Gian Pietro Testa, morto nel gennaio 2023, oltre che giornalista affermato e scrittore originale, coltivava anche una passione per la pittura. Giorgia Mazzotti ci parla dei suoi soggetti cristici e della sua profonda e antica amicizia con Baratella
Appena due mesi prima dell’amico Paolo Baratella (e due settimane prima di Gianfranco Goberti), il 7 gennaio 2023 moriva il giornalista e scrittore ferrarese Gian Pietro Testa. In occasione dei 90 anni dalla nascita (il 24 settembre 1936) nella sua città gli viene dedicata una mostra, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. A Palazzo Turchi di Bagno (corso Ercole I D’Este, 32), fino all’8 dicembre sono esposti alcuni suoi dipinti oltre a foto e documenti che delineano la sua figura eclettica di giornalista, scrittore e pittore.
La mostra è stata inaugurata il 24 novembre, il 29 ha visto un incontro di presentazione ed è visitabile tutti i giorni dalle 10 alle 18 (festivi inclusi) a ingresso gratuito. La mostra è a cura di Giorgia Mazzotti e vede testi critici di Ada Patrizia Fiorillo, Francesco Franchella, Marco Luca Pedroni, Alessandro Zangara.
La stessa Mazzotti aveva curato la mostra Gian Pietro testa, il giornalista che amava dipingere, esposta nel marzo 2024 all’Idearte Gallery di Ferrara.
IL TEMA CRISTICO
Ci soffermeremo proprio sul Testa pittore e in particolare su alcune delle sue opere con riferimenti cristici. Innanzitutto, come scrive Lucio Scardino nel catalogo della mostra del 2024 (nella quale compare anche l’opera Pannello con volti di prelati), come pittore Testa «fu allievo negli anni ’50 di Edgardo Rossaro (che gli ha insegnato il disegno e a impastare i colori sulla tavolozza)». Rossaro (Vercelli 1882-Rapallo 1972) è un amico del padre nelle vacanze estive in Liguria. «È interessante – ci spiega Mazzotti – come fra le sue opere abbiamo trovato tre immagini di Cristo da lui dipinte, oltre a immagini di povertà, come il ritratto intitolato Miseria». Uno dei due soggetti cristici è presente in mostra (tecnica mista su pannello, cm 102×66,5). Le altre due sono una crocifissione con Cristo e i due «malfattori» e il Crocifisso inedito.
Il Cristo di Testa inedito
L’INEDITO: Quel suo Cristo trovato sopra il letto
Giorgia Mazzotti a La Voce racconta per la prima volta un aneddoto sul legame di Testa con la figura di Cristo: «lo scorso 15 novembre ho compiuto un sopralluogo nella sua abitazione di via Carlo Mayr a Ferrara, per il recupero di alcune opere da esporre, su autorizzazione del figlio Enrico e con la collaborazione del nipote Paolo Sandali. Eravamo increduli alla vista di questo Cristo che teneva affisso sopra al suo letto e che – data la firma sul retro (pure dipinto) – è sempre suo…».
«Si capisce che Testa venne toccato in particolare dal tema dell’uomo e del suo dolore», scrive Mazzotti. «Una sensibilità acuita probabilmente dallo strazio e dalla visione di morti atroci di cui si è ritrovato testimone come giornalista a seguito delle stragi che raccontò e indagò tra il 1969 e il 1980. L’uomo che prende quella sofferenza su di sé è incarnato nella figura per eccellenza di colui che si carica dei peccati del mondo. Così Cristo nei suoi dipinti – pur di uomo laico e lontano da ogni credo – diventa una figura umanissima e sofferente, che assume in sé il male altrui. Una tematica condivisa con l’amico fraterno Paolo Baratella, artista affermato e in tante occasioni alle prese con i temi della cristianità».
L’AMICO BARATELLA
Come riporta sempre Mazzotti nel sopracitato volume del 2024, «all’indomani della morte di Gian Pietro, sulla sua pagina social, Baratella ricorda: “Dire che Gian Pietro Testa è stato per me un fratello non è sufficiente, è stato qualcosa di più, sembrava che i nostri pensieri fossero gemelli, ogni giorno a Milano confrontavamo le nostre opinioni sulla politica, sull’arte e sulla attualità e su ogni cosa che ci veniva in mente per farci sghignazzare sulla vita alla quale davamo un valore relativo(…). Ora è corso via in uno spazio infinito stanco di sentire uomini che non dicono la verità (…)”».
E in casa sua, Testa, «ben in vista nel salotto-studio, teneva il bozzetto preparatorio tracciato a matita proprio dal suo caro amico Baratella in preparazione dell’affresco della sagrestia del Duomo» (cm 33×48), con la figura di Cristo in croce e la dedica sul fronte “A Elettra e Gian Pietro con amore”. Elettra era Elettra Testi, scrittrice e moglie di Testa, morta nel 2022. Significativo che abbia scelto anche un particolare dell’affresco della Sacrestia di Baratella per la copertina di uno dei suoi libri, Il vestito di Taffetà (Este Edition, 2018). E in mostra a Turchi di Bagno è presente anche un ritratto di Testa realizzato da Baratella, un disegno a penna su carta, cm 15,6×21.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025
90 anni fa nasceva un artista ferrarese forse ancora troppo sottovalutato: lo vogliamo ricordare in particolare nelle sue realizzazioni sacre: l’affresco per la Sacrestia del Duomo di Ferrara e il Risorto per la chiesa di Santa Francesca Romana
di Andrea Musacci
Del tempo e dell’eterno, fra le altre cose, parlava l’artista Paolo Baratella in un’intervista all’amico Gian Pietro Testa, circa 20 anni fa1. E proprio del tempo dobbiamo trattare, col tempo misurare e misurarci, ma coscienti che quest’abito artificioso, kronos, ci sta stretti, noi creature elette alla dura e sublime veste dell’Eterno. Dura finché chiusa fra le maglie terrene, noi che «ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro»; ma già capaci di un abbandono di quel che verrà, nel Dio vivente e veniente, attraverso forme che, pure tali, rompono il gioco del kronos: le forme dell’arte. E Baratella questo lo sapeva bene, cristiano inquieto ma capace di abbandonarsi nella dolce luce della fede.
Lo vogliamo ricordare a 90 anni dalla nascita e in occasione della mostra dedicata in questo periodo a Ferrara proprio a quel suo sopracitato e quasi coetaneo amico, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. Mostra nel quale compare anche Baratella (ne parliamo a pagina 10).
Baratella ha fatto ritorno al Padre il 3 marzo 2023, quando nel Castello Estense a lui era dedicata l’apertura e la menzione alla carriera del IX premio internazionale della Fondazione VAF, alla presenza della figlia Silvia Baratella e di Vittorio Sgarbi. Nove mesi prima, il 31 maggio 2022, in Biblioteca Ariostea e introdotto da Lucio Scardino, aveva presentato il suo libro autobiografico Davanti allo specchio.
Tante le sue mostre in Italia e all’estero nel corso di una vita, ma qui vogliamo ricordare quando esattamente dieci anni prima di morire, nel 2013, aveva dipinto il Risorto nella chiesa ferrarese di Santa Francesca Romana e nel 2006 gli affreschi della sagrestia della Cattedrale.
Ma prima alcuni accenni biografici.
DALLA CITTÀ «FANTASMATICA» A MILANO (CON RITORNO)
Baratella nasce a Bologna il 5 luglio 1935 da genitori ferraresi e trascorre l’infanzia nella città felsinea, in via Lame. Il negozio del papà sarto in via Zamboni è al servizio del regio esercito. Nel 1940 con la famiglia torna a Ferrara, in via Bellaria, 10, casa dei nonni materni; così la racconterà in una poesia2: «mondo-cortile / di via Bellaria numero dieci / immensamente grande / luogo di accanite osservazioni, / sguardi, miraggi / all’interno e oltre / i tanti muri impassibili, / inaccessibili confini / di mondi-giardini / al di là. / Giardini sognati / e mai visti, / luoghi di sogni proibiti». Poco dopo, all’età di 6 anni, decide che sarà un pittore.
