Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Intervista a Pier Giuseppe Montevecchi
Il prossimo 29 settembre la Cattedrale di Ferrara ospiterà una mattinata dedicata ai membri dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Delegazioni di Bologna e Ferrara).
Questo il programma dell’iniziativa: ore 9.15 – 9.30, ritrovo per la vestizione nell’area del coro della Cattedrale di Ferrara; ore 10, Santa Messa celebrata da mons. Massimo Manservigi, Vicario Generale Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio; ore 10.45, al termine della Celebrazione Eucaristica, dopo il saluto dell’Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e una breve visita alla Cattedrale, ritrovo nell’antica Sacrestia per assistere alla proiezione del video “Tesori nella pietra”, presentato dalla dott.ssa Barbara Giordano, co-autrice assieme a mons. Manservigi. In conclusione, pranzo conviviale.
STORIA DELL’ORDINE EQUESTRE DEL S. SEPOLCRO
Tradizione vuole che la sua creazione risalga ai tempi della prima crociata, quando, nel luglio 1099, le milizie cristiane liberarono Gerusalemme dal giogo musulmano.
Una delle prime iniziative prese dai crociati consistette nel ripristinare il Patriarcato di Gerusalemme. Quando Goffredo di Buglione assunse il governo dei territori conquistati, si preoccupò di erigere la Chiesa del Santo Sepolcro a Cattedrale e di formare un corpo (o capitolo) di 20 canonici incaricati di attendere al servizio divino. Il capitolo dei canonici fu trasformato, nel 1114, in capitolo di canonici regolari: essi accettavano di svolgere vita comunitaria, secondo i precetti della regola di Sant’Agostino, e di pronunciare i tradizionali tre voti monastici (obbedienza, castità e povertà).
Nasceva così un nuovo ordine religioso, quello dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme, la cui fondazione fu approvata da papa Callisto II nel 1122.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che al servizio del capitolo operassero dei cavalieri con l’incarico di vigilare sulla Chiesa del Santo Sepolcro, formando così il primo nucleo di un supposto Ordine cavalleresco del Santo Sepolcro.
L’ORDINE OGGI
Pier Giuseppe Montevecchi è Delegato della Delegazione di Bologna e, ad interim, di quella di Ferrara. Lo abbiamo contattato per rivolgergli alcune domande.
Che significato ha, nel presente, il vostro Ordine?
«Possiamo dire che l’importanza sta nello scopo: carisma e dettato del Santo Padre per sopperire alle necessità della Terra Santa, particolarmente in questo periodo che a causa della guerra vede la limitazione, se non addirittura l’interruzione, dei pellegrinaggi e del turismo cosiddetto religioso».
Qual è la sua specificità all’interno della Chiesa Cattolica?
«Nei tempi di oggi la specificità consiste nell’essere gli ambasciatori della Chiesa di Roma nei luoghi Santi, di rappresentare il tramite tra i luoghi della Chiesa delle origini e la Chiesa attuale in tutto il mondo. Un compito che Papa Pio IX assegnò all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme nel 1847 di mantenere le opere a sostegno della Terra Santa».
Nella Terra Santa in dettaglio che servizio svolge?
«Operare per fare sì che questa terra non diventi un deserto. Mantenere le pietre vive, cioè le persone, affinché possano continuare a viverci. Il nostro è un sostegno fornito a 360 gradi al Patriarcato Latino di Gerusalemme: nel campo delle scuole di ogni ordine e grado, anche l’Università, che significano istruzione e cultura, 68 parrocchie da aiutare, sostegno alle coppie che si sposano. E attenzione alle necessità Patriarcali».
Nella nostra Regione e, nello specifico, a Ferrara quanti membri conta? E che tipo di iniziative organizza?
«La Sezione Emilia, di cui fa parte anche Ferrara, conta circa 150 membri. L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme sta vivendo un momento di ristrutturazione e di crescita. Le iniziative che organizza sono di tipo religioso, culturale, di musica nelle chiese. Iniziative che sono sempre aperte al pubblico, e questo per farci conoscere».
Padre Ricardo Linares ci racconta l’incontro con Papa Francesco a Roma: «esperienza indimenticabile»
di Andrea Musacci
Padre Ricardo Linares, 59 enne argentino, cinque anni fa è stato l’ultimo dei teatini a lasciare Ferrara e la chiesa su corso Giovecca. Attualmente risiede a Casa Santa Teresa, Caprarola, nel viterbese, Diocesi di Civita Castellana. Lo abbiamo contattato in occasione di un anniversario davvero speciale: i 500 anni dalla nascita dell’ordine dei chierici regolari Teatini, risalente al 1524. Giubileo che, lo scorso 14 settembre, ha visto l’incontro con Papa Francesco nella Basilica di San Pietro a Roma.
LA STORIA E L’INCONTRO COL PAPA
L’istituto religioso di diritto pontificio, sorto con lo scopo di restaurare nella Chiesa la regola primitiva di vita apostolica, fu fondato nella Basilica di San Pietro in Vaticano a Roma il 14 settembre 1524 da san Gaetano Thiene e Gian Pietro Carafa (all’epoca episcopus theatinus, cioè Vescovo di Chieti, da qui il soprannome di teatini) e fu approvato da papa Clemente VII.
E in Vaticano si sono ritrovati migliaia di teatini da tutto il mondo (USA, Messico, Colombia, Brasile, Argentina, Portogallo, Spagna e Italia) per festeggiare il loro Giubileo (iniziato 1 anno fa), con in particolare un Pellegrinaggio che ha fatto tappa il 10 settembre a Venezia nella chiesa di San Nicola da Tolentino, dove venne formulata la prima Regola di Vita teatina e dove vissero in comunità i fondatori Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa, Paolo Consiglieri e Bonifacio de’ Colli. Un’altra tappa è stata a Napoli giovedì 12 (dove nel 1533 aprirono la loro prima casa e dove si conservano le sacre spoglie, tra gli altri, di san Gaetano Thiene e Andrea Avellino), prima dell’attesa udienza col Santo Padre sabato 14, mentre mercoledì vi è stata la professione solenne di cinque giovani teatini.
«È stata un’esperienza indimenticabile – ci racconta commosso padre Linares -, fondamentale per rinnovarci nello spirito originario della nostra comunità. Venerdì – prosegue -, durante la Celebrazione a Santa Maria Maggiore a Roma, abbiamo pregato in particolare per le famiglie e soprattutto per i bambini, i giovani, per la loro educazione, consacrandoli alla Madonna».
