La lezione di don Dionisio Candido per la Scuola di teologia: lo sperare per l’Antico Testamento
La Scuola diocesana di teologia per laici ha visto lo scorso 27 marzo don Dionisio (Nisi) Candido, docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Metodio” di Siracusa, intervenire su “Annunciare la speranza attraverso l’Antico Testamento” (AT).
Il tema della speranza è molto presente in AT e sono diversi i temi che la declinano. La speranza è innanzitutto «legata alla fede, alla fiducia in Dio», quindi «alle dinamiche della vita».La speranza è poi legata «alle promesse di Dio»: quella dell’AT è una «spiritualità della parola. Dio si è sempre comportato nei confronti di Israele in modo da costruire un futuro di speranza». Proseguendo, la speranza è legata al «ricominciare»: è una «promessa di rincominciare», quello di AT è «un Dio che riparte». È una «speranza di restaurazione» ed è la speranza «del ritorno a casa, che l’esilio non è definitivo, che nessuno può rischiare per sempre, che il debito, la pena non può essere eterna». L’AT, quindi, per don Candido «non aveva l’idea di un Dio punitivo, ma di un Dio paterno».
Inoltre, la speranza nell’AT è «messianica», quindi è «sinonimo di gioia». Gioia di sapere che «possiamo entrare in una comunione sempre più piena con Dio, in un’intimità con Lui che è sempre più segno di felicità».
E come c’è una speranza di restaurazione, c’è «la speranza di una gioia dopo la sofferenza, perché Dio agisce anche attraversando la sofferenza, i dubbi, le difficoltà»: è una «speranza escatologica, che non ci fa accontentare del contingente, ma ci chiede di avere uno sguardo divino»,Ci chiede di «non limitare il nostro orizzonte, ma di avere orizzonti lunghi»: la speranza è «proiettata lontana», quella dell’AT «non è una speranza intramondana ma che guarda al di là della vita (si pensi ad esempio al libro della Sapienza)»: passando attraverso la misericordia di Dio, «si prospetta una vita futura perché Dio è misericordioso e quindi potrà ricompensare i suoi figli nell’eternità. Israele aveva già quindi – per don Candido – intuito che la speranza non può essere la speranza di cose terrene».
Anche nell’AT, quindi, la speranza «ha un fondamento teologico, non avrebbe senso se si fondasse solo sull’uomo». Una speranza, quindi, «sinonimo di gioia, di felicità, una gioia comunitaria, qualcosa che ci permette di andare oltre noi stessi: questo dovremmo trasmetterlo soprattutto ai giovani. Noi cristiani dovremmo essere in ogni momento portatori di speranza».
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 aprile 2025
L’intervento a Casa Cini di suor Elena Massimi: «la liturgia come memoria di Eterno»
Il tempo della liturgia e quello della festa come tempo di rottura, di apertura all’Altro, “inutile”. Sono state tante, e affascinanti, le suggestioni proposte lo scorso 27 novembre a Casa Cini da suor Elena Massimi, intervenuta per una lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. “La speranza nel tempo della liturgia”, il titolo della religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Docente di Teologia Sacramentaria alla Pontificia Università Salesiana e all’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina in Padova, oltre che Presidente dell’Associazione Professori di Liturgia (APL) e Coordinatrice della sezione Musica per la Liturgia dell’Ufficio Liturgico Nazionale CEI.