Nella sopracitata intervista all’amico Testa racconterà così quel turbinio ancora confuso ma vivo, vivissimo della sua infanzia e adolescenza: «La tragedia della guerra, lo sfollamento, i rifugi antiaerei, le bombe, i bengala, le buche scavate nella terra per nascondersi, le grandi passioni trasmesse dal burattinaio Forni (…), la compagnia teatrale Doriglia-Palmi con quella Passione e Morte di Cristo fatta di vapori e sangue di pomodoro con l’uomo respirante sulla croce, e Gigetto il gelataio di vicolo Ocaballetta [vicino alla chiesa di S. Spirito, ndr] con i sontuosi carri di cigni e draghi (…): realtà che negli occhi del fanciullo che ero, costituirono la valle della visione, il mondo dello stupore, la tensione delle forti emozioni legate alla lotta per la sopravvivenza: scuola di estetica, di forme e di contenuti». E ancora: «L’immensità della chiesa di S. Spirito» – dove di fronte, a Palazzo Calcagnini, civico 33, aveva abitato il giovanissimo De Pisis -, «gli addobbi per le grandi festività…stupore, estraniazione, sospensione del tempo, portati dentro come tono esistenziale nei viaggi di attraversamento della città misteriosa, schiacciata dal sole furente, fantasmatica nella nebbia profumata di bagnato, i trasalimenti per le prospettive immaginate e viste, quando cavalletto, cartone, colori e pennelli sostavo vergognoso, un po’ nascosto, là dove queste prospettive si disegnavano». E poi i maestri a Schifanoia, veri maestri della giovinezza.
Ma la vita per il giovane Paolo è altrove, nel cuore del boom economico, dove il dedalo degli affari e degli scambi culturali brulicano giorno e notte: dal 1960 inizia così ad vivere e ad esporre a Milano e in altre città italiane ed europee (fra cui Londra, Parigi, Berlino). Risale al 1961 la sua prima personale nel capoluogo lombardo. Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 1974 e 1994 è alla Biennale di Milano, nel 1986 e 1999 espone alla Quadriennale di Roma e nel 1992 alla Triennale di Milano. Tra la città meneghina (dove dal ’92 al 2002 sarà anche docente all’Accademia di Belle Arti di Brera) e Lucca vivrà gli ultimi anni, e a Lucca si spegnerà. Ma mai conobbe quella alterigia capace di allontanarlo dalla sua piccola città di provincia, che anzi – come accennato – arricchirà.
L’AFFRESCO NELLA SACRESTIA DELLA CATTEDRALE
L’affresco a secco realizzato nel 2006 su incarico del Capitolo della Cattedrale (allora presieduto da mons. Nevio Punginelli) nella nuova Sacrestia della Cattedrale merita di essere raccontata – per quanto possibile – a fondo e grazie anche alle voci di suoi amici, collaboratori, ammiratori. L’opera di Baratella occupa il soffitto cuspidato della Sacrestia realizzata negli anni ’90 dopo la demolizione da parte delle bombe alleate dell’antico edificio sul lato di piazza Trento e Trieste.
Nel suo testo contenuto nel libro La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, mons. Punginelli raccontava di quando un giorno l’allora Vicario Generale diocesano mons. Giulio Zerbini gli disse, in mano un bozzetto per una vetrata istoriata: «”Cosa ne dici?, l’architetto [Caro Bassi, ndr] vorrebbe qualcosa per abbellire la Sacrestia. C’è un certo Paolo Baratella, l’architetto lo conosce, è ferrarese ed è stato mio ragazzo quando ero in Azione Cattolica. Ai campiscuola ogni tanto si isolava e lavorava con i suoi colori…è un poco estroso…maniaco della pittura ma molto bravo”». Poi la malattia, e la morte (nel 2001), colpiscono mons. Zerbini. Nel suo testo nello stesso libro3, proprio Bassi spiega: mons. Zerbini «ebbe il piacere e la consolazione di vedere le prime fasi dello studio condotte dal pittore: una piccola mostra di bozzetti fu allestita in occasione della benedizione dei locali e ne fu soddisfatto e commosso».
E lo stesso Bassi nel 2006 su Ferrara. Voci di una città dedica un altro bell’articolo all’opera di Baratella nella Sacrestia; questo un passaggio: «Il suo cielo è squassato da venti impetuosi di azzurro intenso che generano le figurazioni e danno loro sostanza quasi fosse il vento dello Spirito che soffia dove vuole e rende la forza materica della croce dominante su tutto». Sarà lo stesso Bassi a consigliare di far richiesta di accesso a un finanziamento europeo per la sistemazione della zona absidale e per la decorazione della Sacrestia.
È don Massimo Manservigi a intervistare Baratella sulla nostra Voce del 4 marzo 2006 (con servizio fotografico di Luca Pasqualini), poco prima della conclusione dell’opera: «Mons. Zerbini è rimasto subito convinto del progetto che ora si è realizzato, del quale ha potuto vedere in opera solo la vetrata», raccontava Baratella. «Il dipinto l’ho iniziato ai primi di ottobre e non posso negare che al principio è stato molto difficile, mi ha procurato ansia ed emozione (…). Quando sono arrivato per iniziare l’opera mi sono reso conto che la struttura quadripartita non funzionava più, lo spazio doveva diventare un tutt’uno, un unico atto di fede capace di abbracciare l’unico mistero della vita di Cristo in diverse tappe. Infatti la fede vuole che si creda contemporaneamente all’Annunciazione e alla Resurrezione, al valore salvifico della Croce e al peccato originale. Così ho risolto il problema trasformando il soffitto in una cupola, con alcuni accorgimenti pittorici, accentuando le linee curve per dare una sensazione di movimento e molteplicità di linee di forza».
E così descrive la sua opera: «Partirei dall’Annunciazione che resta sopra all’ingresso ed è rappresentata da una Madonna fortemente ispirata a Cosmé Tura (…). In ordine orario segue la Natività con i simboli dell’Agnello mistico, una testa di San Giovanni, San Giuseppe, l’Angelo glorificante e l’arrivo dei Re Magi (…). A seguire la Crocifissione, ai cui piedi stanno il serpente, Adamo ed Eva da un lato, e la Pietà dall’altro: la causa della crocifissione e le sue “conseguenze terrene”. L’ultimo quadro rappresenta la “conseguenza divina” della crocefissione ovvero la Resurrezione (…). Ai lati del Risorto due Angeli, specularmente, indicano con una mano il Cristo risorto e con l’altra noi, spettatori, creature terrene». Sotto il dipinto c’è una scritta: «Si tratta di stralci di una preghiera di Giovanni Paolo II a Maria. Sono stati scelti dall’architetto Bassi».
In conclusione spiega: «È la prima volta che concludendo un lavoro sento di essere “convocato all’avvenire”. Mi ritengo un privilegiato perché avverto come questo lavoro sia per i posteri».
IL MISTICISMO DI BARATELLA
Ma dove nasce in lui questo legame col sacro? «E giù a dipingere in un solaio al n. 8 di via Montebello, a parlare le notti di Kante Nietzsche, mentre turbamenti mistici continuavano a minacciare l’integrità dell’atleta ciclista, alla ricerca solitaria di Dio».
Così racconta sempre all’amico Testa4 della sua iniziazione al rapporto con Cristo: le radici – parla di sé in terza persona – «affondano lontano, quando quel ragazzo ferrarese, stupito, estraniato e sospeso, nell’odore di incenso della chiesa di S. Spirito, alla vista del Cristo morto nell’urna sotto la grande pala raffigurante il crocifisso tra panneggi viola, oro e neri della quaresima, rimuginava pensieri metafisici. Il trascendente allora prendeva forma nella fantasia (…). Mise ordine in queste suggestioni e rapimenti mistici l’allora don Giulio Zerbini, divenendo mio maestro e fratello maggiore (…). Decisi di abbandonarmi e di farmi trasportare dalla fede nella verità, nei percorsi così insidiosi, predisposti da me (…), in quella “zona” che è l’anima. Alcune volte non sono arrivato alla luce che scaturisce dal luogo più recondito della “zona”, che è la stanza dove risiede il nocciolo duro della realtà. Ma altre volte mi è accaduto di entrare e finalmente con il segno dell’immaginazione arrivare a scrivere la “cosa”: aletheia, verità. Con questo atteggiamento, sottomesso alla più grande angoscia, mi sono disposto a realizzare l’affresco nella Sacrestia della Cattedrale di Ferrara».
Questo sguardo religioso glielo riconosceva il poeta e scrittore Roberto Pazzi5, parlando dell’affresco della Sacrestia: «Si avvertiva in quelle grandiose figure l’afflato del credente, di colui che non gioca con gli elementi figurali del Cristianesimo come fossero figure dei tarocchi, indifferente alla loro più intima significazione. Non era insomma il laico a tenere in mano quel pennello, ma il convinto cristiano della nostra inquieta postmodernità».