Papa Francesco appena il giorno prima era rientrato dopo il lungo e faticoso viaggio in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Leste e Singapore. «È stata una vera grazia da parte sua incontrarci», prosegue padre Linares. «Ci ha accolto con tre promesse: rinnovamento, servizio e comunione. E ha sottolineato l’importanza di tornare all’origine, di ricostruire, affinché la bellezza della Chiesa si possa manifestare ancora oggi. È stato davvero molto emozionante, non ho ancora parole…Ci ha trasmesso una forza incredibile».
I TEATINI A FERRARA
Nella nostra città, su corso Giovecca, si trova la chiesa di Santa Maria della Pietà, detta dei Teatini, progettata da Luca Danese fra il 1622 ed il 1635. Chiesa che è chiusa e inagibile dal sisma del 2012. La progettazione dell’intervento è in corso di attuazione. Fino al 2019, si è celebrato nella sagrestia, mentre da 5 anni l’unico ambiente aperto è l’Oratorio con accesso da via Cairoli, gestito da alcuni laici in continuo contatto con padre Linares, e dove vi sono, ogni settimana, momenti di preghiera. Come detto, padre Linares è stato l’ultimo teatino a lasciare Ferrara, nel 2019, ed era rimasto l’unico dal 2016. Negli anni precedenti, invece, oltre a lui ve ne erano altri due – un altro padre e un fratello laico consacrato -, per lo più impegnati nelle Confessioni in Cattedrale e in altre parrocchie.
La storia dei teatini a Ferrara è stata travagliata: con le soppressioni napoleoniche, hanno dovuto lasciare la città fino a metà del secolo scorso, quando vi sono tornati con una presenza continua e la chiesa è diventata prima parrocchia poi succursale della Cattedrale (mentre in passato era chiesa conventuale). Nel 2000, i teatini hanno quindi riacquistato la titolarità della chiesa, ancora di loro proprietà.
Pagine di libri bruciati appartenenti a Renata Rantzer
Lo scorso giugno l’incendio negli edifici di “Accoglienza odv”, poi la morte di Renata. Il racconto di don Giorgio Lazzarato
di Andrea Musacci
L’INCENDIOE LARINASCITA
La Comunità “Accoglienza odv” di Salvatonica, nata una 30ina di anni fa, accoglie 35 persone fra disoccupati, immigrati, persone con problemi psichici di varia natura, detenuti a fine pena. Lo scorso 24 giugno, l’incendio partito dal dormitorio al primo piano, nel quale rimangono ferite tre persone. «Il piano terra, con la sala da pranzo e la cucina, è stato ripristinato e ora dobbiamo ristrutturare le sei stanze e i due bagni al piano superiore, quello dov’è avvenuto l’incendio, piano che ospitava 9 persone», ci spiega don Lazzarato. «Per il prossimo 13 giugno, Festa di Sant’Antonio – continua – spero che i lavori saranno conclusi e di fare una “visita guidata” alla struttura…». Le persone che alloggiavano in quel piano dell’edificio sono state poi trasferite in altre strutture vicine.
Aiuti economici per la ristrutturazione sono arrivati anche da Belgio, Spagna, Germania, da Roma, Latina, dalla Sicilia e da altre località: l’associazione “Accoglienza odv”, infatti, nasce nel 1992, durante i mesi estivi della grande ondata migratoria dall’Albania, ma già da fine anni ’80 don Giorgio organizza campi per ragazzi da tutta Italia, e campi IBO con giovani provenienti da diversi Paesi europei. Adulti che ora, saputo del dramma vissuto, cercano – anche se a distanza – di aiutare la Comunità a rialzarsi. Ricordiamo che per l’accoglienza, oltre che dalle rette dei servizi sociali, i finanziamenti alla Comunità arrivano in parte dai soci dell’associazione e dall’8×1000 alla Chiesa Cattolica.
Inoltre, dal 17 al 22 settembre il chiostro di San Giorgio ha ospitato una mostra fotografica, a cura dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della nostra Diocesi, dedicata proprio alla Canonica di Salvatonica ferita dall’incendio della scorsa estate.
CHI ERA RENATA RANTZER
Una delle tre persone ferite nell’incendio del 24 giugno, Renata Rantzer (foto qui sopra), non ce l’ha fatta ed è deceduta lo scorso 16 agosto all’Ospedale di Cento, dov’era stata trasferita dal Bufalini di Cesena. La donna, di origini ebraiche, era stata salvata nell’immediato da un altro ospite, il detenuto a fine pena Filippo Negri, 28 anni e da Dorel, 58enne rumeno, operatore di “Accoglienza odv”. Un lutto che ha colpito la Comunità, un dramma dal quale don Giorgio e i suoi ospiti han cercato fin da subito, pur a fatica, di rialzarsi. Nata nel 1938, Renata Rantzer ha avuto una vita piena ma costellata di dolori profondi. A inizio anni ’90 perde, infatti, il primo figlio, Mattia, di 31 anni, e anni dopo perde prematuramente anche la figlia, Camilla, 38 anni. Due lutti che segnano profondamente la vita di questa donna, la quale dal 1993 al 2000 ha guidato la Comunità di recupero “Exodus” di Bondeno, mentre in passato era stata anche arredatrice di interni. Il figlio Mattia riposa nel cimitero di San Biagio di Bondeno (mentre Camilla in Toscana) e lo scorso 31 agosto, con una toccante cerimonia che ha coinvolto don Lazzarato e ospiti della sua Comunità, le ceneri di Renata sono state poste di fianco ai resti del figlio.
Il concerto solidale: Manuzzi ci spiega la band
Una grande risposta solidale quella nella sera del 17 settembre scorso a San Giorgio fuori le Mura. Circa 250 i presenti per l’ultimo appuntamento dei festeggiamenti della Madonna del Salice, patrona del borgo: nell’antico chiostro della Basilica si è esibito il gruppo Ars Antiqua World Jazz Ensemble, guidato da Roberto Manuzzi, per un concerto organizzato in collaborazione con l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, Over Studio Recording di Cento e con la regia audio di Angelo Paracchini. Il concerto era gratuito ma con la richiesta ai presenti di un’offerta per il ripristino della sede della Comunità “Accoglienza odv” della parrocchia di Salvatonica. L’evento è stato anche dedicato alla memoria di Roberto Sgarbi, stimato medico di base a Pontelagoscuro, cognato di Manuzzi, mancato improvvisamente lo scorso 6 maggio all’età di 68 anni. La sera del 15 è stato Giovanni Dalle Molle a ricordarlo pubblicamente e a rivolgere un pensiero affettuoso anche alla madre di Sgarbi, Marisa.
