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Rigenerazione urbana sì, ma contro le opposte retoriche

5 Mar

Il libro di Romeo Farinella “Le fragole di Londra”

di Andrea Musacci

Né retorica sviluppista né retorica della città smart, ma seri progetti per riappropriarsi in modo democratico delle proprie città, quindi delle proprie vite.

È stato un pomeriggio di importanti riflessioni quello svoltosi lo scorso 25 febbraio nell’Oratorio San Crispino al secondo piano della libreria Libraccio diFerrara.L’occasione, la presentazione del libro dell’architetto-urbanista Romeo Farinella, “Le fragole di Londra”, con gli interventi del sociologo di UniFe Alfredo Alietti e dell’ex Ministro Patrizio Bianchi (titolare Cattedra Unesco UniFe), e l’introduzione di Diego Carrara (Direttore ACER Ferrara).

UNA CITTÀ, DUE MONDI

«La tendenza che non si arresta – ha detto Farinella – è quella di un mondo sempre più urbanizzato, con una popolazione sempre più concentrata in grandi agglomerati urbani». Già dalla rivoluzione industriale, le grandi città andavano strutturandosi in quartieri poveri dove vivevano quei lavoratori «che producevano la ricchezza per i ricchi» residenti in altre zone della città. È in questo contesto che nasce l’urbanistica, con l’obiettivo di «curare questo modello malato di città». Emblema di ciò erano le workhouse, gli “ospizi dei poveri” nati in Inghilterra già nel XVII secolo e impostati sul modello del panopticon, nelle quali, ad esempio i figli vivevano separati dai genitori. Una visione paternalistico-repressiva frutto della nascente mentalità capitalistico-borghese che vedrà come naturale «l’arricchimento di una classe a spese dell’altra, salvo poi – grazie a vaghi “doveri morali” – poter aiutare le classi meno abbienti attraverso la filantropia». Ma «la lotta strutturale alle disuguaglianze» è ben altro, ha aggiunto Farinella. Come già in nuce vi era la questione ambientale con «l’uso massiccio del carbone».

Oggi, dunque, prosegue questa «migrazione di massa» dalle aree rurali alle città, dove nascono inevitabilmente sempre più “quartieri informali” (ad es. le favelas), che «vanno governate» ma sono comunque «luoghi di vita, vivaci, creatori di socialità».

«La soluzione a ciò – ha però specificato con forza il relatore – non sono ipotesi astratte di rigenerazione urbana, progetti eco-tecnologici, di città smart (anche in Africa ne stanno costruendo una 20ina), tipiche di chi vive nel benessere» e non conosce la realtà di queste masse di persone.Retoriche, queste, concepite su una «forte privatizzazione di spazi pubblici, progetti selettivi pensati per i ricchi». Esempi di ciò sono New Cairo in Egitto, The Line in Arabia Saudita, Dubai negli Emirati Arabi Uniti.

TUTTI SULLA STESSA BARCA?

Un’altra retorica l’ha intesa smontare Alietti: queste e altre «dinamiche critiche» che colpiscono le metropoli – ha riflettuto il docente -, «colpiscono allo stesso modo le piccole e medie città».Ne è riprova il fatto che la tremenda crisi economica del 2008 nacque da «una bolla immobiliare riguardante ogni tipo di città». Allo stesso modo, «le conseguenze della crisi climatica colpiscono indistintamente le une e le altre».

Per questo motivo, «il progetto “città di 15 minuti”» (divenuto famoso grazie all’ex Sindaca di Parigi Anne Hidalgo), nella quale tutto dovrebbe essere raggiungibile a piedi o in bicicletta, è sì interessante ma cozza con la vita reale di molte persone «costrette a spostarsi per il lavoro o i figli».Ciò che serve è «una seria riappropriazione democratica della città, contro queste retoriche pseudoprogressiste e contro l’opposte retorica della crescita smisurata».

IL SENSO DELLA CITTÀ

Dalla doppia critica a questa retorica dello sviluppo e a quella della sostenibilità («mera pezza per non domandarsi come si è arrivati a questo punto») ha preso le mosse Bianchi nel proprio intervento, ricordando come uno degli uomini più potenti del mondo sia «l’immobiliarista» Trump, incarnazione del modello delal gentrificazione (di cui il video realizzato con l’IA – e divenuto virale – su “Trump GazaCity” è solo l’ultima, delirante espressione).

«Dobbiamo – ha ribadito Bianchi – riappropriarci della città, che significa anche ritrovare il senso di ciò che è città, quindi riappropriarsi della propria vita e della propria comunità».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 marzo 2025

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Diventa ciò che sei: individuazione e collettivo secondo Widmann 

26 Feb

Claudio Widmann, noto analista junghiano, ne ha parlato a Ferrara ospite di Confcooperative: «il diventare ciò che si è, è un processo molto complesso»

Il collettivo come aspetto ambivalente che a un tempo ci delinea e ci conforma. E la sofferta e complessa tensione tra questo e il principio di individuazione.

Su questo ha riflettuto con rara chiarezza espositiva Claudio Widmann, analista junghiano, che lo scorso 18 febbraio a Libraccio Ferrara ha presentato il suo ultimo libro libro “L’Individuazione. Principio, processo, fine”. L’incontro è stato organizzato da Confcooperative Ferrara e fa parte di un ciclo di appuntamenti sul rapporto individuo-collettività. Dopo la presentazione di Ruggero Villani, Direttore di Confcooperative e Presidente della Scuola di territorio, Chiara Bertolasi (vice presidente di Confcooperative e portavoce del Forum del Terzo settore ferrarese) ha introdotto e intervistato Widmann.

