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“Una persecuzione durissima con la complicità di molti italiani”

28 Gen

In occasione del Giorno della Memoria, il 22 gennaio al MEIS Fabio Isman ha parlato delle leggi razziali nel nostro Paese e della complicità di molti italiani nel rendere la vita impossibile a migliaia di connazionali ebrei

leggi-razziali-fasciste-1030x615-2Quando si parla del periodo delle leggi razziali, è importante parlare delle sofferenze patite da ciascuno dei 50mila ebrei in Italia, dei rischi che correvano, da ciò che gli è stato portato via (tutto), da ciò che gli è stato restituito dopo (poco), e del fatto che il Parlamento non ha mai chiesto loro scusa”. Non ha usato giri di parole Fabio Isman, giornalista e saggista (che in passato si è occupato tanto anche di terrorismo), lo scorso 22 gennaio al MEIS di Ferrara in occasione della presentazione del suo libro “1938. L’Italia razzista” (Il Mulino, 2018). Le leggi razziali in Italia, precedute da un censimento – una vera e propria schedatura “essenziale per chi dopo andrà a prelevarli per deportarli nei campi di concentramento” -, e anticipate da una violenta campagna antisemita, esclusero gli ebrei dalla scuola, dal lavoro, dalla vita civile e sociale. Isman ha compiuto una capillare ricerca in diversi archivi sul territorio nazionale (ma “il lavoro sarebbe infinito…”, ha spiegato lui stesso) per portare a galla informazioni, aneddoti, storie di persone in carne e ossa sentitesi all’improvviso stranieri indesiderati nel luogo dove vivevano, tranquillamente, da cittadini. “La persecuzione contro di loro – ha spiegato Isman – in Italia non è stata, come dicono alcuni, ‘all’acqua di rose’, ma durissima, ed è iniziata non nel ’43, ma nel ’38”. E’ infatti, pubblicato il 14 luglio del ’38, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia”, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Tra i firmatari vi è il medico Nicola Pende (al quale è ancora intitolato un Istituto Comprensivo, il Gramsci-Pende, a Bari). Pend nel ’38 sostenne pubblicamente “la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza”. E’ di pochi mesi successivo – del 17 novembre – la promulgazione del decreto governativo n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – anche se sono 420 in totale, fino al 1945, le norme e i decreti razzisti emanati in Italia, “che il re sottoscrisse senza vergogna. Queste norme razziste – ha proseguito lo scrittore – sono state l’anticamera della Shoah”. Insomma, “molti italiani non erano affatto ‘brava gente’ ”, e lo dimostrano, ad esempio “le istanze ai prefetti, dove nostri connazionali chiedevano, per citarne una, se potevano occupare appartamenti requisiti dopo il ’38 a ebrei”, senza nessun scrupolo al riguardo. Nel ’39 nasce l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (Egeli), con sede a Roma e guidato da un presidente e da un consiglio d’amministrazione nominati direttamente da Mussolini, chiuso definitivamente solo nel 1997. “Agli ebrei presero tutto – sono ancora parole di Isman -, non si contano le ruberie e le razzie ai loro danni, con schedatura dei loro beni di una minuzia straordinaria. Dopo il censimento, gli ebrei dovevano autodenunciarsi alle autorità, dichiarando di appartenere alla ‘razza ebraica’ ”. “Papa Pio XI fu uno dei pochi oppositori alle leggi razziali, ma molti dei parroci erano assolutamente favorevoli”, ha proseguito. “Pio XI scrisse un’enciclica contro fascismo e nazismo, mai pubblicata dal suo successore, la trovarono sul suo comodino quando morì”. Si tratta di Humani generis unitas (Sull’unità del genere umano), che conteneva una condanna categorica dell’antisemitismo, del razzismo e della persecuzione degli ebrei. Fu invece pubblicata l’enciclica di Pio Xi del ’31, “Non abbiamo bisogno”, a difesa dell’Azione Cattolica, dove il Pontefice scrive: “[il fascismo è] una vera e propria statolatria pagana, non meno in contrasto con i diritti naturali della famiglia che con i diritti soprannaturali della Chiesa”. Isman ha poi proseguito sottolineando ad esempio come le discriminazioni antiebraiche iniziarono dalle scuole: “prima vennero espulsi infatti insegnanti e studenti, alcuni di loro finirono ad Auschwitz, come Enrico e Luciana Finzi”, iscritti al Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma, deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, e mai tornati. “Espulsi dalle scuole furono anche i libri di testo di 114 autori ebrei. Grazie alle norme razziali – proseguendo -, gli ebrei venivano ad esempio anche tolti dagli elenchi telefonici, non potevano più praticare più l’arte fotografica…”. “Oltre 40 ebre italiani” non resistettero a questo clima d’odio assurdo, e si suicidarono. Tra questi, Giuseppe Jona, medico veneziano, dal giugno 1940, anche se non ebreo praticante, alla guida della comunità israelitica locale. Dopo l’8 settembre 1943 scelse di rimanere a Venezia come riferimento per chi non voleva o non poteva fuggire. Di fronte alla richiesta delle autorità tedesche di consegnare una lista aggiornata degli ebrei rimasti in città, Jona il 14 settembre redasse il proprio testamento, lasciando gran parte dei suoi beni ad opere sociali e caritatevoli, e tre giorni dopo si tolse la vita, dopo aver distrutto ogni documento in suo possesso che potesse rivelare l’identità e il domicilio degli ebrei veneziani. Fra alcune altre storie da non dimenticare, citate da Isman, vi è quella del primo deportato italiano, Renzo Carpi, mantovano residente a Bolzano, e quella di Renato Terracina, fra i 4.450 ebrei che si sono salvati garzie all’accoglienza trovata in 180 strutture ecclesiali cattoliche.

