23), del quale fa parte dal 2013 stanco accanto alle persone che vivono loro malgrado la guerra civile in Colombia. La “Commissione per la verità” è parte del processo di pace promosso dal governo dell’ex presidente Juan Manuel Santos,  che nel 2016 ottenne la deposizione delle armi e la smobilitazione della maggiore forza della guerriglia, le Farc. Come raccontato su cittanuova.it, nel luglio 2022 ha fatto un bilancio di quasi 60 anni di guerra interna: sono oltre 450 mila le persone assassinate tra il 1985 ed il 2018, ma potrebbero essere anche 800mila. Il bilancio stima inoltre in 7.752.000 le persone costrette a lasciare le proprie case e le terre che coltivavano per trovare rifugio. I sequestri di persona sono stati quasi 51mila, mentre oltre 121mila sono i desaparecidos di cui non sono stati ritrovati i corpi. Ma tale numero si riferisce solo alla ricostruzione possibile tra il 1985 ed il 2016, le stime fanno invece riferimento ad altre 210mila persone di cui non si sa dove e come siano scomparse. Inoltre, tra il 1990 ed il 2016, sono stati oltre 16mila le bambine, i bambini e gli adolescenti arruolati tra le forze in lotta.

Operazione Colomba nasce nel 1992 dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra. Inizialmente ha operato in ex-Jugoslavia dove ha contribuito a riunire famiglie divise dai diversi fronti, proteggere (in maniera disarmata) minoranze, creare spazi di incontro, dialogo e convivenza pacifica. L’esperienza maturata sul campo ha portato Operazione Colomba negli anni ad aprire presenze stabili in numerosi conflitti nel mondo, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente.

«Pace – ha spiegato a Ferrara De Munari – non significa solo dire “no” alla guerra ma costruire la giustizia, cioè soddisfare innanzitutto i bisogni primari delle persone»: terra, lavoro e libertà. Nel 1997, gruppi di contadini han dato vita alla Comunità di Pace di San José de Apartadó (CdP) nel dipartimento di Antioquia,Comunità di «resistenza civile nonviolenta con un sistema economico, relazioni sociali e sistema educativo alternativi. Diversi fra loro, per questo, sono stati massacrati dai gruppi armati paramilitari e dalla guerriglia»: gli ultimi a essere trucidati, nel marzo 2024, sono Nallely Sepúlveda ed Edinson David, rispettivamente di 30 e 15 anni.

Operazione Colomba è impegnata in Colombia dal 2009 e proprio dal ’97 i suoi volontari e le sue volontarie vivono nella Comunità di Pace di San José de Apartadó con l’obiettivo di «contribuire alla sua sopravvivenza e al proseguimento della sua esperienza di resistenza nonviolenta». Sono una «scorta civile internazionale», identificabile dalla maglia arancione. La forma di protezione più efficace di questa esperienza consiste, infatti, «nella presenza di civili internazionali che accompagnano i membri della CdP nello svolgimento delle loro attività quotidiane, monitorando le violazioni dei Diritti Umani e tutelando la loro incolumità. L’intervento dei volontari di OC, di deterrenza, è stato richiesto dalla stessa Comunità di Pace e risponde al suo bisogno primario di poter continuare a vivere in sicurezza sulle proprie terre». «Stiamo, quindi, al loro fianco, viviamo con loro», ha spiegato ancora De Munari: «abbiamo a cuore la loro vita. Loro vogliono verità e giustizia per i morti ammazzati, vogliono sapere non solo chi sono gli esecutori ma soprattutto i mandanti dei tanti omicidi». Mandanti «che van cercati nelle stesse istituzioni statali colombiane». In quel potere dove la pace è un concetto del tutto sconosciuto.