«Il principio di individuazione nasce con Duns Scoto», ha spiegato quest’ultimo, dalla distinzione fra la sostanza, substantia di carattere generale e la nostra substantia particolare, appunto il principio di individuazione. «Noi esseri umani siamo fondamentalmente collettivi», ha aggiunto: la collettività è un principio antico, ineliminabile. La substantia generale è dunque questa «immaterialità che sta sotto, che sta dietro le specificità». Ognuno di noi, quindi, «prima di essere individuato è collettivo». In senso nietzschiano, l’”altruismo” significa il perdere sé stessi negli altri, il conformarsi: è, dunque, il contrario del principio individuativo. «Nel momento in cui diventiamo individuali, depauperiamo il collettivo, espropriamo qualcosa al collettivo, lo riduciamo»; ma abbiamo il dovere morale di «risarcire il collettivo» (in quanto siamo anche il frutto di tutto ciò e di coloro che ci hanno preceduto), e questo risarcimento deve avvenire «portando ad esso quel di più che abbiamo, che ci contraddistingue».

«Oggi – ha proseguito Widmann -, la pressione della suggestione sociale è particolarmente forte; si pensi, ad esempio, agli influencer e agli opinion maker». Dall’altra parte, però, la «resistenza individuale è molto più forte rispetto al passato». Ognuno di noi, insomma, ha un’identità collettiva, ma la «vocazione individuativa, forza individuale» (o «sentimento di personalità») «non è mai stata così forte come nel presente». Rimane, però, il fatto che – riprendendo Jung – l’individuazione di per sé sia «un processo, un divenire, un tendere verso, integrando aspetti della personalità tra loro diversi e spesso contraddittori». Un cammino difficile e ad alto rischio di fallimento, ma necessario per diventare davvero donne e uomini. Per diventare ciò che siamo.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 febbraio 2025

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«Donne di speranza: guardiamo coi loro occhi»

14 Feb


Il libro “Senza paura” di Dalia Bighinati: a Casa Cini l’incontro col Vescovo su dono e libertà

Storie di donne «controcorrente» che sanno che la vera libertà sta nella relazione e nel dono, non nell’apparire fine a sé stesso. È questo uno dei grandi insegnamenti che ci ha regalato la giornalista Dalia Bighinati col suo libro “Senza paura. Geniali, libere, coraggiose: Ventisei ritratti di donne che non si sono arrese” (Book ed., 2024), presentato nel pomeriggio dello scorso 8 febbraio a Casa Cini, Ferrara. Per l’occasione, Bighinati ha dialogato col nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego in un incontro introdotto da mons. Massimo Manservigi, Direttore de “La Voce” e dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali.

L’incontro è stato introdotto da Massimo Scrignoli della Book editore che ha pubblicato il volume: «come tutti i veri libri – ha detto -, anche questo di Dalia è capace di insegnare e dialogare col lettore, accompagnandolo nelle sue storie. È qualcosa destinato a durare nel tempo».

LINA E LE ALTRE, LIBERE E LIBERANTI

Suor Eugenia Bonetti e Suor Rita Giaretta sono fra le protagoniste del volume di Bighinati, religiose da molti anni impegnate nell’aiuto a donne vittime di tratta, salvate dall’inferno della prostituzione. «Nel mondo sono 60 milioni le persone vittime di tratta, di cui la metà minorenni», ha esordito mons. GianCarlo Perego nel suo intervento. Tratta finalizzata – appunto – in particolar modo alla prostituzione, al commercio di organi e allo sfruttamento lavorativo. Non a caso, l’8 febbraio ricorreva la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta, voluta nel 2015 da papa Francesco, nel giorno del ritorno al Padre, avvEnuto nel 1947, di Giuseppina Bakhita, proclamata santa il 1º ottobre 2000 da papa Giovanni Paolo II.

IlVescovo ha poi parlato della figura della sen. Lina Merlin, socialista cattolica, prima donna a essere eletta in Senato, il cui nome è legato alla legge 75/1958 (nota come Legge Merlin), con cui venne abolita la regolamentazione della prostituzione in Italia: «una donna libera – ha detto il Vescovo – che ha lavorato e lottato per la libertà. Come libere e geniali furono anche le altre donne dell’Assemblea Costituente». Molte delle donne liberate dalla prostituzione grazie alla Legge Merlin, «divennero madri, lavoratrici, e una parte religiose, anche di clausura». E così oggi molte migranti «sono divenute madri, lavoratrici, imprenditrici». Nel nostro tempo, però, «lo sfruttamento della prostituzione non è scomparso, ma solo più nascosto, svolgendosi molto di più rispetto al passato al chiuso di appartamenti e alberghetti».

Le donne presenti nel libro di Bighinati sono «donne di speranza, che ci aiutano a non dimenticare, a fare memoria», ha proseguito il Vescovo.«E la speranza – ha aggiunto – è anche una caratteristica che deve avere ogni giornalista, per mostrare il futuro, pur in una cronaca quotidiana spesso contraddistinta da violenza e sofferenza».

STORIE DI VITA POSITIVE

Bighinati, dopo aver ricordato la figura di santa Giuseppina Bakhita, ha spiegato: «posso definire questo mio libro controcorrente, perché oggi di donne si parla molto, e a volte di loro come vittime, ma poco si parla della loro forza. Ho voluto, quindi, aprire finestre su donne del nostro tempo», donne «forti, coraggiose, libere». Donne che «cercano costantemente di capire la propria vocazione, il loro posto nel mondo», donne che a un certo punto della loro vita «hanno scelto di aiutare altre donne che ancora non riuscivano ad avere la loro stessa determinazione».Sono quindi storie «senza intenti né pedagogici né moralistici ma storie di vita,» anche quotidiana, per invitare chi le legge «all’immedesimazione, a guardare il mondo coi loro occhi».