Andrea Musacci

http://lavocediferrara.it/

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° febbraio 2019

Giulio Supino e la guerra che non ha combattuto

23 Nov

Supino, Guarnieri, Sarfatti, BassaniLa vita personale, le vicende di una città, la storia di un periodo…il tutto in un diario. “Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e resistenza” raccoglie la testimonianza di Giulio Supino, ingegnere antifascista morto nel ’78, e il suo legame con Ferrara e con Giorgio Bassani. Giovedì è stato presentato al Museo del Risorgimento e della Resistenza, in C.so Ercole I d’Este, 19, alla presenza di un pubblico numeroso, tra cui diversi studenti del Liceo Roiti.

Antonella Guarnieri, storica del Museo, l’ha descritto come «prezioso dal punto di vista storico, e con un forte legame con Ferrara, in quanto dà informazioni importanti per la ricostruzione di episodi significativi, tra cui l’eccidio del Castello». Un’opera che «ci dona un nuovo sguardo su quel periodo», ha ribadito Paola Bassani, figlia dello scrittore e Presidente della Fondazione a lui intitolata, «una cronaca stringata, lucida e a volte ostica di quegli anni», uno stile spesso ironico per «una testimonianza personale particolarmente toccante», ha aggiunto il Prefetto Michele Tortora.

Michele Sarfatti, curatore del libro, ha dunque precisato come «il libro non è un diario intimo, ma un diario sulla vita che accade, sulla realtà». Egli ha inoltre sottolineato la «precisione di Supino nel descrivere le cause, i processi», mentre Paola Bassani ha ricordato la sua «sensibilità umanistica, l’interesse per la storia e la letteratura», l’amore per autori come Ariosto e Dante. Tra i vari aneddoti ricordati dalla figlia di Supino, Valentina, anche quello delle passeggiate insieme al padre nelle vie di Firenze, nelle quali le recitava  versi della “Divina Commedia”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 22 novembre 2014

Nella foto, da sinistra: Valentina Supino, Antonella Guarnieri, Michele Sarfatti e Paola Bassani

Storie di guerra nel volume di Giulio Supino

20 Nov

download (1)Il volume di Giulio Supino, “Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e resistenza” (Firenze, ASKA, 2014), verrà presentato oggi alle 17 presso la Sala Mostre del Museo del Risorgimento e della Resistenza, in C.so Ercole I d’Este, 19. L’evento, organizzato con la Fondazione Giorgio Bassani, vedrà gli interventi di Paola Bassani (Presidente della Fondazione), Michele Sarfatti (curatore, Direttore  del Centro di Documentazione Ebraica di Milano e tra i massimi studiosi dell’ebraismo italiano), Antonella Guarnieri (Storica del Museo del Risorgimento e della Resistenza), Valentina Supino (figlia di Giulio) e Michele Tortora (Prefetto di Ferrara).