Ars Antiqua ha incantato i tanti presenti a S. Giorgio esplorando in modo attuale e rivisitando musiche e testi poetici del basso medioevo, dalle cantigas di S. Maria tratte dalla raccolta del 1200 di re Alfonso il saggio di Spagna, a musiche della tradizione arabo-andalusa (ebraico-sefardite) e musiche originali su testi del poeta Jacopo da Lentini, predecessore di Dante e notaio presso la corte di Federico II di Svevia. Roberto Manuzzi spiega a “La Voce”: «ho pensato con questo concerto di aiutare la Comunità di Salvatonica e, in secondo luogo, l’ho pensato all’interno di un progetto più ampio sulla cosiddetta “musica dell’anima”, cioè una musica che, se non strettamente sacra, sia capace comunque di esprimere sentimenti di spiritualità. La nostra – prosegue – è musica popolare, come popolare era all’epoca. Si tratta di una commistione di sacro e profano molto profonda e intensa, che ben esprime la tensione tra amore terreno e amore divino». L’Ars Antiqua World Jazz Ensemble ha da poco inciso un cd con Over Studio Recording e quello a S. Giorgio è stato il primo concerto dopo il concorso internazionale Folkest di S. Daniele del Friuli dove il gruppo è stato premiato per il miglior brano originale in lingua friulana, risultando 3° classificato su un centinaio di proposte.
Giornata di Ateneo per la Cooperazione internazionale: credenti e laici per rapporti diversi tra i popoli
Pace, ecologia, difesa dei diritti umani.Temi più che mai al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale che, per essere affrontati seriamente e in profondità, necessitano di un approccio diverso fra Stati e non solo.Questo approccio si può riassumere nel termine “cooperazione”, concetto al centro della seconda Giornata di Ateneo per la Cooperazione internazionale dal titolo “Democrazia, diritti e cooperazione”, organizzata dal Centro di Ateneo per la Cooperazione allo sviluppo internazionale di UNiFe, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Diocesana “Casa G.Cini” di Ferrara. L’iniziativa si è svolta nel pomeriggio del 20 settembre proprio a Casa Cini. L’evento è anche parte del programma “Aspettando la notte europea dei ricercatori 2024” promossa dall’Università degli Studi di Ferrara.
L’introduzione e la moderazione dei diversi interventi è stata di Alfredo Alietti, docente UniFe e direttore del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo sviluppo internazionale).
Dopo i saluti della Prorettrice Evelina Lamma (intervenuta al posto della Rettrice Laura Ramaciotti, impossibilitata a essere presente), ha preso la parola il nostro Arcivescovo mons. Gian CarloPerego: «in una visione liberista o socialista – ha detto quest’ultimo -, il tema della cooperazione rischia di essere slegato dal tema dei diritti e della democrazia, mentre invece i tre termini van tenuti assieme». È ciò che fa la Chiesa. Mons.Perego ha quindi ripercorso la nascita del movimento cooperativo nella seconda metà del XIX secolo, in ambito socialista, anarchico o cattolico, e di quest’ultimo, ha citato in particolare il ruolo di Giovanni Grosoli. Da questo movimento popolare si è arrivati alla formulazione nella Costituzione del nostro Paese (art. 45): «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata (…)». La cooperazione rimanda quindi a un «mutuo aiuto, a una mutua solidarietà e alla democrazia dal basso».Cooperazione che, tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso, ha caratterizzato anche il Piano Mattei, nato dopo diversi anni di studio e preparazione, e finalizzato allo sviluppo economico e democratico dell’Africa. Un modello virtuoso di cooperazione, ben diverso dal «falso Piano Mattei» proposto dall’attuale Governo italiano, «calato dall’alto e fatto per il controllo delle migrazioni e per determinati interessi economici, non certo per quelli dei Paesi africani».
Nella seconda parte del suo intervento, il nostro Arcivescovo ha invece delineato a grandi linee lo sviluppo del concetto di cooperazione nel Magistero della nostra Chiesa, dalla Gaudium et spes (1965, Paolo VI) alla Fratelli tutti (2020, Francesco), passando per la Populorum Progressio (1967, Paolo VI), la Sollicitudo Rei Socialis (1987, Giovanni Paolo II) e la Caritas in veritate (2009, Benedetto XVI). Una storia che ha portato, e continua a portare, a una vera e propria «rivoluzione culturale, con un’attenzione alle persone e alle comunità, contro ogni forma di assistenzialismo». Centrale è il tema della «fraternità» e della «cittadinanza globale», contro le «strutture di peccato» che creano «povertà, disuguaglianza e nuove forme di schiavitù».
Silvia Sitti, presidente Associazione Ong Italiane (AOI), è fra i promotori della campagna “Il mondo ha fame. Di sviluppo”, portata avanti da Focsiv, AOI, CINI e Link 2007, con il patrocinio di ASVis, Caritas Italiana, Forum Nazionale del Terzo Settore e MISSIO. Fra gli obiettivi, l’introduzione nella legislazione italiana di un preciso vicolo per il raggiungimento dello 0,70% per l’aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2030. Nel suo intervento Sitti ha riflettuto sulla legge 49/1987 dedicata proprio alla cooperazione, «legge fondamentale ma spesso non applicata, con conseguenze serie sulla democrazia. Non vi è – ha aggiunto – solidarietà senza reciproca mutualità, e ciò vale anche per la cooperazione», compresa quella internazionale. «Ma la pandemia del Covid sembra non averci insegnato nulla riguardo all’importanza della dimensione globale nell’affrontare i problemi».
L’ultimo intervento prima del dialogo col pubblico presente, è spettato ad Agostino Petrillo, docente del Politecnico di Milano: «dagli anni ’90 del secolo scorso – ha riflettuto – si è avuta una crisi dell’associazionismo e una deriva affaristica della grande cooperazione». Negli anni della globalizzazione, quindi con la trasformazione degli equilibri economico-geopolitici, «non possiamo più concepire una cooperazione come intervento esterno di un Paese verso un altro ma come reale reciproco scambio», per affrontare la nuova «questione sociale planetaria, anche attraverso il sistema universitario. Vi è dunque – ha concluso – la necessità di aprire una nuova epoca della cooperazione».