Sono dunque «storie positive, per non lasciarsi sopraffare dal pessimismo». 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 febbraio 2025

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Donna, speranza e coraggio: il libro di Dalia Bighinati

1 Feb


Si intitola “Senza paura” il volume della giornalista ferrarese: l’8 febbraio a Casa Cini la presentazione pubblica assieme al nostro Arcivescovo

di Andrea Musacci

«Quando ascolti, devi essere in grado di cogliere non solo i fatti, ma le singole personalità». Questa sorta di “promemoria” o di primo comandamento del giornalismo, Dalia Bighinati lo pone nell’introduzione del proprio libro “Senza paura. Geniali, libere, coraggiose: Ventisei ritratti di donne che non si sono arrese” (Book ed., 2024). Leggendo le pagine del volume, possiamo dire ancora una volta che l’autrice è stata in grado di incarnare questa “legge” che dovrebbe guidare non solo chi fa il nostro mestiere ma ogni relazione. Volto storico di Telestense, Bighinati presenterà “Senza paura” il prossimo 8 febbraio alle ore 16.30 a Casa Cini, Ferrara. Per l’occasione, dialogherà col nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e l’incontro sarà moderato da mons. Massimo Manservigi, Direttore de “La Voce” e dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali.

“Donna, vita, libertà” è lo slogan divenuto famoso nel mondo soprattutto dall’autunno 2022, grazie alle manifestazioni e alla ribellione delle donne iraniane contro l’opprimente regime degli Ayatollah. E quelle tre parole sono quelle che risuonano anche in tutte le storie che Bighinati racconta, attraverso incontri, interviste e approfondimenti nel corso degli anni: troviamo ritratti di donne famose (Rita Levi Montalcini, Rigoberta Mentchu, Letizia Battaglia, Laura Boldrini, Elly Schlein), altre meno celebri, altre ancora legate alla nostra città (Simonetta Della Seta, Laura Ramaciotti, Monica Calamai, Mariella Ferri).

DONNE SALVATE DA ALTRE DONNE

Accenneremo qui solo ad alcune di loro, che in parte verranno raccontate durante l’incontro dell’8 febbraio. 

Sono due, nel libro di Bighinati, i profili di religiose, entrambe impegnate nell’ambito della lotta alla tratta delle donne. La prima è suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata classe ’39 di origini milanese, che nel ’91 obtorto collo accetta la volontà dei suoi Superiori e torna dalla missione in Kenya (dove si trovava dal ’67) per stare vicino ed aiutare le tante donne obbligate a prostituirsi lungo le strade di Torino. «Non è stato facile accettare – è scritto nel libro – di non tornare più nella mia amata Africa». “Help me, sister, help me”, l’ha implorata un giorno Maria, giovane obbligata a prostituirsi. «È stata lei – confessa – a farmi capire che la missione non è un fatto di geografia, ma è dove porti la luce di Dio». «Queste ragazze – dice suor Eugenia – sono merce in vendita per il racket dei trafficanti, il cui obiettivo è di sfruttarne i corpi fino allo sfinimento».

Suor Rita Giaretta, classe ’56, è invece un’Orsolina residente a Roma dove ha aperto Casa Magnificat che, assieme a Casa Rut a Caserta, accoglie donne salvate dallo sfruttamento e dalla prostituzione, dando loro la possibilità di rinascere a nuova vita. «Sulla strada – sono parole di suor Rita citate nel libro – non ci siamo mai sentite delle salvatrici, ma soltanto donne che incontravano altre donne. Per noi era importante posare su di loro uno sguardo di benevolenza, di amore e di rispetto che le facesse sentire di nuovo persone». Nel libro spazio anche per la storia della nigeriana Joy, 31 anni, salvata dalle strade di Castel Volturno dov’era obbligata a prostituirsi, accolta a Casa Rut per 8 anni. Lo scorso ottobre si è sposata, suor Rita l’ha accompagnata all’altare. La sua storia è raccontata anche nel libro “Io sono Joy” (Edizioni San Paolo), con prefazione di Papa Francesco.

Un’ulteriore e specifica denuncia di suor Rita trova spazio nelle pagine del volume di Bighinati: «La pandemia e il lockdown  – dice – hanno fatto diminuire la prostituzione lungo le strade di periferia, ma le ragazze non sono scomparse. Sono diventate soltanto meno visibili, costrette ad esercitare negli appartamenti e a prestarsi al sesso on line. Il fenomeno resiste, ma è più difficile da quantificare».

ARMENIA, HAITI, RWANDA: SPERANZE NELL’ORRORE

Il volume di Bighinati si apre col doloroso e coraggioso ritratto della scrittrice italiana di origini armene Antonia Arslan, dal 2021 cittadina onoraria di Ferrara e che lo scorso 16 gennaio nel Ridotto del Comunale della nostra città ha presentato la nuova edizione de “La masseria delle alloddole”. Nel libro di Bighinati, Arslan racconta la sua scelta di raccontare le vittime – soprattutto femminili – del genocidio armeno: «Non è stato facile prendere questa decisione, ma era importante farlo anche per onorare le donne armene. Il disegno che guidò il genocidio era di uccidere subito gli uomini e di deportare le donne nel deserto, avviarle ad una morte lenta e terribile, fra stenti, stupri, violenze di ogni genere».

Dall’Armenia a un Paese lontano, Haiti, ancora oggi depredato da USA e da alcuni Paesi europei delle proprie ricchezze e della propria bellezza. Nel libro ne parla la scrittrice Yanick Lahens. Inevitabile partire dal tremendo terremoto che ha colpito il suo Paese nel gennaio 2010, con 230mila morti e milioni di persone senza casa, cibo né acqua. 71 anni, Lahens dopo gli studi in Francia ha deciso – a differenza di molti altri – di tornare subito a vivere nel suo Paese, impegnandosi a livello statale anche in progetti formativi e culturali. Come scrive Bighinati, Lahens «denuncia con forza la vergogna della schiavitù ancora presente nell’isola e difficile da sradicare». Si pensi solo al fatto che a volte i bambini «sono ceduti dalle madri più povere a famiglie benestanti o semplicemente meno povere, in cambio della possibilità di sfamare il resto della famiglia. Sono bambini comprati per essere sfruttati nei lavori più umili». «Essere donna – dice Lahens – in molti posti del mondo è una sfida. Lo è anche ad Haiti».