Andrea Musacci

Pubblicati sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 febbraio 2025

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La carica dei 130 “sinodali”

29 Gen

La nostra Chiesa riparte dall’incontro: partecipata e proficua Assemblea il 25 gennaio nel Complesso di San Giacomo all’Arginone

Un brusio diffuso, che percorre le sale e nasce e si spegne, ripetutamente, nei corridoi. Qualche sprazzo di ilarità, mentre un altro scorcio tradisce un momento di raccoglimento, gli occhi chiusi, i corpi vicini in un unico Corpo. I silenzi abbondano: non sono né di imbarazzo né di noia, ma di ascolto e attesa reciproca. È questa l’essenza della narrazione che possiamo donarvi del lavoro dei 12 gruppi sinodali diocesani che nel pomeriggio dello scorso 25 gennaio si sono messi al lavoro in contemporanea negli ambienti parrocchiali di San Giacomo Ap. all’Arginone (Ferrara) per la prima “Assemblea sinodale diocesana”, erede della Giornata del Laicato.

130 i presenti divisi nei 12 gruppi, ognuno partito con un’invocazione alloSpirito Santo e con un facilitatore: Cecilia Flammini, Alberto Mion, Augusto Pareschi, Francesca Ferretti, Marcello Musacchi, Chiara Fantinato, Anna Perale, Alberto Natali, Nicola Martucci, Giulio Olivo, Patrizia Trombetta, Giorgio Maghini. Si è trattato di gruppi di conversazione nello Spirito, dove ognuno poteva intervenire liberamente portando il proprio contributo. Da ogni gruppo sono uscite tre proposte fondamentali che saranno poi analizzate dall’équipe sinodale diocesana e dal nostro Arcivescovo (ne parleremo sul prossimo numero)

«Il Sinodo è un cambiamento di visuale sulla Chiesa, il mondo, le persone, ilSignore», ha detto il diacono Giorgio Maghini, uno degli organizzatori, a inizio Assemblea. «Ed è qualcosa non di periodico, ma permanente, nella quale tutti i cristiani – laici e consacrati – assumono la responsabilità di farla vivere, di rinnovarla».

Mons. Gian Carlo Perego dopo aver guidato la preghiera iniziale dell’Ora Media, è rimasto ascoltando tutti gli interventi svoltisi prima dei gruppi. Interventi che hanno visto, dopo Maghini, prendere la parola Patrizia Trombetta (équipe sinodale diocesana) per  raccontare l’esperienza dell’Assemblea sinodale nazionale a Roma dello scorso novembre, alla quale han partecipato 1 migliaio di persone da tutta Italia.«Ci viene chiesto – ha riflettuto Trombetta – una conversione personale e comunitaria, e di essere vigili, affidabili e corresponsabili all’interno delle nostre parrocchie, Unità pastorali e della nostra Chiesa locale».

Cecilia Flammini, anch’essa presente all’Assemblea di Roma dello scorso novembre, ha raccontato la «forte emozione» di quei giorni, la «sensazione di essere parte di una grande famiglia» e la sostanza di una Chiesa «che non ha paura di mescolarsi col mondo», mondo nel quale è viva, «nel quale agisce tenendo viva la speranza». Questa grande famiglia che è la Chiesa «accoglie i doni di ognuno dei propri membri» ma, dall’altra parte, «ancora fatica a considerarsi povera e libera da pesi che la opprimono». 

L’annuncio nello spirito sinodale, dunque – ha proseguito Flammini – significa «prossimità, il sapersi mettere nel punto di vista degli altri, nella libertà e senza l’obiettivo di rafforzare le proprie fila». Il criterio è quello della Pasqua: «una sconfitta, ma vittoriosa». La missione che spetta a ognuno di noi (non solo alle “gerarchie”) «non è finalizzata a una “riconquista” ma all’annuncio nella Grazia di Dio».

Il passo e il tono per riprendere questo discorso, sono stati quelli giusti.