Gabriel, Lucas, Jacylyane e Gracieli vengono da Parauapebas e rimarranno a Pilastri e Burana fino al 30 novembre, ospiti di don Roberto Sibani, dal 1995 legato al Brasile. Li abbiamo incontrati per farci raccontare le loro storie e cosa li ha spinti a intraprendere un’esperienza così importante
di Andrea Musacci
Dopo 5 anni, le comunità di Burana e Pilastri nel bondenese tornano ad accogliere alcuni giovani missionari brasiliani: Gabriel, Lucas, Jacylyane e Gracieli sono arrivati il 6 settembre da Parauapebas e rimarranno fino al prossimo 30 novembre, ospiti di don Roberto Sibani, instancabile promotore e organizzatore del progetto solidale “Cammino di Fraternità”. Progetto iniziato nell’agosto del 2008 con l’accordo tra il Vescovo di Marabá dom José Foralosso e l’allora Arcivescovo di Ferrara-Comacchio mons. Paolo Rabitti per una presenza missionaria nel Vicariato Beato Giovanni Tavelli. Per i primi quattro anni, la presenza di tre missionari è stata di 12 mesi, ma poi, per motivi burocratici, il periodo è stato ridotto a 90 giorni. I giovani missionari, però, col tempo sono diventati quattro (nel 2019 furono Elayne, Rosinha, Thainan e Renato). Don Sibani dal 1995 si reca ogni estate a Parauapebas (esclusi gli anni del Covid, dal 2020 al 2022). Abbiamo incontrato i quattro ragazzi presenti ora in Diocesi per farci raccontare il loro cammino di fede e il primo impatto con la realtà italiana.
Gabriel Morais, 32 anni, single (come anche gli altri tre), è un Agente Comunitario di Salute a Parauapebas. «In Brasile, sono attivo nella chiesa di Sant’Antonio della Parrocchia della Madonna del Perpetuo Soccorso, dove svolgo il servizio nel gruppo di canto suonando la chitarra nelle Messe e partecipando a un gruppo teatrale. Fin da piccolo – prosegue – facevo parte di un coro, poi ho iniziato a suonare la chitarra e a partecipare a un gruppo di giovani in parrocchia. Nel 2011 ho iniziato a seguire le lezioni di italiano grazie ai missionari che erano già stati qui in Italia. Anche da questa esperienza, è nato in me il desiderio di essere missionario nella vostra Diocesi». Per Gabriel è la seconda esperienza di questo tipo nel bondenese, essendo già venuto nel 2017 con Agda, Lorenna e Willyan. «È un’esperienza davvero bella – ci spiega – e mi aspetto sia anche diversa rispetto alla precedente. Non pensavo di poter tornare qui in Italia, le famiglie di Burana e Pilastri ci accolgono con gioia, si prendono cura di noi. E anche noi cercheremo di prenderci cura di loro».
Lucas Reis, 27 anni, è insegnante (lavora soprattutto con bambini autistici) e ballerino. All’età di 10 anni, ha subìto la morte del padre. Oltre che in parrocchia, è attivo nel Movimento “Pastorale Giovanile”, in cui giovani evangelizzano altri giovani, soprattutto del popolo. «Qui in Italia – ci spiega – ci sono pochi bimbi e giovani rispetto al Brasile, dove partecipano anche molto alla vita della Chiesa. Spero che questa esperienza missionaria sia per me trasformativa, che rinnovi la mia fede, che mi smuova dalle mie comodità e mi faccia vedere la realtà, anche quando tornerò in Brasile, con occhi diversi». Insomma, «che mi faccia diventare una persona migliore, più umile ed empatica, per poi tornare a casa con una fede e una carità moltiplicate. Dopo la morte di mio padre – prosegue Lucas -, Dio è sempre stato al mio fianco, soprattutto quando non pensavo di farcela. Ho fede e speranza che lo rincontrerò».
Jacylyane Costa, 32 anni, lavora in un Laboratorio Ambientale come Analista di laboratorio. È attiva sia nella parrocchia (soprattutto attraverso la musica) sia nella Comunità “Buon Gesù di Nazaret”, facendo parte di “Rinnovamento nello Spirito”. «I miei genitori – ci racconta – sono stati molto importanti per la mia fede, fin da quando ero bambina. Da adolescente ho sentito nel mio cuore un forte desiderio di evangelizzare nel mio Paese: vedendo altri missionari in azione, desideravo essere missionaria lì, fra la mia gente. Ma avevo un po’ paura…e ora, addirittura, sono missionaria in Italia! È un sogno di Dio, un Suo desiderio, non solo mio». Nonostante le difficoltà con la lingua italiana, tiene a dirci: «è meraviglioso essere qui…Dio ha scelto noi per questa missione, la nostra esperienza qui è un Suo progetto. Di sicuro questi tre mesi rinnoveranno il mio cammino di fede, per rafforzarla».
Gracieli Costa, 30 anni, sorella di Jacylyane, è laureata in pedagogia e insegna ai bambini nella scuola pubblica. Anche lei fa parte della Comunità “Buon Gesù di Nazaret” e inoltre da 9 anni è Ministra Straordinaria della Parola e dell’Eucaristia. «Ci sentiamo davvero accolti qui», ci racconta. «La prima domenica, siamo stati subito invitati a pranzo da una famiglia di Pilastri». «D’ora in poi – aggiunge don Sibani – le famiglie faranno a gara per invitarli, ne son sicuro…». Un modo, questo, anche per fare compagnia a persone sole, anziani, vedove che magari per l’occasione inviteranno anche i propri figli, «ricreando così alcuni legami, un senso di comunità». E a proposito di anziani, due sabati fa i quattro missionari han fatto visita agli ospiti della Casa di riposo di Gavello. «Da piccola ero molto malata – prosegue Gracieli con commozione – ma la Madonna si è presa cura di me. Poi ho iniziato a prestare servizio nella liturgia, nella catechesi e nel gruppo di “Rinnovamento nello Spirito”. A Parauapebas sono anche guardia del gruppo “Nostra Signora di Nazareth”. In Gesù – prosegue – trovo la mia forza, in particolare quando sono in difficoltà. Non è facile essere lontani dalle nostre famiglie, dai nostri affetti ma sappiamo che Dio guarda e protegge ognuno di noi, che ci è sempre vicino. Lascio che il mio cuore bruci, per essere strumento di grazia nella vita di ogni persona, uscendo dalla zona di confort per vivere il primo comandamento, “amare Dio e il prossimo”».
