Archivio | Maggio, 2024

Ferrara FunCamp: il Seminario rivive d’estate

30 Mag

Dal 10 giugno al 26 luglio nel nostro Seminario Arcivescovile di via G. Fabbri a Ferrara, il Campo estivo per bimbi e ragazzi di età 6-14 anni. Una proposta educativa e ludica unica nel nostro territorio. Ecco tutte le proposte e come si svolgerà

[Leggi qui il comunicato]

[Qui la locandina]

Il primo Centro estivo nel nostro Seminario di Ferrara. Una proposta innovativa, di qualità, differente dagli altri Campi estivi del territorio. È tutto questo, e molto altro, “Ferrara FunCamp”, in programma dal 10 giugno al 26 luglio nel Seminario Arcivescovile di Ferrara (via G. Fabbri, 410). Un progetto nato dal Seminario stesso e dalla Cooperativa “Serena”: il primo, col desiderio di valorizzare maggiormente i propri spazi; la seconda, alla ricerca di questi per poter svolgere le proprie attività. Entrambi, accomunati dal desiderio di una proposta formativa diversa per bambini, ragazzini…e per le loro famiglie.

NUOVA VITA AL NOSTRO SEMINARIO

Da un po’ di tempo il nostro Seminario Arcivescovile collabora con la Coop. Serena: la cooperativa B26 ha, infatti, preso in affitto la gestione delle cucine del Seminario usandole per le strutture di Coop. Serena che, dal lato opposto di via Fabbri, da oltre 1 anno gestisce anche il “Betlem”, storica Casa di Riposo della nostra Diocesi.

Oggi, sono tanti gli spazi poco utilizzati o inutilizzati nel nostro Seminario, un declino iniziato soprattutto nel periodo Covid: una decina di dipendenti vi sono impiegati nell’amministrazione, nella manutenzione e pulizia degli spazi, oltre che nella biblioteca. Nella grande struttura vi risiede appena qualche sacerdote e qualche giovane per un possibile percorso di discernimento vocazionale. Ma l’area meno utilizzata è sicuramente quella ampia esterna retrostante l’edificio, che per decenni ha ospitato tantissimi giovani e giovanissimi in ritiri o giornate nelle quali l’aspetto vocazionale si fondeva con quello ludico e amicale. Chi non ha un particolare ricordo di un periodo della propria vita legato alla struttura di via Fabbri? 

Si è ragionato tanto, quindi, su come rendere ancora vivi questi spazi, su come valorizzarli, al tempo stesso rispondendo ai bisogni di tante famiglie del territorio. E così, il nostro Seminario assieme a Coop. Serena propone un mese e mezzo di formazione e divertimento: non un mero “parcheggio” per i bambini e i ragazzi, ma un luogo accogliente, creativo ed educativo di qualità dove poter vivere un’esperienza indimenticabile.

Per la Coop. Serena si tratta del primo Centro estivo dedicato alla fascia d’età 6-14 anni: «raccogliamo, analizziamo e cerchiamo di dare risposte ai bisogni che emergono dalle famiglie del territorio. E così abbiamo agito anche in questo caso», ci spiegano. Oltre a fornire un’ulteriore possibilità lavorativa per i propri educatori e dipendenti, «proponiamo un progetto continuativo di sette settimane per i più piccoli e al tempo stesso per le loro famiglie». 

I SEI PROGETTI EDUCATIVI SPECIALI

Sei, infatti, i Progetti Educativi Speciali in programma dal 10 giugno al 26 luglio ogni settimana o a settimane alterne in collaborazione con associazioni ed enti del territorio: Laboratorio “Sapore di Emozioni: Un’Esplorazione Sensoriale del Cibo come Espressione Emotiva”, in collaborazione con Ass. “Kairos. Il tempo dei cambia-menti”; Laboratorio “Esploratori di Storie: Laboratorio di Narrazione e Scrittura Creativa” in collaborazione con Ass. C.I.R.C.I.; Laboratorio di “Educazione al Primo Soccorso” in collaborazione con la Croce Rossa Italiana – Ferrara; Laboratorio di “Cultura della legalità” in collaborazione con i Carabinieri del Comando Compagnia di Ferrara; Esperienza “I Nonni raccontano: un ponte fra le generazioni” in collaborazione con CRA Betlem e Residenza Serena di Coop. Serena; Laboratorio “Zumba Kids: coreografie di danza-fitness per bambini e ragazzi” in collaborazione con l’istruttrice Giulia Barbi. 

DAI NONNI A UNIFE E ALLA PALLAMANO

Due parole in più merita in particolare il Progetto “I Nonni raccontano”: gli anziani ospiti del Betlem e della Residenza Serena si mettono in gioco per educare e giocare con i bambini del Centro estivo, attraverso l’aiuto degli educatori. «Recandosi in Seminario per stare con i bambini – ci spiegano gli organizzatori -, potranno mettere a frutto la propria esperienza e umanità, vincendo la solitudine e il senso di inutilità che possono vivere». Anche gli altri Progetti sono pensati come momenti formativi importanti su temi particolarmente sensibili oggi (dal rapporto col cibo all’uso dei social, dal bullismo alla prevenzione degli abusi), tutti «nell’ottica di un benessere fisico e mentale, di un’alta qualità della vita». E senza la “pesantezza” dell’orario scolastico colmo di impegni, ma con la rilassatezza e i tempi dilatati tipici del periodo estivo. Inoltre, gli educatori ripresenteranno i contenuti di ogni incontro ai bambini e alle bambine iscrittesi successivamente. Educatori che non saranno solamente quelli già parte della grande famiglia di Coop. Serena ma che saranno scelti anche fra gli studenti e le studentesse iscritte al Corso di Scienze dell’Educazione dell’Università di Ferrara, interessati a svolgere il proprio tirocinio curricolare durante il “Ferrara Funcamp”. «È stata proprio UniFe a contattarci – ci spiegano da Coop. Serena -, entusiasti, come sono, di questo nostro progetto».

Un’altra collaborazione è quella con Ferrara United, team locale di pallamano che si è reso disponibile a fornire personale qualificato per svolgere attività motoria durante il Centro estivo. Riguardo agli spazi, nella zona esterna verrà appositamente aggiunta una tensostruttura per ospitare il pranzo e altre attività comuni in caso di maltempo, e altre tensostrutture più piccole per poter svolgere altre delle attività in programma.