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2025

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Dramma e salvezza: a San Giacomo Apostolo l’arte del gesuita Anselmo Perri

29 Set

“Nzermu. Accesa è la notte. Una biografia per immagini” è il progetto (mostra e documentario) che inaugura il 30 settembre all’Arginone. Ecco chi era l’artista-religioso 

di Andrea Musacci

Un piccolo crotonese, un operaio del Sud più povero che cerca fortuna nelle fabbriche del Nord e vi trova, invece, Cristo. Fra le nebbie delle nostre terre e i fumi delle industrie chimiche, Anselmo “Nzermu” Perri cercava una via a lui consona per fondare una società socialista, e invece trovò molto di più, quella fiamma della fede che non si spegne. E la troverà, lui pittore, anche attraverso la forma artistica, una passione che mai lo abbandonerà.

A questo gesuita speciale, tornato alla Casa del Padre nel dicembre 2021, l’Ufficio Comunicazioni Sociali (UCS) della nostra Arcidiocesi insieme all’Associazione “Amici di Nzermu” (nata nel 1986 e presieduta da Giovanni Dalle Molle) dedica un progetto espositivo che verrà inaugurato il 30 settembre alle ore 20.30 nella chiesa di S. Giacomo Apostolo a Ferrara. Per l’occasione, il Vicario Generale e Direttore dell’UCS mons. Massimo Manservigi presenterà il suo nuovo documentario “Nzermu accesa è la notte”. Ma chi era padre Anselmo?

DA OPERAIO MILITANTE AD ARTISTA E UOMO DI DIO

Anselmo Perri nasce nel 1931 a Strongoli, nel crotonese, in una famiglia numerosa e in una terra arida di possibilità di riscatto. «Già da ragazzo – racconta nel documentario “Luci dell’anima” di Luigi Boneschi – dipingevo di notte perché mia madre non vedeva bene questa mia eccessiva passione. Dalla “Domenica del Corriere” amavo copiare le famose tavole». Dopo aver lavorato come operaio a Crotone, nel ’49 si trasferisce a Ferrara, dove lavora alla Montecatini, e poi a Ravenna. Il suo lavoro è strettamente connesso con la militanza politica e sindacale comunista. «La mia prima abitazione a Ferrara fu in un’ex caserma bombardata (l’ex Caserma “Gorizia”, ndr), dove c’erano in genere ex sfollati, prostitute. E anche lì quindi avevo difficoltà a dipingere di giorno, perché l’ambiente non me lo consentiva». Nel 1956, la sua prima mostra personale, al “Ridotto” del Teatro Comunale di Ferrara.

Ma è a inizio degli anni ’60 che matura in lui la conversione che lo porterà nel ’63 a entrare nella Compagnia di Gesù. Una scelta per nulla scontata. A quei tempi, da molti – racconta – «la Chiesa era vista come nemica del popolo. Entrando nella Compagnia di Gesù constatai che non era assolutamente vero quello che si diceva dei preti». In fabbrica vi erano due gesuiti come cappellani. «Ricordo bene che una volta un mio collega operaio mi disse: “vedi che quei due non fanno niente…”, e io gli risposi: “piuttosto che diventare prete mi sparo!”». Ma nel tempo «dentro di me maturava un desiderio profondo di volermi dedicare in modo diverso alle persone». Anselmo constata che i due gesuiti «erano persone oneste, rette e molto aperte, io pensai quindi che bisognava convertirli al comunismo. Ma la cosa si è verificata in modo inverso…». Dopo un periodo trascorso in Brasile come missionario dal ’65 al ‘67, va a Urbino, Napoli (dal ’68 al ’71, dove studia teologia e viene ordinato sacerdote), Ferrara e poi definitivamente a Bologna (dagli anni ’70), dove fonda la “Comunità Giovanile” nella “Casa Cavanna” dei gesuiti in via Guerrazzi (oggi sede del Centro Astalli e del Centro Poggeschi), dove dagli inizi degli anni ’90 pone anche una Vetrina Figurativa con le sue opere, senza intenti commerciali. In questa Comunità autogestita, Perri ospiterà prima gli operai meridionali emigrati al Nord, poi i giovani extracomunitari (soprattutto georgiani) venuti per studiare, ma anche ex tossici. Una Comunità speciale dove ogni ospite si abitua a una vita sobria, fatta di condivisione, in pieno spirito evangelico. 

