
ERNST CASSIRER. 80 anni fa moriva il noto filosofo tedesco. Postumo, uscì nel ’46 un suo saggio sugli aspetti irrazionali e «demoniaci» insiti anche nei moderni poteri statali. Un’analisi dura che ancora oggi può farci molto riflettere
di Andrea Musacci
Nella primavera del 1945 moriva improvvisamente uno dei più importanti filosofi del Novecento, Ernst Cassirer. Ebreo e neokantiano, non ha mai potuto vedere la pubblicazione del suo “Il mito dello stato”, da lui scritto tra il 1944 e il ’45 e concluso e copiato dal suo manoscritto pochi giorni prima della sua morte improvvisa che lo colse il 13 aprile all’età di 71 anni. L’opera è stata pubblicata nel ’46.
EBREO IN FUGA DAL NAZISMO
Nel 1906 grazie a Wilhelm Dilthey, Casasirer conseguì l’abilitazione all’Università di Berlino, dove fu a lungo libero docente. A causa delle sue origini ebraiche ottenne solo nel 1919 una cattedra nella neofondata Università di Amburgo, di cui divenne più tardi rettore (1929-30), e dove tra l’altro fu supervisore delle tesi di dottorato di Leo Strauss e Joachim Ritter. Essendo di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo nel 1933 dovette lasciare la Germania, insegnò a Oxford dal 1933 al 1935 e fu professore a Göteborg dal 1935 al 1941. In quegli anni fu naturalizzato svedese ma, ritenendo ormai anche la neutrale Svezia poco sicura, si recò negli Stati Uniti d’America, dove fu visiting professor nell’Università di Yale, nel New Haven, dal 1941 al 1943 e docente alla Columbia University, New York dal 1943 fino alla morte. Dopo essere uscito dalla tradizione della Scuola di Marburgo del neokantismo, ha sviluppato una filosofia della cultura come teoria fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Ad Amburgo ha collaborato attivamente alla biblioteca di Aby Warburg. Scrive il filosofo statunitense Charles W. Hendelnella premessa all’edizione americana de “Il mito dello stato” (1946): «In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme della conoscenza e della cultura umane. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico».
IL RAZZISMO DI GOBINEAU
Nel libro, Cassirer dopo un’analisi del mito e della «lotta» contro di esso nelle diverse teorie politiche nel corso dei secoli, analizza prima il “culto dell’eroe” di Thomas Carlyle, filosofo scozzeze del XIX secolo e poi il noto saggio di un contemporaneo di quest’ultimo, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” del conte francese Joseph Arthur de Gobineau. Secondo quest’ultimo, la storia è una scienza e – scrive Cassirer -, sempre secondo Gobineau, «ora, il sigillo è violato e il mistero della vita umana e della civiltà umana ci si rivela, poiché il fatto della diversità morale e intellettuale delle razze è evidente». Prosegue Cassirer nella sua critica al francese: «Una delle sue convinzioni più salde è che la razza bianca sia la sola che abbia avuto la volontà e la forza di costruire una vita culturale (…). Le razze nere e gialle non hanno vita propria, non volontà, non energia. Non sono altro che materia morta nelle mani dei loro padroni, la massa inerte che deve essere mossa dalle razze superiori». Prosegue poi Cassirer: «La nostra idea moderna dello stato totalitario era del tutto aliena allo spirito del Gobineau (…)». Tuttavia, egli «appartiene al novero di quegli scrittori che, in modo indiretto, più hanno fatto per preparare l’ideologia dello stato totalitario. Era il totalitarismo della razza che tracciava la strada alle posteriori concezioni dello stato totalitario». E tutto ciò, prosegue Cassirer, nonostante Gobineau fosse «un devoto cattolico»: infatti, «il più potente avversario di Gobineau, si capisce, era la concezione religiosa dell’origine e del destino dell’uomo». La sua teoria, insomma, era «in contraddizione flagrante con gli ideali etici della religione cristiana».
