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Il mito e quel «riarmo mentale» che ci porta dritti al totalitarismo

1 Ott

ERNST CASSIRER. 80 anni fa moriva il noto filosofo tedesco. Postumo, uscì nel ’46 un suo saggio sugli aspetti irrazionali e «demoniaci» insiti anche nei moderni poteri statali. Un’analisi dura che ancora oggi può farci molto riflettere 

di Andrea Musacci 

Nella primavera del 1945 moriva improvvisamente uno dei più importanti filosofi del Novecento, Ernst Cassirer. Ebreo e neokantiano, non ha mai potuto vedere la pubblicazione del suo “Il mito dello stato”, da lui scritto tra il 1944 e il ’45 e concluso e copiato dal suo manoscritto pochi giorni prima della sua morte improvvisa che lo colse il 13 aprile all’età di 71 anni. L’opera è stata pubblicata nel ’46.

EBREO IN FUGA DAL NAZISMO

Nel 1906 grazie a Wilhelm Dilthey, Casasirer conseguì l’abilitazione all’Università di Berlino, dove fu a lungo libero docente. A causa delle sue origini ebraiche ottenne solo nel 1919 una cattedra nella neofondata Università di Amburgo, di cui divenne più tardi rettore (1929-30), e dove tra l’altro fu supervisore delle tesi di dottorato di Leo Strauss e Joachim Ritter. Essendo di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo nel 1933 dovette lasciare la Germania, insegnò a Oxford dal 1933 al 1935 e fu professore a Göteborg dal 1935 al 1941. In quegli anni fu naturalizzato svedese ma, ritenendo ormai anche la neutrale Svezia poco sicura, si recò negli Stati Uniti d’America, dove fu visiting professor nell’Università di Yale, nel New Haven, dal 1941 al 1943 e docente alla Columbia University, New York dal 1943 fino alla morte. Dopo essere uscito dalla tradizione della Scuola di Marburgo del neokantismo, ha sviluppato una filosofia della cultura come teoria fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Ad Amburgo ha collaborato attivamente alla biblioteca di Aby Warburg. Scrive il filosofo statunitense Charles W. Hendelnella premessa all’edizione americana de “Il mito dello stato” (1946): «In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme della conoscenza e della cultura umane. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico».

IL RAZZISMO DI GOBINEAU

Nel libro, Cassirer dopo un’analisi del mito e della «lotta» contro di esso nelle diverse teorie politiche nel corso dei secoli, analizza prima il “culto dell’eroe” di Thomas Carlyle, filosofo scozzeze del XIX secolo e poi il noto saggio di un contemporaneo di quest’ultimo, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” del conte francese Joseph Arthur de Gobineau. Secondo quest’ultimo, la storia è una scienza e – scrive Cassirer -, sempre secondo Gobineau, «ora, il sigillo è violato e il mistero della vita umana e della civiltà umana ci si rivela, poiché il fatto della diversità morale e intellettuale delle razze è evidente». Prosegue Cassirer nella sua critica al francese: «Una delle sue convinzioni più salde è che la razza bianca sia la sola che abbia avuto la volontà e la forza di costruire una vita culturale (…). Le razze nere e gialle non hanno vita propria, non volontà, non energia. Non sono altro che materia morta nelle mani dei loro padroni, la massa inerte che deve  essere mossa dalle razze superiori». Prosegue poi Cassirer: «La nostra idea moderna dello stato totalitario era del tutto aliena allo spirito del Gobineau (…)». Tuttavia, egli «appartiene al novero di quegli scrittori che, in modo indiretto, più hanno fatto per preparare l’ideologia dello stato totalitario. Era il totalitarismo della razza che tracciava la strada alle posteriori concezioni dello stato totalitario». E tutto ciò, prosegue Cassirer, nonostante Gobineau fosse «un devoto cattolico»: infatti, «il più potente avversario di Gobineau, si capisce, era la concezione religiosa dell’origine e del destino dell’uomo». La sua teoria, insomma, era «in contraddizione flagrante con gli ideali etici della religione cristiana».