Fra le sue varie mostre in Italia e all’estero (fra le quali due in Georgia), nella primavera del ‘92 Perri ha esposto una sua personale a Casa Cini, curata da don Franco Patruno e con il contributo di Angelo Andreotti, mentre nel 2012 ha portato la sua “Scintille di un unico fuoco”, con catalogo, su più sedi tra Ferrara e Ro Ferrarese. Quest’ultima venne curata da Giovanni Dalle Molle, che nella sua “Casa di Ro” ha allestito una sala espositiva permanente con le opere di padre Perri, e che da lui venne accolto, giovane studente, proprio a “Casa Cavanna”.

IL DOCUMENTARIO E LA MOSTRA A S. GIACOMO APOSTOLO

Il documentario “Accesa è la notte” – come ci spiega il suo autore – intende essere «una riflessione su Nzermu, a poca distanza dalla morte, quasi a caldo, attraverso alcune testimonianze di chi l’ha conosciuto e amato, con l’intento di dare qualche spunto per la comprensione della ricca e articolata figura di un uomo, artista e religioso, che ha cercato un dialogo tutto suo con l’intera umanità, in un tempo segnato da migrazioni apocalittiche, disorientamento e sofferenza di proporzioni bibliche». L’iniziativa parte dagli “Amici di Nzermu” per rilanciare la sua figura e la sua produzione artistica immeritatamente poco conosciuta, presentandola al grande pubblico, e portando l’evento di Ferrara anche in altre città (fra cui Bologna, Roma e Crotone).

Il documentario e il relativo progetto espositivo rappresentano, dunque, un tentativo di «fare sintesi della personalità di padre Perri oltre la sua esistenza terrena». Esistenza, la sua, come cammino in cui rappresentazione artistica e ricerca di Dio arrivano ad incontrarsi per intrecciarsi e mai più lasciarsi. Da questo abbraccio, e da una provocazione di Dalle Molle, nasce la sfida di portare l’arte di padre Perri all’interno di una chiesa. Sfida raccolta dalla nostra Arcidiocesi e in particolare dall’UCS.

Un progetto, “Accesa è la notte”, pensato anche per le scuole e in generale per i giovani, ai quali lo stesso padre Perri era particolarmente legato, lasciando, nei commossi ricordi di molti ragazzi da lui accolti a “Casa Cavanna”, la parola “padre” a lui rivolta come segno di profonda gratitudine.

NELL’“ERRARE” DEI SEMPLICI ABITA LA SALVEZZA

Era un’arte antiborghese, quella di padre Perri, una sorta di teologia resa attraverso la creazione artistica. Nel catalogo della mostra alla Porta degli Angeli, lui stesso critica l’arte informale, definendola «un alto, geniale artigianato mentale, con funzione estetica ornamentale», «come lo è un geniale tappeto». L’arte autentica, invece, ha come scopo quello di «fotografare in modo impietoso, con crudo “realismo”, l’instabilità del nostro tempo». 

Ambienti cupi, ma come attraversati da un fuoco sempre vivo, dominano le sue tele, ricche – nelle varie fasi – delle cromìe aride e infuocate o di quelle – via via, dopo la sua conversione – sempre più lucenti. La vita è quel flusso che le attraversa, è la fiamma dello Spirito. Sui volti, nei corpi, il segno dell’ingiustizia, della passione. Il sangue, in un vortice eterno, avvolge le figure, apparentemente inghiottite nel loro smarrimento, ma in realtà mai del tutto perdute, sempre in ricerca, in un cammino costante, in quella condizione che appartiene a ogni donna e a ogni uomo perché, come diceva lui stesso, «siamo tutti clandestini sulla terra», in attesa di abitare nella casa del Padre.

