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A Kiev insieme a Gandhi per progetti di pace

28 Nov

Mao Valpiana è intervenuto il 22 novembre a Casa Cini per raccontare le Carovane della pace

Al centro di Kiev, nel giardino botanico “Oasi della pace” svetta una statua del Mahatma Gandhi. Due mesi fa ai suoi piedi si sono ritrovati i pacifisti ucraini e quelli italiani per la Giornata mondiale della nonviolenza. È, questa, l’immagine simbolo di quello che i Movimenti nonviolenti stanno cercando di costruire al di là degli attori del conflitto russo-ucraino.

Ne ha parlato lo scorso 22 novembre a Casa Cini a Ferrara Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento in Italia, invitato dal Collettivo 25 settembre e dal Movimento Nonviolento ferrarese in collaborazione con la Rete Pace di Ferrara, per l’incontro moderato da Elena Buccoliero (foto).

La tappa di Kiev è stata una delle due tappe della quarta, e finora ultima, Carovana della Pace (organizzate dalla rete “Stop the war now”) nel Paese vittima dell’invasione russa, Carovana partita il 26 settembre e ritornata il 3 ottobre scorso, con sei mezzi tra camper e pulmini dello stesso Movimento Nonviolento e di “Un ponte per”.

All’inizio le prime Carovane della pace avevano soprattutto uno scopo umanitario oltre a quello di portare in salvo persone fragili, donne e bambini in Italia (oltre 1000 grazie alle Carovane stesse). L’ultima “missione”, invece, «ne aveva anche uno più strettamente politico: quello, cioè, di rafforzare relazioni e organizzare progetti comuni assieme agli obiettori russi e a quelli ucraini, facendo anche da cerniera fra i due gruppi», ha spiegato Valpiana. Fra i progetti, quello di aprire un corso di studi sulla pace a Cernivci assieme a 200 universitari ucraini e a RuniPace, la rete italiana degli Atenei per la pace. Dopo Cernivci, la Carovana si è spostata a Kiev in treno, passando per Leopoli. Qui i nostri connazionali hanno incontrato l’Ambasciata italiana, la Nunziatura Apostolica di Kiev e altre realtà associative, fra cui appunto il Movimento degli obiettori. E a proposito di obiettori, Valpiana ha raccontato la storia di Ruslan Kotsaba, giornalista e presidente del Movimento pacifista ucraino, obiettore denunciato per “alto tradimento”, che per questo rischia 15 anni di carcere. Ma la sua lotta, almeno per ora, ha deciso di proseguirla fuori dall’Ucraina. Molto attivi, seppur minoritari, anche gli obiettori russi che aiutano chi vuole rinunciare alle armi a non cadere nelle trappole o a non essere vittime dei soprusi di chi dovrebbe garantire il minimo diritto all’obiezione di coscienza. E da Ghandi, dal quale è partito, Valpiana è arrivato al maestro italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, la cui “Teoria della nonviolenza” è stata tradotta e distribuita in Ucraina proprio grazie al Movimento Nonviolento italiano.

Il Vescovo: legame fra guerra e migrazioni

«Costruire relazioni di pace, porre al centro il dialogo: questo è il tema centrale. Da questo è partito il nostro Arcivescovo nel suo intervento, nel quale ha anche ricordato, nei suoi viaggi, in passato, in Ucraina, «quei 20enni arruolati che andavano a morire nel Donbass, alcuni anche il primo giorno sul fronte».

Mons. Perego ha affrontato il tema della protezione umanitaria per chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla non vivibilità del proprio ambiente. Protezione, ha denunciato, «spesso non utilizzata, nonostante i 34 conflitti nel mondo ufficialmente riconosciuti, altrettanti non riconosciuti, e i 50 milioni di migranti nel mondo nel 2021 per crisi ambientali». Anche riguardo ai rifugiati ucraini in questi primi 9 mesi di conflitto (1600 solo a Ferrara e provincia), mons. Perego ha fatto notare come l’accoglienza sia stata resa possibile «grazie alle Caritas, alle parrocchie, all’associazionismo, alle famiglie, ma non grazie allo Stato e ai Comuni, che non hanno messo a disposizione nemmeno un appartamento». Un tema importante, che intreccia guerra, migrazioni e accoglienza, mostrando così ancora una volta, come la pace si costruisca sempre dal basso, sempre negli intrecci quotidiani, ogni volta dai gesti concreti intessuti nel dialogo e nell’ospitalità.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

Pace è dignità: male minore e legittima difesa nel dibattito sull’Ucraina

14 Nov

A quasi 9 mesi dall’invasione russa in Ucraina, anche in Italia non si placa il dibattito su una risoluzione giusta del conflitto: cosa dice il Catechismo, la nostra Costituzione, le vicende dei partigiani cattolici e il confronto su resa e resistenza

di Andrea Musacci

La guerra è ancora, nel XXI secolo, una drammatica costante dell’umanità. Secondo Caritas italiana vi sono almeno 22 guerre ad alta intensità, 6 in più rispetto al 2020, quando erano 15, a cui si è aggiunta quest’anno quella in Ucraina. Se si considerano anche le crisi croniche e le escalation violente, si arriva a 359 conflitti.

La feroce guerra scatenata dalla Russia di Putin in seguito all’invasione dell’Ucraina, ha finora causato la morte di quasi 8mila civili ucraini (ma potrebbero essere di più, se venissero scoperte altre fosse comuni), di cui 430 bambini, e 11mila feriti, come reso noto alcuni giorni fa dal Difensore civico ucraino, Dmytro Lubinets. Oltre 64mila i soldati russi uccisi, secondo il governo di Zelensky. I bimbi deportati in Russa sono invece 10.570, 14 milioni di persone sono rimaste senza casa, 6,2 milioni di cittadini sono diventati sfollati interni, 11,7 milioni sono rifugiati o hanno ricevuto protezione temporanea al di fuori dell’Ucraina. 

In questo orribile conflitto l’opinione pubblica italiana, come quella europea e mondiale, si trova, fin da febbraio, drammaticamente divisa. Il desiderio di pace si confronta con le ragioni della legittima difesa della dignità, della libertà e dei confini di un popolo martoriato come quello ucraino. Ma vediamo cosa dice la Chiesa al riguardo.

Legittima difesa e vera pace

Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge al n. 2263: «L’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: “Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita […]”» (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae) (n. 2264). Ma la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un dovere: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (n. 2265). Parole chiare, per quanto vadano interpretate a seconda dei casi concreti.

Costituzione e Resistenza

Sul delicato tema della liceità morale e giuridica dell’uso della violenza come risposta a un’aggressione, è utile anche andare a vedere alcuni testi su cui poggia una sana convivenza. Innanzitutto a livello globale. Lo Statuto delle Nazioni Unite (giugno 1945), all’articolo 51 recita così: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Si parla, quindi, in modo netto, di «diritto naturale di autotutela» collettiva. Lo stesso articolo 11 della Costituzione italiana sottolinea come il nostro Paese «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ciò che ha fatto la Russia ai danni dell’Ucraina. E, prosegue, «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Fondamentale è anche questo passaggio dove «pace» e «giustizia» vanno di pari passo. Come a ribadire che non vi può essere l’una senza l’altra.

Mi lego alla nostra Costituzione nata dalla Resistenza al nazifascismo per citare alcune riflessioni dello storico Daniele Menozzi riguardanti la difficilissima scelta, da parte dei partigiani cattolici, di usare violenza contro l’invasore. «Il partigiano cattolico – scrive – (…) può uccidere come il soldato, in quanto lo fa senza odio», soprattutto perché, «per amore di Cristo, giunge a rigettare quell’estetica della violenza e del sangue purificatore che caratterizza i nazisti ed è stata pienamente introiettata dai fascisti». Le varie formazioni cattoliche, continua, erano poi convinte che ciò servisse per «difendere la patria, la Chiesa, la comunità di provenienza», e per «preservare le condizioni per la prossima ricostruzione di una società cristiana». (Nonviolenza e legittima difesa, “Il Regno”, settembre 2021).