Da Haiti ci spostiamo ancora in un’altra parte del globo per incontrare Honorine Mujyambere (foto), ingegnere rwandese 43enne che nel 2008 ha potuto conseguire un Master in Italia grazie al Soroptimist club di Ferrara e d’Italia. Master di Economia Applicata all’Urbanistica utile anche per progetti di sviluppo di diversi Paesi africani. Ma Mujyambere è anche tra le sopravvissute del genocidio del 1994 nel suo Paese, quando oltre 800mila Tutsi furono barbaramente uccisi dagli Hutu. In quello sterminio Mujyambere perse i genitori e un fratello. Ora è sposata, ha due figli e vive nell’hinterland milanese. Un segno forte di speranza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2025

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«Dio compagno di cammino che sale con noi sulla croce dei letti di ospedale»

24 Gen

Il nuovo libro di Simone e Alberto Fogli: il mistero della sofferenza e la misericordia vera

“Il senso autentico della sofferenza nella comunicazione ecclesiale. Frammenti di Verità e Carità per una Chiesa in uscita” (Booksprint ed., 2024, 19,90 euro): questo il titolo del nuovo libro di Simone Fogli e Alberto Fogli.

Il libro tratta il tema del dolore e del limite umano con un approccio tanto teologico quanto concreto, attingendo anche dalla diretta esperienza degli autori.

«Una volta si sapeva morire», scrive Simone Fogli. «Lo si imparava così come si apprendeva qualsiasi altro comportamento (…). Ieri, come oggi, morte e malattia facevano paura, ma con ragioni diverse: in passato il credente aveva paura di ciò che faceva seguito alla morte; oggi teme il tormento dell’agonia». In ogni caso, per un cristiano la sofferenza rimane «sempre un grande mistero, fatto della Trascendenza di Dio e intriso di umanità». Per questo, «nessuno dovrebbe vivere la malattia e la sofferenza da solo, senza speranza e senza preparazione a ciò che verrà, con consolazione».

Nella malattia, infatti, «emergono in un colpo solo tutti i nostri limiti e l’impossibilità tangibile di superarli. Perfino coloro che hanno una radicata fiducia in Dio, che credono alla vita come un dono, sperimentano con angoscia che riconoscersi in un disegno di bontà infinita è davvero arduo». Oggi, poi, una visione secolarizzata della realtà di certo non aiuta: viviamo, infatti, in una «società che vuole il completo benessere corporeo», nella quale quindi «essere ammalati significa essere “diversi”, non potersi più accettare e essere accettati».

«La sofferenza – si chiede ancora Simone Fogli – non è forse un ammiccare della morte che rappresenta l’annientamento del soggetto nella sua condizione esistenziale?». Di conseguenza, «il malato ha bisogno di dare un senso alla sua condizione di sofferente e, molto spesso e in tempi diversi, va aiutato a farlo». In questo complessissimo e per nulla scontato cammino, la persona malata «diviene libera di maturare la sua sensibilità e la sua capacità di cogliere la preziosità del suo intimo. Si comincia a scoprire cose mai ritenute importanti».

Arriva, pur fra tentennamenti e contraddizioni, a intuire il nucleo della Verità: ciò che è radicalmente prezioso è solo l’Amore. «In un ambito di fede della Rivelazione – prosegue il testo -, all’uomo viene comunicato un significato al soffrire umano (l’Amore Misericordioso e Redentivo di Dio) che aumenta la conoscenza e la capacità intellettiva di partecipazione divina. Si ha una visione più profonda della realtà per partecipare alla stessa luce divina». Solo da qui può nascere la vera Speranza, dalla prossimità di un Dio che è «compagno di cammino che sale con noi sulla croce dei letti di ospedale e della solitudine». Dio «si fa carico della sofferenza del malato, entra nella condizione umana perché l’uomo possa entrare nella Gloria di Dio». Prossimità di Dio che interpella sempre la nostra prossimità: da qui, l’importanza decisiva delle relazioni per la persona malata, a partire dalla famiglia e dagli affetti più cari, fino all’intera comunità ecclesiale; e senza dimenticare la necessità di un approccio umano da parte del personale medico e infermieristico.

L’ultima parte del libro, a cura di Alberto Fogli, è dedicata invece al rapporto fra Chiesa e comunicazione in un mondo dove questa la fa da padrona. «I mezzi di comunicazione sociale possono sostenere lo sviluppo della Comunità umana», scrive. «In questo modo essi adempiono al compito di testimoniare la Verità sulla vita, sulla dignità umana, sul significato autentico della nostra libertà e mutua interdipendenza». Si tratta – prosegue Fogli – «di vivere pienamente la funzione profetica che compete a tutti i cristiani in quanto battezzati. Il profeta è colui che sente la Parola di Dio e non può fare a meno di comunicarla». Ma il profeta stravolge le consuetudini, “scandalizza” chi vive di luoghi comuni e di confortevoli – ma illusorie – certezze: «il Popolo di Dio – spiega quindi Fogli – non si confonda con le altre istituzioni economiche e politiche che gestiscono» i mezzi di comunicazione, «ma abbia» nella comunicazione stessa «un’era nuova di comunione universale».

Comunione che, appunto, è possibile solo nel rispetto della dignità assoluta della persona, anche e soprattutto nei momenti di fragilità come la malattia e la morte, attimi eterni nei quali il Mistero si fa più denso e la Misericordia più vera.

