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Un treno che si chiama Carità: il libro postumo di Gianni Fiocchi

17 Dic

«Venite e vedrete», dice Gesù ai primi due discepoli. Messaggio ripreso – come lascito – da Gianni Fiocchi, barelliere Unitalsi a Lourdes, nel suo libro uscito postumo

di Andrea Musacci

«Venite e vedrete», dice Gesù ai primi due discepoli che si mettono alla sua sequela (v. Gv 1, 29-42). L’invito a incontrare la Verità, a sperimentarla direttamente con gli occhi di carne e soprattutto con quelli del cuore, è l’invito che si rinnova, da allora, ogni qual volta parole di scherno o di scetticismo vengono proferite riguardo alla Bellezza e all’unicità del vivere seguendo il Risorto. 

E sono quelle che chissà quante volte, col tono fermo e lo sguardo dolce, ha pronunciato Gianni Fiocchi, barelliere volontario dell’Unitalsi di Ferrara e dirigente del locale Serra club, tornato al Padre lo scorso marzo all’età di 72 anni. Proprio l’Unitalsi ferrarese e il Serra club hanno da poco dato alle stampe il suo libro dedicato all’esperienza che gli ha sconvolto la vita, dal titolo Quel treno per Lourdes (novembre 2025).

Libro che, oltre a un testo dell’Assistente spirituale don Giovanni Pisa, contiene due significative prefazioni: quella di Neda Barbieri, Presidente sottosezione Unitalsi Ferrara, e quella di Alberto Lazzarini, Governatore del Serra club dell’Emilia-Romagna. Barbieri nel libro scrive: «Gianni era l’animatore delle feste di Capodanno, colui che alleggeriva momenti complessi con una battuta e un sorriso, che leggeva sempre la preghiera finale nelle celebrazioni e che raccontava con passione la bellezza di un’amicizia con una persona malata o fragile in particolare dopo essere stato lui stesso toccato dalla malattia».

«PER CONFONDERE I SAPIENTI»

«In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”» (Mt 11, 25).

Fiocchi era stato a Lourdes molte volte negli ultimi 30 anni, come barelliere capo dei treni bianchi e come hospitalier. Dicevamo del “venire e vedere” come regola del vivere. «Che cos’ha questo luogo in più di altri? Lo scoprirai venendo a Lourdes – scriveva Fiocchi -, vivendo intensamente i giorni del tuo pellegrinaggio, raccogliendoti in preghiera alla grotta, visitando i luoghi dove ha vissuto Bernardette. Una bella storia quella di Lourdes che si ripete anno dopo anno, viaggio dopo viaggio e non finisce mai».

Una storia iniziata nel 1844 con la nascita di Bernadette Soubirous nel mulino di Boly, dove visse felice i primi anni: in questi momenti «Dio ci sembra vicino», ma Bernardette «sperimenterà la fedeltà di Dio che non abbandona mai quelli che ama». La Vergine Maria – prosegue Fiocchi – in lei «ha scelto la persona più povera e ignorante per rivelarci che ognuno di noi occupa un posto unico nel cuore di Dio. (…) la “follia” di Lourdes non è altro che la “follia” del Vangelo (…). Dio, come tante altre volte, si è servito di un povero per confondere i sapienti, al punto che ha affidato il messaggio di Maria nelle umili mani di Bernardette». Parole che richiamano il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva (…) ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».

QUELL’ACQUA CHE MONDA DAL PECCATO

L’umiltà, certo: «Quello che succede a Bernardette, è ciò che noi tutti siamo invitati a scoprire nella nostra vita», scrive ancora Fiocchi. «Dobbiamo essere umili nel chiedere aiuto e non chiuderci nel nostro orgoglio, e proseguire il nostro cammino nonostante la nostra povertà, la sfiducia, lo sconforto, la paura di ricevere rifiuti da chi ci circonda, così come è stato per Bernardette». Aquerò (“Quella là”, come Bernardette chiamava la Madre di Dio) il 18 febbraio, nella terza apparizione, «le ha rivelato che lei, Bernardette è importante per Dio, ed è amata da Lui». 

E la giovane in queste visioni scopre anche «il senso del peccato: è quello di non amare Dio che ci ama tanto. Il peccato sporca, deforma la somiglianza con Dio che è in noi in forza del battesimo (…) ma la ragazza non si scoraggia, l’acqua della sorgente poco a poco diventa limpida, il suo volto lavato dall’acqua ritrova finalmente la sua luce, e torna la gioia e così anche la folla. È la gioia ritrovata del peccatore perdonato». 

Bernardette – riflette ancora Fiocchi – «non è santa perché ha visto la Madonna, lo è diventata per grazia di Dio, per la sua risposta di fedeltà nel compiere la volontà e nell’abbracciare la pesante croce che l’ha macinata come il grano del suo mulino. Bernardette ha così tracciato un solco, un cammino di santità che tutti, anche se con modalità diverse, possono percorrere con l’aiuto della Vergine».

L’ENTUSIASMO» DI QUEI «QUATTRO PAZZI»

«Estate 2002, il mio primo viaggio, sembra ieri…sono trascorsi dieci anni. Mi avevano “avvisato”, “prendi quel treno e non scenderai più”». E Fiocchi, infatti, da quel treno non c’è mai sceso, come scrive Lazzarini nella sua prefazione: «anzi è ancora là con gli ammalati, con chi vive la solitudine e la sofferenza, ma anche con i suoi colleghi “carrettieri” e suoi amici e conoscenti…».

Quel «treno bianco, carico delle sue sofferenze, delle sue miserie, delle sue speranze ma soprattutto carico di una fortissima fede, mai messa in discussione, che si rinnova sempre, anno dopo anno, viaggio dopo viaggio». Sono oltre 20 le ore di viaggio in treno per arrivare a Lourdes. Fiocchi scrive che più che “bravo” per ciò che fa si ritiene “fortunato” dato «che in cambio di un semplice gesto riceve, quale prezioso compenso, un sorriso da chi soffre, un momento di felicità da chi è meno fortunato». Nessuna risposta razionale può spiegare quel non riuscire, una volta saliti, a scendere da quel treno, se non materialmente, con tutta l’anima: «so solo che inspiegabilmente continuo a riprenderlo con immutato entusiasmo».

Un treno normale, come tanti, ma con un carico «speciale»: «non normali viaggiatori che si servono del treno per i propri spostamenti, ma persone, abili e non abili, legate da un rapporto comunitario dove ricevere e donare non ha più significato, dove la sostanza di scambio è esclusivamente amore vero». Quasi 24 ore di viaggio «trascorse in letizia uno accanto all’altro, dove scompaiono le umane etichette che ci separano nella vita di ogni giorno, dove l’uguaglianza regna sovrana». «Sì, forse siamo matti, siamo felicemente contagiati dal virus, benigno, di Lourdes», scrive ancora Fiocchi; «scusate, quei quattro uomini, come riportato nel Vangelo di Marco, che scoperchiano una casa pur di mettere al cospetto di Gesù un ammalato, non sono quattro pazzi? Ma quattro pazzi da ricevere la gratitudine di Gesù…».

PIANTO LIBERATORE

Per concludere, uno dei commoventi aneddoti legati a Lourdes che Fiocchi racconta nel libro, una sorta di testamento nel testamento: «Pellegrinaggio, giugno 2007, sono di servizio con altri fratelli alle “piscine”, entra un uomo in evidente stato di agitazione. Spogliatosi, lo invito ad un suo personale momento di raccoglimento prima di essere immerso nell’acqua di Lourdes. Questi con fare di sfida mi guarda dritto in faccia e mi dice che non ci crede. È venuto a Lourdes, si sta per bagnare in quell’acqua fatta sgorgare da Maria per mezzo di Bernardette e non crede. Pochi attimi e scoppia in un pianto dirotto, entra nella vasca, va verso l’immagine di Maria, si inginocchia, la bacia e la ringrazia perché il figlio è uscito dal tunnel della droga. Ci ha abbracciati uno per volta, lentamente è uscito con uno sguardo nuovo, non più sprezzante ma pieno di Fede».

Insomma, in questo libro-testamento Fiocchi, alla fine, ci lascia un unico grande messaggio: per assaporare «l’intensità» dell’emozione tipica di Lourdes, «la devi solamente provare, la devi solamente vivere».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 dicembre 2025

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Unitalsi, storia di gioia e di autentica consolazione 

12 Dic

La sottosezione di Ferrara festeggia i suoi primi 90 anni di vita: in crescita i soci e i partecipanti ai pellegrinaggi. Il ricordo delle origini, con il gruppo alla Montedison

Era gremito di volti e storie il Salone di Casa Cini lo scorso 6 dicembre in occasione dello storico Convegno dell’Unitalsi di Ferrara, che cade in occasione del 90° dalla nascita (1935-2025). Convegno a cui è seguita la Messa nella chiesa di Santo Stefano e un momento conviviale nella canonica di Santo Stefano.