Ucraina: il dibattito su male minore e male necessario

Né cinici né ingenui: viene da pensare, quindi, che il giusto atteggiamento da avere sia questo. La vita, propria e degli altri, va difesa e tutelata, ma è necessario, sempre, in una situazione critica di conflitto, come ogni giorno, essere “artigiani di pace”. Coltivare la pace, amare i propri nemici, e, facendo questo, già non considerarli più come tali. Al tempo stesso, far crescere dentro di sé quella forza interiore, quell’equilibrio, quella profondità spirituale che ci permetta di riconoscere il male, di non ignorarlo né sottovalutarlo, ma di saperlo combattere con le armi di volta in volta più consone, urgenti e necessarie. 

Non si tratta di non credere nel bene e nella pace, ma di non coprire con finta ingenuità o buona fede, una mancanza di senso della realtà, di capacità di comprenderla, pur nella sua radicale complessità. Complessità che ha scatenato, forse come non mai, anche nel nostro Paese, un dibattito acceso con posizioni differenti anche all’interno delle stesse Chiese o aree politiche.

«È essenziale schierarci per la pace», scrive Marco Tarquinio su “Avvenire” del 5 novembre scorso. E «farlo con tutta la possibile capacità di resistenza al fascino dello scontro armato e senza quartiere, condotto sino in fondo con l’orgoglio delle proprie ragioni. Lo dico ancora una volta: le guerre hanno sempre ragioni, ma non hanno ragione. E, come dice il Papa, sono ormai pura atrocità e pura follia. L’unica vittoria possibile è solo far finire il massacro».

Una posizione, questa di Tarquinio, in parte differente rispetto a quella di altri opinionisti, sia laici che cattolici. «Dichiarare che ci si deve arrendere all’aggressore, al male, perché così fa meno male, non corrisponde né alla teoria del “male minore”, né a quella della “nonviolenza”», scrive Gianfranco Brunelli. «Oggi il male minore è aiutare gli ucraini a difendersi; e la nonviolenza è essere presenti come resistenza attiva, ancorché non armata, per aiutarli a sopravvivere. Sono queste le scelte possibili. Il pacifismo che chiede la resa agli aggrediti, che cerca di dare ragioni a Putin per una trattativa indifferente a ogni valore in gioco è un pacifismo finto» (Un’altra “inutile strage”, “Il Regno”, aprile 2022). Sulla stessa lunghezza d’onda, Furio Colombo: «Siamo rapidamente discesi, lungo una scala bene organizzata, dal livello dell’invasione armata di un Paese indifeso a quello della difesa deliberatamente messa in atto perché ci sia più guerra. Ovvio che questa incredibile situazione non è un progetto del pacifismo come valore e come speranza», ma «un trappolone» di chi è rimasto legato al vecchio antiamericanismo (Ucraina-Russia, chi dimentica le vittime, “Repubblica”, 4 giugno 2022).

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini è che pace, lì [in Ucraina], sia una parola imperfetta (…). Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia».

(Cari pacifisti, vi scrivo: venite in Ucraina e capirete, Francesca Mannocchi – inviata in Ucraina – “La Stampa”, 5 novembre 2022)

«Dio è pace, Slava Ukraini!»

2 Mar
Don Vasyl (a destra) e alcuni uomini della comunità ucraina ferrarese prima della spedizioni di aiuti in Ucraina

Ferrara a fianco del popolo ucraino e in appoggio alla comunità cattolica ucraina guidata da don Vasyl  Verbitskyy: la possibilità di donare cibo e medicine da spedire in Ucraina, le bandiere solidali realizzate dalla parrocchia di  Comacchio, la preghiera in piazza a Ferrara, quelle nella chiesa di via Cosmè Tura e a Copparo, il sit in della Rete per la Pace…

di Andrea Musacci

La rabbia e l’orgoglio di un intero popolo, la risposta solidale e nella preghiera della città di Ferrara e dell’intera Arcidiocesi.

Anche nel nostro territorio i circa 3500 ucraini residenti vivono giorni di angoscia e di paura per i tanti cari in Ucraina e per il loro amato popolo. Oltre alla nostalgia della terra lontana, grande è ora il dolore per l’invasione russa scatenata il 24 febbraio dal Presidente Vladimir Putin.

Cibo e medicine: chi vuole può donare

La comunità cattolica ucraina di Ferrara da giovedì scorso sta raccogliendo generi alimentari a lunga conservazione (pasta piccola, sughi, biscotti, latte, tonno, caffè, zucchero, carne in scatola ecc.), medicinali (antidolorifici tipo oki, tachipirina, ibufrofene e similari) e materiali di primo soccorso (garze, bende, cerotti, disinfettanti ecc.) da spedire in Ucraina. Tutto quanto raccolto verrà trasportato via terra attraverso corridoi sicuri già attivi, che possono garantire il recapito diretto, il tutto in sinergia con Caritas diocesana e Caritas italiana. Sabato sera sono partiti i primi tre furgoni carichi di donazioni, arrivati alla chiesa della comunità greco-cattolica a Ternopil, nell’ovest del Paese. Altri sono partiti domenica. Come ci spiega don Vasyl, «una famiglia che conosciamo porterà parte dei beni raccolti con un pulmino alla dogana sul confine con la Polonia. La maggior parte del materiale raccolto, invece, verrà portato in Ucraina grazie alla Caritas dell’Esarcato apostolico ucraino in Italia», il cui Direttore don Volodymyr Medvid risiede a Cattolica. 

Il materiale da donare si può portare nella chiesa di via Cosmé Tura oppure si può far avere chiamando don Vasyl al 366-3958892. 

Anche diversi studenti universitari di Unife in questi giorni stanno aiutando gli ucraini nella raccolta del materiale e nella chiusura degli scatoloni da spedire. Il Comune, inoltre, si sta organizzando tramite le Farmacie comunali per donare farmaci, mentre Iper Tosano e altri supermercati cittadini doneranno alimentari.

Il gesto da Comacchio: bandiere e foulard fatti a mano

Il desiderio di aiutare il popolo ucraino ha stimolato la creatività di molti. Da Comacchio don Guido Catozzi ci spiega l’idea di alcune parrocchiane di realizzare a mano bandiere dell’Ucraina e foulard con gli stessi colori che chiunque può acquistare a offerta libera. Il ricavato verrà dato a don Vasyl per l’acquisto di beni alimentari e medicine da inviare in Ucraina. Un’iniziativa, questa, portata avanti dalla comunità di Comacchio insieme alle Chiese di Cervia, Cesenatico e di altre della Romagna.

S. Maria dei Servi santuario di pace

Da giovedì 24 febbraio la chiesa di Santa Maria dei Servi in via Cosmé Tura, 29 a Ferrara è diventata il punto di riferimento non solo per i tanti ucraini in città ma anche per tanti non ucraini che hanno scelto di esprimere la loro vicinanza. Anche questa settimana la chiesa è sempre aperta, dalla mattina alla sera. Lo scorso fine settimana dalle ore 9 alle 22 non è mai mancata una presenza. Si sono susseguite le preghiere per la pace, i Rosari, la Divina Liturgia. Sabato pomeriggio la preghiera ha visto anche la presenza di don Giacomo Granzotto, Responsabile dell’Ufficio liturgico diocesano, di p. Massimiliano Degasperi (parroco di S. Spirito) e di Marcello Panzanini, alla guida dell’Ufficio ecumenico.

Anche i Campanari Ferraresi hanno portato il proprio contributo suonando una volta al giorno da venerdì a domenica.

Domenica c’è stata anche una preghiera speciale, quella delle “Mamme in preghiera”, un gruppo della comunità ucraina ferrarese che da oltre 10 anni prima della Messa domenicale si ritrova per leggere e meditare un brano del Vangelo e per rivolgere una preghiera per i propri figli e nipoti in Ucraina. Un gesto che in questi giorni assume un significato ancora maggiore.