Giulio Supino (1898–1978) nel ‘27 inizia la carriera universitaria a Bologna, interrotta nel ‘38 a seguito della promulgazione delle leggi razziali, mentre dal ‘41 al ‘43 insegna nell’Università clandestina di Roma; solo nel ’46 riprende l’insegnamento. Dal ‘62 al ‘68 è Prorettore Vicario dell’Università di Bologna, e dal ‘65 al ‘68 Preside della Facoltà di Ingegneria.

Nel periodo della guerra conosce Giorgio Bassani, che sin dalla metà degli anni ’30 comincia il proprio percorso di critica al regime fascista. Nel dopoguerra Supino e Bassani s’incontrano di nuovo: quest’ultimo, nelle vesti di presidente di Italia Nostra, contatta Supino per approfondire le tematiche idrauliche relative al salvataggio di Venezia.

Nel volume vi sono gli appunti di Supino dei periodi ’39-‘40 e ‘43-‘45 (mentre per il periodo intermedio sono conservati fogli sparsi). Il titolo del libro è quello che l’autore stesso appose a un progetto di autobiografia, intrapreso dopo la guerra e mai concluso.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 20 novembre 2014

Questa volta Gioele Dix si fa serio

29 Apr

3Dnn+9_2C_pic_9788804634119-quando-tutto-questo-sara-finito_originalPer la Festa del Libro Ebraico ieri alle 18 nella Sala della Musica del Chiostro di San Paolo l’attore Gioele Dix ha presentato il suo libro “Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali”, da poco uscito per Mondadori.  Riccardo Calimani, Presidente della Fondazione MEIS, ha dialogato col comico milanese che, con ironica malinconia, ha affrontato un ambito delicato come quello delle proprie radici. David Ottolenghi, questo il suo vero nome, classe ’56, ha condiviso col numeroso pubblico presente le vicende della propria famiglia, di origini ebraiche, durante gli anni delle leggi razziali fasciste. Una spinta profonda a voler “riscoprire le mie radici”, interrogando il proprio padre del quale “avevo bisogno della complicità assoluta per scrivere questo libro”. Figura centrale è stata anche la figura del nonno paterno, “simpatizzante fascista” e che quindi con le leggi razziali ricevette “una doppia stangata, come italiano e come ebreo”. Il giorno dopo andò a consegnare la tessera del PFN, ma “non l’accettarono e non seppi mai perchè”. Gioele Dix ha dunque proseguito tentando di spiegare come “la mia famiglia recepì la discriminazione antiebraica, soprattutto con gli occhi di mio padre, che nel ’38 aveva dieci anni”. Scopo dell’opera è “di infilarsi nel grande magma della Storia per raccontare una storia personale, sperando possa incidere”. Libro che “di certo non rappresenta un punto d’arrivo, ma una tappa” del percorso personale dell’artista. Tra qualche nota di tristezza e tante di ironia, Dix ha anche spiegato la scelta del suo nome d’arte, ispirato a un profeta biblico, Gioele che però, rispetto ad altri – ha scherzato – “ha fatto poche profezie” e dell’origine del proprio cognome, comune a entrambi i genitori. Nel finale dell’incontro, vi sono state diverse domande e interventi provenienti dal pubblico. Queste hanno dato l’occasione a Gioele Dix di confessare come l’aver “intervistato” il padre gli sia servito per “comprendere meglio il suo carattere, la sua personalità, il suo vissuto profondo”.  Tanto divertente quanto commuovente anche il racconto della reazione del padre – persona riservata e taciturna, come il nonno paterno – alla lettura della bozza del libro, suggellata da queste parole: “mi sono un po’ commosso a leggere questa storia”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 29 aprile 2014