In viale Cavour al civico 184 si trova uno splendido esempio di fusione tra architettura e arte. Vi raccontiamo la sua genesi nel 1904, i tre enfants terribles che la progettarono e resero unica, le linee e i dettagli di un progetto irripetibile che cambiò la nostra città
di Andrea Musacci
Ferrara, al di là di alcuni pregiudizi, è di sicuro città capace di regalare sorprese. Indagando nei suoi meandri, si lascia svelare donando gemme di rara bellezza. E Ferrara è anche mosaico di giardini “segreti” (il successo di “Interno Verde” sta lì a dimostrarlo), spesso in bilico tra realtà e immaginazione (si pensi ai Finzi-Contini). Quanti occhi, da oltre un secolo, si sono posati sognanti, passeggiando su viale Cavour, su quel magnifico villino Liberty e il regno verde nel quale sembra posato. Si tratta di Villa Melchiori, e siamo al civico 184 della larga arteria che taglia la città. Un villino-negozio, in quanto per anni, al pian terreno, ha ospitato un’ampia sala espositiva di piante e fiori, per poi essere usato come appartamento.
COM’È NATO IL RESTAURO
Alcuni mesi fa, il noto critico e storico d’arte Lucio Scardino vi ha dedicato un libro, “Villa Melchiori. Il capolavoro del Liberty ferrarese” (aprile 2024). Il 27 settembre alle ore 18, proprio all’interno della villa, verrà presentato un altro volume, “Villa Melchiori. Storia di un restauro a Ferrara” (luglio 2024), a cura dello stesso Scardino e di Marcello Carrà, eccelso artista ferrarese e ingegnere. Un volume, questo, realizzato con BM–Studio Bosi di Marcello Bosi, che ha eseguito i lavori di restauro da poco conclusisi, e che contiene, oltre a quelli di Scardino, Carrà e Bosi, anche gli interventi (oltre che del Sindaco e dell’Assessore alla cultura) di Davide Danesi e Leonardo Buzzoni (Studio DaBù, per l’illuminazione della Villa), di Manfredi Patitucci (progettista di giardini) e Maria Chiara Bonora (architetto di BM – Studio Bosi).
È Maria Magdalena Machedon nel 2020 a spronare il marito Bosi a intraprendere i lavori di restauro. Eredi del fondatore Ferdinando Melchiori, infatti, sono la bisnipote Francesca e la stessa Machedon che l’ha acquistata da Anna Moretti, altra bis nipote di Melchiori, divenendo proprietaria, insieme al marito, del primo piano.
STORIA DI UNA RIVOLUZIONE
Villa Melchiori è stata realizzata nel 1904 (inaugurata il 30 luglio) dall’ingegnere ferrarese (ed ebreo) Ciro Contini, allora 31enne: fu la sua prima opera a carattere edilizio. Successivamente, fra i tanti lavori, restaurò l’Albergo “Europa” in corso Giovecca, Palazzo Cicognara-Sani in via Terranuova, realizzò l’ingresso in granito del cimitero ebraico in via delle Vigne, progettò la Laneria Hirsch e fornì al Comune il progetto di massima per realizzare il Rione Giardino. Dopo il trasferimento a Roma, nel ’41 con la moglie Lidia lasciò l’Italia in seguito alle leggi razziali: la coppia andò prima a Detroit poi a Los Angeles, dove Contini morì nel 1952.
Tornando a Villa Melchiori, in epoca estense il terreno su cui sorge appartiene al Convento di San Gabriele, che ospita le Carmelitane per volere della duchessa Eleonora d’Aragona. Il Convento viene poi soppresso in seguito alle invasioni napoleoniche. Nel 21 agosto 1903 l’area è acquistata dai Melchiori grazie a un contratto con la Ditta Pirani-Ancona. Proprio in questi anni viene concluso il tombamento del canale Panfilio, permettendo la nascita di viale Cavour, arteria fondamentale di collegamento della Stazione ferroviaria col centro. Villa Melchiori sarà la prima casa a essere costruita sul tronco terminale del nuovo viale. Contini per questo ambizioso progetto coinvolse lo scultore Arrigo Minerbi (allora 23enne) e il fabbro 37enne Augusto De Paoli, portando l’Art Nouveau nella nostra città.
TRA REFUSI E CORBEILLE
Fa sorridere, e pare assurdo, il refuso del decoratore Giuseppe Pedroni che sulla facciata riportò erroneamente il nome di “Melchiorri Floricoltore”, con due “r”, ingannando involontariamente nel tempo (e ancora oggi) non poche persone. Ma il buffo raddoppio non tolse fascino e mistero a questo luogo fuori dal tempo. Così, nel 1905 la vicina Villa Amalia (sempre progettata da Contini) cercò in un certo qual modo di emulare la magia di quel villino-negozio; e nell’aprile del 1906 Villa Melchiori finì anche sull’importante rivista torinese “Architettura italiana”. Nell’autunno del 1968 il regista Franco Rossi vi girò addirittura una sequenza del suo film “Giovinezza giovinezza”, con gli attori Alain Noury e Colomba Ghiglia.
Come scrive Scardino nel libro, De Paoli e Minerbi in sinergia con l’ing. Contini realizzarono la «convessa quanto estrosa porta-vetrata a forma di corbeille (cesta, ndr) floreale con la cancellatina che riporta una serie di rose canine in ferro, il serpentino cornicione sotto-tetto “a colpo di frusta”, le inferriate delle finestre, i fiori in cemento modellati agli angoli della terrazza e sui pilastri d’ingresso, quasi “carnose” escrescenze quest’ultime che parrebbero voler evocare mazzi del fiore chiamato “alcea rosea”, la cancellata in ferro battuto impostata sul tema-cardine del girasole (che, nella parte centrale, le linee sinuose dei gambi trasformano nella sagoma di un’enorme mela)». Inoltre, ai lati dell’edificio, i Melchiori fecero costruire prima due dépendances (grazie all’ing. Edoardo Roda) e altre due costruzioni dove sistemarono nuove serre, laboratori e un piccolo appartamento per i commessi (v. nella didascalia a pag. 11, il legame successivo con la famiglia Facchini).