La dimensione esistenziale di queste folle inquiete è la stessa vissuta nella carne dall’immigrato Anselmo. Un’esperienza di sofferenza trasfigurata nelle sue opere drammatiche che risaltano per la forte espressività. Come ha dichiarato nel sopracitato documentario di Boneschi, «il modello al quale ho sempre guardato – nel passato inconsapevolmente, oggi con delle chiarezze dentro di me – sono i semplici. I semplici sono quelli destinati a essere salvati, a salvarsi».

Questo vagare sofferto – oggi come ieri – è quello di un popolo smarrito, della persona che vive la perdita – della propria terra, delle sicurezze che credeva immutabili -, e che in questo errare, però, incontra sempre una nube di luce che su di lui vigila e un volto, quello di Cristo, nel quale ritrovarsi, accolti da quella Promessa che non delude.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Sospesa e magica, una novità per Ferrara»: Benedetta Tagliabue racconta la chiesa di San Giacomo

18 Ott


Benedetta Tagliabue nella chiesa di San Giacomo

L’architetto che ha ideato la nuova chiesa dell’Arginone spiega a “La Voce”: «antico e nuovo, calore e povertà si fondono». I tre legami con la Spagna, quello col Balloons Festival e con la storia della nostra città

di Andrea Musacci

Prima di tornarci per la nuova chiesa dell’Arginone, Benedetta Tagliabue a Ferrara c’era venuta una volta sola. Un’occasione molto speciale: il viaggio di nozze col marito Enric Miralles, scomparso nel 2000 a soli 45 anni.

Nel suo destino, tragico e magnifico, c’è dunque Ferrara. Per lei, architetto – per alcuni “archistar” – di origini milanesi ma laureatasi allo IUAV di Venezia (dove ha conosciuto Enric) un’emozione tornare nella nostra città per “sfidarla”, per dimostrare che si può costruire un edificio sacro innovativo, audace senza “fare a botte” col quartiere che lo ospita. Un impegno non da poco per lei alla prima esperienza di progettazione di una chiesa.

Dopo la morte del marito, Tagliabue è rimasta sola al comando dello Studio Miralles Tagliabue EMBT, che ha la sua sede principale a Barcellona (vedremo dopo gli altri due legami con la Spagna), e a Shangai. In tutto, sono una quarantina le persone che lavorano nello Studio, una decina delle quali ha realizzato il progetto per San Giacomo. Fra i progetti realizzati, lo Studio vanta quello della sede del Parlamento di Edimburgo, il Padiglione spagnolo all’Expo mondiale di Shanghai 2010, il mercato di Santa Caterina a Barcellona, il Municipio di Utrecht nei Paesi Bassi, la Stazione centrale della metropolitana di Napoli e quella di Clichy-Montfermeil, oltre al nuovo polo amministrativo della Regione Sicilia e a diversi edifici in Cina, fra cui il Conservatorio di Shenzen. Tagliabue è stata visiting professor presso la Harvard University, la Columbia University e Barcelona ETSAB. Nel maggio 2019 ha ricevuto la Croce di Sant Jordi concessa dalla Generalitat della Catalogna per l’eccellenza della sua pratica professionale nel campo dell’architettura nel mondo. È anche direttrice della Fondazione Enric Miralles.

Ma la prima domanda che le poniamo è su questo piccolo quartiere periferico di Ferrara, di passaggio, brano di tessuto suburbano che sembra uscito da una canzone de “Le luci della centrale elettrica”. Qui, tra il carcere e la sede di Ingegneria, come “convincere” i residenti che la nuova chiesa non è un’astronave venuta da un altro mondo? «L’intenzione, invece – ci risponde un po’ a sorpresa -, è stata proprio di ideare un po’ un’astronave, nel senso che l’edificio richiama – ispirandosi al Ferrara Balloons Festival – una mongolfiera colorata che leggera cade dal cielo e sembra quasi, nel posarsi a terra, rimanere sospesa. Spero quindi che chi la ammirerà possa sentire il calore e l’attrazione che le forme dell’edificio vogliono trasmettere». La scommessa è lanciata, bisogna guardare la nuova San Giacomo con occhi nuovi. «È un edificio speciale, volutamente non troppo classico: abbiamo scelto di non ispirarci agli edifici storici di Ferrara, ma di creare qualcosa che fosse davvero nuovo».