A Casa Cini han preso innanzitutto la parola per un breve saluto Alberto Gardini, Vicepresidente regionale Unitalsi Emilia-Romagna – che poi ha donato all’Unitalsi di Ferrara una pergamena in ricordo del 90° anniversario – e l’Assessora di Ferrara Cristina Coletti. L’Assistente spirituale don Giovanni Pisa ha guidato la preghiera iniziale prima della relazione di Neda Barbieri, Presidente Unitalsi Ferrara: «l’Unitalsi unisce l’esperienza di fede al volontariato di tutti i giorni», ha detto, prima di presentare il libro “Quel treno per Lourdes” di Gianni Fiocchi, volontario dell’Unitalsi Ferrara e del Serra club locale, tornato al Padre lo  scorso marzo (del libro parleremo in maniera più approfondita nel prossimo numero). «Le bozze del libro – ha raccontato Barbieri – ci sono state consegnate come Unitalsi da Mario Cova delSerra club ferrarese; così, abbiamo raccolto un po’ di donazioni per la stampa, avvenuta pochi giorni scorsi». A tal proposito, a seguire è intervenuto anche il ferrarese Alberto Lazzarini, alla guida del Serra club regionale, che ha illustrato il Quaderno di Fiocchi, «uomo capace di forti testimonianze di fede, semplici nella modalità ma grandi nella consistenza effettiva».

Tornando alla storia del’Unitalsi, la sottosezione di Ferrara nasce nel maggio del 1935 con primo presidente l’avv. Giuseppe Devoto (morto nel ’52). «Ma ai pellegrinaggi a Lourdes e a Loreto alcuni ferraresi partecipano fin dal 1931», ha detto Barbieri. Dalla sottosezione Unitalsi di Ferrara nacquero poi quella di Comacchio e quella alla Montecatini nella nostra città: «l’Unitalsi ai tempi era una delle poche associazioni con sottosezioni anche nelle fabbriche. A inizio anni ’50 la Montedison offriva viaggi in Francia per dipendenti meritevoli: alcuni ferraresi nel ’53 andarono a Lourdes rimanendo molto colpiti dalla fede che si respirava e dai tanti volontari». Uno degli operai disse di ritorno da Lourdes: «Abbiamo vissuto un’esperienza sconvolgente, un totale cambio di indirizzo alla nostra esistenza (…). Il Signore aveva fatto la Sua chiamata e noi come figli abbiamo risposto».

Da loro quindi iniziò il servizio per gli operai malati della Montedison, «e ancora oggi facciamo ogni Pasqua una Messa al Petrolchimico, grazie in particolare a Tonino Savadori», ha aggiunto la Presidente. 

L’Unitalsi nazionale nacque invece nel 1903 grazie alla conversione di Giovanni Battista Tomassi, nobile 23enne affetto da una grave forma di artrite deformante irreversibile che lo costringeva in carrozzella da quasi dieci anni. Tomassi chiese di partecipare al pellegrinaggio con l’intenzione di togliersi la vita con un colpo di pistola davanti alla grotta di Massabielle. E invece proprio lì inizio una nuova vita, si convertì e in lui nacque il desiderio di dar vita a un’associazione, quella che sarebbe diventata l’Unitalsi.

Barbieri ha poi spiegato come Unitalsi sia presente in tutta Italia con diverse Case di accoglienza, sia attiva con la Protezione civile e col Servizio civile, e come dal 2009 sia parte del progetto Cuore di latte col quale aiuta, sempre con una Casa, bambini disabili a Betlemme.

La Presidente ha poi spiegato come il servizio di Unitalsi Ferrara si basi sulla preghiera, la formazione, l’amicizia, le vacanze condivise, le feste e altri momenti conviviali (concerti, pranzi, compleanni, ricorrenze). E la festa di Capodanno che, come da tradizione, «si svolgerà anche quest’anno». Venendo ai numeri, nel 2025 sono stati 1427 i partecipanti ai pellegrinaggi di tutte le Unitalsi della nostra Regione, di cui 123 ferraresi (dei quali 22 persone con disabilità, 39 volontari e il resto semplici pellegrini).Dati in aumento: ad esempio, nel 2024 erano stati 49 i pellegrini per Lourdes, diventati 60 quest’anno.  Così come in aumento sono i soci, 211 nel 2025 (nel 2021 erano 133). Sempre nel 2025, per l’Unitalsi di Ferrara sono state 300 le uscite con accompagnamenti, oltre 100 le visite in casa o struttura, 236 i trasporti, oltre 50 le assistenze e le visite in ospedale. Ma si guarda già al futuro: per il 2026 sono previsti diversi pellegrinaggi, fra cui dal 9 al 13 febbraio, in pullman, il primo a Lourdes. Una novità per il prossimo anno riguarda, poi, di nuovo la possibilità di pellegrinaggi in treno: si tratta di quello a Lourdes del 23-28 agosto e di quello ancora a Lourdes del 23-29 settembre, quest’ultimo con anche la possibilità del pullman.

È poi intervenuto il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego che ha riflettuto a partire dall’Esortazione Dilexi te di Papa Leone XIV (ma iniziata da Papa Francesco): «la qualità della fede cristiana dipende dalla qualità dell’amore cristiano», ha detto.«La carità cristiana non è nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione», scrive il Papa: «in ogni gesto d’amore, infatti, facciamo nostro l’amore che Dio ha avuto e ha per noi». La preferenza per i poveri e i malati «non è esclusiva, cioè non esclude tutti gli altri, ma anzi è inclusiva, cioè è la base di partenza per l’amore verso ogni persona». IlVescovo ha poi ripercorso brevemente il ruolo della Chiesa, delle sue donne e dei suoi uomini nei secoli a favore dei poveri, compresa la nascita del primo nucleo dell’Ospedale Sant’Anna a Ferrara nel 1443 grazie al Vescovo Tavelli.E ha quindi parlato del forte impegno, anche oggi, delle varie associazioni cattoliche e dei diversi ordini religiosi della nostra Chiesa – locale e non – nell’ambito dell’assistenza e dell’accompagnamento ai malati.

Nell’omelia della Messa a S.Stefano ha invece detto in un passaggio: «Il Bollettino ufficiale della nostra Arcidiocesi del maggio del 1935, mentre augurava al Consiglio “fecondo lavoro di pace e di bene” ricordava che il primo Consiglio era formato dal Presidente, avv. Devoto Giuseppe e di consiglieri: avv. Maffei Giuseppe, Marta Nonato Castellani, Maria Bottoni, Avv. Filippo Lodi e dall’assistente ecclesiastico don Antonio Abetini. Era l’anno in cui l’Arcidiocesi festeggiava solennemente l’VIII centenario della dedicazione della Cattedrale. Da allora, in questi 90 anni l’Unitalsi ha superato il tornante di una guerra, con la distruzione e la morte di molti concittadini, la ricostruzione e la Democrazia, le crisi economiche, le migrazioni, il covid che hanno segnato profondamente le famiglie, la riforma sanitaria e l’accompagnamento dei malati, i giubilei e i pellegrinaggi a Lourdes e nei diversi santuari. Un patrimonio di umanità nasce da questi 90 anni dell’Unitalsi, di gratuità, di consolazione, di festa».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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«Convocato all’avvenire»: la luce divina di Paolo Baratella

5 Dic

90 anni fa nasceva un artista ferrarese forse ancora troppo sottovalutato: lo vogliamo ricordare in particolare nelle sue realizzazioni sacre: l’affresco per la Sacrestia del Duomo di Ferrara e il Risorto per la chiesa di Santa Francesca Romana

di Andrea Musacci

Del tempo e dell’eterno, fra le altre cose, parlava l’artista Paolo Baratella in un’intervista all’amico Gian Pietro Testa, circa 20 anni fa1. E proprio del tempo dobbiamo trattare, col tempo misurare e misurarci, ma coscienti che quest’abito artificioso, kronos, ci sta stretti, noi creature elette alla dura e sublime veste dell’Eterno. Dura finché chiusa fra le maglie terrene, noi che «ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro»; ma già capaci di un abbandono di quel che verrà, nel Dio vivente e veniente, attraverso forme che, pure tali, rompono il gioco del kronos: le forme dell’arte. E Baratella questo lo sapeva bene, cristiano inquieto ma capace di abbandonarsi nella dolce luce della fede.

Lo vogliamo ricordare a 90 anni dalla nascita e in occasione della mostra dedicata in questo periodo a Ferrara proprio a quel suo sopracitato e quasi coetaneo amico, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. Mostra nel quale compare anche Baratella (ne parliamo a pagina 10).

Baratella ha fatto ritorno al Padre il 3 marzo 2023, quando nel Castello Estense a lui era dedicata l’apertura e la menzione alla carriera del IX premio internazionale della Fondazione VAF, alla presenza della figlia Silvia Baratella e di Vittorio Sgarbi. Nove mesi prima, il 31 maggio 2022, in Biblioteca Ariostea e introdotto da Lucio Scardino, aveva presentato il suo libro autobiografico Davanti allo specchio.