Tanto sport e divertimento, quindi, ma non solo questo: una differenza sostanziale rispetto ad altri Centri estivi, per trascorrere un mese e mezzo in cui crescere come persone, sviluppando la propria identità nel rispetto della diversità. Per diventare giovani consapevoli, curiosi, aperti alla vita. Scusate se è poco.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 31 maggio 2024

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«Nella liturgia il Mistero è presente»

24 Mag

Riscoprire la «capacità simbolica» nell’era del web: la lezione di don Giacomo Granzotto

Quale liturgia nell’epoca del flusso senza sosta di informazioni e immagini via web? A questa domanda – decisiva, ma spesso ignorata – ha cercato di rispondere don Giacomo Granzotto, Direttore Ufficio Liturgico e Musica Sacra diocesano, in occasione dell’ultima lezione di quest’anno della Scuola di teologia per laici. “Per ritus et preces… Quale è la dynamis che anima i gesti liturgici?”, il titolo dell’incontro tenutosi lo scorso 17 maggio a Casa Cini, Ferrara.

«I gesti e le parole della nostra liturgia – ha spiegato il relatore – sono quelli di Gesù “medico celeste” che guarisce nel corpo e nell’anima». In altre parole, la liturgia «è il modo scelto da Dio per comunicare con noi, il primo strumento per entrare nel Suo Mistero». Documento fondamentale per rendere, dunque, la liturgia sempre più comprensibile pur nella sempre totale aderenza al modus operandi del Cristo, è la “Sacrosanctum Concilium” (1963) del Concilio Vaticano II, frutto anche del Movimento liturgico nato grazie all’abate Guéranger nel XIX secolo.

Spesso, però, oggi ai giovani «manca una capacità di lettura per comprendere la liturgia». La dimensione multimediale nella quale sono/siamo tutti, chi più chi meno, inghiottiti, secondo studi scientifici delle maggiori riviste internazionali, «ha modificato il nostro cervello». Le conseguenze riguardano la memoria, l’attenzione, la concentrazione e le interazioni sociali. Soprattutto molti giovani «hanno un rapporto patologico col web che porta a una dipendenza dalla dopamina e al mancato sviluppo di certe aree cognitive» (circa il 25% in meno…).

Riprendendo anche riflessioni di Pavel Florenskij, don Granzotto ha riflettuto quindi sull’importanza della «capacità simbolica» tipica dell’essere umano, cioè quella di «penetrare il mistero». Una capacità oggi che, appunto, si sta andando perdendo.Di conseguenza, «la ritualità liturgica diventa sempre più noiosa, difficile da sostenere, piena di gesti il cui senso si fatica a comprendere». Oggi – ha riflettuto don Granzotto – «manca la consapevolezza del Mistero, il messaggio evangelico spesso viene edulcorato o si dà troppo peso alla dimensione orizzontale a scapito di quella verticale, trascendente».

Ma la liturgia verrebbe snaturata se si adeguasse ai tempi e alle forme del mondo digitale. Dobbiamo, al contrario, «cercare di tornare a una normalità comportamentale». Romano Guardini rifletteva – ad esempio ne “La Santa Notte” – sull’importanza del «silenzio per le parole, del riposo creatore, in una società dove dominano la produzione e il rendimento. È la mentalità del mondo che, purtroppo, spesso vince anche nelle nostre parrocchie: nella liturgia, ad esempio, rispettiamo i momenti di silenzio?».

Citando anche passi di Matta El Meskin (1919-2006), monaco copto egiziano e di OdoCasel (1886-1948), monaco e teologo benedettino, don Granzotto  ha dunque posto l’accento sull’importanza di riscoprire l’infinita bellezza della nostra liturgia, «Chi in essa davvero opera», cioè lo Spirito. In essa «il Mistero è presente», la memoria liturgica è «ripresentazione, non rappresentazione: non dimentichiamo mai la nostra relazione col Dio vivo, vero e vivente».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 maggio 2024

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Europa, parole per un futuro diverso

22 Mag

Festival della Fantasia, grande partecipazione alla rassegna della Fondazione Zanotti sul senso della nostra identità

A cura di Andrea Musacci

ANIMA, RADICI E TABÙ

Buttiglione: «recuperare i valori antichi e la dimensione religiosa». Il Barocco anima creativa. Dogmi e totem di oggi

L’Europa come idea forte, come visione dell’avvenire, mosaico di parole da recuperare. È stato questo il senso dell’incontro svoltosi la mattina di domenica 19 maggio nel Castello di Ferrara, uno degli appuntamenti centrali del Festival della Fantasia iniziato giovedì 16. «L’Europa è un’opera d’arte perché è nata come grande composizione», ha introdotto Davide Rondoni, Direttore Artistico del Festival, prima degli interventi di tre relatori d’eccezione.

La fantasia non può non richiamare innanzitutto l’aspetto creativo. Su questo si è concentrato Francesco Botturi (Università del Sacro Cuore di Milano): nel XVI secoloil Barocco «non era solo uno stile ma una cultura, un esperimento per entrare nella profondità del reale, un pensiero compositivo». Il Barocco, però, si trovò a lottare contro il pensiero razionalistico cartesiano, che «”abolisce” il movimento e la sensibilità a scapito dell’analisi, del pensiero puro e astratto, prevedendo la mente incarnata dell’intelligenza artificiale». Questo tra pensiero compositivo e pensiero analitico/razionalistico (poi illuministico) è un conflitto ancora oggi in atto: il razionalismo è «la tecnocrazia, la secolarizzazione, l’antropocentrismo che emargina la religione». Il destino dell’Europa, quindi, rischia di essere quello di una «progressiva atomizzazione razionalistica e tecnoscientifica». Ma l’Europa autentica è quella che sa valorizzare «il mondo poetico dell’umano, la cui mente non è soprattutto analitica e calcolatrice, ma compositiva, creativa», ha proseguito Botturi: la cifra dell’umano è «l’ingegno», la capacità di «stabilire relazioni tra realtà fra loro lontane e diverse», appunto componendole ma senza annullare la tensione tra loro, la «contraddittorietà della loro relazione».