Dello stesso affresco don Franco Patruno diceva6: «È come un roveto, lo scintillio di colori e i voluttuosi e mai circoscritti contorni (…)». E così invece descriveva Barbara Giordano questo capolavoro di bellezza7: «L’impressione è quella di una stanza illuminata dalla luce a tratti crepuscolare di un camino dimenticato acceso, solo più tardi ti accorgi che quella luce fatta colore, prende la forma di poche e decise figure, che non si lasciano indovinare dietro una fumosa cortina, ma penetrano lo spazio architettonico per disegnare una maggiore ariosità».
QUELLA PICCOLA PAROLA
È il 2013 quando Baratella realizza, nel periodo pasquale, la sua opera pittorica dedicata al Cristo Risorto nell’aula battesimale della chiesa di Santa Francesca Romana, in via XX settembre a Ferrara. Così il parroco don Andrea Zerbini, in memoria dell’amico artista, sulla Voce del 17 marzo 2023 lo ricordava: «Un grazie di vero cuore al maestro Paolo Baratella, scomparso lo scorso 5 marzo, perché continuerà a ricordarci lo splendore del Cristo Risorto e con essa quella della sua vita, il suo sentire di artista che le sue mani hanno mescolato, fissato, impresso insieme ai colori sulla grande tela del risorto dai morti (2,65 x 1,75 metri), le cui mani segnate da ferite gloriose hanno tratto fuori dallo Sheol, dal grande e irreversibile abisso, con Adamo, l’intera umanità. Era il 2013, appena terminato il restauro del battistero ad opera dell’arch. Andrea Malacarne, al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale».
A Gian Pietro Zerbini su La Nuova Ferrara lo stesso Baratella raccontava: «Mi hanno particolarmente colpito le figure giottesche dei meravigliosi affreschi di Sant’Antonio in Polesine, il monastero che si trova a due passi dalla chiesa di Santa Francesca. Ho studiato per mesi anche il volto del Cristo che nei disegni di Sant’Antonio appaiono in trequarti, mentre a me serviva di fronte. Diciamo che mentre nella realizzazione degli affreschi della sacrestia del Duomo mi sono ispirato all’Officina ferrarese del Quattrocento, per questo quadro del Cristo ho avuto interessanti spunti dalla pittura giottesca ferrarese».
E sempre nel 2013, Baratella rilascerà per la nostra Voce del 12 aprile 2013 un’intervista a don Andrea Zerbini; così il pittore ci raccontava la sua opera: «Risorto, parola minima per dire tutta l’intensità dello sforzo umano per arrivare alla luce. Così ho pensato al Cristo che con forza sbuca dai subtettonici recessi, scardinando le porte che dividono il chiaro dallo scuro, l’inganno dalla verità, travolgendo il demonio menzognero, trascinando con sé alla luce i Padri dell’umanità. Non c’è parola più simbolica e satura di significato attivo, veniente, arrivante, risorgente, che questa piccola parola: RISORTO».
Non poteva esserci maniera migliore per concludere il ricordo di questo artista così unico nel panorama ferrarese contemporaneo.
*
NOTE
1 – Dall’intervista a G.P. Testa contenuta in La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, a cura di Carlo Bassi,Editrice Ariostea, 2006.
2 – Dalla poesia Via Bellaria, presente nel catalogo Baratella prima di Baratella, Studio d’arte Dolcetti, 2011 (catalogo edito in occasione dell’esposizione presso il Centro Frau di Ferrara, 29 gennaio-27 febbraio 2011, a cura di Angelo Andreotti).
3 – La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, op. cit.
4 – Idem.
5- Idem.
6 – Idem.
7 – B. Giordano, Come in una nuova Officina Ferrarese, la Voce di Ferrara-Comacchio del 4 marzo 2006.
* Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025
“Dal dolore alla lode” è il nome della personale di pittura esposta nel chiostro dal 27 settembre al 5 ottobre. La nostra intervista all’autore
di Andrea Musacci
Il 27 settembre, in occasione della Giornata Mondiale del Turismo, il chiostro della Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita l’inaugurazione della mostra di pittura dal titolo “Dal dolore alla lode. Il canto trasfigurato di Francesco” con opere di Carmelo Ciaramitaro. Alle ore 18, S. Messa presieduta da mons. Massimo Manservigi e alle 18.50 inaugurazione della mostra nel chiostro con intervento dello stesso mons. Manservigi (Vicario Generale e Direttore dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali), alla presenza dello stesso Ciaramitaro. La mostra sarà visitabile a ingresso libero fino al 5 ottobre dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 18.30.
Abbiamo rivolto alcune domande a Ciaramitaro, 39enne di origini siciliane che vive a Ferrara da circa un anno, è laureato in Teologia presso la facoltà pontificia San Giovanni Evangelista e ha seguito anche il corso di licenza in Teologia sacramentale. Sono diverse le esposizioni personali negli ultimi anni: fra queste, alla galleria francescana internazionale nel Santuario di San Damiano in Assisi, alla Pinacoteca Caracciolo a Fulgenzio nel leccese, nel Museo Diocesano di Terni. Attualmente è in corso una personale itinerante al Santuario di Chiesa nuova in Assisi (mostra che a breve esposta nel Museo Diocesano di Acireale).
Carmelo Ciaramitaro
Ciaramitaro, quando e dove ha iniziato a dipingere?
«La pittura è nata con me. La considero un dono di Dio; dono affinato attraverso alcuni corsi iconografici. Tuttavia la densità espressiva la devo più alla mia storia personale e al mio percorso di fede che agli studi compiuti».
Si definisce un artista di arte sacra?
«Sono un artista prevalentemente d’arte sacra e in particolar modo di ispirazione francescana. Vivo il mio talento come una missione dedita alla bellezza della dimensione trascendente insita nell’uomo. L’arte sacra è sicuramente veicolo immediato, direi sensoriale, del rapporto con il divino».
Ritratto dell’artista morto 20 anni fa, vissuto a lungo a Milano ma cresciuto tra Codigoro e Lagosanto: un maestro di arte sacra e liturgica. Ecco la sua vita e la sua “teologia estetica”, oltre all’amicizia con Paolo VI e don Barsotti
di Andrea Musacci
«Il vero futuro deve realmente “arrivare” a noi da Dio: in quanto “nuovo cielo e nuova terra” in cui si manifesta l’essenza delle cose; in quanto “nuovo uomo” formato a immagine di Cristo. Questa è la nuova esistenza in cui tutto è manifesto, in cui le cose stanno nello spazio del cuore umano e l’uomo irradia la sua essenza nelle cose. Di quest’essere nuovo parla l’arte». Queste parole di Guardini(1) penso introducano al meglio la missione dello scultore Nicola Sebastio, di cui il 5 settembre ricorrono i 20 anni dalla morte. Nato a Bologna, ma vissuto perlopiù a Milano, Sebastio in gioventù abitò anche a Codigoro e Lagosanto. Ripercorriamo brevemente la sua esistenza e il suo cammino al Destino, dove arte e incontro con Cristo si intrecciano.
I PRIMI 30 ANNI
Sebastio nasce il 21 marzo 1914 da Carlo, medico condotto di origini tarantine, e da Elena Zani, modista di origini svizzere. Ha un fratello più piccolo, Cataldo. La famiglia va a vivere prima a Codigoro (in via XX settembre, 18) – dove Nicola a 18 anni esegue i suoi primi ritratti di gente del luogo – poi dal ‘24 a Lagosanto. Nel ‘32 Nicola si diploma al Liceo Artistico di Bologna, allievo di Giorgio Morandi, e nel ‘36 in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Torna poi a Lagosanto, dove mantiene stretti rapporti con i suoi amici Rino Guidi e don Guido Cinti. Qui, nella chiesa di Santa Maria della Neve esegue, negli anni, diversi lavori, fra cui la lunetta esterna, dove nel ‘38 colloca un cotto raffigurante la Madonna che regge il piccolo Gesù, Sant’Appiano e San Venanzio di Camerino. Fra le sue mostre, la prima è del ‘39 quando espone nella collettiva Mostra Sindacale d’arte nel Castello di Ferrara, poi nel ’42 partecipa alla mostra nazionale di G.U.F. nella Casa della Gioventù in c.so Giovecca, e l’anno successivo a un’altra collettiva di ferraresi a Diamanti.