Cassirer prosegue poi la propria analisi, arrivando a parlare del presunto legame tra razzismo e nazionalismo: «A noi sembra naturale stabilire un legame fra razzismo e nazionalismo. Siamo persino portati a identificarli. Ma questo non è corretto, né dal punto di vista storico né da quello sistematico (…). Questa distinzione diventa chiarissima» nell’opera di Gobineau, aristocratico e nostalgico del feudalesimo, che «non era affatto un nazionalista, e non era nemmeno un patriota francese». Rimane il fatto che il suo «mito della razza ha lavorato come un potente corrosivo, ed è riuscito a dissolvere e disintegrare tutti gli altri valori».

LO STATO TOTALITARIO TRA MITO, MAGIA E CULTO DEL CAPO

Venendo al Novecento, Cassirer arriva quindi a spiegare come «nelle situazioni disperate l’uomo farà sempre ricorso a mezzi disperati, e i miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere». Nelle crisi della vita sociale, quindi, «è ritornata l’ora del mito», contro ogni forma di «organizzazione razionale» stabilita. Il mito, quindi – con le sue «potenze demoniache» – «non è stato realmente vinto e soggiogato». Riprendendo la definizione dello studioso francese Edmond Doutté (1867-1926) – il mito è «il desiderio collettivo personificato» – Cassirer scrive a proposito del culto del capo e della dittatura del suo tempo: «L’esigenza di un capo appare soltanto quando un desiderio collettivo ha raggiunto una forza travolgente, e quando, d’altro lato, tutte le speranze di soddisfare questo desiderio in una maniera ordinata e normale sono fallite». In questi momenti, «l’intensità del desiderio collettivo si incarna nel capo»; legge, giustizia e Costituzione non valgono più niente. «Ciò che soltanto rimane è il potere mistico e l’autorità del capo, e la volontà del capo è la legge suprema».

Razionalità e mito si confondono nella moderna politica totalitaria: è la «nuova tecnica del mito»: «L’uomo politico moderno ha dovuto combinare in sé stesso» due funzioni tra loro diverse: «egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa», appunto perché fondata sul mito. «Ma – prosegue Cassirer – quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso». Così il «vero riarmo», il primo in ordine temporale, della Germania nazista non fu quello militare ma «cominciò coll’inizio e con lo sviluppo dei miti politici» che portarono a un «riarmo mentale». Inoltre, questi miti politici moderni portano anche a una «trasformazione del linguaggio umano. La parola magica prende la precedenza sulla parola semplice».E portano anche alla creazione di «nuovi riti»: «poiché, nello stato totalitario, non c’è nessuna sfera privata indipendente dalla vita politica, tutta la vita dell’uomo viene improvvisamente inondata da un’alta marea di nuovi riti». L’analisi di Cassirer è lucida e impietosa: «non c’è niente che abbia maggiore probabilità di addormentare tutte le nostre forze attive, la nostra capacità di giudizio e di discernimento critico, e di sopprimere il nostro sentimento della personalità e della responsabilità individuale, quanto il compimento costante, uniforme e monotono degli stessi riti». Adifferenza dei pur terribili poteri del passato, i miti politici moderni «non hanno cominciato con l’esigere o proibire certi atti. Si sono invece proposti di cambiare gli uomini, per poter regolare e controllare i loro atti»: hanno agito quindi come «un serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla». Così,  la «sfera di libertà personale» viene annichilita.

Infine, ma non meno importante, Cassirer analizza come la «vita politica moderna» abbia “attualizzato” forme antiche di divinazione: «L’uomo politico diventa una specie di pubblico negromante. La profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo (…); l’età dell’oro viene annunciata di continuo».

L’insegnamento finale di Cassirer è da meditare profondamente anche oggi, nelle “secolarizzate” e postmoderne società avanzate del XXI secolo: «Tutti noi abbiamo avuto tendenza a sottovalutare questa forza» dei miti politici moderni: all’inizio «li trovammo così assurdi ed incongrui, così fantastici e ridicoli, che quasi non potevamo indurci a prenderli sul serio. Ormai è diventato chiaro a noi tutti che questo era un grande errore. Non dovremmo commettere l’errore una seconda volta».