«Solo una realtà – ha riflettuto quindi Rocco Buttiglione, noto politico e filosofo, nel suo discorso – può accogliere tutte le contraddizioni insolubili, tutti i dolori del mondo: la Croce di Cristo». La risposta al desiderio di felicità della persona non sta, infatti, nelle cose ma «viene da altrove, sta in Altro. Non si può sradicare Cristo dalla storia, e solo da Lui nasce quel popolo, alternativa a una società di individui atomizzati preda del potere», ha riflettuto. L’idea originaria di Europa è stata, quindi, bloccata. Era l’idea dei padri, quella che si fondava «sui valori ebraico-cristiani e su quelli greci e latini». È nata, invece, «un’Europa senza radici culturali». Di conseguenza, manca «un dèmos, una creazione spirituale con forti radici comuni e un comune destino». Così, per Buttiglione, lo stesso Trattato di Lisbona del 2009 non ha fatto che confermare «l’Europa della burocrazia e dei diritti individuali». Questi ultimi, in particolare, sono dominanti mentre «mancano i doveri, i diritti della famiglia e quelli delle nazioni». Ma questo «sistema di divertissement», di distrazioni «si sta incrinando»: abbiamo  bisogno di una «globalizzazione non solo economica ma etica e politica». I Trattati vanno dunque «riformati mettendo al centro l’identità culturale europea e recuperando la dimensione religiosa».

«Viviamo in un’Europa edulcorata, senza lacrime né santi», ha detto poi Ginevra Leganza, giornalista de Il Foglio, citando Cioran. Tre parole, nella nostra Europa decadente, vengono oggi in particolare snaturate: «amore, come dogma; morte, come tabù; postumano, come totem». Riguardo alla prima, per Leganza spesso domina «una concezione edulcorata di amore, astratta e assolutista»; ma questo può essere anche «un demone, può nascondere violenza, ossessione». E mercificazione, come nel caso «dell’utero in affitto». La morte, invece, oggi è «rimossa, c’è ma non si può più dire, è la protagonista silenziosa del nostro tempo». L’idea dei nostri tempi è quella della «morte per scelta, per cultura», quindi come «opzione alternativa alla vita»:non a caso, anche in Italia aumentano i suicidi e la promozione dell’eutanasia porta a una «normalizzazione della morte». Senza pensare all’aborto: chi usa l’espressione “interruzione di gravidanza” vuole rimuovere il fatto che sia un gesto che «porta morte, ponendo invece l’accento su chi compie questa scelta». Infine, il totem dell’intelligenza artificiale: per Leganza, questo è il tentativo ancor più radicale di «sostituzione dell’umano con la tecnologia»: ma «così rischiamo di diventare schiavi degli schiavi, cioè dei robot, delle macchine». 

L’alternativa è quindi chiara: l’Europa con un’anima e un senso o quella artificiale e dogmatica?

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CARITÀ

25 anni del “Centro di Solidarietà Carità”

In occasione del Festival della Fantasia, il Castello Estense ha ospitato un’esposizione, con testi e immagini, sui 25 anni di vita del “Centro diSolidarietà Carità” (CSC) di Ferrara.

A fine anni ’80, sull’esempio del “Banco dos Alimentos” di Barcellona, nasce in Italia la “Banca del cibo” grazie a don Luigi Giussani e a Danilo Fossati, presidente dell’azienda “Star”. Nel 1989 nasce quindi la Fondazione Banco Alimentare, e dieci anni dopo, il 1° maggio 1999, a Ferrara e provincia, il “Centro diSolidarietà Carità”. I dati sono importanti – circa 930mila kg alimenti raccolti e oltre 11mila persone assistite, metà delle quali nel solo Comune di Ferrara – ma non bastano a raccontare il senso di quest’avventura. Gli scopi del CSC sono ancora gli stessi di 25 anni fa: distribuzione di alimenti e farmaci a persone e famiglie bisognose, ed educazione alla carità. Sì, perché non è sufficiente il pur necessario sostegno materiale: ciò che i volontari del CSC fanno è di condividere la propria vita, di cercare assieme il suo senso. La carità è dunque un evento di popolo, non solo durante l’annuale Colletta Alimentare. In mostra, diverse le testimonianze di volontari e volontarie,  di alcune comunità, enti e associazioni coinvolte, e di uno dei fondatori, Riccardo Canella.

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LAVORO

Partecipazione, popolo ed educazione: valori e proposte

Sabato 18 maggio, il Festival ha ospitato un Seminario sul lavoro proposto dalla Confraternita. Emmanuele Massagli, Presidente ADAPT e LUMSA, fra i promotori della proposta di legge della CISL “Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori”, ha spiegato come questa si ispira all’art. 46 della Costituzione italiana («[…] la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende»). Nella proposta rientra la presenza di rappresentanti dei lavoratori nel CdA dell’azienda, la redistribuzione degli utili, la formazione di Commissioni interne, la consultazione dei lavoratori su decisioni importanti delle imprese. 400mila le firme raccolte: dopo gli oltre 190 emendamenti proposti in Parlamento, ora la discussione  prosegue. Ruggero Villani, Direttore Confcooperative Ferrara, ha invece posto l’accento sull’importanza di valorizzare la «dimensione espressiva» del lavoro e non solo quella «acquisitiva/economica». La prima, infatti, è importante per la «fioritura umana della persona», oltre ad aiutare «l’incremento produttivo» dell’impresa stessa. Sono intervenuti anche Giovanni Maddalena, Università del Molise («le opere nascono dalla libertà della persona, e questa libertà dal desiderio della felicità, che è sempre un cammino verso l’ideale, verso il bene»), Enrico Tiozzo Bon, Presidente Federazione Centri di Solidarietà («le nostre opere nascono da un popolo, speranza per il Paese»), Roshan Borsato, Ca Foscari Venezia («nell’epoca del sovraccarico informativo e della digitalizzazione è importante educare al pensiero critico»).

La Fondazione Zanotti ha invece riflettuto sulle formelle dei mesi presenti sulla facciata del nostro Duomo cittadino.

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PACE

Capuozzo: «capire il dolore dell’altro, stare coi disarmati»

Di pace e perdono si è parlato domenica 19 in Castello, dopo i saluti di Marcello Corvino, Direttore artistico Teatro Comunale “Claudio Abbado”.