Oggi – per la relatrice – viviamo nel tempo della «perdita della memoria», quindi «del legame del presente col passato». Tutto ciò è difficilmente conciliabile con la liturgia, che è «tempo lento». Ma la liturgia è «una grande risorsa: la liturgia, e così il concetto autentico di festa, interrompe infatti il ciclo feriale». Come ha ben analizzato il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, il cosiddetto “tempo libero” serve ormai come «mera pausa per tornare poi a essere ancora più prestanti lavorativamente». Il tempo libero, invece, dovrebbe essere «tempo di rottura dall’ordinario, tempo differente, tempo dell’esperienza di senso, tempo comunitario». La festa è «qualcosa di originario sia rispetto al tempo libero sia rispetto al tempo di lavoro», è «memoria di un tempo fondamentale per la comunità», memoria dell’origine e della meta (individuale e collettiva), «memoria della nostra identità originaria». Questo discorso a maggior ragione vale per la festa religiosa, nella quale «si fa memoria del tempo della salvezza». La festa è “a perdere”, «non segue una dinamica economica, eccede il quotidiano» e, come diceva Guardini, è di per sé «gioco: dà, cioè, senso e gratuità alla vita». E così, la liturgia «dà senso, ci fa vivere in un tempo sacro, nel tempo di Dio». L’aver tolto la festa – quindi – «ci fa vivere l’ansia di prestazione e ci fa essere succubi di tutto quel che bruciamo, cioè produciamo e consumiamo. Viviamo nel culto dell’attivismo, forma di idolatria in quanto pensiamo che tutto dipenda da noi e non da Dio», ha proseguito suor Massimi.
Nella liturgia legata al giorno di festa, «camminiamo, cantiamo e leggiamo in modo diverso». La liturgia, ricordandoci che esiste «un Ulteriore», è essa stessa «anticipazione dell’eternità, rallentamento del tempo e apertura a una dimensione altra». Nella liturgia, tutto – anche il tempo – diventa «simbolico». E tutto ci fa capire che «siamo fatti per la relazione con gli altri e con Dio. È un tempo santificato, quindi, il suo».
Così, anche la liturgia quotidiana, la Liturgia delle ore, possiamo viverla dalla lode mattina alla sera come cammino da una sempre rinnovata speranza, da un «sempre nuovo inizio», a un ritorno in sé per abituarci a prepararci alla morte. Un tempo di silenzio e di ascolto, come potrà essere l’Anno Santo alle porte: «tempo di speranza, di lode, di grazia, di letizia, di rinascita». Tempo santo e di pellegrinaggio, quindi – come detto prima riguardo la festa – tempo rallentato, di rottura, tempo condiviso coi fratelli e le sorelle, in una osmosi unica di «intensità vitale e contemplazione».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024
Essere cristiani significa vivere un’esperienza spirituale piena, una comunione in Dio. Don Nuvoli per la Scuola di teologia per laici
Senza un’esperienza spirituale intesa come esperienza di Dio dentro di me, non è possibile nessuna reale comunione né alcuna concettualizzazione di Dio che non sia fine a se stessa. Don Ruggero Nuvoli è stato il protagonista della sesta lezione della Scuola diocesana di teologia per laici, intervenendo lo scorso 30 novembre a Casa Cini sul tema “Immaginazione sacramentale”. Docente FTER (Facoltà Teologica regionale), don Nuvoli è a capo della Pastorale Vocazionale nella Diocesi di Bologna e dirige “La via di Emmaus”, progetto per giovani con sede nella “Casa di Emmaus” a S. Lazzaro di Savena.
RICONOSCERE OLTRE IL VELO
«Riconoscere il Mistero nel velo dell’Eucarestia, della Parola, dei sacramenti, nel velo della nostra umanità, è riconoscere Cristo», ha esordito. È un dono di grazia, «Dio che sceglie di farci partecipi, di farsi riconoscere. In Cristo, il velo cade, si consuma, si assottiglia». L’approdo della nostra vita è dentro «la promessa che Lui ha fatto a ognuno di noi». Una promessa che va riscoperta, riscoprendo «il momento in cui nella nostra vita si è palesato l’amore di Dio. Il primo palpito, il primo incontro con Lui: solo da questo dono ricevuto, può sbocciare la più intima gratitudine».
DALL’INDIVIDUO ALLA PERSONA
E solo quest’incontro ci fa uscire da una dimensione «individuocentrica» per farci diventare «persona» e dunque entrare in una vita «comunionale» (cristologica ed ecclesiologica):«loSpirito Santo ci dona la vita di Dio costituendoci corpo di Cristo». «Molte delle nostre pastorali – secondo don Nuvoli – non funzionano innanzitutto perché non riescono a far passare la coscienza dall’individuo alla persona».