UN UNICO MAGNIFICO CORPO
La Villa è immersa in un parco di circa 2200 mq, con ancora presenti diverse specie di piante, fra cui Ginkgo biloba, cedro del Libano, Bagolari, Ippocastano, camelia, azalea, glicine, vari alberi da frutto, una piccola vigna. Come scrivono Marcello Bosi e Maria Chiara Bonora nel libro, il giardino progettato per Villa Melchiori «può essere immaginato come un percorso attraverso tre stanze che dal fronte della villa si articolano in una successione verso la parte più intima del giardino dove il disegno si fa meno marcato e il carattere informale si apre ad un tono più selvatico».
È l’arte che imita la natura? No, è quella forma di preghiera laica con la quale l’uomo esprime il proprio bisogno di una più forte simbiosi con lo splendore del creato. Una casa, un giardino…di più: un corpo unico, un unico intreccio di linee immaginarie, di armonie, di richiami. Anche e soprattutto così ci si prende cura della natura, amandola e ri-dandole vita attraverso l’arte, indagando con passione nei suoi dedali tanto oscuri quanto incantatori.
A 10 anni dal ritorno alla Casa del Padre, la parrocchia di Mizzana lo omaggia con un libro e altre iniziative. Vi anticipiamo alcuni contenuti del volume in uscita
di Andrea Musacci
«Questo libro nasce al cuore…il cuore di una comunità», scrivono don Paolo Cavallari e Paolo Gioachin nella prefazione del libro “Laici dentro e fuori la Chiesa: tra il dire e il fare. L’eredità di don Francesco”, dedicato a don Francesco Forini, sacerdote di Ferrara-Comacchio tragicamente scomparso 10 anni fa, il 28 settembre 2014, a 67 anni. Il volume è curato dalla parrocchia di Mizzana – in particolare da Chiara Cortesi, Erik Natali, Isabella Gamberini, Paolo Gioachin, Rita Cortesi, don Paolo Cavallari – e uscirà come Quaderno del CEDOC (Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana): il pdf sarà disponibile gratuitamente la prossima settimana a questo link: http://santafrancesca.altervista.org/biblioteca.html. Il cartaceo, invece, si potrà avere in occasione dell’incontro nella parrocchia di San Giacomo Apostolo a Ferrara il 28 settembre alle 16.30 (v. locandina sotto), e successivamente contattando la parrocchia di Mizzana (tel. 0532-51701 o mail a scrittideldon@gmail.com).
Il volume è diviso in sei sezioni: “Tutto parte dal Concilio”, in riferimento al Concilio Vaticano II; “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, con ricordi e testimonianze di amici, familiari e parrocchiani; “La ‘mia’ Africa”, sulla sua missione a Kamituga; “Ogni mia Parola”, sul suo amore per il Vangelo; “ ‘Andate per le strade…’: i viaggi”. Inoltre, vi è un’appendice con selezione di scritti che testimoniano il suo forte interesse per il ministero battesimale. Fra i tanti interventi, ne segnaliamo solo alcuni: vi sono sacerdoti (don Ivano Casaroli, don Giampiero Mazzucchelli, ad esempio), laici del mondo della cultura (Piero Stefani e Francesco Lavezzi, per citarne due), familiari (il fratello Giorgio, tornato al Padre lo scorso 1° novembre, e i nipoti), personalità della politica (l’ex Sindaco Tiziano Tagliani e Francesco Colaiacovo) o legate alla missione (Silvia Sgarbanti, suor Teresina Caffi, Herman M. Kyambo, fra i tanti).
A 5 anni dalla morte, una mostra al Carbone di Ferrara lo ricorda. L’aneddoto sull’ex voto dedicato a San Paolo
di Andrea Musacci
In questi giorni Ferrara ricorda Gabriele Turola, pittore, scrittore e critico d’arte morto improvvisamente nell’agosto del 2019 all’età di 74 anni. Nei 5 anni dalla scomparsa, la Galleria del Carbone (via del Carbone, 18/a) fino al 22 settembre ospita la mostra dal titolo “Dedicato a Gabriele Turola”, curata da Corrado Pocaterra. L’esposizione è visitabile dal mercoledì alla domenica dalle 17 alle 20. Per l’occasione è disponibile un catalogo con diverse opere di Turola e contributi di amici e conoscenti: Daniele Biancardi, Lucia Boni, Milena Botti, Daniela Carletti, Marcello Carrà, Gianni Cestari, Alberto Felloni, Paolo Orsatti, Lara Fratti, Galeazzo Giuliani, Claudio Gualandi, Paolo Volta, Lucio Scardino, Massimo Stagni Roncara & Giuliana Berengan.
Nelle opere di Turola domina il fantastico e il surreale: a fatica, vi è un umano che sia pienamente tale. Tutto è trasfigurato, il reale è solo una convenzione, un gioco. Il reale, per Turola, è la vera astrazione, la vera finzione. Tutto nella sua arte può avere un volto, come in certi incubi di bambino. Questi volti che spuntano, che animano oggetti altrimenti inanimati, sono allo stesso tempo un sollazzo, una sorpresa e un inganno; in controluce, vi si nota anche qualcosa che assomiglia allo sberleffo, senza però mai perdere una certa grazia e dolcezza. Le sue opere ci permettono di ricordare certi viaggi notturni nel sogno; viaggi verso terre da non dire, attraenti e disturbanti, ambigui e leziosi. In Turola, tutto è ludica evasione, fiaba colma di una matura consapevolezza. Non vi è mai piena allegria, nelle sue opere, ma un velo malinconico, come giustamente scrive Gianni Cestari nel suo contributo presente nel catalogo sopracitato.
L’EX VOTO E LA CHIESA DI SAN PAOLO
Nel 2000, in occasione dell’Anno Giubilare, Turola ebbe anche l’occasione di realizzare un ex voto, presente per alcuni anni nell’Altare della Madonna del Carmelo della chiesa di S. Paolo a Ferrara. Proprio nel 2000 uscì il libro “Ex Voto nella Chiesa di San Paolo a Ferrara” di Daniela Favretti (Liberty House ed.), con testo di presentazione di don Ivano Casaroli (parroco a S. Paolo dal 1997 al 2005) e postfazione dello stesso Turola. Nel libro, l’autrice parla di 26 ex voto presenti allora nella chiesa di p.zzetta Schiatti, in parte “oggettuali”, in parte tavolette dipinte. I più antichi di questi, risalgono alla fine del XVIII secolo.