Atteso l’intervento di Toni Capuozzo, noto giornalista e conduttore televisivo, per una vita inviato in diversi teatri di guerra. «Ho sempre cercato di raccontare la guerra immaginando la sofferenza delle persone, tutte», ha spiegato. Per la pace, è fondamentale «tentare di capire le ragioni dell’altro e confrontarsi col loro dolore. Da quando faccio l’inviato in guerra, non riesco più a parteggiare: sto solo dalla parte dei civili, dei disarmati, non considerandoli numeri ma persone, ognuno con la propria vita, con un nome, cercando di raccontare la loro storia», per evitare «una fossa comune della memoria». Dopo il ricordo dell’amico e collega Franco Di Mare, recentemente scomparso, Capuozzo ha spiegato come la guerra sia «la morte dell’innocenza e della parola».

«Questo realismo umano di Capuozzo – ha riflettuto il Direttore Davide Rondoni – è un’alternativa sia all’astrazione e alla distrazione, sia al cinismo e alla disperazione. L’atto più grande della persona è il perdono: è il più grande atto di libertà, che solo l’essere umano – nessun altro animale – può compiere».

L’incontro sulla pace ha visto anche gli interventi di Jiries Qumsiyeh (Direttore del Ministero palestinese per il Turismo) da Betlemme, Franco Vignazia (artista), Ettore Soranzo (Associazione Santa Caterina da Siena ETS) ed Enrico Tiozzo Bon, che hanno raccontato la loro amicizia  tra Italia e territori palestinesi, nella comune fede cristiana.

Pubblicato sulla “Voce” del 24 maggio 2024

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Quelle vite nate grazie alle donne del SAV

18 Mag

8XMILLE, UNA FIRMA CHE FA BENE. Sono 236 le famiglie attualmente assistite dal Servizio di Accoglienza alla Vita di Ferrara. Vi raccontiamo la storia di una di queste donne aiutate, e di come i loro drammi vengono affrontati dalle volontarie, nell’ascolto e nel rispetto

di Andrea Musacci

La carità, se autentica, non ha bisogno, anzi rifugge ogni pubblicità. Per questo, raccontare ciò che rappresenta per il nostro territorio il SAV – Servizio di Accoglienza alla Vita è raccontare ciò che, con estrema discrezione e in modo anonimo, solo a tratti emerge, ma molto incide nella realtà. Senza nessuna vanteria, senza nessun intento moralistico o di proselitismo. Semplici testimonianze di donne aiutate, di bimbi nati anche grazie a un ascolto, a un sorriso, all’abbraccio di altre donne. Di una famiglia, appunto, com’è il SAV. 

Leggi l’articolo intero qui.

Pubblicati sulla “Voce” del 17 maggio 2024

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Palio, dopo 91 anni rivive un abito di S. Maria in Vado  

17 Mag
Caterina Guidi con l’abito di Iole Maffei

Il costume di seta viola con effetti dorati era appartenuto alla contessa Iole Maffei Gulinelli, che lo fece realizzare da Nives Casati. 40 anni fa lo acquisirono due collezionisti, che ora l’hanno donato alla Contrada 

di Andrea Musacci

Un piccolo gioiello di moda. Un abito di seta tanto desiderato, quindi indossato, ma che, per vicissitudini varie, è rimasto per 90 anni custodito, nascosto.

È la storia di un abito da donna di ispirazione rinascimentale appartenuto alla contessa ferrarese Iole Maffei Gulinelli. Lo fece disegnare appositamente da Nives Comas Casati – grande stilista protagonista della Ferrara degli anni ’30 del secolo scorso -, per sfoggiarlo nel 1933 in occasione delle celebrazioni del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto, momento storico di rinascita del Palio estense. Circa 40 anni fa l’abito venne poi acquisito da una coppia di collezionisti della nostra città, Claudio Gualandi e Linda Mazzoni, che ora lo hanno donato alla Contrada di Santa Maria in Vado. Sì, perché i colori dell’abito richiamano proprio quelli del gruppo di Borgovado. Ma ripercorriamo questa affascinante storia.

LA RINASCITA: GUIDO FACCHINI E NIVES CASATI

Come detto, nel 1933 a Ferrara si svolgono le celebrazioni del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto. Proprio in vista di questo evento epocale, a fine degli anni ‘20 a Guido Angelo Facchini viene affidato il compito di studiare la tradizione del Palio, per farla rivivere. Dopo intensi studi, Facchini riesce a dimostrare che il nostro Palio ha radici storiche antichissime, anzi è il più antico d’Italia: tracce di una vera e propria manifestazione popolare “in festo beati Georgi” (per la festa di San Giorgio) risalgono agli Statuti del 1279. Il “papà del Palio ferrarese” – così viene chiamato Facchini – traccia a tavolino i confini di Contrade e Borghi, individuandone i nomi, costruendo il Regolamento e disegnando di suo pugno le bandiere e i simboli del Palio che saranno quasi in toto ripresi da quello contemporaneo. Facchini poi individua in Nives Casati la stilista a cui affidare il compito di disegnare e realizzare le divise delle Contrade, che furono un vero vanto per la città. Nives Casati era figlia della triestina Itala Dudovich, sorella di Marcello, noto cartellonista che, non a caso, proprio in quegli anni, circa nel 1931, realizzò per il calzaturificio Zenith di Ferrara la celebre pubblicità dell’uomo che fuma adagiato nella scarpa.

GLI ABITI VENDUTI AL PORTOGALLO

Un vanto, quello degli abiti che, però, troppo presto, si trasforma in peso, vergogna di cui sbarazzarsi. Lo spiega bene Gian Paolo Bertelli nel suo libro “I Costumi Del Palio Di San Giorgio Di Ferrara (1933-1952)”: «nel 1935 il Comune prese in carico tutte le attrezzature ed i costumi che erano stati utilizzati per la manifestazione. Dopo il periodo bellico, nel 1946, qualcuno si accorse di questo materiale che era stato ammassato alla rinfusa nella chiesa della Consolazione in via Mortara» e «da subito l’amministrazione comunale si dimostrò propensa a disfarsene in quanto il Palio era considerato (…) una manifestazione scarsamente culturale ed educativa». Inoltre, «le autorità non potevano sopportare che a riscoprirlo fosse stato Italo Balbo e le altre autorità fasciste dell’epoca». Viene rifiutata una prima offerta fatta da una casa d’arte di Firenze, la Ceratelli, poi viene invece accettata una più sostanziosa proposta di acquisto – 2 milioni e mezzo di lire – da parte della Universalia, società cinematografica romana. Ma nella primavera del ’47 la Prefettura di Ferrara blocca la transazione. Ormai, però, prosegue Bertelli, «le decisioni a livello politico erano state prese e la vendita era ormai scontata, venne indetta una nuova gara e questa volta entrò in lizza anche il Comune di Lisbona in Portogallo che proprio nel 1947 festeggiava l’ottavo centenario della nascita della città e pertanto era interessata all’acquisto dei costumi e degli accessori per poter organizzare il corteo storico». Ci furono nuove «proteste di alcuni giornali locali poi si dovette arrendere anche la Prefettura ed il contratto venne stipulato, per due milioni e novecentomilalire. Il console portoghese – prosegue Bertelli – acquistò il materiale che era stato utilizzato per rappresentare il primo Palio di San Giorgio effettuato dopo l’esilio degli estensi. Il ricavato sembra sia stato devoluto (si spera interamente) alla scuola d’arte Dosso Dossi che nel ùprimo dopoguerra versava in condizioni precarie». 