DALL’EGITTO A MILANO
Nel ‘40 – anno in cui parte per la guerra e viene fatto prigioniero in un campo di concentramento inglese in Egitto, esperienza che sarà decisiva per la sua vita – insieme a don Cinti progetta la Madonna di Lourdes, con Santa Bernadette, per la facciata della Casa della Gioventù a Comacchio. Nel ’53 realizza un busto in marmo raffigurante Pio XII per il Seminario di Comacchio, mentre nel ‘58 dà vita alle 14 stazioni della Via Crucis e negli anni ‘60 sperimenta – fra l’altro – la tecnica del mosaico raffigurando nell’abside il Cristo Pantocratore. Fra fine anni ’40 e fine anni ’60 a Milano realizzerà diverse opere, fra cui nel ‘53 la statua di San Giovanni Battista De La Salle, posta sopra la prima guglia della facciata del Duomo (per cui realizzerà anche un tabernacolo portatile) e altre per la chiesa di Dio Padre. Nel ‘58 alla Pro Civitate Christiana di Assisi viene premiato alla collettiva sul tema Gesù Divino Lavoratore, nel ’65 per la chiesa Sant’Anna di Bologna crea il fonte battesimale progettato insieme al card. Lercaro e nel ‘70 riceve il prestigioso premio Madonnina d’oro, vinto quell’anno anche da Ungaretti. Nel ‘66 muore il padre e Nicola ne disegna e modella la tomba monumentale. Nonostante vivrà stabilmente a Milano, tornerà spesso a Lagosanto, Comacchio e Porto Garibaldi, per dar vita a diverse altre opere. Aderisce anche al Gruppo Arte e Comunità, nato a Milano a fine anni ’70, unendo artisti di generazioni e sensibilità diverse ma uniti dalla fede(2).
SUL COMODINO DI PAOLO VI
Negli anni ‘60 Sebastio – racconta don Dolz(3) – iniziò a realizzare «bronzetti di modeste dimensioni come opere finite. Usava una tecnica grumosa, figlia delle versioni previe in terracotta o gesso, di potente plasticità. (…) Fece dono di uno di questi a Paolo VI» che il 29 maggio del ‘70 festeggiava il 50° di ordinazione sacerdotale. «Il papa gli fece arrivare un caldo ringraziamento e mons. Pasquale Macchi lo conservò nella collezione di opere moderne. In quegli anni scriveva spesso a Paolo VI con I’intento di raccontargli delle attività con artisti cristiani. Papa Montini lo conosceva come persona e come artista da quando era arcivescovo di Milano». Per esempio, all’inaugurazione della chiesa di Sant’Eugenio, racconta Sebastio(4) «celebrando la messa, il cardinale notò un mio crocifisso sopra il tabernacolo. Era un crocifisso stretto e alto, piantato sulla pietra. Espresse il desiderio di averlo». Quando fu eletto papa, «si portò via questo crocifisso che tenne sempre sul comodino della sua camera da letto (…)».
GLI ULTIMI ANNI
Nel 2000 il Palazzo Arcivescovile di Ferrara ospita la sua personale La Croce e la speranza, organizzata dal Centro Culturale L’Umana Avventura e già esposta nel 1980 alla I^ edizione del Meeting di Rimini. Nel 2004, invece, Giglio Zarattini, mons. Samaritani e Laura Ruffoni curano a Palazzo Bellini a Comacchio una sua mostra sul tema del Crocefisso. Nel 2005, dopo la sua morte (avvenuta pochi mesi dopo quella della moglie), nasce l’Associazione Amici di Nicola Sebastio. Nel 2012 a Palazzo Bellini viene riservato uno spazio esclusivo per diverse sue opere, alcune di esse ora sparse in sale dell’edificio. Nel 2014 gli vengono dedicate due mostre, una a Pomposa, l’altra a Comacchio. Sebastio torna alla Casa del Padre il 5 settembre 2005, all’età di 91 anni, otto mesi dopo la morte di Maria Mazzoleni (morta il 6 gennaio), la sua «sposina cara, sposina bella» come teneramente la chiamava, con cui era convolato a nozze nel ’47: «Maria – racconta l’amico don Dolz(5) – si ammalò gravemente nel 2001. (…) Ormai terminale, fu trasferita in un hospice ad Abbiategrasso. Nicola passava le ore accanto al suo letto e lì, su un normale foglio A4 e con la biro azzurra, fece il disegno più drammatico della sua vita, sua moglie in punto di morte».
DON DIVO, FRATELLO
Oltre a CL, Sebastio nella sua vita si interessò ai Focolarini, a Rinnovamento nello Spirito e ai Domenicani e fu attivo nel Serra Club. Ma in generale «era attaccato alla Chiesa in tutte le sue varie dimensioni e realtà. Mantenne un rapporto filiale con i vescovi, in particolar modo col cardinal Martini, con il quale scambiò corrispondenza fino alla fine»(6). Il legame più forte, però, era quello con la Comunità dei figli di Dio fondata da don Divo Barsotti, nato un mese dopo Sebastio (il 25 aprile ’14) e morto pochi mesi dopo (il 15 febbraio 2006): «Con Barsotti ci furono rapporti molto stretti, sia sul piano religioso che artistico. Ne è rimasta la fitta corrispondenza». Il 18 luglio ‘62 Barsotti compiva 25 anni di ordinazione «e i suoi figli spirituali gli prepararono alcuni “regali”. Sebastio disegnò e fece confezionare un calice dalla coppa semplicissima, liscia, giocata sulla perfezione della curva, appena mossa da piccole pietre incastonate ritmicamente. E si premurò di fare anche la custodia per il calice, un’arca a capanna, come i reliquiari medievali, sbalzata con scene dell’Epifania»(7). L’anno prima, nel ’61 – raccontò(8) – «partecipai agli Esercizi Spirituali dell’UCAI (Unione Cattolica Artisti Italiani, ndr) a Campo Morone (GE) predicati da padre D. Barsotti (…) e mi portò a Settignano (FI)» alla Casa di San Sergio, «dove mi ordinò un San Sergio di Radonez»: «p. Barsotti mi diede il Cantico di San Sergio nella luce della Trinità. Dopo cena andai nella mia stanza per riposare e sul letto cominciai a leggere e a declamare il Cantico della Trinità. Lo lessi più volte velocemente, poi una zanzara si posò sulla mia mano sinistra, la schiacciai, e da lì, dalle ali divaricate, disegnai le tre Fiamme dello Spirito Santo centrate dal sole, col nome di Gesù Cristo. La mattina dopo Don Divo stupito approvò e mi ordinò il rilievo per l’esterno della Cappella della Comunità dei figli di Dio. Mi ordinò pure la croce gloriosa col Cristo Risorto, il Tabernacolo e i tre simboli della Trinità».
LA CROCE E LA PENTECOSTE
«Vuol dirci perché fa l’artista?»
«Per dire una parola che possa servire anche agli altri. Perché la mia scultura, nel suo limite, possa manifestare il mistero cristiano agli uomini». (…) La «fede degli italiani è troppo di carattere devozionale. La massa non arriva a capire il Cristo che racchiude in sé tutto (…). Occorre ridare alla gente il senso pasquale». In questo passaggio di un’intervista che Sebastio rilasciò nell’ottobre del ’66 a Famiglia cristiana(9) emerge bene come il centro dell’esistenza di quest’artista fosse chiaro: Gesù Cristo. E la Croce, intesa non solo come simbolo della Passione ma della Redenzione, cuore della storia universale.
In un altro testo(10), prima di ripercorrere la storia del simbolo della croce dal 4000 a. C. (con la Croce di Tepe Siyalk, conservata al Museo di Teheran), Sebastio scriveva: «La Croce riassume in sé tutto il mistero della redenzione. Per la Bibbia la croce è l’albero della vita, al centro del Paradiso Terrestre, che a sua volta rappresenta il centro del Mondo(11). (…) Vediamo come sia attuale e necessario testimoniare la resurrezione di Cristo con la croce gloriosa – proseguiva – e come questa possa contribuire a ridare luce, sollievo, gioia all’umanità angosciata di oggi».
Dalla gloria del Cristo Risorto, Sebastio arriverà – in un profondo cammino personale – al senso della Pentecoste. Quell’estate sopracitata del ’61 Sebastio sarà anche a Friburgo; raccontò(12): «Da poco ho capito la Pentecoste, il tempo di Pentecoste, il tempo nel quale i cristiani, come nuovi apostoli, dovrebbero far lievitare cristianamente la società che li circonda. Spesso ciò non avviene, perché il nostro maggiore nemico è in noi, nella nostra superbia di europei portatori di civiltà, dimentichi della frase del Vangelo: “Gli ultimi saranno i primi”. La netta sensazione di ciò l’ho avuta al recente Convegno del Segretariato Internazionale degli Artisti Cattolici dipendente da Pax Romana, tenutosi a fìne luglio in Svizzera a Friburgo. A Friburgo ho visto la Chiesa, ma l’ho sentita soprattutto per opera dei Cinesi, dei Vietnamiti, degli Africani, di qualche Tedesco dell’Est, degli Irlandesi e di alcuni Svizzeri. In loro il Cristo veramente abitava ed era il centro della loro vita».