Nella postfazione, Turola compie una puntuale analisi degli ex voto lì conservati e degli altri presenti nelle chiese della nostra provincia. Riferendosi agli artisti Antonio Maria Nardi e a Remo Brindisi, anch’essi autori di alcuni ex voto, scrive Turola: «I loro dipinti erano ormai esercitazioni di tipo accademico, se non concettuale: ed inserendomi in questa scia, per siglare la postfazione al lavoro dell’amica Daniela Favretti, ho pensato di eseguire, a mia volta, un ex voto, dedicato alla Madonna del Carmine venerata nella chiesa di San Paolo. È il mio secondo tentativo, dopo quello eseguito per commissione di una signora ferrarese qualche anno fa e collocato nel santuario di Montenero, a Livorno. La mia tempera su carta (cioè l’ex voto dedicato alla Madonna del Carmine della nostra chiesa di San Paolo, ndr) rappresenta l’autrice di questo libro, anche lei pittrice, inginocchiata dinanzi alla chiesa di San Paolo in atto di ringraziare la Vergine per averle concesso una grazia particolare: ovvero la pubblicazione del volume, nato dalla rielaborazione della propria tesi, dopo tredici anni dalla stesura, in occasione dell’Anno Santo. Dal punto di vista stilistico – prosegue Turola – nella scena ho introdotto i colori, a me cari, dell’arcobaleno, il ponte simbolico che unisce la terra al cielo. Inoltre, ho inserito nella composizione elementi decorativi e astratti e fiori neo-futuristi, che simboleggiano l’eterna primavera dello spirito. Ma il mio è soprattutto un omaggio diretto, dal punto di vista iconografico, agli sconosciuti autori degli ex voto di San Paolo, che mi hanno variamente stimolato».
Intellettuale eclettico
Nato nel ’45, Turola frequenta il Liceo Classico Ariosto e l’Istituto d’arte Dosso Dossi di Ferrara, e nella sua vita collabora, tra le altre, anche con “La pianura” e “L’ippogrifo. Nel 2013 pubblica per Faust edizioni il libro “Misteri di arte e magìa”, con prefazione di Margherita Hack. Nella sua autobiografia racconta di come il suo obiettivo fosse rappresentare «il mistero dell’uomo attraverso favole, miti, leggende, sogni, tradotti in colori accesi». L’Unesco nei primi anni 2000 ha ricavato da un suo quadro, “L’Arca di Noè”, una cartolina d’auguri tradotta in molte lingue e spedita in tutto il mondo. Inoltre, nel 2006 la Galleria Biasutti&Biasutti di Torino gli dedica una monografia e un catalogo con testo critico di Elena Pontiggia. Ai gatti che tanto amava, dedicò il libro “Nel magico mondo della gatta Sofia”, illustrato da Franca Camisotti Felloni. La Galleria Idearte di Ferrara nel dicembre 2019 lo ha celebrato con la retrospettiva “Le Carte di Gabriele”, curata da Lucio Scardino.
Chissà perché ancora ci stupiamo che delitti efferati, come quello di Paderno Dugnano, possano accadere in località tranquille, in questo caso dell’hinterland milanese. Come se la cronaca – e la letteratura – non ci avessero mai raccontato di come il male – soprattutto quello assurdo (ma, ontologicamente, vi può essere “logicità” nel male?) – non ha residenza esclusiva in categorie sociologiche di comodo (il “mondo della delinquenza”, il “degrado”).
Lorenzo 12 anni, Daniela 48, Fabio 51. Un ragazzino e i suoi genitori. Morti assieme, a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, per mano di Riccardo, 17 anni, fratello e figlio, carne della loro carne. In tutto, 68 le coltellate inferte, delle quali 39 al fratellino. Un omicidio che in parte ricorda quello di Pontelangorino del gennaio 2017.
NON SOLO CRONACA
Iniziamo col dire che non servono – o non bastano – analisi sociologiche o psicologiche.
“Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani” è il libro dello scrittore ferrarese Luigi Dal Cin con le vicende di tanti nostri connazionali partiti per necessità. Lo abbiamo intervistato: «così, grazie soprattutto alla scuola, può cambiare lo sguardo verso chi oggi arriva nel nostro Paese»
a cura di Andrea Musacci
Raccontare cento, mille storie di viaggi, di partenze, prendendo le mosse da una soffitta. Qui, Luigi dal Cin (foto), scrittore e docente ferrarese, trova una vecchia valigia di cartone, nell’immaginario collettivo simbolo, tra XIX e XX secolo, della miseria di tanti nostri connazionali e al tempo stesso di un forte desiderio di riscatto. Le loro vicende, Dal Cin le ha raccolte nel libro “Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani”, edito alcuni mesi fa da “Terre di mezzo”, con illustrazioni di Cristiano Lissoni e pubblicato in collaborazione con la Fondazione Migrantes.
I drammi non si contano: sono quelli della povertà e della mancanza di futuro nei paesi e nelle città italiane, fino a quelli nei Paesi dove, invece, in tanti speravano di trovare benessere, perlomeno una vita dignitosa. Spesso, invece, i nostri immigrati saranno costretti a compiere veri e propri viaggi della fortuna (quella che i marchigiani chiamano il passàgghju, cioè la traversata), a vivere in baracche di legno, a svolgere lavori disumani, senza diritti, lontani dagli affetti. Dal Cin, ad esempio, racconta degli operai friulani che lavoravano a 50 gradi sottozero per la Transiberiana o, in Germania, ai “mercati dei bambini” trentini destinati a fare i servi nelle case di contadini benestanti. Ma anche nel dramma più nero, è possibile cogliere segni di bellezza: come quel pugno di terra modenese posta su quella cilena sopra la tomba di due modenesi sepolti a Capitan Pastene, località “italiana” in Cile. O segni di vita nuova: le storie di immigrati italiani divenuti famosi, come i salernitani Joe Petrosino, noto poliziotto a New York, e Francesco Matarazzo, imprenditore in Brasile. O da Viggiano, nel potentino, la storia dei Salvi, noti musicisti e costruttori di arpe, o quella dell’Editorial Maucci Hermanos dei toscani di Pontremoli (Massa-Carrara), a fine Ottocento la più nota casa editrice in Argentina.