Nel 1952 vengono rinvenuti alcuni oggetti, forse di proprietà dell’Ente del Turismo di Ferrara, nel Deposito disinfezione del Comune in via Mortara: alcune selle, gualdrappe, guanti, qualche costume ed alcuni labari. Fino alla fine degli anni ’60 vi fu una vera e propria rimozione storica sul Palio, dovuta al suo legame stretto col regime fascista. Di questa damnatio memoriae è stato vittima anche Guido Angelo Facchini, riabilitato lo scorso dicembre con la trasformazione dell’Ente Palio in Fondazione Palio Città di Ferrara E.T.S. dedicata proprio alla sua memoria e a quella di Nino Franco Visentini, Consigliere Comunale DC che fece nuovamente rinascere questa tradizione 60 anni fa.

Iole Maffei con l’abito

L’ABITO DI IOLE

Come accennato, Iole Maffei Gulinelli (morta nel luglio 2011), essendo di stirpe nobile, molto probabilmente fu in grado di farsi disegnare personalmente l’abito oggetto di questa nostra storia, riuscendo così a conservarlo. I luoghi dove ha vissuto, o comunque appartenuti alle famiglie di cui porta i cognomi, si trovano in via Savonarola, proprio a pochi passi dalla Basilica-Santuario di Santa Maria in Vado: Palazzo Giglioli-Maffei è all’incrocio con via Bassi (in via Savonarola, 29); di fronte si trova Palazzo Gulinelli. Un altro Palazzo Maffei (Palazzo Bonacossi-Maffei-Boldrini, dove c’è l’edicola con la Madonna dei Facchini) si trova lì vicino, in via Zemola/angolo via Paglia.

L’abito rinascimentale di Iole Maffei è di seta pura, viola con cangianti effetti color oro. All’interno è doppiato con un tessuto di lino, mentre all’esterno presenta nastri di velluto e ricami di passamaneria dorati e perle. La seta è pregiata ma l’abito, rispetto ad altri, non risulta eccessivamente appariscente. È di gusto neogotico, una personale interpretazione, pur non precisissima, degli abiti originali rinascimentali: forse in questo la Casati si era ispirata ad alcuni affreschi di Schifanoia.

Assieme all’abito c’è un copricapo a velo e due stivaletti originali, in panno viola foderato con pelle di capretto e tacco a rocchetto tipico della moda degli anni Trenta. Sotto lo stivaletto destro c’è il segno – un piccolo solco – lasciato dalla staffa. 

IN DANZA DOPO 90 ANNI

Nei primi anni Ottanta, Linda Mazzoni e Claudio Gualandi acquisiscono l’abito. I due erano già appassionati e collezionisti di abiti antichi, lei gestiva ancora il negozio Circus di artigianato artistico in via Mazzini (aperto dal 1979 al 1987). «Inizialmente – ci raccontano – credevamo fosse un abito di carnevale. Poi abbiamo visto che era di color viola e oro e abbiamo pensato potesse essere legato alla Contrada di Santa Maria in Vado». 

Nel 2019 due contradaioli di Santa Maria in Vado, Davide Nanni e Roberto Pavani, vengono ad ammirare l’abito, riconoscendo in esso un pezzo della loro storia: Nanni ne scrive sul periodico della Contrada, “L’Unicorno”, Pavani recupera alcune foto in bianco e nero di Iole Maffei a cavallo.

E un paio di mesi fa Gualandi e Mazzoni decidono di donare l’abito alla Contrada, che ha intenzione di conservarlo ed esporlo in una teca apposita.

La mattina dello scorso 14 aprile nell’Omaggio al Duca della Contrada di Santa Maria in Vado in piazza Castello l’abito è stato indossato, dopo 91 anni, da una dama, Caterina Guidi. La stessa, l’ha sfoggiato lo scorso 6 maggio, danzando con Mauro Biasiolo in Pinacoteca Nazionale durante un evento organizzato da Bal’danza, “Il labirinto di Isabella”, con danze a cura del gruppo “L’Unicorno”.

Una storia affascinante, questa, il cui lieto fine è stato reso possibile grazie alla passione per la tradizione e per la bellezza, e al forte senso di appartenenza dei suoi protagonisti.

Pubblicati sulla “Voce di Ferrara-Comacchio ” del 17 maggio 2024

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Ferrara e il teatro: il Cortile e il Palazzo dove tutto ebbe inizio

11 Mag

Tra l’attuale Piazza Municipale e la residenza degli Estensi nacquero il teatro classico italiano e, grazie all’Ariosto, la commedia italiana. La mostra di Gualandi al Comunale

di Andrea Musacci

Ferrara città del Rinascimento significa anche «culla del teatro italiano», come la descrisse nel 1929 Gianna Pazzi nel suo Ferrara antica e Ferrara d’oggi (1000-1927). A questa storia gloriosa e non sufficientemente nota, ha dedicato un ampio lavoro artistico e documentaristico l’illustratore Claudio Gualandi, autore della mostra Ferrara teatro della città nelle illustrazioni di Claudio Gualandi. Un progetto speciale, promosso dal Teatro Comunale Claudio Abbado (insieme a Ferrara Arte e al Comune di Ferrara) per festeggiare i 60 anni dal restauro che lo fece rinascere.

La mostra di Gualandi si trova sia nella Rotonda Foschini – dove resterà visitabile sino al 15 settembre – sia nel Ridotto del Teatro, dov’è possibile visitare le opere dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 (previa prenotazione al numero 0532-202675). Per l’occasione, è stato anche prodotto un catalogo con testi di Giacomo Battara e Linda Mazzoni, e con introduzioni dell’Assessore Marco Gulinelli e di Moni Ovadia (Direttore Fondazione Teatro Comunale di Ferrara).