Cristo centro dell’esistenza di ognuno verso il comune Destino. E arte come segno di ciò: «Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente escatologica e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà»(13).
***
Grazie per l’aiuto a don Andrea Zerbini (CEDOC S. Francesca Romana), Fosco Bertani (artista amico e allievo di Sebastio), Maria Rosa Sabattini (Comune di Comacchio) e P. Agostino Ziino (Comunità dei figli di Dio).
NOTE
1 – R. Guardini,L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia, 1998.
2 – Vedi Arte e Comunità: come nasce un gruppo, Centro Culturale San Michele, Sala G. Varischi, Cremona, 11-25 maggio 1986.
3 – M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, Medusa ed., 2014.
4 – Ibid.
5 – Ibid.
6 – Ibid.
7 – Ibid.
8 – Arte e fede: intervista a Nicola Sebastio, a cura di Margherita Giuffrida Ientile, 1980.
9 – In M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, cit.
10 – In N. Sebastio, La croce e la speranza alle soglie dell’anno 2000, Centro Culturale La traccia, Galeati, Imola, 1984.
11 – A tal proposito mons. Antonio Samaritani scrisse: «Ebbi una specie di folgorazione quando Sebastio mi fece conoscere il tema della croce di Cristo in versione transculturale, che ritengo sigla fondamentale di tutto il suo organico per quanto articolatissimo iter spirituale e artistico» (in Nicola Sebastio. Un uomo, un impegno: l’arte del sacro, supplemento di Anecdota, Quaderni della Biblioteca L.A. Muratori del Comune di Comacchio, 2004).
12 – Dall’articolo di Sebastio, La mia Pentecoste, in Rivista Liturgica del Centro di Azione Liturgica, Anno XLVIII – n. 5-6 – settembre-dicembre 1961.
13 – R. Guardini, L’opera d’arte, cit.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025
L’importante progetto espositivo nella chiesa della Conversione di San Paolo in piazzetta Schiatti a Ferrara. Il 14 giugno un centinaio i presenti per omaggiare il maestro 96enne Giorgio Celiberti: protagonisti, la commozione e la gratitudine
Erano un centinaio i presenti nel pomeriggio di sabato 14 giugno nella chiesa di San Paolo a Ferrara che, sfidando il caldo e l’orario, hanno partecipato all’inaugurazione del progetto espositivo “I volti della Passione”, con opere di Giorgio Celiberti, artista udinese di 96 anni di fama internazionale. La mostra è stata organizzata dallo Studio Giorgio Celiberti assieme all’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e alla chiesa della Conversione di San Paolo. L’intenso pomeriggio ha visto i saluti del nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e gli interventi di mons. Massimo Manservigi, Vicario Generale e Presidente dell’UP San Paolo-S. Stefano, mons. Stefano Zanella, Direttore Ufficio Tecnico Amministrativo Diocesano, dello stesso Celiberti (visibilmente commosso) e di Romeo Pio Cristofori, Conservatore del Museo della Cattedrale. A seguire, vi è stata la proiezione del documentario “Come il primo giorno” di mons. Manservigi, realizzato con la fondamentale collaborazione di Giovanni Dalle Molle e Giovanni Zardinoni.
Nel documentario, il fil rouge è la commozione davanti ai dolori e alle grazie dell’esistenza: in esso, Celiberti, ad esempio, racconta commosso dello zio pittore Angilotto Modotto, figura centrale nella sua vita, del gatto morto 6 mesi prima perché avvelenato, del libro con i pensieri dei bimbi di Terezin. dell’incontro nel ’48 alla Biennale di Venezia alla quale partecipò, con l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che lo salutò e incoraggiò. Su tutto, il Cristo che sempre l’ha accompagnato e il cui sacrificio «sempre sento vicino»: insomma, una figura «che ho sempre con me, sempre».
IL PATRIARCA E LA CROCE
«Giorgio è il nostro patriarca: ci precede tutti, sia come età sia come spirito e voglia di vivere», ha detto mons. Manservigi parlando di Celiberti. Celiberti che – ha rivelato poi mons. Manservigi – «sta lavorando a una personale interpretazione della Croce di Gerusalemme, con l’intenzione di donarla a Papa Leone XIV il giorno del suo compleanno, il 14 settembre, Festa dell’Esaltazione della Santa Croce». La Croce di Gerusalemme è anche il simbolo dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Ordine che ha visto il 14 giugno a San Paolo la presenza di alcuni suoi rappresentanti da Bologna.
LA MOSTRA
La mostra nella chiesa di San Paolo è visitabile fino al prossimo 6 gennaio il sabato dalle ore 16 alle 19 e la domenica dalle 10 alle 12. Da metà luglio, anche il venerdì, in orari da definire.
L’esposizione, dislocata nei diversi spazi dell’edificio, è pensata come una Via Crucis nelle navate laterali, con 8 bacheche ognuna contenente tre opere raffiguranti il Cristo Crocefisso. Inoltre, all’altare della Madonna del Carmelo vi è il Grande Libro e, nel coro dietro l’altare principale, le 12 Stele (finestre) tra cui alcune dedicate a Terezin.
ANEDDOTO DEL VESCOVO E INTERVENTO DI DON ZANELLA
Il nostro Arcivescovo, prima del suo intervento (v. il testo integrale a dx) ha raccontato di quando nei primi anni 2000, quand’era Responsabile Area Nazionale per Caritas Italiana, andò a Udine per ritirare un’incisione di Celiberti donata proprio a Caritas Italiana.
Ha preso poi la parola mons.Zanella che ha spiegato come «questa mostra è un’occasione per dimostrare come il nostro Ufficio (Tecnico Amministrativo, che si occupa anche di Beni Culturali, ndr) non è solo un ufficio burocratico ma luogo vivo di idee». In questo «scrigno di arte e architettura, mi auguro che le opere di Celiberti parlino al cuore dei fedeli e dei visitatori». Una mostra, quindi, «che può far vedere a ognuno come ancora sia possibile un dialogo tra Dio, l’arte e la persona».
CRISTOFORI: «CI FA INCONTRARE LA PASSIONE DI CRISTO»
«Celiberti è un artista straordinario, unico», ha poi commentato Cristofori del Museo della Cattedrale. «Se nel silenzio – ha riflettuto – guardiamo con la memoria, la coscienza, l’anima, allora lo sguardo cambia, il cammino ci conduce al volto del Cristo, volto sofferente e carico di dignità, volto che è presenza, volto familiare che sempre ci guarda, che ci è vicino». L’arte, come la fede – ha aggiunto -, ha bisogno di luoghi dove accadere:in questa chiesa, l’opera di Celiberti trova una nuova profondità, si fa memoria, non spettacolo, non racconta ma evoca, ci fa incontrare la Passione», attraverso «un’interrogazione rivolta anche al presente».
In Celiberti, quindi, «c’è la volontà di trasformare la Storia in segno, in atto poetico», atto che «cerca profondità, tra il segno e la sua resurrezione».
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 giugno 2025
LA PITTURA COME LUOGO DELLA PRESENZA DI DIO. La storia del pittore nato negli USA nel 1912 e morto in Italia nel 1998: un racconto di conversione a Cristo e il suo continuo porre il Crocefisso al centro della tela e della propria vita
di Andrea Musacci
«Il mistero dell’incarnazione nella croce non può essere risolto dialetticamente, sembra dirci Congdon; nell’istante in cui Cristo invoca il Padre è sancita una separazione che nessun lavoro del concetto può superare». (M. Recalcati)
Ci sono storie di vite redente che è impossibile raccontare con uno stile agiografico, tanto sono complesse, tormentate, fuori da ogni schema e sovrastruttura. Una di queste è quella di William Congdon, pittore statunitense nato a Providence, Rhode Island, il 15 aprile 1912, e morto il 15 aprile (strana coincidenza) del 1998 nella Bassa Milanese. Sì, perché Congdon dopo aver lasciato la propria terra e aver viaggiato in mezzo mondo, ha deciso di vivere in Italia, pur continuando fino agli anni Settanta a esplorare Paesi lontani. Dal 29 al 31 maggio a Ferrara, all’interno del Festival della Fantasia, sarà esposta la mostra “Nel mio solco estremo. Paesaggi esteriori e interiori di W. Congdon”, a cura di Roberta Tosi. Inaugurazione il 29 alle ore 19.30 nel Salone d’Onore del Municipio, con visita guidata a cura di Rodolfo Balzarotti (Direttore Scientifico W. Congdon Foundation). Qui il programma: urly.it/319tf2
Sono quattro le mostre di Congdon a Ferrara, quand’era ancora in vita: nel 1964, nella collettiva “Gesù nell’arte contemporanea”, Palazzo Arcivescovile; 1981, “W. Congdon: Europa e America”, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti; 1986: “Congdon: opere recenti 1980-1986”, Istituto di Cultura “Casa Cini”; 1995-’96, “Congdon. Pastelli 1984-1994”, Istituto di Cultura “Casa Cini” (con in catalogo anche un testo di Angelo Andreotti).