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Marco Bertozzi e il ruolo della filosofia contro il mito

“Ernst Cassirer e il mito dello stato” è stato il tema al centro della conferenza di Marco Bertozzi svoltasi lo scorso 26 settembre nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. Introdotto da Filippo Domenicali (Istituto Gramsci di Ferrara, che assieme all’Isco ha organizzato l’iniziativa), Bertozzi ha svolto un’ottima introduzione de “Il mito dello stato” del filosofo tedesco.Ricordiamo che Bertozzi è docente di “Storia della filosofia politica” a UniFe, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara e Presidente del Comitato scientifico del Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico” di Mirandola.

Cassirer – ha spiegato Bertozzi – nel ’44-’45 ha la percezione che il potere mitico abbia avuto un «potere schiacciante». Questa «specie di stregoneria, di incantamento» è stato dal potere moderno «sfruttato e tecnicizzato» per manipolare le masse convincendole che la vera libertà stia nell’essere sudditi – più che cittadini – di un potere totalitario. Per il tedesco, in politica viviamo sempre su un terreno «vulcanico», dominato cioè da «forti caratteri emozionali e irrazionali». Bertozzi ha quindi citato una novella di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1930), per sottolineare in Cassirer l’insistenza del forte potere di suggestione, «magico» appunto, che il potere può avere. Il relatore ha poi citato il noto testo “Il tramonto dell’Occidente” (1918) di Spengler, dove quest’ultimo spiega come la nascita di una cultura sia sempre un «atto mistico», qualcosa di legato al «destino», cioè a qualcosa di «inevitabile». L’analisi di Cassirer è stata poi da Bertozzi confrontata con alcuni passaggi di Heidegger in “Essere e tempo” (1927) è l’idea di «destino comune». In conclusione, anche la riflessione di Cassirer – pur esponente del cosiddetto “neoilluminismo” – è connotata da una rilevante negatività:il mito – per lui – è qualcosa di «invulnerabile», che «la filosofia, la razionalità può solo aiutare a conoscere, a riconoscere e quindi a combattere». Forse non è poco, ma di sicuro c’è bisogno di altro per salvarci dal rischio del totalitarismo.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 ottobre 2025

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Cacciari racconta la cabala attraverso Pico

21 Mar

Massimo Cacciari e Marco Bertozzi (foto d'archivio)

Massimo Cacciari e Marco Bertozzi (foto d’archivio)

Nell’affresco di luglio del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia sono raffigurate le nozze di Bianca d’Este con Galeotto della Mirandola, fratello del celebre Giovanni. Proprio a quest’ultimo, e proprio nel celebre Salone, ieri alle 18 si è svolta la presentazione del libro “Giovanni Pico della Mirandola. Mito, Magia, Qabbalah” di Giulio Busi e Raphael Ebgi. Massimo Cacciari e Marco Bertozzi si sono ritrovati per quest’ occasione nell’amato Palazzo estense del XIV secolo. Durante la sua giovinezza, Pico della Mirandola soggiornò, tra l’altro, anche a Ferrara. Qui, oltre a conoscere personalmente Girolamo Savonarola, ebbe come maestro e amico Battista Guarini, figlio del famoso umanista Guarino. Fu proprio lui, disse Garin, a fargli conoscere la filosofia. Cacciari ha elogiato il libro come di “eccezionale valore e grande novitá” riguardo al Rinascimento fiorentino, italiano ed europeo e allo “straordinario interesse” in questo periodo per le tradizioni cabalistiche. Nel caso di Pico, per capire le ragioni di questa “necessità della cabala” che egli sentiva fortemente, Cacciari è partito dal concordismo ficiniano come teoria – fondata sull’assunto del Cristianesimo come religione perfetta e definitiva – dalla quale il filosofo di Mirandola prende le distanze. Secondo quest’ultimo, il concordismo risultava insostenibile dal punto di vista teologico e filosofico: solo “la cabala coglie il vero rapporto tra unità e Uno”, in quanto “grande grembo in cui i distinti si riconoscono nella loro unità”, mantenendo il loro carattere di “manifestazioni necessarie dell’Uno”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 21 marzo 2015