Cassirer prosegue poi la propria analisi, arrivando a parlare del presunto legame tra razzismo e nazionalismo: «A noi sembra naturale stabilire un legame fra razzismo e nazionalismo. Siamo persino portati a identificarli. Ma questo non è corretto, né dal punto di vista storico né da quello sistematico (…). Questa distinzione diventa chiarissima» nell’opera di Gobineau, aristocratico e nostalgico del feudalesimo, che «non era affatto un nazionalista, e non era nemmeno un patriota francese». Rimane il fatto che il suo «mito della razza ha lavorato come un potente corrosivo, ed è riuscito a dissolvere e disintegrare tutti gli altri valori».
LO STATO TOTALITARIO TRA MITO, MAGIA E CULTO DEL CAPO
Venendo al Novecento, Cassirer arriva quindi a spiegare come «nelle situazioni disperate l’uomo farà sempre ricorso a mezzi disperati, e i miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere». Nelle crisi della vita sociale, quindi, «è ritornata l’ora del mito», contro ogni forma di «organizzazione razionale» stabilita. Il mito, quindi – con le sue «potenze demoniache» – «non è stato realmente vinto e soggiogato». Riprendendo la definizione dello studioso francese Edmond Doutté (1867-1926) – il mito è «il desiderio collettivo personificato» – Cassirer scrive a proposito del culto del capo e della dittatura del suo tempo: «L’esigenza di un capo appare soltanto quando un desiderio collettivo ha raggiunto una forza travolgente, e quando, d’altro lato, tutte le speranze di soddisfare questo desiderio in una maniera ordinata e normale sono fallite». In questi momenti, «l’intensità del desiderio collettivo si incarna nel capo»; legge, giustizia e Costituzione non valgono più niente. «Ciò che soltanto rimane è il potere mistico e l’autorità del capo, e la volontà del capo è la legge suprema».
Razionalità e mito si confondono nella moderna politica totalitaria: è la «nuova tecnica del mito»: «L’uomo politico moderno ha dovuto combinare in sé stesso» due funzioni tra loro diverse: «egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa», appunto perché fondata sul mito. «Ma – prosegue Cassirer – quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso». Così il «vero riarmo», il primo in ordine temporale, della Germania nazista non fu quello militare ma «cominciò coll’inizio e con lo sviluppo dei miti politici» che portarono a un «riarmo mentale». Inoltre, questi miti politici moderni portano anche a una «trasformazione del linguaggio umano. La parola magica prende la precedenza sulla parola semplice».E portano anche alla creazione di «nuovi riti»: «poiché, nello stato totalitario, non c’è nessuna sfera privata indipendente dalla vita politica, tutta la vita dell’uomo viene improvvisamente inondata da un’alta marea di nuovi riti». L’analisi di Cassirer è lucida e impietosa: «non c’è niente che abbia maggiore probabilità di addormentare tutte le nostre forze attive, la nostra capacità di giudizio e di discernimento critico, e di sopprimere il nostro sentimento della personalità e della responsabilità individuale, quanto il compimento costante, uniforme e monotono degli stessi riti». Adifferenza dei pur terribili poteri del passato, i miti politici moderni «non hanno cominciato con l’esigere o proibire certi atti. Si sono invece proposti di cambiare gli uomini, per poter regolare e controllare i loro atti»: hanno agito quindi come «un serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla». Così, la «sfera di libertà personale» viene annichilita.
Infine, ma non meno importante, Cassirer analizza come la «vita politica moderna» abbia “attualizzato” forme antiche di divinazione: «L’uomo politico diventa una specie di pubblico negromante. La profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo (…); l’età dell’oro viene annunciata di continuo».
L’insegnamento finale di Cassirer è da meditare profondamente anche oggi, nelle “secolarizzate” e postmoderne società avanzate del XXI secolo: «Tutti noi abbiamo avuto tendenza a sottovalutare questa forza» dei miti politici moderni: all’inizio «li trovammo così assurdi ed incongrui, così fantastici e ridicoli, che quasi non potevamo indurci a prenderli sul serio. Ormai è diventato chiaro a noi tutti che questo era un grande errore. Non dovremmo commettere l’errore una seconda volta».