Ma non solo: mercoledì 2 marzo alle ore 19.30 nella chiesa di Copparo don Vasyl parteciperà a una preghiera per la pace invitato dal parroco don Daniele Panzeri. A Copparo da tanti anni risiede un nutrito gruppo di persone di origine ucraina. La sera del 25 febbraio diversi giovani si sono trovati a Casa Cini con don Paolo Bovina per un Rosario per la pace. Domenica 20 febbraio la comunità ucraina ferrarese si era ritrovata nella chiesa di S. Agostino per una veglia di preghiera trasmessa in tutto il mondo. In tante chiese in Diocesi si susseguono preghiere per la pace. La mattina di domenica 27 altro sit in spontaneo di una 30ina di ucraini in piazza Municipale.

«Non ci abbandonate!»

Nel tardo pomeriggio di venerdì 25 febbraio oltre 200 persone si sono ritrovate in piazza Repubblica per un momento di preghiera organizzato dalla comunità ucraina cattolica di tradizione bizantina guidata dal Cappellano don Vasyl Verbitzskyy. Lui stesso ci confessa che da quel maledetto giovedì non dorme, e come lui, tanti. Il pensiero è sempre al suo Paese, in particolare ai suoi genitori che vivono nell’ovest dell’Ucraina. Nei giorni scorsi, don Vasyl e altri si sono trovati di sera, di notte: «nessuno di noi riusciva a dormire, così invece almeno ci facevamo compagnia e ci sostenevamo a vicenda».

Il 25 presenti anche il Sindaco, il suo vice e alcuni Assessori. L’orgoglio patriottico e la profonda fede degli ucraini hanno trovato una spontanea espressione nei canti – civili e religiosi – intonati dai tanti presenti, molti fra le lacrime. Molti anche i bambini e i giovani, e tante quelle bandiere blu e gialle del loro amato Paese, gli stessi colori coi quali è stata illuminata la fontana della piazza.

Oltre all’orgoglio, però, c’è la rabbia. «È una vergogna che l’Europa non ci appoggi», grida una signora squarciando il silenzio fattosi pesante. «Non state zitti, ci sentiamo abbandonati. Ascoltate l’Ucraina!». Il suo grido è quello di un popolo martoriato che combatte fino alla morte contro l’invasore russo. “Stop alla guerra!”, urlano i presenti, una guerra non cercata né provocata. 

«Siamo qui per testimoniare la nostra volontà di pace», ha detto don Vasyl. «Il popolo ucraino è il popolo cristiano. Vi invito a pregare insieme a noi nella chiesa di via Cosmé Tura. Dio vi aspetta. Con Dio ci può essere la pace perché Dio è pace». 

Sit in per la pace (26 febbraio 2022) – Foto Andrea Musacci

Il sit in della “Rete per la pace”

Tantissime le persone che nel pomeriggio del 26 febbraio hanno riempito piazza Castello per il sit-in per la pace promosso dalle confederazioni sindacali e da diverse associazioni e partiti. Toccante, in particolare, la testimonianza di una donna ucraina che tra le lacrime ha raccontato di suo figlio soldato in Ucraina, richiamato nell’esercito lo scorso gennaio.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 marzo 2022

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Ecologia e nonviolenza: un cammino di trasformazione personale e collettiva

7 Ott

Nel mese del Sinodo per l’Amazzonia, sono stati circa 150 i presenti nei due incontri del XXIV Convegno di Teologia della Pace svoltosi a Ferrara il 2 e 3 ottobre scorsi. Tanti i relatori, credenti (Piero Stefani, Emanuele Casalino, Giuliano Ferrari) e non credenti (Paolo Cacciari e Daniele Lugli). Il 2 ottobre si è tenuto anche l’ultimo incontro del “Tempo del Creato”

a cura di Andrea Musacci

mahatma-gandhi-a.900x600Dove trovare il giusto equilibrio tra la necessità di una resistenza alla catastrofe climatica che incombe su di noi, e il rispetto dei principi della mitezza e della nonviolenza? Questo è solo uno degli interrogativi emersi dal XXIV Convegno di Teologia della pace, svoltosi a Ferrara il 2 e 3 ottobre sul tema “La mitezza darà un futuro alla terra? Per una ecologia e nonviolenza integrali”, ispirato al passo delle Beatitudini, “I miti erediteranno la terra” (Matteo 5,5). L’appuntamento è stato organizzato da diverse associazioni (Pax Christi, SAE, Banca Etica, AC, ACLI, AGESCI, Movimento Rinascita Cristiana, Ferrara Bene Comune, MASCI), dall’Ufficio diocesano per la pace e la cura del creato, l’Ufficio diocesano ecumenismo e per il dialogo interreligioso, la Chiesa Battista di Ferrara, e con il patrocinio del Comune di Ferrara.

Fra il testo biblico e la “Laudato si’ ”

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIl saluto iniziale del primo dei due incontri – svoltosi mercoledì 2 alla presenza di un’ottantina di persone nella sala parrocchiale di Santa Francesca Romana (in via XX settembre) – è spettato a don Andrea Zerbini, il quale si è soffermato sul ricordo di mons. Elios Giuseppe Mori (1921-1994) a cui, insieme ad Alberto Melandri, è stato dedicato il Convegno. Per l’occasione, è stato stampato e distribuito un piccolo opuscolo con alcuni passi di mons. Mori sul tema dell’ecologia e della pace. Il primo intervento ha visto Piero Stefani relazionare sul tema del Convegno: nella Bibbia la terra è promessa ai discendenti di Abramo, al popolo, dunque i padri trasmettono “qualcosa che non possono possedere”. E’ una terra, dunque, “che si eredita, che si accoglie, che mai dovrebbe essere conquistata”. Anche se spesso è proprio così, e questo, certamente, “non fa della Bibbia un testo ecologico”. Dall’altra parte, nel racconto biblico, “Dio ha cacciato alcuni popoli dalla terra che abitavano perché l’hanno resa impura: da qui l’idea, già presente, che stare sulla terra comporti un certo stile di vita”. Fondamentale per capire il versetto delle Beatitudini (Mt 5,5) è il Salmo 37, dove i giusti, i poveri e i miti “sono coloro che alla violenza non reagiscono con la violenza”, ma anche “coloro che prestano denaro, che aiutano chi ha bisogno”. Insomma, “sono coloro che confidano nella volontà di Dio”. Un’analisi dell’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco dal punto di vista di un “laico e agnostico” (come lui stesso si definisce) è stata poi tentata da Paolo Cacciari, scrittore, giornalista ed ex deputato, storico esponente ambientalista. Nell’aprile 2018, Cacciari insieme ad altri ha dato vita all’associazione “Laudato si’ – Un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale”, basata sulla lettera–appello sottoscritta da 160 attivisti e intellettuali, fra cui don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna, Erri De Luca, Luigi Ferrajoli, Grazia Francescato, Raniero La Valle, Gad Lerner, Luigi Manconi, Dacia Maraini, Luca Mercalli, Tomaso Montanari, Moni Ovadia, Francesca Re David, Paolo Rumiz, Wolfgang Sachs, Alex Zanotelli, Luca Zevi e padre Mussie Zerai. Un primo grande merito della Laudato si’ – “nella quale il Papa riconosce l’importanza dei movimenti ambientalisti degli ultimi decenni e critica i vari negazionismi” sul tema della crisi climatica – per Cacciari, è di aver “riconciliato un’analisi scientifica della realtà con un’attenzione etica e, direi, metafisica”. Centrale nell’enciclica è il concetto di “ecologia integrale”, da intendere nel duplice senso di “ecologia non superficiale, non piegata a ragioni di marketing o di business”, e nel senso ancora più profondo di “correlata alle questioni sociali, economiche, strutturali. Sarebbe, però, riduttiva una lettura solo ambientalista della Laudato sì”, ha proseguito il relatore: infatti, “questa conversione ecologica sempre più urgente, non può essere affrontata solo da un punto di vista fisico, biologico, o meramente tecnologico. Occorre invece una rivoluzione culturale e spirituale profonda, cercando di immaginare la nostra vita al di fuori delle regole del mercato, della logica capitalista del commercio, del profitto e della competizione”, di questa “economia che uccide”. Per Cacciari non bisogna abbandonarsi a una sterile lamentosità, ma cercare “controegemonie culturali, vere e concrete. La stessa Chiesa dovrebbe essere meno ambigua sulle tematiche legate alla crisi ecologica”. Dal testo biblico aveva preso l’avvio Stefani nel suo intervento e col testo biblico si è chiusa la prima giornata. Cacciari ha infatti criticato il versetto di Genesi 1,28 (“Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra»”). “Penso invece – ha concluso – che bisogna superare ogni forma di antropocentrismo, di specismo e, insieme, di androcentrismo, contrapponendo una forma di ’sacralizzazione’ della natura, iniziando a considerare i suoi beni non totalmente a disposizione degli esseri umani. Va quindi modificata la stessa concezione di esseri umani, pensandoci come interrelati con il resto della natura”.