Palazzo Schifanoia, il rilancio comincia da QR Code e rivista

23 Dic

250px-FE_Schifanoia_03Non solo restauro degli splendori di Palazzo Schifanoia, ma anche occasione per rilanciare il museo. Sono numerose le idee che la direzione dei Musei Civici di Arte Antica di Ferrara ha presentato ieri alla stampa, e che da oggi, in parte, saranno usufruibili dai visitatori. Proposte all’insegna della multimedialità, della comunicazione e della ricerca, “segni per far comprendere l’idea di museo che vogliamo realizzare”, ha introdotto Angelo Andreotti, Direttore dei Musei Civici di Arte Antica e Storico-scientifici. Nel Salone dei Mesi e nell’attigua Sala delle Virtù sono, infatti, da oggi disponibili alcuni QR Code (Quick Response Code, leggibili tramite smartphone o tablet), per scoprire storia e aneddoti sui celebri affreschi.

Giovanni Sassu, conservatore e storico dell’arte, ha spiegato come il museo “non dev’essere considerato solo utile per la conservazione del passato, ma anche restituito al presente e al futuro: dev’essere quindi anche luogo di comunicazione e di diffusione del sapere”. Il QR Code, ormai utilizzato in tutto il mondo, è stato diviso in quindici tappe. Le altre due novità riguardano la postazione multimediale situata nella Sala delle Virtù (la quale trasmette il video “Palazzo Schifanoia. Metamorfosi di una ‘delizia’ degli Estensi”), e la rivista on-line “MuseoinVita”, a breve consultabile e aperta a importanti contributi. Per quanto riguarda la prima, l’idea è di raccontare la storia dell’edificio, e di aggiungere, in futuro, altre installazioni video nelle sale del Palazzo. Il video è stato realizzato  grazie a Dario Arnone e Stefania Iurilli (per la modellazione 3d e l’animazione) e a Manuela Incerti, del Dipartimento di Architettura di Unife e coordinatrice del progetto. Quest’ultima ha illustrato lo stile narrativo e divulgativo del video, rivolto a tutti, in particolare ai giovani.

Sono dunque intervenuti il prof. Marco Bertozzi, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali – che ha ricordato gli incontri svoltosi a Schifanoia con Massimo Cacciari, e un altro in programma il 20 marzo dedicato a Pico della Mirandola – e Massimo Maisto, Assessore alla Cultura e Turismo del Comune di Ferrara. Tra gennaio e febbraio, infine, verrà pubblicata la guida del Museo Lapidario, con testi di Maria Teresa Gulinelli.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 dicembre 2014

Warburg e Schifanoia, un legame indissolubile

23 Mar

P1000102 - CopiaIl nome di Palazzo Schifanoia rimarrà in eterno legato a quello di Aby Warburg, che nel 1912 presentò la sua ricerca “Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara”, in occasione del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte all’Accademia dei Lincei di Roma.

Il nome di Aby Warburg in Italia, e non solo, è legato a quelli di Massimo Cacciari e Marco Bertozzi, i quali  venerdì alle 18.30 nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia in via Scandiana, 23 hanno presentato gli atti della XIV Settimana di Alti Studi organizzata dall’Istituto di Studi Rinascimentali nel 2012 e dedicata a “I molti Rinascimenti di Aby Warburg”. Prima di entrare nel merito della conferenza, Bertozzi ha voluto dedicare un ricordo commosso a due personalità accademiche recentemente scomparse: l’italianista Ezio Raimondi e il prof. Mario Miegge, “amico e collega” all’Università di Ferrara. Il saggio di Carlo Ginzburg presente negli atti ha permesso al prof. Bertozzi di introdurre il tema delle “formule del pathos”. Questo “ebreo di sangue, amburghese di cuore, d’anima fiorentino” – come si definì lo stesso Warburg – si soffermò su queste formule tipiche dell’arte rinascimentale e dell’antica Grecia, un elemento “fortemente tragico, dionisiaco”. Da qui l’attenzione per la “fede nell’astrologia, una sorta di eccesso empatico, un’enfatizzazione empatizzante”. Massimo Cacciari ha proseguito su questa scia, soffermandosi sul tema dell’immagine, partendo dalla scoperta, da parte di Warburg, di Giordano Bruno. Da qui l’intuizione fondamentale della superiorità dell’immagine sulla parola, sull’espressione verbale. “L’immagine – ha proseguito Cacciari – è più divina della parola, in quanto sa innamorare con più potenza”, permette cioè un approccio più profondo e totale con la realtà.