Dal Cin, in che senso con questo libro intende «riportare le storie a casa»?
«“Riportare le storie a casa” credo sia il lavoro dello scrittore, sempre. Immaginare, costruire con cura, passo dopo passo, organizzare con metodo, scrivere, con attenzione, col fiato sospeso, cercare le parole giuste, con pazienza, svelarle, scartarle, sceglierle, e togliere, dubitare, cambiare, limare con passione, con amore: è un addomesticamento, un corteggiamento, un viaggio. Tutto questo per cosa? In fondo, per riportare ogni storia a casa sua. Quando mi sono immerso a descrivere il dolore e i sogni di chi è emigrato è per riportare quel dolore e quei sogni a casa loro».
Sono, quelle che scrive, storie di poveri, degli umili, degli sconfitti della Storia. Storia che, invece – concordo con lei -, è sempre scritta dai potenti. Il suo libro, dunque, in un senso alto e nobile, si può anche definire “politico”? Tante, ad esempio, sono le storie di lotte sindacali, come il massacro di minatori italiani in sciopero a Ludlow, nel Colorado, nel 1914…
«Credo di sì, il mio desiderio è che abbia la forza di incidere nel nostro sguardo. La scuola italiana è impegnata da tempo a valorizzare la cultura di chi arriva nelle nostre classi: per un’integrazione accogliente, credo sia utile portare l’attenzione anche all’altro piatto della bilancia, all’altra faccia. Perché non si può semplicemente chiedere ai nostri alunni “siate gentili con chi arriva”: la gentilezza non ama l’imperativo, così come il verbo “amare”, o il verbo “sognare”. Ma se si comprende che anche la nostra storia di italiani è fatta di generazioni che hanno vissuto la miseria e la fame e che, per sopravvivere e mantenere i figli, sono emigrate anche molto lontano, e che se i nostri alunni possono oggi acquisire a scuola strumenti per realizzare i propri sogni è anche grazie al viaggio, al coraggio e ai sacrifici di chi un tempo è emigrato: allora sì, forse, lo sguardo verso chi arriva può cambiare».
Le donne sono fra le protagoniste del suo libro. Spesso sono le più sfruttate fra gli sfruttati. Donne che han vissuto lutti indicibili ma che a volte sono state capaci, da questa esperienza, di conquistare un’indipendenza economica…
«Un’indipendenza economica e una libertà di pensiero. Così ci dice, ad esempio, la storia di Rosa Cavalleri, orfana, abbandonata, cresciuta nella miseria: una vita eroica di donna emersa, grazie alla scrittura del suo diario, dall’abisso di silenzio in cui sono immerse le altre storie di milioni di emigranti non identificati che sono approdati in America. Una storia universale di chi è riuscito a reinventarsi oltreoceano nonostante le miserie e le sofferenze, grazie a un ambiente più libero: “La povera gente del mio paese in Italia rideva, cantava e raccontava storie, ma aveva sempre paura. In America le persone ricche insegnano ai poveri a non avere paura, ma in Italia la povera gente non osava guardare in faccia i ricchi. Tutto quello che i poveri sapevano lo apprendevano l’uno dall’altro nei cortili, nelle stalle o alla fontana quando andavano a prendere l’acqua in piazza. E avevano sempre paura. In America ho imparato a non avere paura”».
E poi ci sono i bambini e i minori, come gli spazzacamini piemontesi: vittime spesso dimenticate di un mercato schiavista, trattati da subumani…
«Ho voluto far rivivere soprattutto le storie di coloro che erano considerati gli ultimi della società, le donne e i bambini appunto. Raccontava nel suo diario Gottardo Cavalli, l’ultimo bambino del villaggio di Intragna a lavorare come spazzacamitt: “Ridotti come talpe ad entrare in tutti i buchi dei camini, nelle caldaie delle macchine a vapore, nelle ciminiere, mal nutriti, costretti a cercare in ogni casa un pezzo di pane per sfamarsi. Un sacchetto di tela copriva la testa e veniva attorcigliato sotto il mento per resistere alla polvere. In una mano avevo la raspa, nell’altra lo scopino. Nessuno può immaginare quale impressione si può vivere racchiusi in un buco, tutto buio, salire a forza di gomiti e di ginocchia, dieci o venti centimetri per volta. Più il camino era stretto, più ti sentivi soffocare, t’arrivava addosso tutta la fuliggine, anche col sacco in testa dovevi respirare, non potevi scendere perché sotto c’è il padrone, cioè lo sfruttatore. Ancora oggi dopo cinquant’anni mi capita di sognare d’esser in un cunicolo stretto, buio, polveroso, con la testa avvolta in un sacco. Mi sembra d’asfissiare e mi sveglio”».
Nel libro racconta anche le storie di suoi famigliari immigrati: il nonno paterno Lorenzo emigrato prima in Australia e poi in Canada, la zia Wilma e il bisnonno materno emigrato in Argentina. Immagino, quindi, sia stato a maggior ragione molto forte l’impatto emotivo nello scovare tutte queste storie…
«Nel definire la cornice narrativa delle vicende ricavate dai documenti, non ho avuto dubbi sulla necessità di mettermi in gioco raccontando la verità della mia famiglia anziché una narrazione inventata. I giovani lettori pretendono dall’adulto, innanzitutto, onestà».
Tanti i parallelismi con le spesso tragiche migrazioni di oggi. La Storia – anche attraverso le storie come quelle nel suo libro – può ancora insegnarci qualcosa?
«Storie di emigrazione affiorano dagli album fotografici di ogni famiglia italiana, eppure si tratta di ricordi spesso collettivamente rimossi: per aiutarci a comprendere e sentire la realtà in cui viviamo, e poter quindi immaginare insieme una società del futuro, credo sia invece fondamentale che docenti e alunni si approprino di un’esaustiva narrazione della storia dell’emigrazione degli italiani nel mondo. Poi è un attimo percepire una connessione tra la nostra storia di emigranti e ogni migrazione dei nostri tempi. “Perché non c’era qualche donna dal cuore tenero che si prendesse pena di tante miserie, di tante lacrime?”, scriveva Ernestine Branche, emigrante valdostana, raccontando il suo sbarco a New York nel 1912, ventiduenne. “Erano considerati come dell’immondizia umana, e le grida continuavano senza tregua”».
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
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"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)