La pace passa attraverso il sorriso, la testimonianza, la fede e la meditazione attiva: la tavola rotonda svoltasi il 3 ottobre dalle Clarisse

relatoriNel Monastero del Corpus Domini di Ferrara, nel dopocena di giovedì 3 ottobre, si è svolto il secondo appuntamento del Convegno di “Teologia della pace”. Sul rapporto fra ecologia e nonviolenza hanno discusso, moderati da Piero Stefani, Daniele Lugli (Presidente onorario del Movimento nonviolento), Emanuele Casalino (pastore della Chiesa Battista di Ferrara) e Giuliano Ferrari (monaco de “I Ricostruttori nella preghiera” di La Spezia. Lugli ha relazionato sul tema “Ferrara città nonviolenta?”, partendo da un ricordo di Alberto Melandri, insegnante, coordinatore del CIES – Centro informazione e educazione allo sviluppo, rappresentante dell’associazione Cittadini del mondo, scomparso il 10 giugno scorso a 69 anni. Così, dal suo “sorriso ambulante” (la definizione è della figlia di Melandri) Lugli ha proposto ai tanti presenti (una 70ina) una “carrellata” di testimoni della nonviolenza, tutti, come Melandri, portatori di “un sorriso accogliente”. Il pensiero è andato innanzitutto a Silvano Balboni, ferrarese classe ’22, morto giovane, nel ’48, per una grave malattia, organizzatore anche nella nostra città dei Convegni sul problema religioso, un’originale forma di dialogo fra credenti (di ogni confessione) e non credenti, ai quali partecipavano anche alcuni sacerdoti, fra cui mons. Elios Giuseppe Mori (a cui è stato dedicato questo Convegno di Teologia della pace, insieme ad Alberto Melandri). Pietro Pinna (1927-2016), il primo obiettore di coscienza al servizio militare in Italia per motivi politici, è un altro “portatore”, secondo Lugli, di un sorriso indimenticabile, “segno di un animo nonviolento, nonostante una vita difficile, gli arresti e le critiche, contento comunque di non aver ucciso altri esseri umani”. Proseguendo, il relatore ha ricordato il sorriso di don Giuseppe Stoppiglia, ex parroco di Comacchio, deceduto il 24 settembre scorso, da lui conosciuto personalmente nella città lagunare alla fine degli anni ’60, “ritrovato” dopo 30 anni, e rincontrato nel 2016 in occasione della cittadinanza onoraria assegnatali proprio a Comacchio. Infine, un ricordo di Aldo Capitini, padre fondatore del Movimento nonviolento italiano, teorico della nonviolenza come apertura degli esseri all’esistenza nella sua interezza, senza però ’sacralizzare’ la natura. “Anche le varie Chiese Battiste italiane hanno prodotto negli anni diversi documenti ufficiali dedicati alla questione ecologica”, ha spiegato invece Casalino, spostando quindi il discorso sull’altro termine contenuto nel tema della serata. Si può partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, per fare un breve excursus, quando la Federazione delle Chiese evangeliche nel nostro Paese ha istituto una Commissione apposita sull’ambiente. “Nel giardino di Dio non ci sono rifiuti” è invece il nome del documento di quest’anno che segue diversi altri dal 2014 in poi. In quest’ultimo si denuncia come “l’attuale sistema di produzione e di consumo non faccia che generare rifiuti, compromettendo così il futuro e generando disprezzo verso il Creato”, con lo scarto anche degli esseri umani. La stessa lotta portata avanti da Greta Thunberg è, secondo Casalino, “frutto di una visione integrale della questione ecologica, che chiede quindi un cambio del sistema di produzione, non all’interno del sistema stesso”. Dopo aver citato importanti documenti sulla crisi ecologica, redatti da Legambiente e dall’IPCC (il Gruppo intergovernativo ONU di esperti sul cambiamento climatico) sulle responsabilità dell’uomo nell’aumento della temperatura media globale e di alcuni stravolgimenti all’ecosistema globale, Casalino ha riflettuto su come dovremmo ragionare da credenti: innanzitutto, prendiamo atto come nelle stesse comunità cristiane – delle varie confessioni – “se da una parte c’è una sempre maggiore consapevolezza, dall’altra molti cristiani tendono ancora a ignorare e a sottovalutare il tema”, se non addirittura a negarlo. Da qui il pastore ha proposto alcune considerazioni. Innanzitutto, l’importanza a suo dire di “riflettere su come, da cristiani, confessiamo la nostra fede in un Dio che è anche creatore di tutte le cose, così riconoscendo la centralità del Creato nella struttura dell’esperienza di fede. Ciò purtroppo, però, non ha impedito che anche Paesi dove il cristianesimo era dominante, si siano resi responsabili dell’attuale crisi ecologica”, con, ancora oggi, “diversi ambienti religiosi che sono veri e propri complici di questa situazione, strumentalizzando lo stesso testo biblico”. Un’altra causa della concezione errata di parte del mondo cristiano sul “dominio del creato” nasce, secondo il relatore, nel XII secolo quando si inizia a passare “da un’idea di Dio-Amore a una di Dio come potenza assoluta”, dalla quale deriverebbe la concezione dell’uomo, essendo a Sua immagine, come “colui che poteva disporre della natura per mandato divino”. Legata a questo grave errore, quello di “un’escatologia cristiana sempre più apolittica e sempre meno messianica”. Per Casalino, dunque, oggi è più che mai necessaria “una deontologia ambientale specifica da parte delle Chiese cristiane, non dimenticando mai che il problema non si può affrontare da soli ma collaborando con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, sia delle altre religioni sia non credenti”. Nell’ultimo intervento della serata, Ferrari ha innanzitutto posto una domanda: “chiediamoci non solo quale terra i miti erediteranno, ma anche quale terra loro stessi contribuiranno a costruire”. Da qui l’esempio di Gandhi (ricordiamo che il 2 ottobre era il 150esimo anniversario dalla nascita e la Giornata annuale mondiale della nonviolenza) e di altre figure – dall’Oriente o dall’Occidente -, veri e propri “germogli di una società e di un’umanità non violenta, semi che ci sono ancora oggi e che, se alimentati, crescono, come nel caso di Greta Thunberg o di Carola Rackete”. L’importanza di un approccio spirituale alla questione della difesa del Creato è stata quindi al centro dell’intervento del monaco: “sono gli occhi che devono aprirsi per vedere al di là delle apparenze, per vedere il divino nella realtà”, e dunque rispettarlo e amarlo. “Noi occidentali siamo tecnologicamente molto avanzati ma spesso non abbiamo questa capacità di visione, di vedere oltre, di vedere avanti. Il nostro – ha concluso Ferrari – dev’essere un cammino di coscienza, una trasformazione prima personale poi collettiva che ci unisca al mondo animale, vegetale, all’intero creato e al divino”.