Tante le sue mostre in Italia e all’estero nel corso di una vita, ma qui vogliamo ricordare quando esattamente dieci anni prima di morire, nel 2013, aveva dipinto il Risorto nella chiesa ferrarese di Santa Francesca Romana e nel 2006 gli affreschi della sagrestia della Cattedrale.

Ma prima alcuni accenni biografici.

DALLA CITTÀ «FANTASMATICA» A MILANO (CON RITORNO)

Baratella nasce a Bologna il 5 luglio 1935 da genitori ferraresi e trascorre l’infanzia nella città felsinea, in via Lame. Il negozio del papà sarto in via Zamboni è al servizio del regio esercito. Nel 1940 con la famiglia torna a Ferrara, in via Bellaria, 10, casa dei nonni materni; così la racconterà in una poesia2: «mondo-cortile / di via Bellaria numero dieci / immensamente grande / luogo di accanite osservazioni, / sguardi, miraggi / all’interno e oltre / i tanti muri impassibili, / inaccessibili confini / di mondi-giardini / al di là. / Giardini sognati / e mai visti, / luoghi di sogni proibiti». Poco dopo, all’età di 6 anni, decide che sarà un pittore.

Nella sopracitata intervista all’amico Testa racconterà così quel turbinio ancora confuso ma vivo, vivissimo della sua infanzia e adolescenza: «La tragedia della guerra, lo sfollamento, i rifugi antiaerei, le bombe, i bengala, le buche scavate nella terra per nascondersi, le grandi passioni trasmesse dal burattinaio Forni (…), la compagnia teatrale Doriglia-Palmi con quella Passione e Morte di Cristo fatta di vapori e sangue di pomodoro con l’uomo respirante sulla croce, e Gigetto il gelataio di vicolo Ocaballetta [vicino alla chiesa di S. Spirito, ndr] con i sontuosi carri di cigni e draghi (…): realtà che negli occhi del fanciullo che ero, costituirono la valle della visione, il mondo dello stupore, la tensione delle forti emozioni legate alla lotta per la sopravvivenza: scuola di estetica, di forme e di contenuti». E ancora: «L’immensità della chiesa di S. Spirito» – dove di fronte, a Palazzo Calcagnini, civico 33, aveva abitato il giovanissimo De Pisis -, «gli addobbi per le grandi festività…stupore, estraniazione, sospensione del tempo, portati dentro come tono esistenziale nei viaggi di attraversamento della città misteriosa, schiacciata dal sole furente, fantasmatica nella nebbia profumata di bagnato, i trasalimenti per le prospettive immaginate e viste, quando cavalletto, cartone, colori e pennelli sostavo vergognoso, un po’ nascosto, là dove queste prospettive si disegnavano». E poi i maestri a Schifanoia, veri maestri della giovinezza.

Ma la vita per il giovane Paolo è altrove, nel cuore del boom economico, dove il dedalo degli affari e degli scambi culturali brulicano giorno e notte: dal 1960 inizia così ad vivere e ad esporre a Milano e in altre città italiane ed europee (fra cui Londra, Parigi, Berlino). Risale al 1961 la sua prima personale nel capoluogo lombardo. Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 1974 e 1994 è alla Biennale di Milano, nel 1986 e 1999 espone alla Quadriennale di Roma e nel 1992 alla Triennale di Milano. Tra la città meneghina (dove dal ’92 al 2002 sarà anche docente all’Accademia di Belle Arti di Brera) e Lucca vivrà gli ultimi anni, e a Lucca si spegnerà. Ma mai conobbe quella alterigia capace di allontanarlo dalla sua piccola città di provincia, che anzi – come accennato – arricchirà.

L’AFFRESCO NELLA SACRESTIA DELLA CATTEDRALE

L’affresco a secco realizzato nel 2006 su incarico del Capitolo della Cattedrale (allora presieduto da mons. Nevio Punginelli) nella nuova Sacrestia della Cattedrale merita di essere raccontata – per quanto possibile – a fondo e grazie anche alle voci di suoi amici, collaboratori, ammiratori. L’opera di Baratella occupa il soffitto cuspidato della Sacrestia realizzata negli anni ’90 dopo la demolizione da parte delle bombe alleate dell’antico edificio sul lato di piazza Trento e Trieste.

Nel suo testo contenuto nel libro La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, mons. Punginelli raccontava di quando un giorno l’allora Vicario Generale diocesano mons. Giulio Zerbini gli disse, in mano un bozzetto per una vetrata istoriata: «”Cosa ne dici?, l’architetto [Caro Bassi, ndr] vorrebbe qualcosa per abbellire la Sacrestia. C’è un certo Paolo Baratella, l’architetto lo conosce, è ferrarese ed è stato mio ragazzo quando ero in Azione Cattolica. Ai campiscuola ogni tanto si isolava e lavorava con i suoi colori…è un poco estroso…maniaco della pittura ma molto bravo”». Poi la malattia, e la morte (nel 2001), colpiscono mons. Zerbini. Nel suo testo nello stesso libro3, proprio Bassi spiega: mons. Zerbini «ebbe il piacere e la consolazione di vedere le prime fasi dello studio condotte dal pittore: una piccola mostra di bozzetti fu allestita in occasione della benedizione dei locali e ne fu soddisfatto e commosso». 

E lo stesso Bassi nel 2006 su Ferrara. Voci di una città dedica un altro bell’articolo all’opera di Baratella nella Sacrestia; questo un passaggio: «Il suo cielo è squassato da venti impetuosi di azzurro intenso che generano le figurazioni e danno loro sostanza quasi fosse il vento dello Spirito che soffia dove vuole e rende la forza materica della croce dominante su tutto». Sarà lo stesso Bassi a consigliare di far richiesta di accesso a un finanziamento europeo per la sistemazione della zona absidale e per la decorazione della Sacrestia.

È don Massimo Manservigi a intervistare Baratella sulla nostra Voce del 4 marzo 2006 (con servizio fotografico di Luca Pasqualini), poco prima della conclusione dell’opera: «Mons. Zerbini è rimasto subito convinto del progetto che ora si è realizzato, del quale ha potuto vedere in opera solo la vetrata», raccontava Baratella. «Il dipinto l’ho iniziato ai primi di ottobre e non posso negare che al principio è stato molto difficile, mi ha procurato ansia ed emozione (…). Quando sono arrivato per iniziare l’opera mi sono reso conto che la struttura quadripartita non funzionava più, lo spazio doveva diventare un tutt’uno, un unico atto di fede capace di abbracciare l’unico mistero della vita di Cristo in diverse tappe. Infatti la fede vuole che si creda contemporaneamente all’Annunciazione e alla Resurrezione, al valore salvifico della Croce e al peccato originale. Così ho risolto il problema trasformando il soffitto in una cupola, con alcuni accorgimenti pittorici, accentuando le linee curve per dare una sensazione di movimento e molteplicità di linee di forza».

E così descrive la sua opera: «Partirei dall’Annunciazione che resta sopra all’ingresso ed è rappresentata da una Madonna fortemente ispirata a Cosmé Tura (…). In ordine orario segue la Natività con i simboli dell’Agnello mistico, una testa di San Giovanni, San Giuseppe, l’Angelo glorificante e l’arrivo dei Re Magi (…). A seguire la Crocifissione, ai cui piedi stanno il serpente, Adamo ed Eva da un lato, e la Pietà dall’altro: la causa della crocifissione e le sue “conseguenze terrene”. L’ultimo quadro rappresenta la “conseguenza divina” della crocefissione ovvero la Resurrezione (…). Ai lati del Risorto due Angeli, specularmente, indicano con una mano il Cristo risorto e con l’altra noi, spettatori, creature terrene». Sotto il dipinto c’è una scritta: «Si tratta di stralci di una preghiera di Giovanni Paolo II a Maria. Sono stati scelti dall’architetto Bassi».

In conclusione spiega: «È la prima volta che concludendo un lavoro sento di essere “convocato all’avvenire”. Mi ritengo un privilegiato perché avverto come questo lavoro sia per i posteri».

IL MISTICISMO DI BARATELLA

Ma dove nasce in lui questo legame col sacro? «E giù a dipingere in un solaio al n. 8 di via Montebello, a parlare le notti di Kante Nietzsche, mentre turbamenti mistici continuavano a minacciare l’integrità dell’atleta ciclista, alla ricerca solitaria di Dio».