UN’ESPERIENZA SPIRITUALE
Un incontro con una Persona, dunque, quella del Cristo, nella quale rivela «una vita divina relazionale, una comunione piena. Cristo non è un saggio – ha proseguito il relatore -, non ha mai voluto fondare una religione». Cristo rivela Dio come realtà comunionale e trinitaria: «nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio» (Gv 6, 65). Per questo, «ognuno di noi può stare nella Chiesa o come mero atto tradizionale, come in un qualsiasi contesto sociale, oppure vivendola come vera esperienza spirituale, come incontro col Mistero, nella Presenza del Risorto». È il mistero della nostra divinizzazione:«non posso indagare Dio come oggetto fuori da me, ma come esperienza reale dentro di me». Solo dopo questa esperienza, sono possibili una spiritualizzazione e una concettualizzazione. Non il contrario: «è sempre errato partire dai concetti», ha specificato. La verità è, dunque, comunionale, e così non può non essere l’azione del cristiano, mentre la razionalità moderna pone l’individuo isolato al centro.
SPERANZA ESCATOLOGICA
Questa esperienza spirituale è sempre «eucaristica», è sempre un’esperienza che «perfora tempo e spazio, passando dal segno alla realtà, cioè alla pienezza di vita in Dio: siamo continuamente vivificati e immersi nella vita di Dio, nella vita del futuro». Questa esperienza escatologica pone al cuore della nostra fede, quindi, non solo la comunione ma anche la «speranza».
NON APPLAUSI MA PAROLE DI VITA ETERNA
«Ma questa esperienza dov’è nella nostra vita?», ha incalzato don Nuvoli. «Spesso abbiamo sostituto questa speranza escatologica con le cose del mondo, ci siamo creati un’idea delle cose di Dio».Ma il cristianesimo «non è un insieme di idee o di ideali, né una teoria o una morale che divide chi va premiato e chi va punito: in questo modo, il mondo magari ci applaude, ma non ci segue, così facendo non siamo interessanti per nessuno». È ciò che sta accadendo. Dobbiamo, poi, «celebrare non solo la Pasqua di Gesù in Palestina ma anche e soprattutto la Pasqua eterna e la stessa pedagogia e catechesi debbono «educare al compimento, alle cose ultime, alla promessa della fine, a quell’atto aurorale che nasce dal cuore, all’approdo, al destino eterno della nostra vita. Qual è la differenza tra noi e un partito o associazione qualsiasi, se non parliamo della promessa della vita eterna?». Una domanda da porci senza infingimenti.
Prolusione di mons. Perego per l’inizio della Scuola di teologia per laici: «nasce un nuovo umanesimo cristiano». Sono stati 140 i partecipanti al primo incontro
C’è un numero che getta una luce positiva sul nuovo percorso della Scuola diocesana di teologia per laici: quello di 140, cioè i partecipanti al primo incontro dell’anno pastorale.
Un dato significativo, che dice di un desiderio crescente nel nostro laicato per momenti di formazione e di condivisione a livello diocesano. Forse, anche questo, uno dei frutti del cammino sinodale in corso.
Lo scorso 5 ottobre a Casa Cini la Prolusione del nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego ha dunque dato il via al nuovo anno. Tema, “Gaudium et Spes: una rilettura per il nostro tempo. La missione della Chiesa nel mondo tra profezia del Concilio e cambiamento d’epoca”.
La Costituzione pastorale del ’65, documento fondamentale del Concilio Vaticano II, ha rappresentato – parole del Vescovo – «una sintesi tra visioni pessimiste e ottimiste sul mondo». L’importanza di interrogarsi sui «segni dei tempi», concetto mutuato dalla “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, ma già presente in certa letteratura pastorale e teologica antecedente, porta «una nuova visione del rapporto Chiesa-mondo, con una intimità che prima non c’era». Si auspica quindi «un rapporto intimo col mondo»:è una rivoluzione. «Nella Chiesa non c’era mai stata una visione così positiva. Prima – ha proseguito mons. Perego -, il rapporto era sempre impregnato di diffidenza, il mondo era da tenere distante. Questa visione nuova e arricchente ha avuto conseguenze pastorali importanti, imperniate sul “vedere, giudicare, agire”, e nella prospettiva del dialogo».