Nessun richiamo al passato, dunque, viene da pensare. Ma non è del tutto così. La Madonna “nera” proviene dalla chiesa delle Stimmate di via Palestro, e le due grandi travi a forma di croce che sovrastano i fedeli nell’ambiente centrale, sono state ricavate dal legno proveniente da un vecchio ambiente del Municipio cittadino. In particolare, è stato don Stefano Zanella a scegliere la statua mariana, rimanendone subito folgorato. «Mi ricorda – prosegue Tagliabue – la Moreneta, la Madonna nera nel Monastero benedettino di Montserrat» in Catalogna. E il “nero” della Vergine Maria, vigile di fianco all’altare, richiama anche le cromie dei “fazzoletti” che Cucchi ha “posato” sulle grandi croce adornanti alcune pareti, così diverse dalla magnetica croce gemmata nel presbiterio.

Si tratta del secondo dei tre legami tra la nuova chiesa e la penisola iberica. Come non pensare, poi, a quello fortissimo tra San Giacomo Apostolo e la Spagna? Il corpo del primo apostolo martire, decapitato nella primavera dell’anno 42, fu trafugato dai suoi discepoli, che riuscirono a portarlo sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell’anno 830 dall’anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Dopo questo evento miracoloso, il luogo venne denominato campus stellae (“campo della stella”), dal quale deriva l’attuale nome di Santiago de Compostela. 

Antico e nuovo vivono, dunque, il loro sposalizio: la reliquia – un pezzo d’osso di una gamba di San Giacomo – posta in alcune occasioni all’ingresso (così è stato sabato 16), convive con l’arditezza delle linee o delle lampade come fiori sospesi nel loro dischiudersi o stelle nel cielo che, discreto, bagna con la sua luce immensa le crude pareti interne. “Guardate in alto!” sembra quindi l’invito di chi ha pensato, anzi, sognato questa casa costruita, pare davvero, in un “campo di stelle”. Bisogna partire dal cielo, dagli astri, dal soffitto con la grande croce di legno, maestosa ma anch’essa, in realtà, come posata, Segno definitivo di vittoria sulla morte, che parte dall’ingresso, con, a sinistra, il fonte battesimale (“regalo” del padre di Benedetta Tagliabue) e il confessionale, entrambi “luoghi” di trionfo sul peccato.

La miseria e la bellezza di ciò che è scarno ma in realtà vivo e complesso è rappresentato – ci spiega ancora Tagliabue – anche dalle pareti spoglie, «ma che in realtà spoglie non sono», non hanno nulla di vuoto ma raccolgono e conservano «tutta la bellezza del muro non finito, come un dipinto continuo, con effetti cromatici speciali», spontanei. Un riposo per gli occhi, si spera anche per il cuore, dopo aver seguito le “onde” della copertura e l’effetto frastagliato, e discontinuo, delle pareti esterne, uniformi però lungo l’intero perimetro, così che la canonica retrostante, le otto sale e l’aula magna sono come unite in un unico abbraccio, in unico sospiro con la chiesa, testa e cuore dell’intera struttura. Quasi a voler far intendere che l’afflato che richiama e vuole stringere a sé, nel Cristo risorto, è rivolto ben oltre, all’intera città di Ferrara.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 ottobre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

(testo e foto di Andrea Musacci)

Arte e architettura per una nuova esperienza di fede: parla il liturgista don Tagliaferri

4 Ott
La facciata
L’altare

Don Roberto Tagliaferri è uno dei protagonisti del progetto della nuova chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara: «l’apparato iconografico è tradizionale nei contenuti e innovativo nello stile»

A cura di Andrea Musacci
Lo spazio sacro e il suo apparato iconografico come elementi decisivi per vivere un’esperienza di fede nuova e più profonda, consapevoli della necessità di una conversione continua. Abbiamo incontrato don Roberto Tagliaferri, teologo e liturgista ideatore del progetto della nuova chiesa di San Giacomo Apostolo insieme all’architetto Benedetta Tagliabue e all’artista Enzo Cucchi.