Così racconta sempre all’amico Testa4 della sua iniziazione al rapporto con Cristo: le radici – parla di sé in terza persona – «affondano lontano, quando quel ragazzo ferrarese, stupito, estraniato e sospeso, nell’odore di incenso della chiesa di S. Spirito, alla vista del Cristo morto nell’urna sotto la grande pala raffigurante il crocifisso tra panneggi viola, oro e neri della quaresima, rimuginava pensieri metafisici. Il trascendente allora prendeva forma nella fantasia (…). Mise ordine in queste suggestioni e rapimenti mistici l’allora don Giulio Zerbini, divenendo mio maestro e fratello maggiore (…). Decisi di abbandonarmi e di farmi trasportare dalla fede nella verità, nei percorsi così insidiosi, predisposti da me (…), in quella “zona” che è l’anima. Alcune volte non sono arrivato alla luce che scaturisce dal luogo più recondito della “zona”, che è la stanza dove risiede il nocciolo duro della realtà. Ma altre volte mi è accaduto di entrare e finalmente con il segno dell’immaginazione arrivare a scrivere la “cosa”: aletheia, verità. Con questo atteggiamento, sottomesso alla più grande angoscia, mi sono disposto a realizzare l’affresco nella Sacrestia della Cattedrale di Ferrara».

Questo sguardo religioso glielo riconosceva il poeta e scrittore Roberto Pazzi5, parlando dell’affresco della Sacrestia: «Si avvertiva in quelle grandiose figure l’afflato del credente, di colui che non gioca con gli elementi figurali del Cristianesimo come fossero figure dei tarocchi, indifferente alla loro più intima significazione. Non era insomma il laico a tenere in mano quel pennello, ma il convinto cristiano della nostra inquieta postmodernità». 

Dello stesso affresco don Franco Patruno diceva6: «È come un roveto, lo scintillio di colori e i voluttuosi e mai circoscritti contorni (…)». E così invece descriveva Barbara Giordano questo capolavoro di bellezza7: «L’impressione è quella di una stanza illuminata dalla luce a tratti crepuscolare di un camino dimenticato acceso, solo più tardi ti accorgi che quella luce fatta colore, prende la forma di poche e decise figure, che non si lasciano indovinare dietro una fumosa cortina, ma penetrano lo spazio architettonico per disegnare una maggiore ariosità».

QUELLA PICCOLA PAROLA

È il 2013 quando Baratella realizza, nel periodo pasquale, la sua opera pittorica dedicata al Cristo Risorto nell’aula battesimale della chiesa di Santa Francesca Romana, in via XX settembre a Ferrara. Così il parroco don Andrea Zerbini, in memoria dell’amico artista, sulla Voce del 17 marzo 2023 lo ricordava: «Un grazie di vero cuore al maestro Paolo Baratella, scomparso lo scorso 5 marzo, perché continuerà a ricordarci lo splendore del Cristo Risorto e con essa quella della sua vita, il suo sentire di artista che le sue mani hanno mescolato, fissato, impresso insieme ai colori sulla grande tela del risorto dai morti (2,65 x 1,75 metri), le cui mani segnate da ferite gloriose hanno tratto fuori dallo Sheol, dal grande e irreversibile abisso, con Adamo, l’intera umanità. Era il 2013, appena terminato il restauro del battistero ad opera dell’arch. Andrea Malacarne, al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale».

A Gian Pietro Zerbini su La Nuova Ferrara lo stesso Baratella raccontava: «Mi hanno particolarmente colpito le figure giottesche dei meravigliosi affreschi di Sant’Antonio in Polesine, il monastero che si trova a due passi dalla chiesa di Santa Francesca. Ho studiato per mesi anche il volto del Cristo che nei disegni di Sant’Antonio appaiono in trequarti, mentre a me serviva di fronte. Diciamo che mentre nella realizzazione degli affreschi della sacrestia del Duomo mi sono ispirato all’Officina ferrarese del Quattrocento, per questo quadro del Cristo ho avuto interessanti spunti dalla pittura giottesca ferrarese».

E sempre nel 2013, Baratella rilascerà per la nostra Voce del 12 aprile 2013 un’intervista a don Andrea Zerbini; così il pittore ci raccontava la sua opera: «Risorto, parola minima per dire tutta l’intensità dello sforzo umano per arrivare alla luce. Così ho pensato al Cristo che con forza sbuca dai subtettonici recessi, scardinando le porte che dividono il chiaro dallo scuro, l’inganno dalla verità, travolgendo il demonio menzognero, trascinando con sé alla luce i Padri dell’umanità. Non c’è parola più simbolica e satura di significato attivo, veniente, arrivante, risorgente, che questa piccola parola: RISORTO».

Non poteva esserci maniera migliore per concludere il ricordo di questo artista così unico nel panorama ferrarese contemporaneo.

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NOTE

1 – Dall’intervista a G.P. Testa contenuta in La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, a cura di Carlo Bassi,Editrice Ariostea, 2006.

2 – Dalla poesia Via Bellaria, presente nel catalogo Baratella prima di Baratella, Studio d’arte Dolcetti, 2011 (catalogo edito in occasione dell’esposizione presso il Centro Frau di Ferrara, 29 gennaio-27 febbraio 2011, a cura di Angelo Andreotti).

3 – La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, op. cit.

4 – Idem.

5- Idem.

6 – Idem.

7 – B. Giordano, Come in una nuova Officina Ferrarese, la Voce di Ferrara-Comacchio del 4 marzo 2006.

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Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

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Prima la fiducia, poi la comunicazione: don Valentino Bulgarelli alla Scuola di Teologia

28 Nov

“Vicinanza, cura, accompagnamento” è stato il titolo della lezione della Scuola diocesana di teologia per laici, tenuta da don Valentino Bulgarelli, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale e sottosegretario della CEI.

«La comunicazione è importante ma anche per quanto riguarda la Chiesa, non lo è per motivi tecnico-strumentali, non si tratta cioè di essere aggiornati a livello digitale: se non hai nulla da dire, non lo hai nemmeno sui social», ha fin da subito incalzato. D’altra parte, il rischio dentro la Chiesa è di una «comunicazione autoreferenziale, arida e sterile, che non impatta la realtà». Ad esempio, significativo era quando «alcuni parroci nell’omelia usavano il dialetto, lingua del popolo: la Chiesa può comunicare col mondo solo se è qualcosa di vivo, non di formale, di museale». Ma essere viva non significa «organizzare tante iniziative» ma fare in modo che le persone «ripongano fiducia in essa: è nella fiducia che tutto cresce, vive, germoglia». Oggi invece viviamo dentro una «crisi di fiducia antropologica, nessuno si fida più di nessuno, degli altri, delle istituzioni,Chiesa compresa».

Al contrario, l’esperienza cristiana «si è sempre basata sulla fiducia, sul fidarsi di un altro, in una catena di trasmissione di fiducia, di fede, che oggi sta venendo meno».  Ma «il primo a fidarsi di noi è Dio, sempre pronto a darci un’altra possibilità». Senza fiducia, «non ci si può mettere in ricerca, si vive nel continuo sospetto, non si coltivano dubbi, non si fanno domande. Ed è Gesù a cercare continuamente di creare fiducia nei propri confronti fra i discepoli.Si dovrà, però, scontrare con diverse resistenze, come ad esempio si vede nel brano della figlia di Giàiro (Mc 5, 21-43) dell’emorroissa (Mc 5, 25-34): in questo racconto invece Gesù vuole sapere chi è stato a toccare le sue vesti, proprio l’opposto del concetto di folla, del noi impersonale. L’esperienza della fiducia non è solo proposta, ma è una dimensione esistenziale, concreta.

L’arresto di Gesù segnerà il punto di rottura delle resistenze dei suoi discepoli»: la «straordinarietà» della Buona Novella consiste nel fatto che «nella Resurrezione Gesù continua a esserci fedele, a dirci che si può perdonare, si può sempre ricominciare.« La comunità cristiana, quindi, è quello «”strumento” creato da Dio per creare connessioni fra Lui e ogni donna e uomo».

L’atto di fede è fatto «di alti e bassi, come tutte le cose vive, che non sono mai piatte, lineari». Come cristiani è dunque «naturale avere dubbi, porsi domande, vivere momenti di sfiducia». Ciò che bisogna evitare sono «gli intimismi, gli spiritualismi», quindi mai dimenticare che Dio «è il Dio della storia, è un Dio che si incarna».

Di conseguenza, per don Bulgarelli «annuncio, liturgia e fraternità sono le tre grandi dimensioni che rendono la Chiesa viva: un annuncio che non è solo il catechismo per i bambini, una liturgia che non è solo Messa domenicale, una fraternità che non è solo distribuzione di alimenti per i poveri».

Essere Chiesa viva significa, dunque, «”restituire” umanità al mondo, vedere ogni persona come capace di cambiamento/conversione, interrogarsi sulla formazione delle coscienze».E ancora: significa «valorizzare l’importanza del dialogo e delle domande e riconoscere libertà – come dono di Dio – e autorità – come ciò che permette la crescita – come necessarie».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025

(Foto di giselaatje – Pixabay)

Il Vescovo Bovelli guida nel turbine della guerra

25 Nov

Dal suo epistolario negli anni 1943-45 emerge forte la figura del Pastor et defensor di Ferrara, alle prese con le autorità locali, con quelle d’occupazione, con i preti e altre personalità (Schönheit, Cadorna…): ecco le ricerche di Rossi e Piffanelli

di Andrea Musacci

“Questioni private” e affari pubblici. Aneddoti feriali, aspetti ameni e controversie gravi, drammatiche. È davvero un intero universo quello che emerge dall’epistolario di mons. Ruggero Bovelli (Vescovo dell’Arcidiocesi di Ferrara dal 1929 al 1954), in parte presente nel “Fondo Bovelli” conservato nel nostro Archivio storico diocesano. 