Dialogo che non può non avvenire sulla base del riconoscimento della persona e della sua dignità, in «una nuova stagione dei diritti dell’uomo», dopo la nascita del personalismo negli anni ’20. Non a caso, riguardo alla Gaudium et spes si è parlato di «un nuovo umanesimo cristiano, di una nuova simpatia della Chiesa per l’uomo». L’uomo è dunque «chiamato a costruire una comunità nuova, una nuova fratellanza, una sola famiglia. L’annuncio del Vangelo rimane la sua missione, con al centro l’amore per i nemici, ma questa nuova apertura – che mantiene la centralità del matrimonio e della famiglia come luogo educativo -, ha effetti sulla cultura e in ambito economico. Riguardo a quest’ultimo, mons. Perego ha posto l’accento sul passaggio della Costituzione nel quale si sollecitano «investimenti per le generazioni successive, senza pensare solo al consumo individuale», e si ricorda la «destinazione universale dei beni», proponendo Enrico Mattei e Adriano Olivetti come esempi virtuosi. Nella parte conclusiva il Vescovo ha quindi brevemente accennato agli effetti sull’idea di politica, sul tema della pace e della nonviolenza, della mondialità e della cooperazione internazionale.
Infine, una comunicazione di servizio: la lezione prevista per giovedì 12 ottobre non si svolgerà per favorire la partecipazione all’incontro con don Fabio Rosini previsto la sera stessa alle ore 21 nel Cinema S.Benedetto.
Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, al via il nuovo anno. Intervista al Direttore Marcello Musacchi: «studio e confronto per abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”»
di Andrea Musacci
Non luoghi di difesa, ma di costruzione di nuove speranze. Così vanno ripensate – continuamente – le nostre comunità ecclesiali. E per cambiare sguardo, per cercare orizzonti differenti, servono anche momenti di ascolto e confronto. Questo aspira ad essere la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, giunta al quinto anno. È già possibile iscriversi alle lezioni che si svolgeranno a Casa Cini, Ferrara dalle 18.30 alle 20 nelle date sotto riportate. Tema, “…E lo riconobbero…oltre le attese, con gli occhi della fede”. Abbiamo incontrato il Direttore della Scuola, Marcello Musacchi, per riflettere assieme sul nuovo anno che sta per iniziare.
Musacchi, rispetto all’anno scorso quali sono le novità?
«L’anno scorso avevamo scelto l’immagine della chiave e della casa, dei modi di entrare, approcciare una pastorale diversa. Quest’anno invece abbiamo scelto l’immagine di Emmaus, icona del Sinodo in corso, e anche qui in un certo senso ricorre il tema della casa, quel luogo da dove si riparte. Al tempo stesso, però, vi è l’immagine della strada, luogo dell’annuncio».
La Scuola non è un Istituto di Scienze Religiose. Quali le differenze?
«Come l’anno scorso, abbiamo mantenuto nel programma l’unione di discipline umanistiche e teologiche, un intreccio continuo tra le due, di cui parla anche Papa Francesco nella Costituzione apostolica “Veritatis gaudium”: una teologia, quindi, che – attraverso la multidisciplinarietà – entra nei contesti e nelle dinamiche delle vite delle persone. Una differenza importante rispetto al vecchio approccio. Inoltre, riteniamo sia altrettanto importante saper comunicare bene ciò che c’è di positivo, e per questo ai relatori abbiamo chiesto di portare con sé anche la propria esperienza, per arrivare a una dinamica di riflessione, a un confronto con i presenti».
Esperienza: parlarne significa parlare anche delle fragilità, a partire dalle proprie…
«Sì, lo faremo soprattutto nella seconda parte del programma. Gli elementi di fragilità possono trasformarsi in opportunità per le comunità e la loro pastorale. Dalle fragilità che chiunque ha, si possono – assieme – cercare nuove strade per trasmettere la fede. Strade che, quindi, si dimostrano profetiche».
Abitudine e novità, futuro e tradizione: coppie che spesso creano tensione. La Scuola come affronta questi snodi?