Con S. Francesco per amare i doni di Dio

Un profondo momento di preghiera per concludere nei migliori dei modi il “Tempo del Creato”. Nel tardo pomeriggio dello scorso 3 ottobre, il Monastero del Corpus Domini di Ferrara ha ospitato il terzo e ultimo appuntamento del mese dedicato alla cura del Creato, in concomitanza con i primi vespri della Festa di San Francesco d’Assisi, da 40 anni patrono dei cultori dell’ecologia. Dopo l’incontro del 1° settembre al porto di Gorino e quello del 13 al Santuario del Poggetto, questa volta è toccato alla nostra città – per la precisione alle Clarisse di via Campofranco – di ospitare questo momento di preghiera, con la meditazione tenuta da fra Paolo Barani dei Conventuali di Bologna, intervenuto dopo il racconto del transito del Santo di Assisi. Santo che, fino all’ultimo, ha invitato tutti a lodare Dio: “anche nel momento di maggiore sofferenza, aveva la lode nel cuore, l’ebbe fino all’ultimo respiro”. Nell’agonia che lo porterà alla morte terrena, nell’ospedale di San Salvatore, vicino Assisi, in una piccola cella, fra i topi, “sentiva la presenza del Signore”, presenza che gli ispirò il celeberrimo “Cantico di Frate Sole” (o “Cantico delle creature”). Questa sua divina capacità di vedere l’eterno in ogni creatura, ha proseguito fra Paolo, “è segno che Dio stesso ama le sue creature come vive, mai come mere cose morte, inermi”. Creato che, in quanto tale, non ha e non può avere nessuno scopo specifico, “nessuna utilità, solo di essere riflesso della bellezza, della bontà e dell’amore assoluti di Dio, riflesso che noi possiamo contemplare” per meglio conoscere l’Eterno. In conclusione, prima del saluto finale di don Francesco Viali, direttore dell’Ufficio Diocesano per la Salvaguardia del Creato, il Vescovo mons. Perego ha spiegato come il fazzoletto di terra adagiato davanti all’altare dalle sorelle Clarisse, “ci ricorda la nostra creaturalità e dunque il nostro legame profondo con la terra, che spesso però devastiamo, dimentichiamo, non riconosciamo come ricchezza. Il Sinodo per l’Amazzonia – ha concluso – serve anche a ricordarci come gli esseri umani non debbono sacrificare la terra per i propri interessi utilitaristici, ma guardarla con gli occhi della povertà, del rispetto, della gioia e del ringraziamento”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 ottobre 2019

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Dom Hélder Câmara, una vita per la pace e in dialogo col mondo

17 Giu

Vent’anni fa moriva “o bispinho” (“il piccolo Vescovo”, per via della bassa statura), tra i fautori della cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”, ripresa da Papa Francesco. Nel 1979 il suo intervento al Teatro San Benedetto di Ferrara davanti a un migliaio di persone

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Nel 1979, il 1° novembre, festa di Ognissanti, cadeva di giovedì. In una fredda e umida sera autunnale, il Teatro San Benedetto di Ferrara fatica a contenere le circa mille persone – tra cui molti giovani – che si accalcano per ascoltare le parole di colui che è simbolo concreto di una Chiesa “povera e serva dei poveri”, di una speranza antica e sempre nuova: dom Hélder Câmara, da 15 anni arcivescovo di Olinda e Recife in Brasile. Protagonista del Concilio – la cui testimonianza ha lasciato nel libro “Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II” (S. Paolo ed., 2011) – è tra i firmatari del “Patto delle catacombe”, siglato da alcuni cardinali, soprattutto latino-americani, il 16 novembre 1965, per iniziare una vita nella povertà – vissuta fino all’ultimo dallo stesso Camara -, rinunciando a simboli e privilegi del potere, sfidando così gli stessi “fratelli nell’Episcopato”. Abbiamo deciso di ricordarlo a 110 anni dalla nascita (avvenuta il 7 febbraio 1909) e a 20 anni dalla salita al Cielo (il 27 agosto 1999), oltre che per la “fortunata” coincidenza del 40ennale dal suo intervento nella nostra città. Intervento che cerchiamo di presentare in alcuni suoi passaggi fondamentali nel quale il Vescovo e teologo brasiliano delinea alcune dei principali temi testimoniati nella sua vita di vicinanza e aiuto ai poveri, di lotta nonviolenta contro le disuguaglianze, e di dialogo con persone di altre fedi e non credenti. “Ho saputo con gioia che tra voi – è uno dei suoi passaggi “profetici” a Ferrara – c’è chi pensa in modo concreto e felice agli anziani, ai drogati, agli handicappati, ai carcerati. Ma permettetemi che vi ricordi che oltre a questi gruppi di azione certamente benedetti da Dio è indispensabile che stiate attenti a non permettere che il razzismo non rinasca in Europa. Come giudicare i mali tremendi che ha già causato all’umanità il razzismo al tempo di Hitler; attenti ad evitare che l’ideologia della sicurezza nazionale nei paesi occupi il posto di Dio; è evidente! Ogni popolo ha il diritto e il dovere di pensare alla propria sicurezza, ma mettere la sicurezza come valore supremo è grave “.

Denuncia delle diseguaglianze, per una società nonviolenta

Lo sguardo di dom Câmara è uno sguardo diretto sulla terribile miseria del suo Brasile, dell’America Latina e, in generale, sulle povertà e ingiustizie in tutto il mondo. “E’ terribile che un terzo dell’umanità stia conducendo una vita comoda e di lusso – è un altro suo passaggio a Ferrara -, abbandonando due terzi di questa stessa umanità al margine della vita, emarginati, in una situazione di fame e di miseria”. Una sorta di neocolonialismo – ancora oggi presente – farcito di autoassoluzioni dal sapore razzista: “non manca chi pensa che il terzo mondo è emarginato perché sono di razza inferiore, non sono di razza bianca”, sono ancora sue parole pronunciate a S. Benedetto. “Non manca nemmeno chi pensa che i popoli del terzo mondo sono poveri perché non hanno voglia di lavorare e perché sono incapaci di onestà! NO…NO…NO…! Il terzo mondo è emarginato perché è sfruttato, terribilmente sfruttato dalla società dei consumi che merita il titolo della società dello spreco. Il primo e il secondo mondo vanno a comprare le materie prime occorrenti nel terzo mondo a prezzi stracciati. Li lavora, li rimanda trasformati in prodotto sofisticato che la propaganda commerciale, soprattutto la televisione a colori, fa credere si tratti di prodotti di cui non si può fare a meno”. Nel suo libro “Rivoluzione nella pace” spiega senza giri di parole qual è la missione della Chiesa davanti a tutto ciò: “mente a se stesso chi crede di amare Dio che non vede se non ama gli uomini che vede. E l’uomo non è solo anima; è anche corpo e spirito immerso nella materia. Conquista l’eternità vivendo nel tempo. È cristiana, profondamente cristiana, la lotta per l’emancipazione nella misura in cui è sinonimo di aiutare, fraternamente, a strappare dalla miseria milioni di uomini che vegetano in situazioni infra-umane”. Ma l’alienazione – Camara ne era cosciente – poteva essere causata anche da una “vita basata sull’effimero, disumanizzante e pagano”. La Chiesa, perciò, “è chiamata anche a denunciare il peccato collettivo, le strutture ingiuste e stagnanti, non come uno che giudica da fuori, ma come chi riconosce la sua parte di responsabilità e di colpa”. Come scrive nel ’71 in un articolo sulla rivista “Parole et Pain”, “oggi, l’elemosina delle elemosine è sostenere la giustizia, lavorare allo stabilirsi della giustizia sociale. I poveri, nel nostro secolo, non sono solamente degli individui e dei gruppi, ma Paesi e continenti”. Vicino alla Teologia della Liberazione, dom Camara rifiutò, però, sempre radicalmente qualsiasi forma di violenza: “non credo alla violenza, non credo all’odio – scrive ancora in “Rivoluzione nella pace” -, non credo alle insurrezioni armate. Sono troppo rapide: cambiano gli uomini senza aver il tempo di cambiarne la mentalità. Non serve a niente pensare alla riforma di strutture socio-economiche, se non cambiano anche le nostre strutture interiori. […] Ma se non credo alla violenza armata, non sono nemmeno tanto ingenuo da pensare che bastino i consigli fraterni, i richiami lirici, perché cadano le attuali strutture come caddero le mura di Gerico”. Una via nonviolenta, quella proposta dal Vescovo, per far germogliare un mondo dove la pace fra le persone e i Paesi potesse regnare. Nel suo intervento a Ferrara nel ’79 denunciò il legame tra diseguaglianza economica globale e politiche di guerra: “la società dei consumi spreca somme incredibili per armamenti. E in questo punto l’America del Nord e la Russia si fanno concorrenza in modo perfetto. […] E così queste armi sono vendute ai Paesi del terzo mondo che non hanno nemmeno l’essenziale per i loro popoli”.