Andrea Musacci

***

CHI SONO GLI AUTORI

Simone Fogli 

Docente di Religione cattolica, già studente di Medicina, ha collaborato con una Comunità di assistenza a persone con difficoltà gravi, prestando anche la sua opera al domicilio di persone sole e/o colpite da patologie a volte incurabili. 

Oltre agli studi in Sacra Teologia con il massimo dei voti presso la Pontificia Università “Antonianum” di Roma, ha prestato servizio in un Hospice per ammalati gravi e terminali.

Alberto Fogli 

Ex Docente di Istituto scolastico superiore e Giornalista pubblicista, laureato in Scienze Religiose (ISSR-Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna di Bologna) e diplomato in Teologia pastorale (Pontificia Università Lateranense – Città del Vaticano – Roma), è ex Presidente diocesano di Azione Cattolica e Presidente Avis (Donatori di sangue) dal 1991 al 2021.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 gennaio 2025

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(Foto: Agensir)

Figli di Muse Inquietanti: 50 ritratti di artisti nel libro di Turola

22 Gen

Gabriele Turola critico d’arte: in un volume curato da Corrado Pocaterra e Lucio Scardino raccolti i suoi articoli su creativi ferraresi del ‘900 e oltre

di Andrea Musacci

Un’originale antologia degli artisti ferraresi del Novecento è quella curata da Corrado Pocaterra e Lucio Scardino nel volume “Gabriele Turola. I figli delle Muse Inquietanti” (Ferrara, 2025). Il libro verrà presentato nel mese di febbraio nella sede della Camera di Commercio di Ferrara (data ancora da definire) e sarà possibile acquistarlo in alcune librerie in città. Ricordiamo che lo scorso settembre la Galleria del Carbone ha omaggiato Turola – morto improvvisamente nell’agosto del 2019 all’età di 74 anni – con la mostra “Dedicato a Gabriele Turola”, curata dallo stesso Pocaterra.

Nel 1986 il giornalista (e «pittore per diletto») Gian Pietro Testa chiede a Turola di tenere una rubrica su “Ferrara”, rivista mensile del Comune da lui diretta. I due coniano il titolo “I figli delle Muse Inquietanti”, a voler ricordare il capolavoro di De Chirico. Successivamente, Turola continuerà i suoi ritratti sulle colonne de “La Pianura”, rivista edita per oltre un secolo dalla locale Camera di Commercio (e lo fece sino al 2016, anno in cui cessarono le pubblicazioni). «Abbiamo deciso – scrivono Pocaterra e Scardino nel libro – di ristampare i profili monografici di quegli artisti famosi che hanno portato il nome di Ferrara nel mondo, coltivando il proprio DNA di “figli di Muse Inquietanti”, ma declinandolo all’infuori di stretti localismi, di un provincialismo odiosamato». Una 50ina le artiste e gli artisti raccontati negli anni dalla brillante penna di Turola: dai più noti Boldini, De Pisis, Goberti o Zanni (solo per citarne alcuni), a molti poco o per nulla conosciuti. E con un inedito dedicato a Marcello Carrà, artista classe ’76.

IN DIALOGO SUL PROFONDO MARE

La critica – in questo caso artistica – si sa, è mestiere difficile, dove chi scrive rischia di soffocare – col velo pesante delle proprie parole – l’artista e le opere che intende raccontare. Turola – nella sua sensibilità profonda verso le realtà dello spirito – riusciva invece a cogliere il cuore dell’artista che sceglieva di far protagonista della sua narrazione; e solo poi, gli sedeva di fronte, per un “dialogo” schietto, su quella comune zattera che è la ricerca del Bello. Nella delicatezza di questo ondeggiare senza meta, ma pur sempre con la volta celeste a tracciare sentieri di senso nella notte e nell’oscuro dell’esistenza. Così, dei quadri di Alfeo Capra (Filo di Argenta 1902 – S. Maria Maddalena 1997) poteva scrivere che «sono come parole appena sussurrate, che invitano al silenzio, che nascono dal silenzio e nel silenzio vogliono avvolgersi, come bruchi in un bozzolo, forse per dichiararci che dall’ignoto tutte le cose provengono e nell’ignoto tutte le cose ritornano»; e di Gianfranco Goberti (Ferrara 1939-2023), che «mette in discussione la realtà per mezzo della pittura, rappresenta una dimensione concettuale inventiva, fatta di istinto pittorico e di intelligenza».

E ancora, alla ricerca perenne di anime gemelle con cui navigare nel vasto e agitato mare della vita: Gianni Guidi (Bologna 1942) è «un creatore anarchico perché ama rivoluzionare, sconvolgere la geografia normale, consueta, riportandola a caos di frammenti spezzati; eppure in questa farragine si rintracciano le note di un’armonia intima e preziosa». O la trova in Giuseppe Malagodi (Cento 1890 – Roma 1968), che «indulge in zone d’ombra, in malinconie crepuscolari».

Accenni a parte meritano alcune artiste, come Paola Bonora (Ferrara 1945), per la quale «la pittura diventa un diario dell’anima che traduce in immagini e visioni gli impulsi psicologici più intimi, i ricordi, le malinconie più riposte, i sogni più ancestrali dell’inconscio collettivo»; o Adriana Mastellari (Ferrara 1933-2023), la cui scultura «è un atto di amore e di lotta: amore perché permette di creare forme di vita poetica, lotta perché è un impatto con la materia che imprigiona l’idea». E per concludere, la poco nota Luciana Neri (Ancona 1944 – Ferrara 1987) – che «ha sempre vissuto come una donna ed un’artista forte, libera, indipendente, coraggiosa, non vincolata ad alcun rigido schema» – ed Ernesta Tibertelli De Pisis (Ferrara 1895-1970), sorella di Filippo, «donna vittima di una società, non ancora aperta all’emancipazione femminile, che non le permetteva di sviluppare pienamente il suo talento artistico».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 gennaio 2025

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L’altro oltre la soglia: covid e depressione nella Ferrara del 2020

20 Dic

“Ogni porta è sprangata” il titolo del romanzo d’esordio del giovane Antonio Susinna

di Andrea Musacci

Sta forse nella natura delle cose il fluire e inabissarsi all’orizzonte, lasciando al tempo l’incarico di sostituirle. Ma ogni flutto lascia un solco indelebile. Così è stato anche per la pandemia Covid scoppiata tra fine 2019 e inizio 2020. A 5 anni dal suo sorgere, quasi non se ne parla più ma nelle zone d’ombra delle nostre vite mai se ne andrà la traccia di quel dramma collettivo. Antonio Susinna, 27enne ferrarese, affronta proprio quei primi mesi del 2020 nel suo romanzo d’esordio, “Ogni porta è sprangata” (Affiori, Giulio Perrone ed., 2024, euro 20).