È il 2 settembre 1798, in piena occupazione francese, quando inaugura l’allora Teatro Nazionale, progettato da Cosimo Morelli e Antonio Foschini, con la rappresentazione de Gli Orazi e i Curiazi. Nel 1964, come detto, il Teatro viene restituito rinnovato alla città dopo quasi 20 anni di disuso: il 31 ottobre si alza nuovamente il sipario, con un concerto dell’orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Nino Sanzogno.

GLI ESTE E PRISCIANI: ALBORI

Ma il teatro a Ferrara nasce con la signoria di Ercole I d’Este (1431-1505), che consolida l’idea di teatro come forza propagandistica del potere: per questo, le rappresentazioni della commedia latina vengono recitate in volgare. Testo fondamentale per capire questo periodo rimane Spectacula, nel quale Pellegrino Prisciani (c. 1435-1518) illustrava l’architettura teatrale dell’epoca e soprattutto gli edifici adibiti ad accogliere le rappresentazioni.

QUEL CORTILE DOVE NACQUE IL TEATRO FERRARESE E IL TEATRO CLASSICO ITALIANO

Nel 1486 i Menecmi plautini vengono allestiti nel Cortile Nuovo di Palazzo Ducale (l’attuale Piazza del Municipio) a ridosso del Teatro Estense (oggi Sala Estense). Questa rappresentazione segna l’inizio della tradizione teatrale ferrarese e la nascita del teatro classico italiano. Nel Cortile Nuovo venivano erette eleganti tribune di legno per gli spettatori invitati, mentre la corte assisteva agli spettacoli dai piani alti del Palazzo Ducale. Il palcoscenico e le gradinate lignee venivano smontati dopo ogni spettacolo: solo qualche macchina teatrale veniva riutilizzata. Fra gli spettatori vi era un giovanissimo Ludovico Ariosto. 

Il rinascimentale Teatro di Cortile, nel Novecento diventerà quello dei burattini, dei funamboli, dei buskers. Protagonista sarà sempre Piazza Municipale: qui, ad esempio, verrà rappresentato l’Orlando furioso di Luca Ronconi (1969) e il Quijote! (1990) del Teatro Nucleo.

PALAZZO DUCALE, ARIOSTO E LA COMMEDIA ITALIANA

Ma lo stesso Palazzo Ducale diventerà di lì a breve luogo simbolo del teatro italiano: la Sala Grande che, lunga 70 metri, occupava il piano nobile ed era affacciata sull’attuale corso Martiri della Libertà (dal Volto del Cavallo a piazza Schifanoia) vide infatti la nascita della Commedia italiana, con la rappresentazione della Cassaria dell’Ariosto avvenuta il 5 marzo 1508 (con scenografia di Pellegrino Prisciani). Da quel momento Ariosto diviene protagonista della vita teatrale alla corte estense, proprio mentre compone l’Orlando furioso: fu proprio Ariosto a suggerire ad Alfonso I d’Este di fabbricare nella Sala Grande del Palazzo Ducale un teatro stabile, il primo di questo tipo in Italia, forse in Europa: nel 1531, infatti, con l’appoggio dell’allora principe Ercole d’Este (futuro Ercole II, figlio di Alfonso I), diviene un vero e proprio spazio scenico (divenendo Teatro Ducale di Ferrara), e lì viene allestito un palco con scena fissa raffigurante case, chiese, botteghe tipiche della città. Ma avrà vita breve: nella notte del 31 dicembre 1532 un incendio provocato da una spezieria sottostante distrugge la Sala Grande. Questo evento scuote molto l’Ariosto: Gualtiero Medri nella sua Il volto di Ferrara nella cerchia antica (1963) spiega come «il dolore che egli provò alla notizia del disastro fu tale che influì ad aggravare e accelerare il corso della malattia che lo affliggeva e forse causarne la fine». Con Ercole II e Renata di Francia (1534-1559) le rappresentazioni entrano poi in una fase di declino.

UN GIOIELLO VICINO S. PAOLO

Due parole a parte merita il dimenticato Teatro Scroffa: inaugurato nel 1692 e demolito nel 1810, venne progettato e costruito nell’attuale corso Porta Reno (a quei tempi via San Paolo), circa all’altezza della chiesa da poco riaperta, dall’architetto Francesco Mazzarelli. Quest’ultimo fu protagonista della ristrutturazione settecentesca (1712-1728) della Cattedrale di Ferrara, della progettazione del vicino Palazzo Arcivescovile e dell’ex chiesa dei SS. Cosma e Damiano di via Carlo Mayr, consacrata nel 1738 e oggi luogo di culto della comunità ortodossa rumena. Fin dalla prima metà del Settecento, il Teatro Scroffa fu il teatro principale di Ferrara, sede privilegiata per le rappresentazioni dei “comici”. 

Un altro tassello che ci restituisce l’immagine di un mosaico complesso, variegato, ancora in buona parte da studiare e divulgare. Ferrara è, nel midollo, anche teatro. La storia del teatro non può prescindere da Ferrara.

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Il teatro di ricerca nato dopo il ’68

Tanto il fermento in città dopo la riapertura del Comunale, negli anni della contestazione.

Fra le compagnie spontanee ferraresi, Die Spieler e Teatro Empirico: ecco la loro storia

L’amore di Claudio Gualandi e Linda Mazzoni per il teatro emerge, nella mostra e nella ricerca storica, in tutta la sua limpidezza. E fu, in giovinezza, una passione che coinvolse Gualandi in prima persona. Dopo aver studiato scenografia all’Accademia di Venezia, infatti, entra a far parte del Collettivo Teatrale Die Spieler (Il giocatore), occupandosi di scene e costumi: erano i primi anni Settanta. Dalle informazioni dateci dallo stesso Gualandi e in parte trovate nel volume Teatro Comunale di Ferrara 1964-1984. 20 anni (Teatro Comunale di Ferrara / Comune di Ferrara, 1985, con progetto grafico dello stesso Gualandi), abbiamo ricostruito un pezzo di quel fermento nel periodo della contestazione e sicuramente incentivato dalla riapertura, nel ’64, del Teatro Comunale. Tra fine anni ’60 e inizio anni ’70 nascono, infatti, in città e in provincia alcune compagnie teatrali spontanee, sostenute dall’ATER (Associazione Teatrale Emilia-Romagna), fra cui appunto Die Spieler. Con Gualandi vi è Andrea Barra, regista, Paolo Natali (ex Vicedirettore del Teatro Comunale) come musicologo e Paolo Bertelli come scenografo.