Don Roberto Tagliaferri

Don Roberto, l’edificio sacro non è un mero contenitore ma un elemento essenziale nell’esperienza di fede. In che modo questo discorso vale per la nuova chiesa di San Giacomo?

«Vi sono due aspetti fondamentali da considerare per quanto riguardo un edificio sacro: il primo è quello che possiamo definire linguistico, che riguarda la performatività e l’efficacia. Le scelte architettoniche fanno parte di questo primo ambito funzionale. Ma lo spazio sacro non si riduce a questo: deve anche, e soprattutto, far sentire la Presenza di Cristo, permettendo al fedele di vivere un’esperienza religiosa, permettendogli di esprimersi».  


In questo discorso naturalmente rientra anche l’apparato iconografico: le opere di Enzo Cucchi possono non essere immediatamente comprensibili da tutti. Come l’arte, quindi, nel caso della chiesa di S. Giacomo può provocare positivamente i fedeli?

«L’iconografia presente nella nuova chiesa è tradizionale come contenuti e innovativa come linguaggio. Spiego perché. I contenuti sono quelli della nostra fede, della nostra tradizione. L’iconografia segue, quindi, la dinamica tra Antico e Nuovo Testamento. Le grandi croci presenti su alcune delle pareti interne dell’edificio hanno dei “fazzoletti” che richiamano l’Antico Testamento, anche nella stessa attesa della venuta del Messia, o nella profezia di Natan a re Davide, nel richiamo al Messia sofferente con la figura di Giobbe. Insomma l’Antico Testamento è sempre legato alla Croce, che è il criterio interpretativo della storia della salvezza.Nel lato sinistro della chiesa, invece, troviamo il compimento con l’Incarnazione, rappresentato dalla Madonna che tiene in grembo il Messia, oltre ad alcuni elementi della Nuova Alleanza, in particolare le due leggi di Gesù Cristo: il richiamo a diventare come bambini (“In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”, Mt 18,1-5, ndr) e la parabola del chicco di grano (“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», Gv 12,24-26, ndr).Nella parete del presbiterio, poi, vi è il passaggio da Gesù alla Chiesa – rappresentata da una nave il cui albero maestro è una croce –, e un elemento escatologico rappresentato dalla croce gemmata, quella della gloria, dei cieli nuovi e della terra nuova. Oltre alla grande croce di legno formata dalla trave principale a vista».


Questo aspetto tradizionale si coniuga, però, con lo stile innovativo dell’artista Cucchi…

«Esatto: ogni generazione deve ridire la fede e deve farlo con linguaggi sempre nuovi. Per questo anche l’iconografia della nuova chiesa non ha nulla di tradizionale. Non ha senso ripetere stili che appartengono al passato».


Le persone che vi entreranno, quindi, potranno vivere un’esperienza religiosa nuova rispetto a prima. All’inizio, però, potranno sentirsi spiazzati. Cosa possiamo consigliare perché possano sentirsi a casa, pur in una casa nuova?

«Gesù stesso parla di “cose nuove e cose antiche” (le parabole del tesoro, della perla, della rete e dello scriba in Mt 13,44-52, ndr). L’arte deve percepire la sensibilità delle nuove generazioni, altrimenti si riduce a imitare cose passate. Pur essendosi conclusa l’epoca dell’elemento rappresentativo, l’arte – come diceva Heidegger – rimane un “urto” (stoss), qualcosa che ti costringe  a pensare e non solo a essere rassicurato. L’arte non è il sapere già saputo. Così, si va in chiesa ogni volta per essere convertiti, per uscirne trasformati. E l’arte deve aiutare questa trasformazione».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 ottobre 2021

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Veduta aerea della chiesa