SULL’ABISSO TRA ETERNO E NULLA
William Grosvenor Congdon nasce in un ambiente alto borghese, figlio di due facoltosi industriali. Per fuggire dal puritanesimo e dal materialismo di questo mondo, dopo gli studi, nel ’42, si arruola volontario nell’American Field Service (AFS), servizio di sanità, e come autista di ambulanze partecipa alla battaglia di El Alamein, per poi essere chiamato nel centro Italia. «La guerra mi ha aperto all’amore», dirà, in Italia «cominciavo a vivere, a riconoscermi amato». Un’altra esperienza che lo segnerà profondamente sarà quella vissuta, sempre con l’AFS, nel maggio ’45, nel campo di concentramento di Bergen Belsen appena liberato. Qui scriverà: «Questo non è un uomo / ma materia inesistente (…)». Nel ’48, a 36 anni, inizia a dipingere, va a New York, prima nella miseria del Bowery, e poi nel lusso del 30esimo piano di Park Avenue. Nel ’49 la sua fama di artista esplode grazie anche all’incontro con Peggy Guggenheim e Betty Parsons, assieme ai nuovi talenti della “Action Painting”, fra cui Pollock e Rothko.
Nel ’50 si innamora di Venezia, dove si trasferisce: «Andai a Venezia – scrive – perché il suo aspetto fantasioso di città nell’acqua mi sembrava offrire un rifugio dal mondo materialistico che dopo la guerra mi disgustava». Ma il luogo che gli stravolge l’esistenza è Assisi, dove vi arriva, per la prima volta, nel ’51, e dove ci vivrà per quasi 20 anni, da fine anni ’50 a fine anni ’70. Qui conosce – tra gli altri – don Giovanni Rossi, fondatore e guida della Pro Civitate Christiana, associazione missionaria e centro culturale, e Paolo Mangini, membro della Pro Civitate che a sua volta gli permetterà di conoscere don Luigi Giussani, fondatore di CL (altra conoscenza decisiva). Di Assisi, scrive Congdon: «Nel convento di San Damiano cominciai a leggere i Fioretti di San Francesco dai quali non mi separai più durante gli ultimi nove anni che precedettero la mia conversione». Lo stesso anno, ad Assisi vi torna a Natale: «La spontaneità e la passione colla quale il popolo celebrò la Messa di mezzanotte e la Messa solenne di Natale mi commossero profondamente». Inizia a comprendere come «le ferite della mia infanzia» – in particolare il rapporto difficile col padre -, «il peso della colpa non potevano essere guarite dalla sola pittura». India, Grecia, Egitto, Istanbul, Santorini, ancora Venezia…e Cambogia. Il vuoto e le lacerazioni dell’anima non poteva curarle nemmeno viaggiando. Quelle ferite antiche potevano essere superate solo in un modo: «Fin dalla mia infanzia, mi si era fatto sentire il senso della colpa quando non avevo peccato. Il peccato era stato presunto per me, e la colpa imposta. Adesso che avevo veramente peccato, in un attimo mi ritrovavo senza colpa nel perdono di Cristo».
Nel ’59, infatti, torna ad Assisi e, assieme ad altri e altre giovani, riceve il battesimo dalle mani del Vescovo mons. Giuseppe Placido Nicolini. Da qui, cambia – inevitabilmente – anche la sua pittura: «Nella misura in cui il Cristo aveva salvato la mia vita dal naufragio e adesso era la mia verità, la Sua figura cominciava a prevalere su qualsiasi altra fonte di ispirazione, e a diventare tutti i paesaggi e i templi delle diverse fedi fino adesso dipinti, e il mezzo inevitabile di proclamare la mia libertà riconquistata e la mia salvezza». Alcuni suoi Crocifissi, non a caso, ricordano anche il Tau francescano, essendo la testa del Cristo a livello del costato.
Poi va a Subiaco, nel convento abbandonato del beato Lorenzo e a fine anni ‘70 si trasferisce nella Bassa milanese, a Gudo Gambaredo, in una casa-studio (o «studio-cella») annessa a un monastero benedettino, la Cascinazza: qui entrerà nei Memores Domini di CL, dopo averli conosciuti a Milano (dove vive dal ’66 al ’79). A Gudo rimarrà fino alla morte.
«È NEL MIO SPARIRE CHE L’IMMAGINE NASCE»
In occasione della sua seconda personale a Ferrara – nel 1986 a Casa Cini – Congdon scriveva: «Il Dono vuole fulminare, cancellare dalla faccia della terra ogni contaminazione di oggetto, perché emerga limpida e pura l’immagine. Agonia delle cose spogliate dallo spazio; la quale agonia, mentre cancella le cose, le restituisce risorte, come il vero spazio che è l’immagine».
Una riflessione, questa del Congdon maturo, sopraggiunta dopo tanti anni di inquieta ricerca, di assillo. Scriveva, infatti, da giovane in una delle lettere a Belle, sua cugina poetessa: «Paghiamo un caro prezzo per il fatto di giungere così vicino e poi ignorare il resto, non andando, con Dio, più oltre. Ma è questo “resto” che vorremmo creare, come compensazione. Nell’arte creiamo ciò che, di Dio, non possiamo essere. Naturalmente non ci riusciamo, e quindi siamo spinti oltre». Insomma, «creiamo nel dolore della nostra non-santità». È nel non-ancora che ci muoviamo – sembra dirci qui -, è nel non-Essere che, al tempo stesso, è brano, segno, anticipazione della Chiarità senza la quale nulla potrebbe rifulgere. Chiarità che ha dovuto impiegare molto tempo per vincere le nebbie non solo di Venezia e della Bassa, ma soprattutto del suo cuore.
Arriverà, ad esempio, in uno scritto del 1975, così ad esporre la sua matura riflessione teologico-esistenziale: «L’opera d’arte nasce, sgorga da un incontro fra me-artista e una qualche cosa, vista, che mi afferra, e che mi chiama per nome; o meglio: mi chiama con la promessa di darmi il nome». Questa promessa è «amore». In un oggetto visto, e che si vuole rappresentare, è necessario quindi «partire dal segno» che «risveglia di sé come Presenza in me, perché è questa Presenza nella mia esistenza che io dipingo», e non l’oggetto in sé. Questa Presenza è Cristo, Dio-Amore e quindi il pittore nel dipingere l’oggetto è lui stesso «rigenerato nell’essere, egli stesso dipinto da esso – dal mistero». Proprio «come – prosegue Congdon – nella santa comunione noi mangiamo, sì, il corpo del Signore, ma per essere assimilati, consumati in Lui. È Cristo, in fondo, che “mangia” noi». Per questo motivo, l’artista deve cercare «la trasparenza della povertà di Spirito! È nel mio sparire, nel mio perdermi (…) – “morire” – che l’immagine nasce». Quello “sparire” per far posto a Cristo di cui ha parlato anche Papa Prevost nella sua prima omelia del 9 maggio scorso.
Per Congdon, quindi, «l’artista è sacerdote in quanto trasfigura la realtà, la materialità della nostra vita in alleanza, e in quanto la offre proclamando che il significato esauriente di tutto è Cristo». E così posso riconoscere che «il Cristo sulla croce è me stesso; che è il mio peccato inchiodato alla croce», e quindi per Congdon i suoi Crocifissi dipinti – dice – sono «la mia propria carne che dipingo con dentro la certezza della resurrezione». La “conclusione”, per Congdon non può quindi che essere questa presa di coscienza piena dopo l’abisso nel quale era vissuto, nella lontananza da Dio-Misericordia: «Io, morto, Dio mi fece rigenerare me stesso dal male, partorendo con questi quadri l’immagine della sua morte e resurrezione! Mi fece risorgere: immagine io stesso di Cristo con il mio proprio dono!».