Protagonista è una ragazza senza nome, studentessa fuori sede di Lettere all’Università di Ferrara, «esilissima», solitaria e antiretorica, sofferente di depressione e preda di ricorrenti attacchi di panico. E originaria di una piccola località (Codogno?) dove vive il “paziente 1”. Per la giovane, il mondo è «insipido», al massimo ne riceve il racconto da altri, di cui perlopiù subisce lo sguardo. «Si lasciò agire», scrive Susinna a un certo punto. Dal mondo là fuori, la divide sempre un «velo opaco», per lei è naturale «racchiudere» in una “campana di vetro” (come il libro di Sylvia Plath citato in uno dei flashback) la propria vita, appartarsi nello spazio domestico, non “abitarlo”. Delimitare il proprio mondo per illusoriamente custodirlo da quello assurdo, spesso insostenibile, all’esterno, rimanendo «vicina al bordo» di un confine innanzitutto interiore, esorcizzando con gli anonimi riti dell’usuale i non anonimi volti e corpi “minacciosi” oltre la soglia.

Inerte e intorpidita è dunque la protagonista, estranea anche al proprio corpo, refrattaria a ogni forma di vero radicamento. Il racconto gocciola con cadenza quasi impercettibile, rischiando di diventare straniante anche allo stesso lettore. Solo il livellamento emergenziale le permetterà di «amalgamarsi alla folla liquida». Ma rimane il rischio del perpetuo rimpianto, dell’«avrei potuto», come nel flashback del suo primo bacio – anch’esso subìto -, che a sua volta sembra richiamare il racconto “Un caso pietoso” di James Joyce.

Per contro, ricorre – e incombe – il sangue che è vita, «vita che non osai chiedere e fu» (M. Luzi), ineluttabile. Come la gatta che si affaccia al davanzale della finestra del suo monolocale ferrarese e che lei, gradualmente, accoglie nella propria vita. Gatta che è l’intruso, lo straniero: da una parte, proiezione del di lei desiderio; dall’altra, anticipatrice di altro, segno che rimanda a un infante, a un figlio. Figlio – non a caso di una donna di nome Miriam – che aprirà alla vita la protagonista, permettendole di potersi nominare, di trovare un’identità, di rinascere nel respiro che è spirito.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024

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Vivremo in un «ecosistema sintetico gestibile e riprogettabile»? 

19 Dic

Transumanesimo e postumano sono già realtà: ecco perché

Nello scorso numero della “Voce” abbiamo trattato il tema della disforia di genere nei giovani e giovanissimi, con tutte le nefaste conseguenze di un’ideologia che ne promuove una concezione distorta, antiscientifica e antiumana. Per riflettere, ci siamo basati sul contributo di Stefano Dal Maso e Fulvia Signani presente nel volume curato da quest’ultima, “Potenziare la Gender Medicine. I saperi necessari” (Mimesis ed., Collana UniFestum, n. XX, 2024). Ora, rifacendoci alle riflessioni della Signani nello stesso libro, cerchiamo di allargare ulteriormente lo sguardo inserendo la denuncia della manipolazione delle menti e dei corpi dei giovani e dei giovanissimi dentro il più ampio discorso sul transumanesimo e sul postumano teorizzato in Italia dalla filosofa Rosi Braidotti.

Gli obiettivi di questa ideologia sono chiari e si esprimono nelle teorie transfemministe e postgenderiste: «estendere la procreazione medicalmente assistita a tutte e tutti; legalizzare l’utero in affitto; gravidanze transumane e una piena accettazione degli uteri artificiali»; e ancora: «cancellare la funzione procreativa della donna, espropriarla dalla procreazione e occuparne gli spazi sociali e biologici, cancellare – anche mediaticamente – la figura della “madre” (si nasce disinvoltamente da due madri o da due padri), promuovere l’applicazione di miglioramenti genetici, in pratica, la tanto deprecata (in passato) eugenetica». Così, si auspica per la specie umana «l’eliminazione del genere biologico e psicologico involontario, attraverso l’applicazione di neurotecnologie, biotecnologie e tecnologie riproduttive. Entrando nel merito della riproduzione assistita – prosegue Signani -, i postgenderisti valutano che consentirà agli individui di qualsiasi sesso di riprodursi in tutte le combinazioni a loro scelta, con o senza “madri” e “padri”, e gli uteri biologici non saranno più necessari per la riproduzione». Già 30 anni fa Donna Haraway, femminista USA, proponeva il concetto di «simbionte», cioè di «un essere in cui le parti biologiche e artificiali convivono, interagendo tra loro e con l’ambiente».

Il noto sociologo e filosofo francese Edgar Morin ha espresso «profonde preoccupazioni riguardo al transumanesimo, che definisce promessa inquietante di superamento dell’umano attraverso la tecnologia, che rischia di disumanizzare la nostra essenza più profonda. Il transumanesimo perseguendo il potenziamento umano e la ricetta per l’immortalità, potrebbe farci perdere di vista ciò che significa essere veramente umani. La sfida del transumanesimo non è solo tecnologica, ma soprattutto etica: come potremo mantenere la nostra umanità in un mondo sempre più dominato dalle macchine?».