L’opzione preferenziale: “una Chiesa povera per i poveri”

Una vicinanza al prossimo, quella di dom Câmara che, nella sua urgenza e intensità, non può non essere rivolta dunque a chi più ha bisogno: “pur amando tutti, come Cristo devo avere un amore speciale per i poveri”, scrive sempre in “Rivoluzione nella pace”. “Gesù amava tutti e andava anche dai ricchi – scrive in “Chi sono io?” (Cittadella, 1979) -, ma ha sempre mostrato la sua preferenza per i poveri. […] Guai a chi non vede Cristo nella persona dei poveri, non soltanto negli individui ma nella società, nei Paesi, nei continenti, in tutto il mondo sottosviluppato!”. Un principio essenziale che Papa Francesco cerca di rendere carne e sangue nella Chiesa di oggi. In “Evangelii Gaudium”, 48 scrive infatti: “se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario deve arrivare a tutti, senza eccezioni. Però chi dovrebbe privilegiare? Quando uno legge il Vangelo incontra un orientamento molto chiaro: non tanto gli amici e vicini ricchi bensì soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14) […]. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli”. Lo stesso Câmara rivolgeva questo appello anche e soprattutto all’interno della Chiesa: “più grave della tentazione del denaro è la tentazione del prestigio e del potere”. La Chiesa, nella sua essenza è “serva dei poveri” e “povera”. La grande povertà della Chiesa, per Câmara, “sta nell’accettare di essere mal giudicata, di rischiare la propria reputazione, di perdere il proprio prestigio. Sta nell’accettare di essere trattata da sovversiva, da rivoluzionaria, forse da comunista: ecco la nostra povertà, la povertà che Gesù chiede alla Chiesa in questo tempo in cui viviamo…”. “Fare un’opzione per i poveri non significa disprezzare i ricchi”, puntualizzava, non dimenticando mai nessuno. Ma i ricchi “non ci chiedono niente. I poveri, gli oppressi, loro sì, hanno bisogno di noi. Qualsiasi cosa questo ci costi” (in “Il Vangelo con dom Hélder”, Cittadella 1985). Così scrive ancora Papa Francesco in “Evangelii Gaudium”, 198: “desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”.

Chiesa e mondo: “il vescovo è di tutti”. Quegli atei che sono “cristiani di fatto”

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“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. (“Gaudium et spes”, 1965) Saper vivere profondamente la povertà evangelica significa al tempo stesso avere uno sguardo aperto sulla sofferenza di ogni donna o uomo. Dom Câmara – in “Rivoluzione nella pace” – si autodefinisce “una creatura umana che si considera fratello di debolezza e di peccato degli uomini di tutte le razze e di tutti i luoghi del mondo. Un cristiano che si rivolge ai cristiani, ma con cuore aperto, ecumenicamente, agli uomini di ogni credo e di tutte le ideologie (…). Il vescovo è di tutti. Nessuno si scandalizzi se mi vedrà frequentare creature ritenute indegne e peccatrici”. Ma questo rivolgersi a ogni persona bisognosa dell’amore e della prossimità era rivolto non solo alle condizioni materiali della stessa ma anche alla sua condizione spirituale e alle sue scelte di vita. Scelte che Câmara non dava per scontate e men che meno condannava, ma anzi dimostrava di prendere in considerazione con viva sofferenza. Così scrive: “credo che tutto andrà a finire bene (le afflizioni termineranno, la pace regnerà per sempre) però qui in questo esilio quanti sono, quanti, quanti, quelli che non sono nelle condizioni psicologiche di credere in Te?….Per molti, per troppi la vita è dura. E non esiste praticamente nessuno che, almeno in certi momenti, non la trovi scioccante, assurda, senza senso, asfissiante…[…] Se insisto con queste domande angustianti è con il proposito di difendere i disperati, i blasfemi, gli atei. È chiaro che non voglio giustificarli: ma li capisco, e spero che anche Tu li capisca. E qui sta il grande segreto della tua paternità. È ingenuo voler negare che hai costruito la vita sulla morte. Ma poi, quando gli uomini si contorcono dal dolore, si sentono schiacciati dalla sofferenza fisica, si ribellano alla sofferenza morale e bestemmiano, tu li capisci e a castigarli non ci pensi nemmeno. Ma il mistero rimane: perché non parli un pochino più chiaro?” (“Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II”, S. Paolo ed., 2011). In diversi momenti il Vescovo brasiliano – pur cosciente di attirarsi molte critiche dall’interno della Chiesa – fa di se stesso un ponte di pace verso “tutti gli uomini di buona volontà” ai quali è rivolta la “Pacem in Terris”: “chi pratica il bene in questa vita, per quanto possa considerarsi distante da Dio, nell’altra vita avrà la sorpresa di sapere che sulla terra ha avuto a che fare con Cristo stesso il quale, in nome del Padre, gli aprirà le porte del cielo” (in “Terzo mondo defraudato”, EMI, 1969). “Esprimo il mio speciale affetto per coloro che” sono “atei di nome, ma di cristiani di fatto”, scrive ancora (idem), per quegli agnostici ed atei “che ‘facciano’ la verità”. Tornano alla mente anche le parole provocatorie del Pontefice nella prima Udienza generale del 2019: ”Le persone che vanno in chiesa, stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente sono uno scandalo: meglio vivere come un ateo anziché dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani”. Il “nuovo umanismo” sgorgato dal Concilio Vaticano II, per il Vescovo di Recife, “comincia con l’accogliere quello che c’è di vero in tutti gli umanismi, anche quelli atei” (in “Rivoluzione nella pace”). Un invito ad uscire, per andare incontro all’altro nella sua diversità, in uno spirito di missionarietà. Non a caso, il 16 maggio 2016 nel suo discorso di apertura della 69esima Assemblea Generale della CEI, Papa Francesco in un passaggio citò proprio dom Câmara: “questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo – richiamava dom Hélder Câmara – prendi il largo!». Parti! E, innanzitutto, non perché hai una missione da compiere, ma perché strutturalmente sei un missionario: nell’incontro con Gesù hai sperimentato la pienezza di vita e, perciò, desideri con tutto te stesso che altri si riconoscano in Lui e possano custodire la sua amicizia, nutrirsi della sua parola e celebrarLo nella comunità.” Chiudiamo con altre parole del Santo Padre, quelle conclusive nel Messaggio per la Quaresima dell’anno scorso, per mostrare ancora una volta come sia forte quel filo rosso che unisce questi due fratelli latinoamericani, testimoni autentici della misericordia di Cristo: “vorrei – scrive il Santo Padre – che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 giugno 2019

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La pace è degli inquieti: riflessioni tra don Tonino Bello e don Primo Mazzolari