Alcune di queste missive sono state al centro dell’incontro pubblico svoltosi nel pomeriggio dello scorso 17 novembre nella sede dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO) di Ferrara. L’incontro dal titolo Un vescovo tra guerra e liberazione: Ruggero Bovelli “Pastor et defensor” nel 150° della nascita, curato da ISCO e promosso dalla Sezione di Ferrara dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani (ANPC), ha visto la presenza di oltre 50 persone e gli interventi dello storico e Consigliere nazionale ANPC Andrea Rossi e di Riccardo Piffanelli (foto piccola)dell’Archivio storico diocesano. L’iniziativa è stata introdotta dalla Direttrice ISCO Anna Quarzi («è un mio sogno – ha detto – quello di mettere il nome di Bovelli nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme») e dal Vicario Generale diocesano mons. Massimo Manservigi: «Bovelli – ha spiegato – fino all’ultimo è stato un uomo molto attivo. Ricordo anche il suo legame con don Calabria e il suo ruolo nella nascita della Città del Ragazzo. Sapeva sempre fare le scelte giuste e mantenere vive le comunità a lui affidate». 

TELEFONO, BICI E PNEUMATICI

«Il Fondo Bovelli – ha spiegato Piffanelli – è composta da 54 cartelle (buste) su 8 metri lineari. È quindi un fondo corposo, ma discontinuo, non sempre lineare».

Leggi l’intero articolo qui.

(Articolo pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025)

Quella santa contraddizione che ci libera e ci ricorda chi è Dio

21 Nov

DON FABIO ROSINI A FERRARA. Il Cinema di San Benedetto era pieno la sera del 12 novembre scorso per la presentazione del suo ultimo libro “Ma anche no”

Esiste un distacco che ci avvicina agli altri, uno svuotamento che riempie la vita, una relativizzazione che ci fa incontrare la Verità.

È questa la provocazione intellettuale – e di fede – che don Fabio Rosini lancia nel suo ultimo libro, “Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et” (San Paolo Edizioni, 21 ottobre 2025, 18 euro). Libro che ha presentato la sera dello scorso 12 novembre nel  Cinema San Benedetto di Ferrara, davanti a una sala piena di persone (mentre la mattina successiva nel Seminario di via Fabbri ha relazionato al solo clero sul Vangelo secondo Matteo).

Il sacerdote romano – introdotto dal nostro Vicario Generale e Direttore Ufficio Comunicazioni Sociali mons. Massimo Manservigi, è andato – com’è nel suo stile – a cuore del discorso: «farsi degli idoli, farsi un film», come si usa dire nel gergo comune, è un vizio molto diffuso. Invece, dovremmo imparare la difficile arte dell’et-et, non dell’aut-aut, non delle «assolutizzazioni».

Et-et che è contraddizione, complessità, ma in realtà anche «equilibrio»: com’era – ad esempio – una volta nel saper vivere la ferialità e la festività della domenica, tradizione oggi perduta. O dal ricordarsi (!) – contro ogni tentazione fluid – che «la vita nasce dal maschile e dal femminile, e quindi chi li nega, nega la vita». Così, un altro modo di negare la ccomplessità lo vediamo nella «comunicazione politica, dove l’altro è sempre uno schifo, un disgraziato», dove quindi domina «la logica della mostrificazione».

La psicoanalista Melanie Klein – ha proseguito don Rosini – con la sua teoria della scissione ha analizzato bene questo meccanismo: «per sopravvivere  il bambino deve dividere il buono cattivo, ciò che è vita da ciò che è morte», il suo è un processo di autodifesa necessario. Poi però «devi iniziare un processo di integrazione, dove esci da questa scissione primordiale». Ed è «tipico della fede cattolica portare il soggetto a questa maturità», insegnare l’arte dell’et-et, con una fede dove «il Cristo è vero Dio e vero uomo. Tutto ciò che è cattolico implica il suo contrario». E «il contrario di cattolico è “fazioso”». È quindi – questo – «un processo di relativizzazione necessario» perché «c’è sempre qualcosa che ci sfugge, iqualcosa che non vediamo». La realtà «è organica non matematica, implica cioè il suo contrario. Come la Chiesa, che è un corpo», come dice San Paolo: siamo tutti diversi, ognuno è una parte di un corpo e ogni parte è necessaria; se manca una parte, soffri».

Nell’odierna comunicazione – ha proseguito il relatore – oggi dev’essere invece tutto assolutizzato, «trasformato in notizia, tutto deve diventare eccezionale, sensazionalistico, sopra le righe, altrimenti non esiste, non ha valore. E questo spesso viene insegnato ai bambini: “dacci oggi il nostro mostro quotidiano”. René Girard ha spiegato bene questa dinamica del capro espiatorio, secondo cui per sopravvivere dobbiamo avere un nemico comune: così è stato ad esempio per il nazismo con gli ebrei».

Non a caso, «la cronaca nera attira più dello sport, che pure è un’altra forma mimata dell’avere un nemico». Oggi è diffuso «l’orrore di essere sconfitti, di arrivare secondi: per essere mi devo affermare, quindi devo gareggiare, quindi devo vincere». Di conseguenza, «l’invidia è il peccato per eccellenza» («la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo», Sap 2, 24).

Come uscire quindi da questa «dinamica della colpevolizzazione e della rivalità»? Da questo «meccanismo fazioso, contrappositivo, colpevolizzante»? «Facciamo – ho pensato – un libro», per cercare di aiutare ad «evitare innanzitutto di attaccarsi a un dettaglio ma guardare la totalità e la complessità» delle cose e delle persone. Invece noi abbiamo «le nostre idolatrie per superare le nostre incertezze. La sicurezza è bella ma se la assolutizzi diventa dittatura. La verità è importante ma se in suo nome uccidi, diventi un persecutore». È dunque logica conseguenza che «tutti i malvagi pensano di fare del bene e fanno vittimismo, si sentono vittime di altro, si giustificano sempre».

Invece la misericordia nasce «dal sapersi peccatori, dal sapersi cattivi. Il perdono nasce dal sentirsi peccatori, da riconoscere che si sbaglia, nasce quando scopri di non essere perfetto». È – ha proseguito don Rosini – «un processo di kenosis, di svuotamento. Se ti paragoni con gli altri, trovi sempre qualcuno peggio di te; ma se ti misuri con Gesù Cristo, cambi atteggiamento, togli le maschere della presentabilità: maschere che col tempo sono diventate pelle, quindi gabbia».

Per uscire da questa visione, secondo l’autore c’è bisogno innanzitutto di «distacco», cioè «il saper perdere qualcosa per vedere meglio la realtà, per davvero riuscire a metterla a fuoco». Questo perché «ogni scelta implica una perdita» e «chi sceglie è l’adulto», solo l’adulto sa scegliere. Il distacco implica quindi il perdere, il «saper staccarsi dalle cose», non farsi dominare da esse. Implica il «saper dire di no, saper rinunciare». Insomma: «si può lasciare qualcosa», possiamo non avere tutto: sono i pazzi a raccogliere tutto». E il possesso più terribile è quello che riguarda «le idee, il non saperle abbandonare, cambiare». Ma guai a confondere questa necessaria e bella elasticità mentale col relativismo:«spesso anche nella Chiesa vince la piacioneria, il parlare per piacere a tutti, dire ciò che piace a tutti e con un tono “accattivante”…».

Contro questa falsa leggerezza, è invece importante «l’autoironia, il saper ridere di sé stessi, il non prendersi sul serio. Una persona saprà affrontare le proprie pazzie quando saprà essere autoironico». E l’ironia, il distacco, il far ridere, ridere delle cose vuol dire «relativizzarle, guardarle col giusto e necessario distacco».

Altre soluzioni oltre alla preghiera – vale a dire «il fidarsi di Dio, l’abbandonarsi alla Provvidenza, che è qualcosa che aiuta anche la salute mentale…» – sono quei “santi” peccati:la «santa pigrizia»: i veri peccati – ha spiegato don Rosini – «sono faticosi e fanno star male, non sono divertenti, sono un esproprio». Ed essere pigri vuol dire anche – soprattutto per i genitori – non essere sempre interventisti con gli altri, non risolvere sempre i problemi dei figli, ma responsabilizzarli».