Silvia Guerini e Costantino Ragusa nel loro studio “I figli della macchina. Biotecnologie, riproduzione artificiale ed eugenetica” (Asterios, Trieste, 2023) dimostrano inoltre come «le aziende transnazionali e le élite finanziarie sono concentrate sulla Grande Trasformazione cibernetica e biotecnologica, riducendo il ruolo dell’etica. Questo si evidenzia nell’integrazione dell’ingegneria genetica e delle tecnologie di riproduzione artificiali in un unico progetto di riprogettazione e manipolazione del DNA degli esseri viventi», scrive Signani. «Si prefigura una società geneticamente programmata, caratterizzata da una selezione eugenetica e da una crescente artificializzazione della nascita umana. Le tecnoscienze mirano a sostituire la natura con un ecosistema sintetico gestibile e riprogettato dai tecnici attraverso terminali tecnologici, anticipando una società dove ogni aspetto della vita è gestito secondo dettami tecnici, dall’inizio alla fine. Gli Autori trattano quindi anche delle tecniche di fecondazione assistita che aumentano significativamente il rischio di numerose patologie, inclusi tumori, rispetto alla concezione naturale». Queste tecniche «non sono terapeutiche per l’infertilità (non solo, il tema dell’aiuto per l’infertilità è stato un “cavallo di troia”), ma sono state sviluppate – affermano – per progettare esseri umani con caratteristiche specifiche, attraverso diagnosi preimpianto e selezione embrionale. Le tecniche promuovono la completa separazione tra sessualità e procreazione». 

Di certo, la battaglia contro questi abomini è molto concreta e anche politica: il Parlamento Europeo il 12 settembre 2023 ha approvato in prima istanza una proposta di Regolamento sugli Standard di qualità e sicurezza delle sostanze di origine umana destinate all’applicazione sull’uomo (o Regolamento SoHO) «che equipara gli embrioni umani a cellule e tessuti, definendoli “sostanze di origine umana”, e apre le porte all’eugenetica e agli usi industriali, nonostante l’allarme lanciato da varie organizzazioni di esperti. Ufficialmente lo scopo delle nuove misure sarebbe di “tutelare maggiormente i cittadini che donano o vengono trattati con sangue, tessuti o cellule”. In realtà il regolamento autorizza il libero mercato di embrioni, feti e gameti umani, che, si noti bene, sono inclusi nelle categorie di tessuti e cellule». 

È, questa, la sfida che ci troviamo davanti oggi. Non si tratta solo di deprecabili teorie ma di atti politici concreti. Con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024

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(Foto: ThisIsEngineering)

Gesuiti missionari in Paraguay: evangelizzare senza violenza

6 Dic

Il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri (con prefazione di don Andrea Zerbini) indaga, tra il 1609 e il 1768, l’opera educativa e spirituale in Sud America

Si intitola “Gesuiti e missioni in Paraguay (1609-1768). Evangelizzazione ed educazione dei guaraní” il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri, con prefazione di don Andrea Zerbini, Moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado ed ex Direttore del nostro Centro Missionario diocesano. Il libro è stato presentato lo scorso 21 novembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara e Maestri ne ha inviato copia al Santo Padre Francesco il quale, tramite la Segreteria di Stato, le ha risposto in tempi brevi con un ringraziamento e la Benedizione Apostolica. 

L’autrice è stata Cultrice della materia a UniFe, docente alle Superiori e oggi fa parte della Redazione della rivista letteraria “L’Ippogrifo”, del Direttivo del Gruppo Scrittori Ferraresi, ed è Presidente dell’Associazione di promozione sociale “Baffo John Potter”. 

AUTONOMIA E OBBEDIENZA

L’elezione a Pontefice del gesuita Jorge Mario Bergoglio – scrive nel libro – ha «incentivato ancor più il mio desiderio di rivedere e pubblicare uno studio affrontato negli anni ‘93/’94 in occasione della mia tesi di laurea in Pedagogia», relatore il prof. Carlo Pancera. Ricca la bibliografia utilizzata, con testi conservati in archivi, biblioteche e presso la Casa Madre dei Gesuiti per consultare la Litterae Annuae, lettere che i missionari da oltreoceano inviavano a Roma per la rendicontazione ai loro superiori. Di particolare importanza e utilità nel suo studio, un manoscritto spagnolo del XVIII secolo custodito presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’Exacta relación de las missiones del Paraguay, «scritta da chi ha vissuto direttamente l’esperienza e, una volta espulso dal Paraguay, è stato mandato nello Stato pontificio». Da questo studio – spiega – «è emersa una pedagogia gesuitica nella quale convivono il rigore delle regole e dell’obbedienza, l’autonomia e la flessibilità degli esercizi spirituali, voluti dal fondatore della Compagnia di Gesù Sant’Ignazio di Loyola nel 1534. Un umanesimo ignaziano in cui il missionario sa aprirsi alla popolazione indigena guaranì».