15 Apr

Difficile legare tra loro pace e inquietudine. Eppure quello che i due sacerdoti ci hanno insegnato, è che la prima è qualcosa da ricreare e ricercare di continuo, insieme, nelle differenze. Di questo e altro ha parlato anche Sergio Paronetto (Pax Christi) l’8 aprile a Ferrara. La sua ultima pubblicazione si intitola “Primo Mazzolari e Tonino Bello. L’inquietudine creativa della pace”

don tonino 2“Tra voi è stato un vescovo-servo, un pastore fattosi popolo, che davanti al tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente. Sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità”. Proprio un anno fa a Molfetta Papa Francesco pronunciava queste parole nell’omelia della Messa celebrata durante la visita pastorale in Puglia in omaggio e in memoria di don Tonino Bello (1935-1993). Parole che hanno la capacità di sintetizzare l’essenza della testimonianza del Vescovo di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi-Ruvo e Presidente di Pax Christi dal 1985, sulla cui vita ha riflettuto, la sera dell’8 aprile scorso nel Seminario di Ferrara, Sergio Paronetto, Presidente del Centro Studi nazionale di Pax Christi, per il secondo e ultimo incontro di “A scuola del Concilio”. Introdotto da don Francesco Viali, Direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della pace (che ha organizzato i due incontri insieme ad Azione Cattolica e in collaborazione con Pax Christi, Acli, Agesci, Masci, Ferrara Bene Comune e Rinascita Cristiana), il relatore ha spiegato come “la pace non è qualcosa di cui si gode, ma qualcosa che si crea, che si deve creare e ricreare di continuo. La pace non è uno status, un godimento, ma un cammino, un travaglio”. Richiamando anche le beatitudini evangeliche, Paronetto ha riflettuto su come “la pace non designa una condizione, una perfezione, ma un movimento, indica il partire, l’uscire”, non l’approdo ma “il camminare, l’esodo, l’essere svegli, lo stare in piedi, manifestando con umiltà, serenità ma con decisione ciò in cui si crede”. La sostanza della pace è dunque un impasto di “impegno quotidiano, carità, trasformazione, ricerca, esplorazione, interrogativi”. La parola del beato, come quella del mite, quindi, “può essere decisa senza essere violenta, com’è stata ad esempio quella di Oscar Romero”, ucciso per la sua testimonianza di pace, per la sua denuncia degli abusi e delle violenze del Potere, durante la Consacrazione. E proprio sul legame tra Eucarestia e denuncia misericordiosa anche delle “strutture di peccato”, don Bello in una delle sue riflessioni disse: “la comunità eucaristica, come Gesù, deve essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo. Noi tra le opere di misericordia corporale abbiamo sempre insegnato che bisogna consolare gli afflitti, ma non abbiamo mai invertito l’espressione dicendo che bisogna affliggere i consolati. Tu devi essere una spina nel fianco della gente che vive nelle beatitudini delle sue sicurezze. Affliggere i consolati significa essere voce critica, coscienza critica, additatrice del non ancora raggiunto. Ecco la forza sovversiva. Ecco la memoria eversiva della pasqua di cui parla padre Turoldo”. (in “Affliggere i consolati. Lo scandalo dell’Eucaristia”). In modo affine, il sacerdote e partigano cremonese don Primo Mazzolari (1890-1959) su “Adesso” – quindicinale da lui fondato nel ’49 – del 1 settembre 1950 scriveva: “per amare e servire davvero il povero non basta la comunione eucaristica perché essa è l’introduzione e la preparazione alla quotidiana e totale comunione con il fratello”. Tutto ciò che è contenuto nella parola “pace” – relazione, amore, cura della persona e del creato, cittadinanza attiva, disarmo, giustizia, solidarietà, accoglienza – per don Bello ha la propria radice in un “Dio che è pluralità – in quanto trinità, struttura di tutto ciò che è, concetto presente anche nel pensiero di Adriana Zarri – e convivialità delle differenze, contro l’indifferenza e i muri anche di oggi”, ha spiegato Paronetto. La pace, dunque, da intendere come “cammino permanente: è beato chi è perennemente inquieto, quell’inquietudine profonda – sono ancora parole di Paronetto – che anima un credente quando cerca di testimoniare ciò in cui crede. La pace non è dunque stasi ma fatica”. La Chiesa per don Bello deve cercare la pace, non la sua “sistemazione pacifica”, “non il plauso dei potenti” (citato in “Alla finestra la speranza”). Riemergono alla memoria anche le parole del card. Carlo M. Martini pronunciate nel 1987 all’apertura ella prima Cattedra dei non credenti: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. Io chiedevo – sono ancora parole del card. Martini – non se siete credenti o non credenti ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate”. “Non vedete – scriveva don Bello – quanta gente lavora per il Regno di Dio? Non vi accorgete di quanta gente, pure apparentemente fuori dai nostri perimetri cristiani (atei, miscredenti) assume la solidarietà, la gratuità, la lotta per la pace come criteri supremi della propria vita morale?”. Secondo il Vescovo di Molfetta, per la pace bisognerebbe alzare la voce, contrapporsi, opporsi in modo costruttivo e civile. Don Mazzolari in un articolo su “Adesso” parlava di “dovere cristiano di gridare”, “un gridare che si porta dietro un mondo di speranza” (lettera a Ferdinando Durand, 15 maggio 1940). Un grido nonviolento e misericordioso necessario per richiamare allo stretto legame tra pace e giustizia (“Il frutto della giustizia sarà la pace”, Isaia 32, 17), un grido che è costato, a profeti come don Bello e don Mazzolari, calunnie e accuse: “don Tonino – ha spiegato Paronetto a Ferrara – veniva criticato e preso in giro, ad esempio perché ospitava famiglie bisognose. Anche oggi le persone generose vengono derise ed etichettate come ‘buoniste’. Don Tonino veniva tacciato di essere ingenuo, di disonorare così l’ambiente sacro dell’Episcopio. Riceveva poca solidarietà dalle autorità civili ed ecclesiastiche, e, a volte, anche minacce e intimidazioni da ambienti mafiosi. Inoltre, non usava l’anello episcopale, non voleva farsi chiamare ’eccellenza’: voleva il ‘potere dei segni’, non amava i ‘segni del potere’ ”.