E ancora: «la santa avarizia» è molto importante, cioè «il farsi un tesoro vero, essere ricchi della vera ricchezza, quella del Cielo, che nessuno ci può rubare». Infine, il sacerdote ha citato la «santa superficialità, una santa disattenzione» e «il sapersi interrompere, saper scendere dal treno quando si ha torto», il «sapersi contraddire, saper imparare ad aver torto. L’intelligente è chi si contraddice».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Chiesa e mondo ebraico, rapporto complesso

19 Nov

Le parole di Piero Stefani il 15 novembre dalle Clarisse

Il tema dei complessi rapporti fra la Chiesa Cattolica e il mondo ebraico sono stati al centro della relazione di Piero Stefani, intervenuto lo scorso  15 novembre nella Sala del coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara per l’incontro dal titolo “La Chiesa e gli Ebrei dal Vaticano II a Gaza”. Organizzato da SAE Ferrara, Istituto Gramsci Ferrara e ISCO Ferrara nel 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, e parte delle Giornate in memoria di Piergiorgio Cattani, l’incontro è stato introdotto da Francesco Lavezzi che ha riflettuto su come «il Concilio Vaticano II è stato tutt’altro che una passeggiata, ma l’inizio di una fase di svolte, che portò a non pochi contrasti». EdalConcilio emerse l’idea del dialogo da intendersi «non come tattica o strumento» ma come «conversione del cuore che riguarda tutti». 

SHOAH E COLONIALISMO

Stefani ha preso le mosse dalla Shoah e  dal suo legame col colonialismo, entrambi «ombre dell’Occidente».Il sionismo – ha riflettuto – «nasce prima della Shoah e non può quindi essere spiegato solo con questa» e dall’altra parte «il colonialismo ha riguardato anche il Medio Oriente, a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917, e dalla Nakba conseguente alla nascita dello Stato di Israele». Fino ad arrivare al «neoconialismo di oggi portato avanti dal Governo Netanyahu, che arriva addirittura ad assegnare la responsabilità decisiva della Shoah al mondo islamico (al Gran Muftì di Gerusalemme)», posizione «senza fondamento» speculare a quella secondo cui «oggi gli ebrei coi palestinesi si stanno comportando come i nazisti 80 anni fa».

In tutto ciò, la Nostra Aetate rappresenta «una svolta nella posizione della Chiesa nei confronti degli ebrei, non più «perfidi» (da intendersi comunque non come malvagi ma come «coloro che non hanno fede in Gesù Cristo»), ma con cui bisogna «dialogare». Alcune particolarità della Nostra Aetate riguardano il fatto che in essa «non si citi mai in modo esplicito la Shoah, e in nessun modo il termine “Israele”».

ANTISEMITISMO E ANTISIONISMO

Il relatore si è poi concentrato su un altro termine discusso, “antisemitismo”, in particolare oggi, quando «i suoi confini sono diventati così vaghi». Al riguardo, due sono le espressioni storicamente rilevanti usate da Pio XI nei confronti degli ebrei: la prima, nel 1928, in riferimento all’Associazione Amici Israël (che verrà sciolta per altri motivi): «…la Santa Sede – scrisse -, condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di antisemitismo»;la seconda, 10 anni dopo, a Castelgandolfo in occasione di un incontro coi cattolici belgi: «L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi che sono espresse in questo testo. È un movimento antipatico, al quale non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte… Per Cristo e in Cristo, noi siamo discendenza di Abramo. No, non è possibile ai cristiani partecipare all’antisemitismo. Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di utilizzare i mezzi per proteggersi contro tutto quanto minaccia i propri interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti». Da qui, fino ad arrivare ad esempio alle importanti parole di Giovanni Paolo II nel ’97 contro «le radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano». Antigiudaismo che per Stefani ha «fiaccato le coscienze agevolando l’antisemitismo o l’indifferenza» nei suoi confronti. La Nostra Aetate ha il merito invece di non considerare l’ebraismo come «mera religione non cristiana», ma di «sottolineare il legame particolare che esiste tra la Chiesa e il popolo ebraico».

Legame che si esplicherà anche nel 1993 con l’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, nel quale si sottolinea la «natura unica delle relazioni tra la chiesa cattolica e il popolo ebraico». Dall’altra parte, la Chiesa negli anni ha fatto importanti passi avanti anche nel riconoscimento della Palestina,  dall’accordo con l’OLP nel 2000 a quello con lo Stato di Palestina nel 2015. Da 10 anni, quindi, «per la Santa Sede esistono due popoli e due stati». Ma ciò ha peggiorato i rapporti della Santa Sede con l’attuale governo israeliano, che nel febbraio 2024 ha ricevuto un ampio consenso dalla Knesset (99 voti su 120) per  una dichiarazione simbolica contro il “riconoscimento unilaterale” dello Stato palestinese da parte della comunità internazionale.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Ferrara terra di missione: i giovani brasiliani in Diocesi si raccontano

5 Nov

Abbiamo incontrato i quattro missionari provenienti da Parauapebas, per tre mesi presenti tra il bondenese e Ferrara grazie a don Roberto Sibani: ecco come svolgono il loro servizio, tra visite alle famiglie e Mercatino solidale a San Paolo

di Andrea Musacci

Sabato 8 novembre alle ore 18 nel centro di Ferrara avrà luogo una Celebrazione Eucaristica particolare: nel Chiostro grande di San Paolo (con, per l’occasione, ingresso da via Boccaleone, 13), vi sarà infatti una Santa Messa interamente in lingua portoghese. Questa Messa verrà celebrata nell’area del “Mercatino della Fantasia” (giunto alla 26esima edizione), presente fino al 17 novembre per finanziare il 72° Progetto per Parauapebas, in Brasile: per la precisione, si tratta di aiutare il finanziamento del Centro Comunitario Parrocchiale “Lorena Lima”, un Centro educativo per la nonviolenza. Promotore della Messa, del Mercatino e del progetto solidale “Cammino di Fraternità” (che compie 30 anni) è don Roberto Sibani, parroco di Pilastri e Burana. Il Mercatino è aperto tutti i giorni dalle ore 9 alle 18 (domenica e festivi dalle 14.30 alle 18). Al Mercatino don Sibani è aiutato da diversi volontari, fra cui i quattro nuovi giovani missionari, arrivati a Pilastri da Parauapebas lo scorso 10 settembre e che rimarranno nella nostra Diocesi fino al 6 dicembre: Renan Furtado de Sousa, 33 anni; Milena Silva Souza, 21 anni; Viviane de Sousa, 32 anni; Dhayllana Alícia, 22 anni. Prima di presentarveli e di raccontarvi la chiacchierata che abbiamo avuto con loro, vi ricordiamo che anche quest’estate don Sibani è stato a Parauapebas per il suo annuale periodo missionario. Un momento particolarmente significativo si è svolto il 7 agosto nel Plenarinho della Camera Municipale di Parauapebas, con la cerimonia solenne per consegnare a don Sibani il titolo di Cittadino Onorario di Parauapebas.

CHI SONO I NUOVI MISSIONARI 

Renan Furtado de Sousa ha 33 anni, è nato a Osasco – San Paolo, e all’età di 11 anni si è trasferito con la famiglia a Parauapebas, dove vive ancora oggi con la madre e la sorella. Ha anche un fratello, Diego. «Ho iniziato a servire nella Chiesa a 8 anni come chierichetto – ci spiega -, ruolo che ho svolto fino al raggiungimento della maggiore età. In seguito sono stato catechista per i gruppi della Prima Comunione e della Cresima, coordinatore dei chierichetti, e ho fatto parte del coordinamento dei gruppi giovanili Segue-me (Seguimi, per 20-30enni) e Escalada (Scalata, per età 12-16 anni). Attualmente faccio parte della parrocchia di San Sebastiano, dove sono coordinatore della Pastorale della Comunicazione e canto durante la  Messa. Infatti, a un certo punto del mio percorso, ho scoperto di avere il dono di poter lodare Dio anche attraverso il canto. E canto anche professionalmente in cerimonie religiose come matrimoni, battesimi. Prima di venire in missione in Italia – prosegue -, ho lavorato come assistente in un centro che si prende cura di persone con disabilità, e sto concludendo il corso di Educazione Fisica e presto sarò insegnante nell’area. Ho già partecipato a questa missione nella vostra Diocesi nel 2016, insieme a Fabiana, Jordânia e Andreia».

Milena Silva Souza, 21 anni, nata a Goianésia do Pará, vive a Parauapebas e frequenta la parrocchia di San Francesco d’Assisi, nella Diocesi di Marabá. «Sono aspirante alla vita religiosa nella congregazione delle Figlie della Divina Carità», ci racconta: «è un periodo che dura due anni, ho iniziato nel febbraio 2024; e nella mia comunità religiosa viviamo in quattro: suor Joseana, suor Ana Maria, suor Salete e io. Le ho conosciute tramite un incontro vocazionale alla quale ero stata invitata e che per me è stato decisivo. Mia madre è cattolica, mentre mio padre è evangelico, e ho due sorelle. In parrocchia canto, suono la chitarra, faccio parte del coordinamento parrocchiale della pastorale giovanile e frequento anche il corso di teologia pastorale. Ho iniziato a fare la catechista all’età di 15 anni. Durante la settimana partecipo agli studi interni di formazione religiosa e seguo le lezioni di musica: ho imparato a suonare la chitarra durante il lockdown nella pandemia da Covid, tramite alcuni corsi su You Tube». Altro momento per lei importante nel suo cammino è stato, nel 2024, «la partecipazione a una settimana missionaria di giovani (eravamo circa 250) in Amazzonia, andando in diverse parrocchie e a trovare le persone e le famiglie nelle loro case».