«Dallo stesso percorso sinodale, stanno emergendo diverse riflessioni e proposte nuove. Si tratta di capire come riorientare la memoria – che è fondamentale – in una nuova speranza. Prima parlavamo di esperienza, di vissuti: un buon metodo per lavorare su questo, è stare sulla strada, non sulle mappe…».
Passare dalla carta alla carne, insomma…
«Esatto. Ma stare nella realtà significa iniziare a guardare le nostre stesse comunità cristiane con occhi diversi, costruendo forme di appartenenza che non siano più luoghi di difesa, che non seguano più la logica dell’arroccamento in piccoli gruppi autoreferenziali…».
Non a caso, la prima parte dell’anno della Scuola si intitola “Disinstallarsi: una Chiesa in cammino che prende sul serio le domande”. In che senso bisognerebbe “disinstallarsi”?
«Nel senso di “schiodarsi”, muoversi per mettere in gioco se stessi, la propria fede. È un’espressione che Papa Francesco usa spesso. È la grande sfida delle nostre comunità. Si tratta di cercare orizzonti diversi».
Alzando sempre più in alto l’asticella, per non rischiare di fissarsi troppo su ciò che si è raggiunto…
«Si tratta di spostare l’oggetto del desiderio: ciò che come parrocchiano o appartenente a un’associazione o a un movimento hai fatto fino ad oggi, va bene. Non è questo il problema. Ma bisogna sapersi mettere in gioco, abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”».
Le Unità pastorali, ad esempio, richiedono a tutti un approccio diverso…
«Sì, un approccio che non faccia disperdere energie, vista la necessità di lavorare in un territorio più ampio. Il “disinstallarsi” è anche questo, e comprende il prendersi cura, quindi anche il tema di una formazione adatta a tutti, aperta a ognuno».
Il tema della cura, che richiama ancora quello della fragilità…
«Si tratta di entrare nelle vite delle persone. Ogni evangelizzazione dovrebbe sempre partire da questo, non da un sistema di pensiero che si considera perfetto e che quindi basta applicare alla realtà. Mentre invece la mia vita deve poter cambiare, senza conformarsi a un sistema concettuale. La nostra stessa Scuola, dunque, rifiuta questo tipo di rigidità, proponendo un approccio alla teologia intesa come bene comune appartenente al popolo di Dio».
Un bene comune che andrebbe anche “portato” in maniera sempre più capillare nelle varie parrocchie…
«Certamente. Già l’anno scorso alcuni dei partecipanti hanno sperimentato una forma ancora più allargata di Scuola: coloro che vi partecipavano, infatti, avevano dato vita nelle proprie parrocchie a gruppi nei quali riportavano ciò che avevano ascoltato durante le lezioni, per discuterne assieme. Un metodo da promuovere ovunque in Diocesi».
Al via il Seminario “Il cuore non basta”: nel primo incontro, Anna Bianchi ha riflettuto sulla “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II
Sta nell’essenza della ragione di desiderare di spingersi sempre al di là, sempre oltre sé stessa. Ma questo non può non portare allo scontro/incontro col mistero dell’Essere, con qualcosa che la supera infinitamente. Lì entra in gioco la fede. Questa riflessione ha tanto diviso filosofi e pensatori nel corso dei secoli e rimane, anche nella società dell’ultrarazionalismo e del relativismo, un pungolo inevitabile.
E proprio al rapporto fede-ragione è dedicato il Seminario di tre incontri organizzato dalla Scuola di teologia per laici della nostra Arcidiocesi, dal titolo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”. Il coordinatore del Seminario, Maurizio Villani, ha introdotto il primo dei tre incontri svoltosi on line il 23 febbraio. Sul tema “Fides et ratio: una sfida per la filosofia? Considerazioni a margine dell’Enciclica di Giovanni Paolo II” è intervenuta Anna Bianchi, Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
È il concetto di verità quello centrale per indagare, come viene fatto nell’enciclica, il rapporto tra ragione e fede: se è vero che «la fede è recepita dal soggetto non passivamente, ma attraverso appunto la ragione», dall’altra parte la Rivelazione «è la base del rapporto tra fede e ragione»: la ragione, quindi, «non è autosufficiente, ma arriva a verità fondamentali attraverso la Rivelazione».