***
FONTI
U. Casotto (a cura di), “William Congdon. L’essenziale è visibile agli occhi” (Dario Cimorelli ed., 2024).
M. Recalcati, “W. Congdon. La poetica del crocefisso”, in “Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti” (Feltrinelli ed., 2016).
F. Patruno, “William G. Congdon: Lo splendore è sempre sofferenza”, in “L’Osservatore romano”, maggio 1995.
W. Congdon, “Arte-Persona-Cristo”, in “Communio”, 1975.
W. Congdon, “Nel mio disco d’oro. Itinerario a Cristo” (Pro Civitate Christiana, 1961).
In via Vignatagliata 41 inaugurata la nuova casa con una mostra di cinque maestri ferraresi
Appena una manciata di minuti a piedi divide i primi 25 anni della Galleria del Carbone da quel futuro che è già iniziato. Dallo scorso 16 febbraio, infatti, l’Associazione “Accademia d’Arte Città di Ferrara APS” ha una nuova casa in via Vignatagliata 41 (nel cuore dell’antico Ghetto ebraico), dopo un quarto di secolo in via del Carbone 18/a, proprio di fronte alla sala 4 del Cinema Apollo (ex chiesa di San Giacomo), con più di 300 mostre e diversi altri eventi culturali organizzati.
E la nuova sede è stata inaugurata il 16 (con tantissimi presenti) con la mini collettiva “Ripartiamo” di 5 maestri dell’arte ferrarese: Maurizio Bonora, Paola Bonora, Gianfranco Goberti (scomparso nel gennaio 2023), Gianni Guidi, Sergio Zanni. Il passato, certo, ma anche l’avvenire che non può non “ripartire” dalle sue radici più solide. La mostra sarà visitabile fino al 9 marzo da mercoledì a domenica (ore 17-20), e sarà accompagnata da eventi collaterali nei fine settimana: il 23 febbraio alle 18 verrà proiettato un video dedicato a questa mostra e un’intervista a Paola Bonora, mentre il 1° marzo Lucia Boni (assieme a Corrado Pocaterra) presenterà il suo libro “Carbone d’argento” dedicato a questa fase di passaggio della Galleria. Galleria che raccoglie fra i propri soci molti artisti ferraresi contemporanei, di diverse generazioni, e attualmente conta 65 soci. Il Direttivo è composto da Paolo Volta (Presidente), Lucia Boni (Segretaria e Tesoriere) e da tre consiglieri (Gianni Cestari, Corrado Pocaterra e Ulrich Wienand). «Nessuno di noi vuole “rottamare” ciò che è stato, convinti, come siamo, che nulla si crea se non c’è un’esperienza pregressa sulla quale appoggiarsi, ma diventa necessario comunque rinnovarsi», spiega Lucia Boni. L’Associazione nacque nel ’97 da nove fondatori: Paolo Volta, Lucia Boni, Isabella Guidi, Gianni Vallieri, Paola Braglia Scarpa, Rita Confortini, Tiziana Davì, Giuliana Magri e Giacomo Savioli. Ma il Carbone guarda sempre avanti: fra le mostre in programma, vi è “Arte prigioniera” con opere di artisti della nostra provincia imprigionati soprattutto durante la seconda guerra mondiale – Cesare Lampronti, Danilo Farinella, Nicola Sebastio e Alberto Cavallari; un altro progetto futuro sarà, invece, legato alla Collezione di Roberto Niceforo.
Sergio Zanni, uno degli artisti in mostra, sta vivendo a livello personale ciò che la Galleria vive a livello collettivo: a breve, infatti, traslocherà nel suo nuovo studio in via Boccacanale di S. Stefano 14, nei locali dell’ex Mercato Coperto. E proprio Zanni ci racconta del mitico “Gruppo 4” nato a fine anni ’60, formato proprio da lui, Guidi, Goberti e Maurizio Bonora, tutti cresciuti all’Istituto Dosso Dossi: «eravamo diversi fra noi ma c’era qualcosa di profondo che ci legava. Ognuno con la propria ricerca, uscivamo dalla tradizione pittorica ferrarese: ci sentivamo un passo avanti». Un legame che continua oggi e che nel 2011 ha visto una tappa importante con la personale di Goberti a inaugurare la prima mostra del ciclo “Incontri d’autore”, che poi si concluderà con una collettiva dei fab four.
Ricordiamo che la nuova sede in passato ha ospitato lo Studio d’arte di Guido Marchesi, vicino al suo “Guido Ristorante”. A fine dicembre 2024 Marchesi ha aperto il suo nuovo studio d’arte “Sulla strada” lì vicino, in via Vignatagliata 57. Ma la nuova sede in passato (forse nella prima metà del secolo scorso) era…l’androne del palazzo; e dove ora vi è accolto il pianoforte e la libreria d’arte della Galleria, c’era un pozzo luce. Là in fondo, non molto distante, c’è la vecchia sede: solo via Vittoria divide le due strade, la vecchia e la nuova. Il legame è invisibile ma – rimanendo nel nome e nell’anima – è indistruttibile.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 febbraio 2025
All’Hotel Annunziata di Ferrara la mostra fotografica di Rosaria Anna Lardo, riflessione su ricordo e avvenire
«Nella luce del tardo pomeriggio, mi è sembrato che gli anni si confondessero e che il tempo diventasse trasparente».
(Patrick Modiano, da “Fiori di rovina”)
Un atto di intima archeologia familiare è quello compiuto da Rosaria Anna Lardo, che a Ferrara espone il suo progetto fotografico “Pianonobile – I fiori del bene”. La mostra è visitabile gratuitamente nell’Art Gallery all’interno dell’Hotel Annunziata (p.zza della Repubblica) fino al prossimo 4 gennaio, è curata da Margherita Franzoni e accompagnata da un catalogo omaggio.
Lucana ma residente a Roma, Lardo si ispira alla storia di una nobildonna vissuta nella sua terra d’origine a inizio Ottocento. Il percorso espositivo alterna interni di una grande villa ormai spoglia con esterni ariosi ma carichi di tensioni. La salvezza — sembra dirci in ultima analisi l’artista — viene sempre dall’altro, da fuori: fuori da quella finestra verso cui è rivolto non solo il viso della donna protagonista delle immagini, ma l’intero suo corpo, tenero ma potente nell’essere proteso verso la luce (foto). In un’altra immagine in parete, il fuori è invece rappresentato dalla stanza accanto, enigmatica perché solo accennata, rivestita di luce ma spoglia. Esterno/interno non è, però, l’unica tensione nelle foto di Lardo: una vestaglia da donna posata sul divano o, in un’altra opera, un velo candido (che pare un sudario) dicono di una presenza e assieme di un’assenza, di un tentativo di nascondere e di segnare. Di un ricordo e di una volontà di abbandono, ma non al passato.
La salvezza, infatti, è in questa attesa composta e mite ma profondamente dinamica. E l’attesa – nelle mani, nel volto pur celato – è sempre, anche, contemplazione, quindi non banale agire ma apertura, risposta, inquietudine mossa da un’affezione più grande. Non è esitazione ma consacrazione, un “dedicarsi a”. Si attende sempre ciò che è reale e presente, Colui che viene. E così la memoria – quella di chi ha saputo almeno una volta sperare – non è mai sterile, è anch’essa attesa di ciò che ancora vive, contemplazione creatrice. Fiori posati sul cuore, una conchiglia di luce.
La nostra baronessa, Donna P. P., madre di sette figlie, rivivendo nelle stesse parole di Lardo (il testo è presente nel catalogo) ci grida «voglio il fuori» e al tempo stesso il suo desiderio di «sprofondare». Il dolore ne pervade il corpo ma non è totalizzante: l’avvenire avrà casa nella «meraviglia» e nel «miracolo». Così l’artista, scavando nella vita di questa sua nobile ava, in realtà dissotterra tesori imprevisti nella propria esistenza, rendendola più trasparente e facendo entrare — anche per noi che ammiriamo le sue foto e leggiamo le sue parole – un po’ di luce da quel fuori che ci attende.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2024
Mostra a Vigarano e catalogo per l’artista che decorò anche il Poggetto
“Bozzetti Liberty a Vigarano” è il titolo della mostra, a cura di Lucio Scardino, esposta dal 30 novembre all’8 dicembre nella “Casa della Musica e delle Arti” di Vigarano Pieve (via Mantova, 111), e realizzata grazie al Comune di Vigarano in collaborazione con il locale Fotoclub. Legato alla mostra, vi è il catalogo “Ildebrando Capatti pittore e decoratore del Novecento ferrarese (Ferrara, 1878-Vigarano Mainarda, 1959)” (foto in alto: l’immagine di copertina).