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Marco Bertozzi e il ruolo della filosofia contro il mito
“Ernst Cassirer e il mito dello stato” è stato il tema al centro della conferenza di Marco Bertozzi svoltasi lo scorso 26 settembre nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. Introdotto da Filippo Domenicali (Istituto Gramsci di Ferrara, che assieme all’Isco ha organizzato l’iniziativa), Bertozzi ha svolto un’ottima introduzione de “Il mito dello stato” del filosofo tedesco.Ricordiamo che Bertozzi è docente di “Storia della filosofia politica” a UniFe, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara e Presidente del Comitato scientifico del Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico” di Mirandola.
Cassirer – ha spiegato Bertozzi – nel ’44-’45 ha la percezione che il potere mitico abbia avuto un «potere schiacciante». Questa «specie di stregoneria, di incantamento» è stato dal potere moderno «sfruttato e tecnicizzato» per manipolare le masse convincendole che la vera libertà stia nell’essere sudditi – più che cittadini – di un potere totalitario. Per il tedesco, in politica viviamo sempre su un terreno «vulcanico», dominato cioè da «forti caratteri emozionali e irrazionali». Bertozzi ha quindi citato una novella di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1930), per sottolineare in Cassirer l’insistenza del forte potere di suggestione, «magico» appunto, che il potere può avere. Il relatore ha poi citato il noto testo “Il tramonto dell’Occidente” (1918) di Spengler, dove quest’ultimo spiega come la nascita di una cultura sia sempre un «atto mistico», qualcosa di legato al «destino», cioè a qualcosa di «inevitabile». L’analisi di Cassirer è stata poi da Bertozzi confrontata con alcuni passaggi di Heidegger in “Essere e tempo” (1927) è l’idea di «destino comune». In conclusione, anche la riflessione di Cassirer – pur esponente del cosiddetto “neoilluminismo” – è connotata da una rilevante negatività:il mito – per lui – è qualcosa di «invulnerabile», che «la filosofia, la razionalità può solo aiutare a conoscere, a riconoscere e quindi a combattere». Forse non è poco, ma di sicuro c’è bisogno di altro per salvarci dal rischio del totalitarismo.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 ottobre 2025
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Venerdì a Palazzo Schifanoia in via Scandiana, 23 ha avuto luogo un nuovo approfondimento sul Salone dei Mesi. L’appuntamento, organizzato dall’Istituto di Studi Rinascimentali in collaborazione con i Musei civici di Arte antica, ha visto l’introduzione di Marco Bertozzi e la relazione di Andrea Pinotti, docente di Estetica all’Università di Milano sul tema dell’empatia in Aby Warburg. La relazione introduttiva compiuta dal prof. Bertozzi ha ben inquadrato le varie accezioni del termine “empatia”, definita come “arcipelago di diversi sensi, non sempre facilmente decifrabili”. Intesa letteralmente come “essere dentro la sofferenza, il sentimento, la passione”, e dunque in quanto compartecipazione emotiva (“mettersi nei panni dell’altro”), l’empatia può riguardare anche il rapporto tra un soggetto e un oggetto o un paesaggio, un luogo, un’immagine. Riflessione, questa, continuata dal prof. Pinotti, il quale ha inizialmente posto l’accento sul come essere empatici comporti un cambio di prospettiva, un’immedesimazione. Ha, quindi, cercato di illustrare il tema attraverso diversi esempi: dai neuroni-specchio all’etnoempatia, dall’autismo a “Blade Runner”, passando per l’analisi dell’ancella nella “Nascita del Battista”, affresco della Capella Tornabuoni a Santa Maria Novella a Firenze. L’analisi artistica è poi proseguita con la “Medea” di Rembrandt (1648), rappresentata mentre medita la tragica vendetta. Infine, il Salone dei mesi, la cui astrologia è descritta da Warburg come tentativo “empatico” di ricondurre il caos celeste al cosmo, di trovare una spiegazione comprensibile.