Viviane de Sousa, 33 anni, originaria di Breu Branco, nello stato del Pará, vive a Parauapebas col fratello la sorella la nipote e suo figlio adottivo Zac Manuel. «Vengo da una famiglia cattolica, ma sono cresciuta in un’altra famiglia che mi fece frequentare la Chiesa avventista del settimo giorno. Poi a 11 anni sono tornata nella Chiesa Cattolica, ma frequentando raramente e con poca convinzione: solo all’età di 25 anni ho fatto la prima comunione e la cresima, e ho seguito il corso vocazionale col gruppo Seguimi (v. sopra, ndr), di cui faccio ancora parte. Il mio cammino di fede – ci spiega – continua e cresce ogni giorno e anche questa missione è una tappa importante di questo percorso e al tempo stesso una conferma del fatto che ho intrapreso la giusta strada. So che questa missione sarà un tempo di grande apprendimento, rafforzamento della fede e crescita spirituale. Con gioia, metto la mia vita al servizio del Vangelo, confidando che Dio continuerà a guidare ogni passo di questo cammino».

Dhayllana Alícia, 22 anni, originaria della città di São Pedro da Água Branca (MA), vive a Parauapebas con la madre e il fratello. «Faccio parte della Comunità San Benedetto, della Parrocchia di Cristo Re, dove svolgo diversi servizi pastorali: sono Coordinatrice della Pastorale Giovanile e dei chierichetti; membro dell’équipe liturgica, soprattutto come lettrice; membro della Pastorale della Comunicazione, con attività nella radio parrocchiale; vice-coordinatrice del Consiglio della Comunità. Per me, servire nella Chiesa è una missione di vita, un gesto profondo di amore verso Dio e il prossimo. Sono molto felice di partecipare a questa missione in Italia, dove sto conoscendo da vicino la realtà delle parrocchie e del popolo che cammina insieme a don Roberto».

LA MISSIONE NEL BONDENESE

A Pilastri e Burana, infatti, i quattro missionari fanno animazione nelle Messe, hanno guidato le serate spirituali in occasione della festa di San Matteo Apostolo, patrono di Pilastri (15-19 settembre): «in queste cinque serate – dividendo Pilastri in cinque zone, ci spiega don Sibani – è stata fatta l’esposizione Eucaristica, i quattro missionari sono andati casa per casa per  annunciare l’arrivo di Gesù e invitare all’Adorazione eucaristica e alla preghiera la sera, ogni volta accolti in un luogo diverso. «Questi stessi incontri preliminari di invito – ci spiegano i quattro brasiliani -, ci han permesso di entrare nelle case di molte persone, e quindi di poter conoscere famiglie, anziani, persone malate». A Vigarano Mainarda, Vigarano Pieve e Salvatonica i missionari hanno incontrato i bimbi del catechismo. Le domeniche 9 e 16 novembre saranno, invece, nella zona di Bondeno, mentre la scorsa Giornata Missionaria Mondiale (19 ottobre) sono stati a Gavello e Scortichino e lo scorso 14 ottobre hanno animato la Veglia missionaria nella chiesa di Pilastri per le quattro parrocchie dell’UP “Madonna Pellegrina”. E ancora, sono in programma “I giorni della fraternità” con le famiglie di origine marocchina a Burana e a Pilastri: don Roberto, accompagnato dai quattro missionari, farà visita a ognuna di queste famiglie nei seguenti giorni: 27, 28, 29 novembre; 1, 2, 3 dicembre.

RIFLESSIONI SU FEDE E CHIESA

«Qui nel Ferrarese e più in generale in Italia a livello di fede la realtà è molto diversa rispetto al Brasile», riflette con “la Voce” Renan: «mi dà tristezza vedere che tanti giovani non vanno in chiesa e non partecipano alla vita delle comunità ecclesiali». Non è certo da oggi – infatti – che siamo diventati terra di missione… «In Brasile, però – prosegue – la Chiesa evangelica è in continua crescita: se dovessimo interrompere la missione fra la nostra gente, fra qualche anno ci ritroveremmo in Brasile con le chiese vuote…». «Io però – ci spiega Viviane – ho conosciuto alcuni giovani che dopo un cammino personale e comunitario, da evangelici sono diventati cattolici». «La forma di predicazione degli evangelici è più attraente, organizzano più iniziative in particolare per i giovani, come la discoteca», riprende Renan. «Noi cattolici non dovremmo fare questo ma organizzare più ritiri e più incontri spirituali per attirare i giovani, momenti nei quali poter unire la predicazione, la preghiera e la formazione sulle fondamenta della nostra fede e della nostra Chiesa». Una sfida enorme, che interpella anche noi qui in Italia.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 novembre 2025

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Vivere la fede in Cristo fuori dai rifugi, nella bella e difficile complessità: don Fabio Rosini a Ferrara

1 Nov

Il 12 novembre alle ore 21 il sacerdote romano sarà nel Cinema San Benedetto per presentare il suo libro appena uscito, “Ma anche no”.Una sfida ai luoghi comuni

di Andrea Musacci

Rischio ricorrente nell’animo umano è quello dell’autoillusione, di crearsi narrazioni di comodo, il tendere «naturalmente alla proiezione, alla sovrapposizione delle nostre paure o delle nostre aspettative, spalmandole sopra la realtà» e sopra l’immagine – autoprodotta – del nostro dio. Di questo – e di molto altro – riflette don Fabio Rosini nel suo ultimo libro, “Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et…per salvarsi dalle assolutizzazioni e dalle banalizzazioni” (San Paolo Edizioni, 21 ottobre 2025, 18 euro). Libro che presenterà lui stesso a Ferrara la sera del 12 novembre nel Cinema San Benedetto di via Tazzoli (inizio alle ore 21). 

Don Rosini è volto noto nella nostra Chiesa: romano, biblista, docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, è molto seguito in particolare dai giovani. Ma questo libro si rivolge a tutti, perché le autoillusioni non conoscono età; e l’effetto di questo meccanismo è porre il bene in noi e il male negli altri, riproponendo a livello relazionale la dinamica schmittiana dell’amico-nemico. Non v’è dubbio: è molto più facile vedere il male (reale o non) nell’altro che non in noi stessi. Così purtroppo è anche nella Chiesa, cioè nei suoi membri quando scelgono di essere del mondo: «È triste constatare – scrive don Rosini – che in molti ambienti ecclesiali, pure i più evoluti, ci sia sempre un nemico contro cui combattere; qualcuno da cui distinguersi, a cui opporsi. Persone da condannare. Per non identificarsi…». Gesù invece sapeva che la propria missione era di stare coi malati, i difettosi, i peccatori (Mt 9,10-13): che la loro miseria (la nostra) aveva bisogno della Sua Misericordia (si ricordi a tal proposito la Lettera Apostolica Misericordia et misera di Papa Francesco, uscita nel 2016 a conclusione del Giubileo). «Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia», scrisse Sant’Agostino riflettendo sull’incontro di Gesù con l’adultera (Gv 8,1-11). «Le persone oneste non si lasciano bagnare dalla grazia», scriveva Peguy: «ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia».

Leggi l’articolo completo qui.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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(Foto: Pexels – Whicdhemein One)

Pasolini e Assisi: storia dell’incontro tra il regista e il Cristo degli ultimi

1 Nov

A 50 anni dalla morte dell’intellettuale, il racconto della genesi del suo film Il Vangelo secondo Matteo: siamo nel ’62, Pasolini è alla Cittadella dove i Vangeli e don Giovanni Rossi gli cambiano la vita. E poi, l’incontro con le Piccole Sorelle di Gesù e Papa Giovanni…

di Andrea Musacci

«Ma lei crede in Gesù, Figlio di Dio?». 

«Per adesso no». 

«Preghi allora anche lei come il padre del lunatico alle falde del Tabor: “Signore, aiuta la mia incredulità”». 

«Questa invocazione la sceglierò come motto del mio film».

(Dialogo tra don Giovanni Rossi e Pier Paolo Pasolini, 1962)

Il 9 gennaio 1959 don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana (PCC) di Assisi, assieme ad altri volontari della PCC e al Vescovo assisano, viene ricevuto in Udienza in Vaticano da Papa Giovanni XXIII. Questi aveva un antico rapporto di amicizia con don Rossi. Ed è proprio prima di questa Udienza  che il Pontefice ha un colloquio privato col sacerdote. Un colloquio storico: «Devo dirti una bella idea. Ma tu poi la vai a dire a tutti!», dice a un certo punto il Papa. «No, no, padre santo», risponde don Rossi. E Roncalli allora gli rivela: «Questa notte mi è venuta una grande idea: di fare un Concilio Ecumenico». Don Rossi, nel pieno dell’emozione, lo invita a visitare Assisi.