Il libro di Paronetto

don mazzolari“Primo Mazzolari e Tonino Bello. L’inquietudine creativa della pace” è il nome del saggio di Sergio Paronetto uscito lo scorso ottobre (MnM edizioni – Pax Christi). Lo scopo del libro, l’autore lo spiega brevemente così: “Vorrei offrire ai giovani pensosi, a credenti, ad agnostici e a non credenti, la testimonianza di due volti di pace”. Volti da lui definiti nel testo come “cuori inquieti e menti fervide. Contemplativi e attivi, ‘contemplattivi’ direbbe don Tonino. Testimoni della pace come beatitudine e tormento. Nella semplicità del loro tratto sono personalità di grande cultura. Nella loro umanità, credenti appassionati. Persone votate alla denuncia del male (ingiustizia, povertà, incultura, guerra) e all’annuncio del bene (pace, giustizia, solidarietà). Concreti e sognatori”, “credenti credibili”. Due figure tra loro vicine anche nel linguaggio, “simile a quello di papa Francesco. Carico di critiche sofferte e veraci a ogni forma di clericalismo. L’idea della fedeltà all’essenziale li espone, a volte, al rischio dell’inconprensione, alla polemica dei benpensanti di ogni appartenenza e di ogni colore”. La missione di una vita: “quella dei poveri, come quella di Dio – scrive a tal proposito don Mazzolari su “Adesso” il 31 gennaio ’49 – è una esistenza scomodante. […]. Sono parecchie le cose che non vorremmo che fossero. Ne nomino alcune, le più ingombranti, le più certe, purtroppo: la morte, il dolore, i poveri, Dio”. Ciò che li accomuna è anche l’idea di pace come “pienezza biblica, inquietudine creativa, dono e conquista, tormento straziante e sereno”, scrive Paronetto. In “Tu non uccidere”, don Mazzolari riflette su come il cristiano sia “un uomo di pace, non un uomo in pace”, e, nello stesso libro, il sacerdote cremonese scrive ancora: “se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di dichiararla, nemmeno un’assemblea popolare. Se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di comandare altri uomini di uccidere i fratelli”. “I miliardi che vanno nelle spese militari sono tolti ai poveri”, scrive invece su “Adesso” del 15 gennaio 1956. Due uomini di Chiesa accomunati dunque dalla fede, dalla nonviolenza, da una “passione credente” scrive sempre Paronetto, e dalla “scelta evangelica dei poveri”. Su quest’ultimo aspetto, sul fatto che “i poveri sono scomodi” (“Adesso”, 1 agosto 1954) don Mazzolari ha scritto pagine stupende, usando parole sferzanti ma mai moraliste né paternaliste. Convinto che non basta parlare dei poveri, ma bisogna incontrarli (“i poveri si abbracciano, non si contano”, “Adesso”, 15 aprile 1949), insisteva sulla necessità di dar loro la parola, che significa innanzitutto “un saper vedere. Il nostro egoismo fabbrica il povero, poi non lo vede. […] Chi non vede il povero come può dargli la parola?”. (“Adesso”, 15 febbraio 1949). Il povero, invece, “è una protesta continua contro le nostre ingiustizie” (“Adesso”, 15 maggio 1949), perciò è necessario “sostituire nei sacerdoti e nei cristiani la mentalità giuridico-borghese con quella evangelica” (“Adesso”, 1 agosto 1954). Non dimenticando mai che ognuno è povero, nel senso di peccatore, di mancante, di anelante alla ricchezza piena di Dio: “io sono il povero; ogni uomo è il povero!” (“Adesso”, 15 giugno 1949). 

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 aprile 2019

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Gettare ponti, contro i falsi “noi”

18 Feb

Una riflessione su comunicazione, conformismi e comunità 

mamma+bimbo afr“Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana” è il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la 53esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni, quest’anno in programma il 2 giugno.
Proprio l’immagine della rete – virtuale o non – richiama per sua natura la presenza di nodi tendenzialmente posti allo stesso livello, creando un’orizzontalità plurale e non gerarchica, donando un’idea di comunione, di (cor)responsabilità (tutti sono responsabili, e lo sono assieme), di dialogo e di ascolto. E proprio il termine “ascolto” richiama un atteggiamento di attesa paziente e di umiltà, caratteri ai quali tante volte i giornalisti, e gli stessi “internauti”, dovrebbero ritornare con maggiore consapevolezza.
Anche in politica spesso purtroppo oggi il ricevere ampi consensi quasi mai si accompagna alla costruzione nel tempo – lenta e complessa – di un autentico “noi”, di collettività, di comunità.
Quel che si vede è, purtroppo, l’affermarsi di un “noi” fittizio, fatto di individualismi e solitudini spesso tristi e rancorose, accomunate dall’avversione verso un “loro” (altrettanto inesistente come uniformità), verso qualsiasi diversità. Un tale “noi” non può che dar vita – come avviene di fatto – a nuovi e pericolosi processi e gerarchie (antropologiche, razziali, culturali), contraddicendo così l’orizzontalità democratica e plurale, tipica della Rete. Scrive al riguardo papa Francesco: “È a tutti evidente come, nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità. Nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli. Inoltre, nel social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)”.
Di fronte a questo fenomeno è utile, come giornalisti e operatori della comunicazione, tornare a un ascolto e a un incontro reali – che, come detto, richiede tempo, pazienza e umiltà – e al desiderio di gettare ponti. Ponti che, per loro natura, sono orizzontali e creano orizzonti, senza rinunciare ad elevarsi dalla monòcromia, spesso saccente e carica di rabbia, tipica dei conformismi. Uno dei compiti urgenti del giornalista oggi potrebbe essere così delineato: connettere e ricucire, diventare nodo di pace nelle comunità, virtuali e non, tornare a gettare ponti, ridare dinamismo alle pluralità della Rete e della società, ridando vita a insperati orizzonti di senso. Il papa ci ricorda al riguardo che: “Così possiamo passare dalla diagnosi alla terapia: aprendo la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza… Questa è la rete che vogliamo. Una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere. La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 febbraio 2019

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A Ferrara otto bambine e bambini saharawiani, piccoli «ambasciatori di pace che rimangono nel cuore»

17 Ago

1Più di quaranta giorni nel nostro Paese, dei quali cinque a Ferrara, per otto piccoli «ambasciatori di pace» saharawiani. Stamattina nel Municipio di Ferrara è stato presentato il progetto “Accoglienza Saharawi 2017”, organizzato dall’Associazione Oltreconfine in collaborazione con il Coordinamento Regionale di Solidarietà per il Sahara Occidentale e con la Rappresentanza del Fronte Polisario in Italia (che ha programmi simili anche in Spagna). Il progetto, giunto al 18° anno, vede otto bambine e bambini tra i 7 e i 10 anni ospiti di associazioni ed enti locali nella nostra città, dov’è interamente gestito da volontari di Oltreconfine, con il sostegno della CRI Ferrara (per gli accertamenti sanitari loro necessari e le eventuali terapie) e dell’AIC – Associazione Italiana Celiachia.
I bambini permangono a Ferrara dalla mattina del 13 agosto, fino a domani, 18 agosto, quando ripartiranno dall’aeroporto milanese di Malpensa verso la loro terra. In Italia sono giunti lo scorso 4 luglio, e, prima della tappa ferrarese, sono stati, nell’ordine, tre settimane a Reggio Emilia, poi a Bellaria, Sala Bolognese e Sasso Marconi. In tutto sono circa un’ottantina i bambini saharawiani ospiti del progetto accolti quest’estate nella nostra regione, su un totale di 400 in tutta Italia. Nello specifico, la nostra città in 18 anni ha accolto circa 150 bambine e bambini provenienti dal Sahara Occidentale, situato tra Marocco, Algeria e Mauritania.
Seppur nei pochi giorni trascorsi a Ferrara, i bambini, tra le varie attività svolte, hanno avuto la possibilità di giocare a Parco Massari, di cenare o pranzare alla Bocciofila La Ferrarese in viale Orlando Furioso, nella mensa di via Zandonai, al Ristorante 381 in piazzetta Corelli e al Puedes nel sottomura di via Baluardi, di nuotare nella piscina di Occhiobello, oltre che di visitare il Castello Estense, il Giardino delle Capinere della LIPU in via Porta Catena, e di navigare sul Po grazie al battello fluviale “Nena”.
«Questi bimbi ci entrano nel cuore, e lì rimangono», ha spiegato, ai limiti della commozione, Alessio Zagni, presidente del Comitato della Croce Rossa Italiana di Ferrara. «È importante mantenere alta l’attenzione sui problemi che vive questo popolo». Popolo la cui storia, nonostante diverse campagne di sensibilizzazione, anche nel nostro Paese rimane perlopiù misconosciuta. «Loro sono i nostri ambasciatori di pace», ha spiegato Hamadi Omar Mohamed, accompagnatore, interprete e mediatore Saharawi del gruppo, attivo in questo ruolo dal 2012. «La loro è la causa dei dimenticati: non esiste solo il muro del Marocco [che questo Paese ha istituito al confine col Sahara Occidentale per controllare meglio il popolo Saharawi, ndr], ma anche il muro del silenzio».
All’incontro di presentazione sono intervenuti anche Agnese Casazza, presidente di Oltreconfine, e Massimo Maisto, Assessore alle Politiche per la pace del Comune di Ferrara, che ha spiegato come «il popolo Saharawi ha scelto la via della pace, della legalità internazionale, la via referendaria. La cooperazione internazionale decentrata è una, seppur piccola, risposta a questo tipo di problemi».

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 17 agosto 2017