Da qui la critica nell’enciclica a una «filosofia separata» tipica dell’età moderna e contemporanea, che ha, cioè, abdicato a ricercare una dimensione soprannaturale.
Bianchi ha poi spiegato come nel testo si riflette su come «la ragione può comprendere l’ordine razionale della realtà, il suo aspetto ontologico, andando oltre gli aspetti empirici, cercando quindi la verità: se la filosofia vuol essere un pensiero autentico, deve cercare la conoscenza di ciò che è vero sempre, della realtà in sé, deve trascendere il piano fattuale ed empirico per attingere ai principi primi e universali dell’essere». Questa «capacità metafisica» della filosofia, per san Giovanni Paolo II è una sorta di «filosofia perenne e destoricizzata, una filosofia implicita attraverso i secoli», ma ancora oggi molto dibattuta in ambito filosofico.
La relazione di Bianchi si è poi concentrata sull’aspetto antropologico, quindi sul soggetto-persona nel quale fede e ragione si incontrano. Nell’enciclica l’uomo è definito «come colui che cerca la verità e come colui che vive di credenza»: da una parte, quindi, il «desiderio di verità appartiene alla natura dell’uomo, quindi non può essere del tutto inutile e vano», dall’altra parte, insito nell’uomo vi è anche il bisogno di «abbandonarsi fiduciosamente all’altro, se riconosciuto come testimone credibile». Ciò avviene, in maniera simile, nell’ambito della fede.
Ma l’unione di questi due desideri – della ricerca della verità e dell’abbandono – come spiegò ad esempio San Tommaso d’Aquino, «derivano da una comune origine, Dio». Solo nel supremo Creatore, quindi, possiamo ritrovare, ancora, la risposta a ogni anelito di trascendenza, sia nella forma della ragione, sia in quella della fede.
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023
Tanti gli iscritti e diffuso l’entusiasmo per l’avvio della Scuola di Teologia per laici. Le prime lezioni sono state precedute dalla S. Messa col nostro Arcivescovo
“Scrittura e Tradizione sono i binari dell’insegnamento teologico”, ma la teologia, “rimandando ai fondamenti”, ci aiuta “a leggere il mondo, la storia, ’con gli occhi della fede’ ”. E’, questo, un passaggio dell’omelia pronunciata nel pomeriggio di venerdì 20 settembre nel cappella del Seminario di Ferrara, da mons. Gian Carlo Perego nella Messa per l’avvio delle lezioni della neonata Scuola di teologia per laici intitolata a “Laura Vincenzi”. Alla presenza, fra gli altri, dei genitori e della sorella della giovane tresigallese (foto al centro), e di un centinaio di persone iscritte alla Scuola, l’Arcivescovo, nella liturgia celebrata immediatamente prima della lezione d’apertura, ha spiegato come la teologia “è per la missione, ci chiede di andare, di uscire non solo fisicamente dai luoghi della nostra vita quotidiana, ma anche di uscire dai luoghi comuni, dalla ripetitività per approfondire sempre di più, nello studio e nel dialogo, le verità e lo stile di vita cristiana, partecipando con responsabilità alla vita della Chiesa, ma anche con l’attenzione al contesto di tempo e di luogo, alle nuove relazioni”. Come ha ricordato Papa Francesco alla Giornata di studio sulla costituzione apostolica Veritatis gaudium, a Posillipo, il 21 giugno scorso, la teologia di oggi si caratterizza anche come “teologia dell’accoglienza, è una teologia del contesto, che cioè parte dall’ascolto e dal discernimento di un particolare contesto; è una teologia nel contesto, cioè dell’incontro e del dialogo con le forze che promuovono il bene in un determinato contesto; ed è una teologia per il contesto, cioè una teologia che in un determinato contesto, con la pratica dell’evangelizzazione e dell’accoglienza reciproca, opera per la costruzione di una società tollerante e che ha a cuore la cura e la salvaguardia della persona e del creato che la circonda”. La teologia, insomma, “cammina con le persone”, aiuta a saperci “non solo guardare dentro, ma anche guardare attorno”.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 27 settembre 2019
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
-------------
"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)