L’incontro, inserito nel ciclo di conferenze “Schifanoia: il salone mostra i suoi mesi”, è stato promosso dallo stesso Istituto di Studi Rinascimentali in collaborazione con i Musei civici di Arte antica.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 marzo 2014

(nella foto, da sinistra : Massimo Cacciari, Marco Bertozzi e Tiziano Tagliani)

Il tema dell’empatia in Aby Warburg

9 Feb

Venerdì a Palazzo Schifanoia in via Scandiana, 23 ha avuto luogo un nuovo approfondimento sul Salone dei Mesi. L’appuntamento, organizzato dall’Istituto di Studi Rinascimentali in collaborazione con i Musei civici di Arte antica, ha visto l’introduzione di Marco Bertozzi e la relazione di Andrea Pinotti, docente di Estetica all’Università di Milano sul tema dell’empatia in Aby Warburg. La relazione introduttiva compiuta dal prof. Bertozzi ha ben inquadrato le varie accezioni del termine “empatia”, definita come “arcipelago di diversi sensi, non sempre facilmente decifrabili”. Intesa letteralmente come “essere dentro la sofferenza, il sentimento, la passione”, e dunque in quanto compartecipazione emotiva (“mettersi nei panni dell’altro”), l’empatia può riguardare anche il rapporto tra un soggetto e un oggetto o un paesaggio, un luogo, un’immagine. Riflessione, questa, continuata dal prof. Pinotti, il quale ha inizialmente posto l’accento sul come essere empatici comporti un cambio di prospettiva, un’immedesimazione. Ha, quindi, cercato di illustrare il tema attraverso diversi esempi: dai neuroni-specchio all’etnoempatia, dall’autismo a “Blade Runner”, passando per l’analisi dell’ancella nella “Nascita del Battista”, affresco della Capella Tornabuoni a Santa Maria Novella a Firenze. L’analisi artistica è poi proseguita con la “Medea” di Rembrandt (1648), rappresentata mentre medita la tragica vendetta. Infine, il Salone dei mesi, la cui astrologia è descritta da Warburg come tentativo “empatico” di ricondurre il caos celeste al cosmo, di trovare una spiegazione comprensibile.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 09 febbraio 2014

Biblioteca Ariostea, riuscito l’incontro con Bertozzi dedicato ai “passages” di Benjamin

24 Apr

passage bertozzi

Europa, una vecchia, buona idea. Percorsi Etici nel Novecento Europeo” è il titolo del ciclo di incontri a cura dell’Istituto Gramsci di Ferrara e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Venerdì pomeriggio si è svolto il quinto dei dieci incontri nella sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di via Scienze. Il prof. Marco Bertozzi ha tenuto l’incontro “Walter Benjamin: immagini di città”, dedicato alla Parigi raccontata dal grande filosofo tedesco, suicidatosi nel 1940, e introdotto dall’intervento di Riccardo Lavezzi. I passages parigini raccontati da Charles Baudelaire e da Edgar Allan Poe ne “L’uomo della folla” sono fonte d’ispirazione per Benjamin, la cui analisi è importante per spiegare il passaggio, nel XIX secolo, dalla società borghese alla società di massa anche come passaggio dalla figura del flaneur, “malinconico e indolente”, a quella del detective, dell’investigatore kracaueriano. Gli specchi delle vetrine e dei locali sono simbolo del sogno, del mito, dell’illusione e del mistero che domina l’atmosfera parigina: i passages sono dunque “santuari del culto dell’effimero” (Aragon, “Passage de l’opera”), culto che è quasi una nuova religione, luoghi dove si affollano le merci-feticcio, anche quelle umane, le prostitute. Luogo di sogno e di desiderio è dunque Parigi, città dell’illusione per eccellenza, non solo capitale del XIX secolo, ma anche “grande prostituta” che con le sue luci, i suoi specchi e le sue merci esposte abbaglia il visitatore, lo cattura in un miraggio dal quale uscirà deluso.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 aprile 2013