MISSIONARI, UNO STILE DIVERSO

Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo la Spagna e il Portogallo dettero avvio alla conquista e alla colonizzazione del continente americano recentemente scoperto: «da un lato – scrive Maestri – l’Europa esporta in Sud America i propri strumenti e modelli culturali, mentre dall’altro lato il contatto con il nuovo continente si traduce in occasione di sperimentazione di nuove forme di governo e di rinnovamento dell’Europa stessa». Questo processo riguarda soprattutto il Paraguay. «Alla conquista delle armi succede la conquista spirituale che, oltre al ruolo evangelizzatore, assume il compito di formulare nuovi strumenti di comunicazione e di omogeneizzazione della società indigena». I gesuiti avranno il monopolio sul Paraguay, dove daranno vita a collegi urbani, riduzioni (i nuovi villaggi creati dai missionari in cui gli indigeni vivevano in pace assieme ad altri gruppi), Università e centri di cultura, «assumendosi la tutela e la difesa degli indios dagli effetti devastanti della colonizzazione». Nelle riduzioni paraguiane «è certamente la Compagnia di Gesù che conduce il dialogo, ma il modello che esporta si coniuga con una pluralità di modelli (…). In pratica, accanto al disegno progettuale dirigisticamente perseguito, si instaura anche una sorta di processo osmotico, una dialettica tra le due culture». «Le riduzioni gesuitiche si proponevano per la trasformazione della società indigena e lavoravano per dare stabilità e continuità a questo processo», commenta don Zerbini nella Prefazione. «L’ambizione era di ricondurre un popolo bambino e indigente a una collettività urbana, strutturata come città educante capace di generare una cittadinanza laboriosa. Un nuovo modello sociale aperto all’autonomia e fondato sui diritti dell’altro (…). Ne risultò un modello poliedrico i cui elementi costitutivi erano radicati nell’umanesimo cristiano e recepivano, integrandoli, gli aspetti comunitari-collettivi mutuati dalla cultura incaica dei nativi».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024

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Poveri, donne e lavoratori: Evita Perón in un nuovo libro

9 Nov

“EVITAmia. Il tango di Eva Perón” è il volume di Michele Balboni con contributi, fra gli altri, di mons. Gian Carlo Perego e di Elsa Osorio, scrittrice argentina di fama internazionale

È in uscita in questi giorni il libro “EVITAmia. Il tango di Eva Perón” (Ed. La Carmelina) di Michele Balboni, ex dirigente di ACFT, AMI, AFM – Farmacie Comunali e appassionato tanguero. Il volume – che verrà presentato il 15 novembre alle ore 17 a Palazzo Roverella, Ferrara – vede anche i contributi di mons. Gian Carlo Perego, Patrizio Bianchi, Francesca Capossele, Elba de Vita e Riccardo Modestino. Evita Perón (al secolo María Eva Duarte) nasce nel 1919 in provincia di Buenos Aires. Orfana di padre a 8 anni, a 15 lascia la famiglia per diventare attrice. Sindacalista, nel ‘45 sposa Juan Domingo Perón, allora Ministro del lavoro, più anziano di oltre 25 anni, dal ’46 al ’55 e dal ’73 al ‘74 Presidente dell’Argentina. Evita muore nel ‘52 a 33 anni: è stata una delle prime donne a fare politica e a intervenire a raduni di massa in Argentina.

Per Balboni, un personaggio politico difficile da catalogare come di destra o di sinistra: ciò che importa è «che Evita ci parlava davvero con i derelitti, i poveri, gli emarginati; con tutti coloro verso i quali l’attuale Sinistra, in tutto il mondo, non solo in Italia, fa fatica a comprendersi. E non si dica che Evita “comprava” a suon di regali tramite la sua Fondazione il consenso di costoro. Perché l’assenso e il voto si possono acquisire con carezze e prebende varie, ma non così l’affetto delle persone, se non il loro amore. Non furono in ogni caso carezze virtuali né prebende lievi ciò che Eva Duarte de Perón, Evita al momento dell’azione, realizzò in poco più di sei anni di informale ma forte potere», prosegue Balboni nel libro: «crescita delle Organizzazioni Sindacali e tutela dei lavoratori, voto femminile, assistenza sociale, incremento della scolarizzazione, lotta alla povertà. Citando così solo i titoli delle sue attività, perlopiù realizzate tramite la Fondazione Eva Perón». Per Evita – sono ancora parole di Balboni – ciò che conta sono «le relazioni personali piuttosto che le procedure e le regole, che possono diventare burocrazia». “Sono cristiana perché sono cattolica – disse lei stessa -, pratico la mia religione come posso e credo fermamente che il primo comandamento sia quello dell’amore”.

Osorio: «oggi il potere in Argentina odia i deboli»

Essenza, questa di Evita, ben colta anche nella Prefazione da Elsa Osorio, scrittrice argentina di fama internazionale: «Evita abbracciava gli indifesi, i deboli, le “piccole teste nere”, i grasitas», scrive. «Era il ponte tra Perón e il suo popolo, l’abbraccio tra Perón e la sua gente, Perón e le sue leggi sociali, così importanti. Evita ha abbracciato gli indifesi, e oggi il potere in Argentina odia i deboli, i poveri, odia tutto e tutti, tutti quelli che non sono quell’uno per cento, odia persino il suo Paese e si fa vanto di questo. E in questo contesto, Evita, per l’immaginario collettivo, oggi, che cosa sarebbe? Forse quell’onda crescente di rifiuto che io vedo crescere con speranza».

Mons. Perego: «Evita e l’impegno per i poveri»

«Il sogno di giustizia sociale di Evita, donna che ha amato i poveri, è infranto contro i carri armati e un nuovo corso della politica che al centro mette la violenza – con il dramma dei desaparesidos – e la finanza, la speculazione che porteranno nel baratro l’Argentina». Così scrive il nostro Arcivescovo in un passaggio del suo intervento. «Continua, però, l’impegno della Chiesa per i poveri in Argentina che vedrà al soglio pontificio con il nome di Francesco un argentino di origini italiane, Jorge Bergoglio, tra l’altro accusato di peronismo per il suo impegno per i poveri e la giustizia animato dal Vangelo. In lui e nella Chiesa, in qualche modo, continua il sogno di Evita e l’opera della sua Fondazione che oggi vive attraverso le opere della Caritas, l’organismo pastorale della Chiesa che in ogni angolo del mondo lavora a favore dei più poveri, degli sfruttati coniugando carità e giustizia. La carità non si spegne mai e fa incontrare “gli uomini di buona volontà”».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2024

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