LÀ FUORI IL PAPA, SUL COMODINO IL VANGELO

Quasi 4 anni dopo, il 4 ottobre ’62, Festa di San Francesco, il treno si muove dalla Stazione vaticana alle 6.30 del mattino: sopra, Papa Giovanni XXIII si mette in viaggio per Loreto e Assisi. Ricordando anche quell’incontro del ’59, ha scelto queste due località per porre sotto la protezione della Madonna e del Poverello il Concilio Vaticano II, cominciato una settimana dopo, l’11. La sera di quel 4 ottobre don Rossi torna a casa scosso dalla profonda commozione di aver visto il suo amico Papa Giovanni nella sua Assisi. La casa di don Rossi è la Cittadella, sede della PCC (elevata nel ’59 ad Associazione Primaria proprio da Giovanni XXIII). E alla sua tavola, a cena, c’è uno degli intellettuali più importanti e controversi: Pier Paolo Pasolini (PPP) (i due, in foto nel ’62). Giunto ad Assisi due giorni prima per partecipare al VII Convegno dei Cineasti sul tema Il cinema come forza spirituale del momento presente, Pasolini alloggia alla Cittadella, stanza num. 16, nella quale dormì lo stesso Roncalli un anno prima di diventare Papa. In questa stanza, quel giorno il regista si è chiuso infastidito dai rumori per l’arrivo del Pontefice: ma nel suo cuore si è aperta una breccia, che lo porterà a realizzare un capolavoro del cinema: Il Vangelo secondo Matteo. Così lo stesso regista raccontò quelle ore: «D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c‘è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che, fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del Papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo. L’idea di un film sui Vangeli – prosegue PPP – m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore». Quel film lo dedicò – non a caso – «Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII». «A quella cara “ombra” l’ho dedicato», spiegò: «L’ombra, che è la regale povertà della fede, non il suo contrario».

ALLA RICERCA DEL VOLTO DI GESÙ

In una delle mie visite ad Assisi, alloggiando alla Cittadella ho avuto modo di parlare con Anna Nabot, storica volontaria lì residente, nonché Direttrice della Galleria d’arte contemporanea della struttura, e arrivata alla PCC proprio nel 1962. Galleria che è parte dell’Osservatorio Cristiano, centro di documentazione e studio sulla figura e l’opera di Gesù. «Osservatorio – mi spiega Anna – che conserva la sceneggiatura originale del Vangelo di Pasolini, donata da don Andrea Carraro (biblista della PCC, ndr), che ne scrisse le correzioni su richiesta dello stesso Pasolini». E nella Fonoteca dell’Osservatorio, PPP «scelse anche le musiche per il suo Vangelo e consultò le copie di diverse immagini sacre presenti nella “Sezione iconografica”, divisa per fasi della vita di Gesù». Interessante – inoltre – l’intuizione che PPP ha in quel luogo per il volto del Gesù del suo film, «ispirato anche al Gesù del Miserere di Rouault» (Parigi 1871-1958), serie di 58 incisioni lì conservate. E nel febbraio ’64 un giovane militante comunista spagnolo, Enrique Irazoqui, è a Roma per raccogliere soldi per la causa antifranchista: «bussa alla porta di Pasolini per chiedere un aiuto economico e in lui il regista vede subito il volto del suo Gesù». «Nel ’62 – prosegue Nabot – fu un giovane volontario della Cittadella ad andare a casa di PPP a Roma per invitarlo al Convegno dei cineasti del 2-3 ottobre dello stesso anno». E in quei giorni «Pasolini visita anche San Damiano e l’Eremo delle carceri, accompagnato da Bernardini, giovane volontario della PCC ed esperto di cinema muto e dal fratello Tony, anche lui volontario qui ed esperto di arte, autore di alcune pubblicazioni, anche sul Miserere di Rouault». 

VANGELO SOFFERTO

Proprio nella sede dell’Osservatorio della Cittadella è conservato il comodino con la copia dei Vangeli che PPP consultò. Il Vangelo di Pasolini uscirà nelle sale proprio due anni dopo la sua ideazione ad Assisi, il 2 ottobre ‘64. Ma sempre nel novembre del ’62 PPP torna ad Assisi dall’amico don Rossi (che morirà il 27 ottobre ’75, sei giorni prima di lui): «Io non credo in Dio», dice il regista al sacerdote. «Però, di un fatto devo tener conto: la lettura del Vangelo mi ha veramente sconvolto (…). Voglio farne un film, con il vostro aiuto». La sceneggiatura viene completata in due mesi: alcune obiezioni sono di principio, come quella di Guardini sull’impossibilità di fare un film su Gesù. Crudeli, invece, sono le critiche a don Rossi e Pasolini provenienti da parte del mondo cattolico. Nel marzo ’63, il sacerdote scrive al regista per tranquillizzarlo: «Caro Pier Paolo! Sono molto addolorato per la Sua sofferenza. Prego per Lei e per la sua cara mamma. Spero e di gran cuore le auguro che presto un bel sole cristiano splenda sopra la sua anima».

Due mesi dopo l’uscita del film, Pasolini torna alla Cittadella assieme alla mamma Susanna, donna di grande fede. La notte di Natale i due partecipano alla Messa nella cappella della Cittadella. Un’ora prima, PPPP ha un colloquio privato con don Rossi nel suo studio; in una lettera del 27 dicembre all’amico sacerdote, lo ringrazia per le parole pronunciate in quell’incontro: «sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui (…) ricorderò sempre il suo cuore di quella notte». E dopo PPP conclude con una confessione drammatica e commovente: «Sono “bloccato”, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo; non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».

Non meno triste e fonte di profonde riflessioni è il racconto che Pasolini fa della morte improvvisa nel febbraio del ‘69 di don Andrea Carraro, sacerdote della Cittadella (sopracitato, che nel ’64 lo aveva accompagnato nei sopralluoghi in Israele e Giordania e che fu consulente anche per Uccellacci e uccellini), la cui salma va a visitare in una delle stanze: «contadino povero, come il suo buon Papa Giovanni», che al regista pare insegnare – lì disteso senza vita, in attesa della vita vera – un certo abbandono all’Assoluto, che forse PPP allora non coglie (ancora?) del tutto: «Si è rassegnato» alle umiliazioni subite per le sue umili origini, «e ha sorriso. Ha messo tutto nelle mani del suo Signore».

LE PICCOLE SORELLE, «QUESTO CRISTIANESIMO NASCOSTO…»

Come detto, Pasolini nel ’62 arriva ad Assisi il 2 ottobre, con l’intenzione di non rimanerci più di 24 ore. Ma don Rossi lo convince a fermarsi di più, per una serata di letture di alcune sue poesie. Pasolini accetta. Nel pomeriggio del 2, assieme ad alcuni volontari della Cittadella (Lucio Caruso, Paolo Scappucci e Guido De Guidi) gira per Assisi visitando anche San Damiano. A un certo punto i quattro si dirigono a un casolare lì vicino, dove dal ’53 abitano le Piccole Sorelle di Gesù (dopo oltre 70 anni sono ancora lì presenti), fraternità nata in Francia 25 anni prima grazie a suor Magdeleine di Gesù e ispirata al messaggio di Charles de Foucauld. Qui entrano nella cappella, situata nella stalla. «Voglio vedere qualcuna di queste sorelle, fatemele vedere», prega PPP. Una di loro, Paola (allora responsabile italiana e unica consacrata del gruppo), arriva assieme alla Piccola Sorella Diomar (brasiliana) e alle postulanti Giovanna Carla e Fulvia; Paola spiega a un turbato Pasolini: «Noi lavoriamo col sottoproletariato, cerchiamo di dare una mano ai non garantiti, ai più esclusi». La sera stessa, confida a Caruso il suo turbamento per l’incontro con quelle umilissime discepole di Cristo: «Quelle Piccole Sorelle… (…). Ecco uno dei motivi di fascino che ancora mi attirano al cristianesimo. Questo cristianesimo da scoprire senza che si esibisca e ti faccia perdere il gusto e la pena di cercarlo…Questo cristianesimo nascosto, senza uffici stampa, senza televisione, senza cinema…». 

Quel cristianesimo vissuto nel deserto come luogo mistico della contemplazione di Dio, e che della cura dei deserti dei cuori fa la propria missione. Lo stesso deserto nell’irrisolto “teorema” del nostro fratello Pasolini: «Ah, miei piedi nudi, che camminate sopra la sabbia del deserto! Miei piedi nudi, che mi portate là dove c’è un’unica presenza e dove non c’è nulla che mi ripari da nessuno sguardo! (…) Come già per il popolo d’Israele o l’apostolo Paolo, il deserto mi si presenta come ciò che, della realtà, è solo indispensabile. O, meglio ancora, come la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza (…). Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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