In parete, scrive Scardino nel volume, «la serie di schizzi e bozzetti ad acquerello» provenienti «da una cartella un tempo conservata dalla figlia Zagomilla» forse degli anni Dieci-Venti: «non a caso un paio di essi sono siglati G. M.», ovvero la firma di Giulio Medini (1872-1954), guida indiscussa per Capatti. «Un altro foglio (monocromo studio decorativo del 1907, con belle figure di pavoni) è invece firmato dal misconosciuto Zaffagnini, classe 1885». Altre due opere sono ascrivibili a Carlo Parmeggiani. «I fiori sono i protagonisti assoluti dei bozzetti in varie declinazioni sia botaniche che stilistiche – prosegue Scardino -, in chiave naturalista o stilizzata libertynamente ma compaiono altresì figure danzanti e giovani pifferai, cariatidi e grifoni, ventagli e strumenti musicali, mentre un’opera forse si riferisce ad un concorso di carattere decorativo, presumibilmente per il Castello di Ferrara: gli ambienti della ex Prefettura in effetti vennero affrescati negli anni ’30 da Augusto Pagliarini». «In genere – scrive il curatore -, lo stile adottato in questi deliziosi bozzetti è lo stile liberty», ma non mancano «richiami alle grottesche cinquecentesche dei Filippi, al Manierismo carraccesco, a Barocco e Rococò (…) e ad un classicismo ottocentesco filtrato da ricordi dell’età umbertina».
Oltre a lavori per committenti privati (ad es. per le decorazioni della chiesa di Pescara vicino Ferrara), Capatti lavorò anche per il pubblico: «per ornati nell’aeroporto “Allasia”, fuori Porta Reno, per l’isolato della vecchia sede delle Poste, sempre in Giovecca (angolo Teatini), per la chiesetta del Poggetto a Sant’Egidio, per la sala d’aspetto della stazione ferroviaria». Riguardo al Poggetto, Capatti tra le due guerre decorò l’area absidale con litanie mariane, decorazioni in parte distrutte dai bombardamenti del ’45 e in parte coperte nel post Concilio. Capatti negli anni ’20-’40 continuò anche ad esporre come pittore nelle mostre sindacali fasciste allestite in Castello e altrove, «anche se quel che è forse il suo capolavoro resta nell’ex palazzo Todeschi, sede dal 1919 (e per pochissimi anni) della Camera del Lavoro di Ferrara: la laboriosa decorazione intitolata “L’Internazionale” e “Il Sol dell’avvenire”, eseguita assieme a Leone Caravita». Alla sua Vigarano, invece, donò un paio di quadri ispirati alle miserie degli abitanti del Delta padano, mentre la figlia allo stesso Comune regalò “Sulla tomba del compagno”, forse del 1919.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2024
A 5 anni dalla morte, una mostra al Carbone di Ferrara lo ricorda. L’aneddoto sull’ex voto dedicato a San Paolo
di Andrea Musacci
In questi giorni Ferrara ricorda Gabriele Turola, pittore, scrittore e critico d’arte morto improvvisamente nell’agosto del 2019 all’età di 74 anni. Nei 5 anni dalla scomparsa, la Galleria del Carbone (via del Carbone, 18/a) fino al 22 settembre ospita la mostra dal titolo “Dedicato a Gabriele Turola”, curata da Corrado Pocaterra. L’esposizione è visitabile dal mercoledì alla domenica dalle 17 alle 20. Per l’occasione è disponibile un catalogo con diverse opere di Turola e contributi di amici e conoscenti: Daniele Biancardi, Lucia Boni, Milena Botti, Daniela Carletti, Marcello Carrà, Gianni Cestari, Alberto Felloni, Paolo Orsatti, Lara Fratti, Galeazzo Giuliani, Claudio Gualandi, Paolo Volta, Lucio Scardino, Massimo Stagni Roncara & Giuliana Berengan.
Nelle opere di Turola domina il fantastico e il surreale: a fatica, vi è un umano che sia pienamente tale. Tutto è trasfigurato, il reale è solo una convenzione, un gioco. Il reale, per Turola, è la vera astrazione, la vera finzione. Tutto nella sua arte può avere un volto, come in certi incubi di bambino. Questi volti che spuntano, che animano oggetti altrimenti inanimati, sono allo stesso tempo un sollazzo, una sorpresa e un inganno; in controluce, vi si nota anche qualcosa che assomiglia allo sberleffo, senza però mai perdere una certa grazia e dolcezza. Le sue opere ci permettono di ricordare certi viaggi notturni nel sogno; viaggi verso terre da non dire, attraenti e disturbanti, ambigui e leziosi. In Turola, tutto è ludica evasione, fiaba colma di una matura consapevolezza. Non vi è mai piena allegria, nelle sue opere, ma un velo malinconico, come giustamente scrive Gianni Cestari nel suo contributo presente nel catalogo sopracitato.
L’EX VOTO E LA CHIESA DI SAN PAOLO
Nel 2000, in occasione dell’Anno Giubilare, Turola ebbe anche l’occasione di realizzare un ex voto, presente per alcuni anni nell’Altare della Madonna del Carmelo della chiesa di S. Paolo a Ferrara. Proprio nel 2000 uscì il libro “Ex Voto nella Chiesa di San Paolo a Ferrara” di Daniela Favretti (Liberty House ed.), con testo di presentazione di don Ivano Casaroli (parroco a S. Paolo dal 1997 al 2005) e postfazione dello stesso Turola. Nel libro, l’autrice parla di 26 ex voto presenti allora nella chiesa di p.zzetta Schiatti, in parte “oggettuali”, in parte tavolette dipinte. I più antichi di questi, risalgono alla fine del XVIII secolo.
Nella postfazione, Turola compie una puntuale analisi degli ex voto lì conservati e degli altri presenti nelle chiese della nostra provincia. Riferendosi agli artisti Antonio Maria Nardi e a Remo Brindisi, anch’essi autori di alcuni ex voto, scrive Turola: «I loro dipinti erano ormai esercitazioni di tipo accademico, se non concettuale: ed inserendomi in questa scia, per siglare la postfazione al lavoro dell’amica Daniela Favretti, ho pensato di eseguire, a mia volta, un ex voto, dedicato alla Madonna del Carmine venerata nella chiesa di San Paolo. È il mio secondo tentativo, dopo quello eseguito per commissione di una signora ferrarese qualche anno fa e collocato nel santuario di Montenero, a Livorno. La mia tempera su carta (cioè l’ex voto dedicato alla Madonna del Carmine della nostra chiesa di San Paolo, ndr) rappresenta l’autrice di questo libro, anche lei pittrice, inginocchiata dinanzi alla chiesa di San Paolo in atto di ringraziare la Vergine per averle concesso una grazia particolare: ovvero la pubblicazione del volume, nato dalla rielaborazione della propria tesi, dopo tredici anni dalla stesura, in occasione dell’Anno Santo. Dal punto di vista stilistico – prosegue Turola – nella scena ho introdotto i colori, a me cari, dell’arcobaleno, il ponte simbolico che unisce la terra al cielo. Inoltre, ho inserito nella composizione elementi decorativi e astratti e fiori neo-futuristi, che simboleggiano l’eterna primavera dello spirito. Ma il mio è soprattutto un omaggio diretto, dal punto di vista iconografico, agli sconosciuti autori degli ex voto di San Paolo, che mi hanno variamente stimolato».
Intellettuale eclettico
Nato nel ’45, Turola frequenta il Liceo Classico Ariosto e l’Istituto d’arte Dosso Dossi di Ferrara, e nella sua vita collabora, tra le altre, anche con “La pianura” e “L’ippogrifo. Nel 2013 pubblica per Faust edizioni il libro “Misteri di arte e magìa”, con prefazione di Margherita Hack. Nella sua autobiografia racconta di come il suo obiettivo fosse rappresentare «il mistero dell’uomo attraverso favole, miti, leggende, sogni, tradotti in colori accesi». L’Unesco nei primi anni 2000 ha ricavato da un suo quadro, “L’Arca di Noè”, una cartolina d’auguri tradotta in molte lingue e spedita in tutto il mondo. Inoltre, nel 2006 la Galleria Biasutti&Biasutti di Torino gli dedica una monografia e un catalogo con testo critico di Elena Pontiggia. Ai gatti che tanto amava, dedicò il libro “Nel magico mondo della gatta Sofia”, illustrato da Franca Camisotti Felloni. La Galleria Idearte di Ferrara nel dicembre 2019 lo ha celebrato con la retrospettiva “Le Carte di Gabriele”, curata da Lucio Scardino.
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
-------------
"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)