In mostra gli “Angeli contemporanei” alla Galleria del Carbone

7 Gen

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FERRARA Da ieri, e fino al 27 gennaio, è visitabile presso la Galleria del Carbone (in via del Carbone, 18/a, a Ferrara) la mostra “Angeli contemporanei”. L’evento è stato promosso dall’associazione Accademia d’Arte di Ferrara, curato da Paolo Volta e Lucia Boni ed ha il patrocinio del Comune di Ferrara e della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara. Questi sono i maestri della pittura italiana protagonisti dell’esposizione e che rendono ancora più prezioso questo già interessantissimo allestimento artistico: si tratta di Giorgio Balboni, Carlo Bertocci, Maurizio Bonora, Giorgio Cattani, Bruno Ceccobelli, Bruno Donzelli, Omar Galliani, Gianfranco Goberti, Thomas Lange, Renzo Margonari, Romano Notari, Oscar Piattella, Ernesto Terlizzi. La mostra intende omaggiare don Franco Patruno, scomparso il 18 gennaio 2007, il quale – come ricordava l’allora sindaco Gaetano Sateriale – “oltre che nella missione del sacerdozio (…) ha saputo esprimere i suoi ricchi talenti nella pittura, nella scrittura, nella critica d’arte e in quella cinematografica.” Il tema dell’Angelo, il quale riunisce molteplici registri espressivi, è ben spiegato in un passaggio di Gianni Cerioli nel catalogo della mostra da lui curato insieme a Marco Bertozzi: “le immagini di queste figure ibride, alate, per metà uomini e per metà messaggeri del cielo (…) irrompono nei territori dello scetticismo contemporaneo e della nostra ricerca di spiritualità.” La mostra sarà visitabile tutti i giorni dalle 17 alle 20, sabato e festivi anche dalle 11 alle 12:30.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 06 gennaio 2013

Tre giorni di analisi e riflessioni su Antonioni

28 Dic

FERRARA. Si è concluso ieri mattina il convegno “Cronaca di un autore” dedicato al regista Michelangelo Antonioni e durato tre giorni. Gli incontri si sono svolti nella sede della Facoltà di Economia in via Voltapaletto e hanno visto la partecipazione di numerosi studiosi da tutto il mondo. Ogni giornata ha visto la presenza di circa 50 persone, giovani e meno giovani, tra cui l’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto, che ha anche aperto i lavori insieme al Rettore Pasquale Nappi, a Matteo Galli, Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici e ad Alberto Boschi, Docente di Storia del cinema e di Storia e fenomenologia del cinema all’Università di Ferrara. La mattinata conclusiva è stata inaugurata dall’intervento di Ruggero Eugeni, dell’Università di Firenze, il quale ha analizzato “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse” attraverso la lente del disagio psichico e della psicosi. In particolare, si è soffermato sulla scomparsa, avvenimento centrale de L’avventura e sulle sequenze della visita all’ospedale e della festa finale ne La notte. José Moure, docente della Sorbona di Parigi ha invece incentrato il proprio contributo sull’aspetto architettonico presente nel cinema antonioniano mentre l’intervento di Roberto Calabretto, musicologo dell’Università di Udine, ha riguardato invece la musica e i suoni nei film del regista. Il convegno è stato, quindi, concluso dal prof. Marco Bertozzi, docente di Filosofia teoretica dell’Università di Ferrara.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 14 dicembre 2012