Tre le commedie di Die Spieler portate in scena in Sala Estense (all’interno della programmazione del Teatro Comunale): la prima, Rivoluzione alla sud-americana del brasiliano Augusto Boal, parodia sul potere portata in scena il 23 e 24 aprile 1969 con attori Gianni Rizzati, Aureliano Bandiera e Giulio Felloni;Histoire du soldat di Igor Stravinskij (su testo di Ramuz, “mescolata” con La leggenda del soldato morto di Bertolt Brecht), portata in scena il 29 e 30 aprile 1970 con sul palco Giulio Felloni e Marco Benini; Non consumiamo Marx di Luigi Nono, che registrò i suoni e le voci delle manifestazioni del Maggio francese mescolandoli con musiche dodecafoniche, con testi di Cesare Pavese. Non consumiamo Marx andò in scena il 24 marzo 1971, con le voci di Liliana Poli, Kadigia Bove e Edmonda Aldini. Un’altra compagnia nata in città in questi anni è Teatro Empirico che in Sala Estense (all’interno degli spettacoli del Teatro Comunale) il 29 marzo 1969 porta in scena Direzione memoria di Corrado Augias, il 7-8 febbraio 1970 La lezione di Eugene Ionesco e il 18 marzo 1971 Recitare di Dacia Maraini.

Gualandi curò anche le scene della Compagnia Teatro Zero per Proibito e La finestra di Tennessee Williams e Georges Feydeau, rappresentate in Sala Estense il 10 marzo 1971. Poi, Gualandi e Linda Mazzoni, all’interno della Rassegna Internazionale Aterforum, svolsero i ruoli di consulenti per l’ambientazione e l’arredamento del concerto Varieté Liberty di Hubert Stuppner, tenutosi al Comunale il 3 giugno 1983.

a.m.

Pubblicati sulla “Voce” del 10 maggio 2024

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Ricchezza e verità nell’altro: è nostro ospite oppure ostaggio?

9 Mag

Padre Claudio Monge a Ferrara: «accettiamo la nostra mancanza, scegliamo lo sguardo di Dio»

L’altro non come «preda di cui appropriarci» ma «depositario di ricchezza e verità da far emergere assumendo lo sguardo di Dio». È questa la visione che a Ferrara ha proposto il frate domenicano padre Claudio Monge, Direttore del Centro Studi DoSt-I (Dominican Study Institute) di Istanbul, intervenuto a Casa Cini lo scorso 2 maggio per la Scuola diocesana di teologia per laici. Un altro ospite d’eccezione che ha richiamato un centinaio di persone, tra presenti e collegati on line, professore associato alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (Fter) e all’Istituto di Studi Ecumenici “S. Bernardino” (ISE) di Venezia, e da dieci anni Consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.

UNA BIOETICA GLOBALE CONTRO LA VISIONE ECONOMICISTICA

Padre Monge è partito dall’analisi del presente: «è necessario – ha riflettuto – passare da una bioetica dei comportamenti a una bioetica globale», cioè a un approccio che non si limiti a tutelare la vita umana ma si preoccupi anche «della qualità della stessa, della sua crescita spirituale». Non bisogna limitarsi, perciò, «alla difesa della vita all’inizio e alla fine: tra l’ostetrica e il becchino c’è la vita nel suo sviluppo e nelle sue fragilità». Padre Monge si è soffermato, a tal proposito, sulla cura e l’assistenza alle persone malate, denunciando «lo smantellamento, in Italia e non solo, del sistema sanitario pubblico, ad esempio con la proposta di Pronto soccorsi privati per sopperire alle mancanze di quelli pubblici». La salute è un «bene comune» ma oggi domina una «visione economicistica» della sanità, una «visione funzionalistica, che monetizza i rapporti, guidato da un orientamento antropologico che riduce l’umano al consumo, feticizzando il denaro». Tutto – secondo questa visione – «deve avere una resa immediata, ridicolizzando ogni visione d’insieme». Ciò è molto evidente anche nel rapporto col creato, dove assistiamo a uno «sfruttamento selvaggio che apre a scenari di nuove guerre e di esodi sempre più di massa». Tutte queste crisi sono – ha proseguito il relatore – «l’epifenomeno di una più radicale crisi antropologica, anche se spesso è parte del mondo cattolico a non riconoscere la gravità e l’urgenza di queste crisi», pur ripetutamente denunciate da papa Francesco. Crisi che sono spia di «un Occidente come culla vuota», che nasconde cioè un grande vuoto di senso.

MENDICANTI E CONTEMPLATIVI

Prendersi cura dell’umano e del creato è per padre Monge «un atto profondamente religioso e spirituale»: dobbiamo ritornare all’idea dell’umano (Adam di Genesi, cioè il terrestre non ancora differenziato sessualmente) «come strettamente legato alla terra» e quindi rapportarci al creato «non come a una preda ma nei termini di relazione». Lo stesso umano è nella sua essenza «relazione», com’è evidente nell’episodio di Genesi in cui Adamo ed Eva nascono dalla comune radice Adam (e non la seconda dal primo, come si crede): solo una «mancanza», dunque, «apre il soggetto all’alterità», solo il proprio essere «feriti e mendicanti» ci fa scoprire l’altro e la differenza, «quindi anche noi stessi». Adamo diventa tale, cioè maschio, solo dopo la nascita della femmina, cioè di Eva, per differenza, distinzione.

Solo dall’alterità, dunque, e dal «riconoscimento dell’altro come dono può nascere il dialogo, la relazione, la cura». Ma questo riconoscimento non è scontato: se non avviene, «se non sopportiamo e accettiamo la nostra mancanza, cerchiamo di appropriarci dell’alterità», quindi di annullarla. E, inoltre, nell’incontro con l’altro non ci è chiesto nemmeno di «annullare le proprie ricchezze, di rinnegare noi stessi»: sa accogliere solo chi ha un’identità.

In ogni caso, l’altro va guardato «con lo sguardo di Cristo, uno sguardo di amore che fa emergere l’essenza dell’altra persona»: alla visione economicistica va, perciò, contrapposta una «visione mistico-contemplativa, capace di vedere la grandezza sacra dell’altro, di vederlo con lo sguardo di Dio, di vedere Cristo in lui». Solo su questo può fondarsi una vera fraternità, «per non cadere nella mera filantropia o nel sociologismo».

COME LEVATRICI

Oggi, invece, nell’epoca dei social, le relazioni tendono a essere «escludenti e costringenti»: non accogliamo l’ospite ma «creiamo ostaggi». L’ospitalità, invece, è «la forma propria dell’umanizzazione», è ciò che permette che l’estraneo «non diventi nemico, è ciò che apre a una sovrabbondanza divina». Accogliere, ospitare significa anche «riconoscere noi stessi come stranieri». «Stranierità, gratuità e mutua ospitalità» sono quindi i tre criteri fondamentali «per vivere una logica nuova», non di appropriazione né di sfruttamento. È la logica del «prendersi cura, per far in modo che la vita possa prosperare, per far emergere maieuticamente – come levatrici – le ricchezze e le verità che Dio ha depositato dentro gli altri». 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 10 maggio 2024

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«Utero in affitto reato universale, partì tutto dalla mia denuncia»

3 Mag

Il giurista Gianfranco Amato è intervenuto a Ferrara: «ci vuole una rivoluzione cristiana e culturale»

«La battaglia nel nostro Paese per rendere l’utero in affitto reato universale è nata da una mia audizione in Senato». Gianfranco Amato (nella foto, a sx, assieme a Marco Romeo), Presidente nazionale dei “Giuristi per la vita” si “intesta” così la paternità di una lotta che accomuna – caso raro sui temi bioetici – il mondo cattolico con parte di quello laico. Amato ne ha parlato a Ferrara lo scorso 26 aprile in occasione del secondo Laboratorio di Sussidiarietà della Scuola di politica organizzata dalla Fondazione Zanotti. Tema, “La dignità infinita della persona umana radice di una costruzione sociale libera”, per un appuntamento che ha richiamato un centinaio di persone nel Collegio Borsari di via Borsari a Ferrara. Amato ha tenuto poi altri due incontri nel Ferrarese: la sera di sabato 27 nella sede della Manifattura dei Marinati a Comacchio ha relazionato su “La devozione della Madonna a Comacchio e l’educazione del popolo”, mentre la sera di domenica 28 nella parrocchia di Jolanda di Savoia ha riflettuto su “La Vergine di Guadalupe e la famiglia”.

DIFENDERE L’OVVIO: LA VITA NON È IN VENDITA

«Nel febbraio 2023 – ha raccontato Amato – vengo convocato dalla IV Commissione Permanente del Senato sulle Politiche dell’Unione Europea, per un’audizione riguardante un Regolamento UE nel quale si sostiene che, in virtù del principio di libera circolazione dei cittadini all’interno dell’UE, se due cittadini dello stesso sesso hanno “avuto” un figlio nella stessa UE, l’Italia deve riconoscere questo legame di filiazione. Nella mia audizione alla Commissione dico chiaramente che questo porterebbe a legittimare la pratica dell’utero in affitto». Le sue parole furono chiare: «Risulta assolutamente necessario che il Parlamento dia corso alle proposte che puniscono la maternità surrogata anche se commessa all’estero e solleciti l’adozione di Convenzioni internazionali che definiscano tale pratica come reato universale». Da qui nacque il successivo dibattito poi sfociato in un disegno di legge proposto dalla deputata di FdI Carolina Varchi e passato alla Camera lo scorso luglio. Ora si attende anche l’approvazione da parte del Senato.

Quella della mercificazione del corpo della madre e del nascituro risale ormai ad alcuni decenni fa: ai primordi della GPA, ha spiegato Amato, «gli ovociti venivano scelti tra le studentesse dei campus USA, cioè tra giovani sane e intelligenti». Alle quali si prometteva un lauto guadagno, fino a 20mila dollari. Poi, però, il commercio del corpo della donna e di sue parti si è talmente sviluppato che gli ovociti si possono tranquillamente acquistare on line: è ciò che, ad esempio, denuncia il documentario “Eggsploitation” (2010) di Justin Baird e Jennifer Lahl. Le conseguenze vanno, in molti casi, dalla sterilità alla morte. A questo sfruttamento si accompagna quello della donna che affitta il proprio utero, «impegnandosi contrattualmente anche ad abortire il proprio “prodotto”» (così viene chiamato il bambino che porta in grembo) «nel caso sia un po’ “difettoso”». Una nuova forma di schiavitù. Nel 2015 una celebre coppia omosessuale, Dolce&Gabbana, rilasciò un’intervista a Panorama che fece molto scalpore: «Non abbiamo inventato mica noi la famiglia», disse Dolce in un passaggio. «L’ha resa icona la Sacra Famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. (…) Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni». Una battaglia, dunque, non solo dei cattolici, e non solo degli eterosessuali, ma di chiunque, usando la retta ragione, abbia a cuore la natura e non il mercato, la civiltà e il rispetto delle persone. Una cultura, questa occidentale, che nasce col Giuramento di Ippocrate e trova riscontro in maestri come Platone e Aristotele, o Confucio dall’altra parte del mondo. E che, naturalmente, ha nella Rivelazione di Cristo il suo pieno compimento.

LE BASI DELLA VITA E DELLA FAMIGLIA

Un amore per la realtà nella sua bellezza elementare, nella sua essenza. Essenza oggi messa sempre in dubbio da ideologie pericolose, ma difesa dalla stessa Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 dove, all’articolo 16, è scritto: «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato». Così come ribadito nell’articolo 29 della Costituzione italiana.

La risposta a questo presente alienante e mercificante? Per Amato la possiamo trovare nell’insegnamento di San Benedetto da Norcia e nella sua Regola, base della nostra civiltà, fondamento della moderna santità e del lavoro come nobilitante la persona. Quattro sono, quindi, le rivoluzioni ancora oggi necessarie per ricostruire la società dalle sue macerie: «la rivoluzione della croce, quella della riscoperta delle proprie radici cristiane, quella della cultura e quella del lavoro. Dobbiamo creare – ha concluso Amato – piccole comunità di famiglie attorno alla fede in Cristo, che sappiano cos’è la cultura, trasmetterla, e libere di educare i propri figli senza indottrinamenti esterni».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 3 maggio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio