Archivio | settembre, 2025

«Un rinnovato modo di porsi di fronte a Dio»: vivere la fede l’estate ai Lidi 

26 Set

La nostra intervista a padre Lorenzo Massacesi, parroco di Lido Estensi, Nazioni e Spina, e guida dell’UP “Madonna del mare”:«stabile la partecipazione alle Messe, con picchi di 600 persone a settimana». Tante le storie di chi vi ha partecipato o ha seguito gli Esercizi Spirituali, per «imparare a intendersi con Dio». Molto sentita la processione giubilare

di Andrea Musacci

L’estate non come periodo vuoto, ma di riposo e di riscoperta di alcuni dimensioni spirituali e relazionali. Per un “bilancio” di fine stagione, abbiamo intervistato padre Lorenzo Massacesi, da 3 anni Amministratore parrocchiale di Lido degli Estensi, Lido delle Nazioni e Lido di Spina e Presidente dell’Unità Pastorale della “Madonna del mare” (nata nel 2022). L’UP raggruppa le parrocchie di San Paolo (Lido degli Estensi), Immacolata Concezione (Portogaribaldi), S. Giuseppe in Bosco Eliceo (S. Giuseppe di Comacchio), S. Guido (Lido delle Nazioni), S. Francesco d’Assisi (Lido di Spina) e accoglie anche la chiesa rettoriale di S. Antonio (Lido degli Scacchi).

Padre Lorenzo, cosa possiamo dire alla fine di questi lunghi mesi estivi?

«L’attrattiva che i Lidi ferraresi hanno sia per i turisti più residenziali che per quelli transitori è un elemento che garantisce sempre un grande afflusso di persone, il che è ovviamente la caratteristica basilarmente positiva di questa stagione, ma in linea abbastanza costante anche delle precedenti. Benché ci siano ogni anno delle diversità, dettate dalla situazione economica, sociale, ecc., dal nostro punto di vista il numero delle persone che frequentano la Chiesa rimane più o meno stabile».

Le Messe son state partecipate?

«I due regolatori fondamentali della frequenza ai Lidi sono le condizioni metereologiche e l’apertura/chiusura delle scuole. Ma al di là di ciò, quest’anno, almeno qui al Lido Estensi e a Lido Spina, ho notato un aumento del numero dei fedeli. Stessa impressione anche negli altri Lidi, in particolare a Lido delle Nazioni dove opera l’instancabile don Guerrino (Maschera, ndr). In media mi è sembrato che nelle Messe principali ci fossero più di 200 persone, anche 5-600 a settimana, specie ad agosto».

Che tipo di persone non residenti ha incontrato? Giovani, anziani, coppie, famiglie ecc. E di quali nazionalità?

«La fotografia del tipo di persone che frequentano rispecchia quella generale della Chiesa italiana. I giovani sempre piuttosto pochi. Qualcosa in più per le giovani coppie che portano i loro bimbi al mare. Diversi anche gli stranieri (tedeschi, polacchi, ecc.). Forse sarebbe necessario organizzarci per offrire loro almeno qualche opportunità di Messa in lingua».

Queste persone cosa cercavano? Come vivevano questo periodo di vacanza in rapporto al loro cammino di fede?

«A seconda forse della situazione economica, il tempo delle vacanze diventa spesso limitato, per cui si è talora costretti a vivere un atteggiamento fugace. Questo in negativo determina un cercare di profittare del poco tempo soprattutto per un giusto relax. In positivo chi frequenta lo fa in maniera più intenzionale, meno abitudinaria. Talora chi abitualmente non frequenta, in questo contesto torna a farlo. In ogni caso lo stacco dal proprio ambiente, il contesto generale più tranquillo, può essere un’occasione di rinnovo di alcune dimensioni della fede. Benché la tradizione spirituale abbia sempre individuato nella solitudine e nel silenzio le condizioni ottimali della preghiera, rimane però l’elemento del cambio di ambiente, che costituisce un aiuto per scrollarsi da dosso ciò che magari ci ha impigrito, ci ha appesantito, e per ricevere nuovi stimoli, facendo così nascere un desiderio di ricominciare, di trovare un rinnovato modo di porsi di fronte a Dio, più aperto e disponibile. Aggiungo che quest’anno ho visto aprirsi anche una dimensione di ricerca vocazionale. Un ragazzo di nome Marco, proveniente da Verona, il quale portava già con sé una ricerca vocazionale, ha avuto qui ad Estensi l’opportunità di pregare e riflettere, fino a nutrire il desiderio di arrivare ad un pieno discernimento. Quest’anno inizierà il percorso seminariale a Faenza con la nostra Arcidiocesi».

Anche quest’anno ha ripetuto gli Esercizi Spirituali. Come si svolgono? E quante persone vi han partecipato?

«Fin da quando sono arrivato ho avuto il desiderio di aprire un percorso di evangelizzazione. Sfruttando il poco tempo che la gente ha, gli Esercizi durano sei giorni, dal lunedì al sabato. Prevedono un tempo di ascolto/commento di un brano biblico e un tempo personale di meditazione fatto col metodo proprio degli Esercizi ignaziani, vale a dire l’esame della preghiera. Mirano al discernimento, cioè a imparare ad intendersi con Dio, a riconoscere la sua Parola e la sua volontà. Ed è importante riuscire a portare a casa una Parola di Dio capace di illuminare almeno alcuni aspetti della propria vita. Quest’anno hanno partecipato in tutto una cinquantina di persone, in modo particolare a Lido Spina dove le persone han risposto molto bene».

Agli Esercizi che persone ha incontrato? Con quale domanda nel cuore e alla ricerca di cosa?

«Le persone si sono mosse da motivazioni diverse. Chi pungolato da un problema pressante, chi per proseguire un itinerario di impegno personale già avviato in parrocchia, chi stimolato da una domanda o una parola. In relazione a quest’ultima, ho cercato di raccordare la predicazione durante l’Eucarestia agli Esercizi, e talora è capitato che chi è stato raggiunto dalla Parola di Dio durante le Celebrazioni abbia visto nascere dentro di sé il desiderio di approfondire e di pregare».

E riguardo ai campi estivi, cosa ci può dire?

«Unitamente alle parrocchie di S. Giuseppe e Porto Garibaldi è stato organizzato un campo estivo per ragazzi a Loiano, curato in modo particolare da don Edwin (Garcia Castillo, ndr) e dai bravi animatori che lo hanno supportato. Buona la partecipazione. La pecca è che vorremmo dedicare più tempo e spazio a queste iniziative, ma è difficile combinarle con gli impegni pressanti della parrocchia nel periodo estivo».

Riguardo invece agli incontri giubilari?

«Il 2 agosto abbiamo organizzato un pellegrinaggio penitenziale da Lido Spina a Lido Estensi. Avevo previsto il solito gruppetto, invece con sorpresa hanno aderito molte persone. La serata è culminata con l’Eucarestia agli Estensi seguita da un momento di festa. Ho avuto dei riscontri molto positivi dalle persone che hanno davvero gustato questo momento di preghiera giubilare».

Un’ultima domanda: tre anni fa è nata l’Unità Pastorale “Madonna del mare”: a quale punto del cammino è? Quali le difficoltà incontrate e quali invece le note positive?

«L’UP è una realtà piuttosto estesa e anche varia. Difficile pensare a un corpo uniforme. Alcune iniziative comuni sono in atto, come appunto i campi estivi, i corsi prematrimoniali. Tuttavia le realtà parrocchiali, avendo ancora quasi tutte l’assistenza di un proprio parroco (don Guerrino, don Edwin, padre Massimiliano Degasperi, e il sottoscritto) conservano ciascuna una positiva autonomia. Ulteriori dimensioni di unione e collaborazione potranno essere pensate ad esempio in relazione al tempo estivo che è un ambito nel quale proposte e idee sono sempre utili ad una migliore organizzazione ed efficacia pastorale».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 settembre 2025

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(Foto: Messa a Lido Estensi – agosto 2025)

Bassani urbanista politico: l’impegno dello scrittore per “conservare” Ferrara

24 Set

Ferrara, le Mura e il centro storico: un bagaglio storico straordinario, da difendere e valorizzare. Da rendere sempre più spazio di partecipazione democratica. Questo l’impegno di Giorgio Bassani (e di Bruno Zevi), fra letteratura e urbanistica: le riflessioni di Parussa e Scafuri in un Convegno

di Andrea Musacci

La passione che muove le persone e le comunità per difendere e valorizzare i propri luoghi, le proprie città, la propria storia, può esprimersi in forme differenti. Esempio alto e raro (sempre più raro) di ciò lo incarnava Giorgio Bassani.

Lo scorso 17 settembre la Sala Convitto di Factory Grisù (via Mario Poledrelli, Ferrara) questo tema è stato al centro del Convegno dal titolo “Essere conservatori per essere progressisti. Giorgio Bassani e il dibattito sull’urbanistica ferrarese del Novecento”

Francesco Franchella (Fondazione Giorgio Bassani) ha introdotto gli interventi di Sergio Parussa (docente presso il Wellesley College, Boston, USA) e Francesco Scafuri (già responsabile dell’Ufficio Ricerche Storiche del Comune di Ferrara), a cui han fatto seguito i saluti di Paola Bassani (Presidente della Fondazione Giorgio Bassani, intervenuta brevemente e a distanza), e preceduti dalle introduzioni di Alfredo Morelli (Università di Ferrara – curatore dell’evento assieme a Franchella) e Maria Calabrese (Biblioteca Popolare Giardino). Una 70ina i presenti.

L’evento – che ha visto anche la collaborazione di Carlo Magri (suo un video storico su Ferrara proiettato a fine incontro) – è stato organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara e dalla Fondazione Giorgio Bassani, con il sostegno di Italia Nostra – Sezione di Ferrara, Ferrariae Decus-ETS, Laboratorio per la Pace e Biblioteca Giardino.

TRA NON-FINITO E STORICIZZAZIONE

Ferrara protagonista della narrativa bassaniana, con l’urbanistica al centro dei suoi romanzi e racconti. Da qui ha preso le mosse Sergio Parussa, sottolineando l’impegno di Bassani – in particolare come Presidente di “Italia Nostra” dal 1965 al 1980 – per il restauro architettonico di Ferrara.Ferrara che nella sua narrativa «non è semplice sfondo degli avvenimenti ma filo rosso della trama».Ne è dimostrazione la «ricchissima topografia» presente nelle sue pagine, un «paesaggio urbano sempre nominato con esattezza». Si pensi, ad esempio, alla farmacia di Corso Roma(oggi Corso Martiri della Libertà) ne “La lunga notte del ’43” o alla porticina di via Gorgadello (oggi via Adelardi) dello studio di Fadigati ne “Gli occhiali d’oro”. E soprattutto il luogo simbolo della narrativa bassaniana e della sua Ferrara: il giardino al fondo di corso Ercole I d’Este, il luogo «più elusivo e inafferrabile« dell’universo bassaniano, «il giardino che non c’è». Bassani spiegò come per evocarlo si fosse ispirato al romano Giardino di Ninfa della nobile famiglia Caetani, e all’Orto Botanico della Capitale.Ma non solo: la famiglia protagonista del romanzo è ispirata a quella dei Finzi Magrini: Silvio Finzi Magrini ha infatti “suggerito” nello scrittore la figura di Ermanno Finzi Contini, capostipite della casata e padre di Micòl. I Magrini a Ferrara vissero al numero 76 di via Borgo dei Leoni, poco distante quindi. In ogni caso, il giardino più famoso di Ferrara non esiste ed «è frutto di combinazioni di luoghi diversi ma reali». E il punto di corso Ercole I d’Este dove Bassani colloca il giardino (che in realtà è un parco), al civico 129 (che non esiste, fermandosi al 123), in realtà «è uno spazio vuoto»: «Essendo il giardino – scrive Bassani nel romanzo – grande “un” dieci ettari, e i viali, tra maggiori e minori, sviluppando nel loro insieme una dozzina di chilometri, la bicicletta era a dir poco indispensabile».

Negli stessi anni, l’architetto e urbanista BrunoZevi (scomparso nel 2000) «fa di questi stessi luoghi il  fulcro dei suoi studi urbanistici». L’idea di fondo che accomuna i due è che «gli esperimenti urbanistici rinascimentali furono la base per progettare la ricostruzione dell’Italia antifascista e repubblicana». Il relatore ha quindi richiamato il concetto di «“non-finito” tipico dell’Addizione erculea e del tessuto urbano della nostra città», vale a dire «l’apparente disomogeneità e discontinuità tra campagna e città».Un “non-finito” come «frutto innanzitutto di una crisi politica all’inizio del XVI secolo, segno di una storia che avrebbe potuto essere e non è stata»; ed emblema, secondo Bassani, anche «della drammatica conclusione della pacifica storia della comunità ebraica ferrarese e degli ideali risorgimentali a inizio ‘900», a causa del fascismo.

E a proposito di fascismo, «la comune fede e appartenenza politica è un altro tratto che accomuna Bassani a Zevi, oltre naturalmente al «sodalizio intellettuale».Entrambi, infatti, «sono antifascisti gobettiani, vicini ai fratelli Rosselli», quindi appartenenti a quell’area liberal-socialista o del socialismo liberale concretizzatasi nel dopoguerra nel movimento “Giustizia e Libertà” (GL) di Carlo Cassola e poi nel movimento “Unità Popolare”, che raccoglieva dissidenti socialdemocratici, dissidenti repubblicani ed ex GL. Bassani e Zevi si conobbero, infatti, a Roma nei primi anni ’40, proprio quando nasce e si sviluppa il Partito d’Azione, che raccolse l’eredità di Giustizia e Libertà (il movimento antifascista e partigiano nato nel ’29 da Carlo Rosselli e altri). Altro loro punto di riferimento fu Benedetto Croce e la sua lezione sullo «storicismo legato all’azione intellettuale e di quella politica». Da qui la «storicizzazione» che accomuna Bassani e Zevi, cioè «il calare i luoghi e gli edifici di Ferrara nel contesto storico e nel loro tessuto urbano, sottolineando così l’interdipendenza di ogni elemento con gli altri». Interdipendenza che riguarda anche – e soprattutto – le persone: da qui, la centralità nei due intellettuali del tema della «partecipazione del cittadino alla creazione dello spazio urbano». Partecipazione che richiama la «democratizzazione» della città stessa:sia Bassani sia Zevi, infatti, vedevano nel paesaggio urbano «un’aspirazione egualitaria», facilitata «dall’orizzontalità di Ferrara città di pianura, estranea a ogni tentazione gerarchica e a ogni verticalismo». Così, per Zevi la Ferrara rossettiana è «una realtà urbanistica eminentemente democratica». E appunto, come richiamato nel titolo dell’incontro, lo spirito progressista della Giunta rossa non è stato sinonimo di mancato rispetto per la storia, anzi; è lo stesso Bassani ne “Il giardino dei Finzi Contini” a scrivere: «corso Ercole I d’Este è così bello, tale è il suo richiamo turistico, che l’amministrazione social-comunista, responsabile del Comune di Ferrara da più di quindici anni, si è resa conto della necessità di non toccarlo, di difenderlo con ogni rigore da qualsiasi speculazione edilizia o bottegaia, insomma di conservarne integro l’originario carattere aristocratico» (corsivo nostro).

MURA TORMENTATE

«Alle origini del “Progetto Mura” c’è il fallimento del progetto di rendere Ferrara un importante centro industriale».Da qui è partito Scafuri per la sua analisi. La zona industriale della città, sorta tra il 1937 e il 1942, infatti, «si basava su aspetti autarchici» e serie furono le conseguenze dei bombardamenti nel ’44. Dagli anni ’40 si inizia però a ragionare sulle nostre Mura, progettando nel ’47 un Piano di Ricostruzione e di valorizzazione, grazie soprattutto all’ing. Savonuzzi. Negli anni ’50 Ferrara «era ancora una città agricola e preindustriale» ma sempre più cresceva la consapevolezza dell’importanza di «valorizzarne l’enorme patrimonio storico, artistico e architettonico». È poi del ’58 il Convegno sull’edilizia artistica ferrarese a cui seguì, nel ’79, la pubblicazione dal titolo “Ferrara.Spazi, orizzonti”. Bassani era dentro questo dibattito: «Il verde va preservato, tutelato, per l’uso effettivo dei cittadini»;l’Amministrazione comunale deve difendere il centro «dalle insidie di chi parla di rinnovamento ma pensa soprattutto ai propri affari», disse al Consiglio Comunale di Ferrara il 25 giugno ’62, “profetizzando” la sempre più forte privatizzazione degli spazi pubblici. Così come intervenne nel ’73 nel “Corso Residenziale” e nel ’78 al 6° Symposium europeo sulla salvaguardia dei centri storici (da cui è tratta anche la sua citazione nel titolo del Convegno, «Essere conservatori per essere progressisti»). Se insufficienti furono i lavori sulle Mura negli anni ’60 in seguito al primo Piano Regolatore, negli anni ’70 e ’80 la pianificazione urbanistica coinvolse numerosi esperti, anche in riferimento all'”Addizione verde”, e negli anni ’80-’90 con gli importanti finanziamenti pubblici si riuscì a portare a termine il restauro integrale della cerchia urbana. Una storia – dunque – nata male, proseguita con successo ma non conclusa.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 settembre 2025

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(Foto: Giorgio Bassani – Archivi Mondadori – urly.it/31c6w6)

Francesco trasfigurato da Cristo: a San Giorgio la mostra di Ciaramitaro

20 Set

“Dal dolore alla lode” è il nome della personale di pittura esposta nel chiostro dal 27 settembre al 5 ottobre. La nostra intervista all’autore 

di Andrea Musacci

Il 27 settembre, in occasione della Giornata Mondiale del Turismo, il chiostro della Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita l’inaugurazione della mostra di pittura dal titolo “Dal dolore alla lode. Il canto trasfigurato di Francesco” con opere di Carmelo Ciaramitaro. Alle ore 18, S. Messa presieduta da mons. Massimo Manservigi e alle 18.50 inaugurazione della mostra nel chiostro con intervento dello stesso mons. Manservigi (Vicario Generale e Direttore dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali), alla presenza dello stesso Ciaramitaro. La mostra sarà visitabile a ingresso libero fino al 5 ottobre dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 18.30.

Abbiamo rivolto alcune domande a Ciaramitaro, 39enne di origini siciliane che vive a Ferrara da circa un anno, è laureato in Teologia presso la facoltà pontificia San Giovanni Evangelista e ha seguito anche il corso di licenza in Teologia sacramentale. Sono diverse le esposizioni personali negli ultimi anni: fra queste, alla galleria francescana internazionale nel Santuario di San Damiano in Assisi, alla Pinacoteca Caracciolo a Fulgenzio nel leccese, nel Museo Diocesano di Terni. Attualmente è in corso una personale itinerante al Santuario di Chiesa nuova in Assisi (mostra che a breve esposta nel Museo Diocesano di Acireale).

Carmelo Ciamaritaro
Carmelo Ciaramitaro

Ciaramitaro, quando e dove ha iniziato a dipingere?

«La pittura è nata con me. La considero un dono di Dio; dono affinato attraverso alcuni corsi iconografici. Tuttavia la densità espressiva la devo più alla mia storia personale e al mio percorso di fede che agli studi compiuti».

Si definisce un artista di arte sacra?

«Sono un artista prevalentemente d’arte sacra e in particolar modo di ispirazione  francescana. Vivo il mio talento  come una missione dedita alla bellezza della dimensione trascendente insita nell’uomo. L’arte sacra è sicuramente veicolo immediato, direi sensoriale, del rapporto con il divino».

Leggi qui l’intervista integrale.

(Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 settembre 2025)

Nicola Ruo, pellegrino: «sempre in cammino, verso la vera Meta»

17 Set

Commercialista, 48 anni, frequenta la parrocchia di Santa Chiara a Ferrara: «il cammino a piedi ti cambia ma il difficile è portare il cambiamento nel quotidiano». «Con alcuni pellegrini l’amicizia diventa profonda». «Quella volta che in Spagna in un paese ci han donato il pane…».

di Andrea Musacci

Nicola Ruo, 48 anni, dottore commercialista, residente a San Pietro in Casale, da anni ogni agosto parte, zaino in spalle, e compie un pellegrinaggio. Nicola è legato a Ferrara in quanto frequenta la parrocchia di Santa Chiara perché – ci spiega – «sono attratto dalla bellezza della liturgia antica, mi aiuta a vivere con più raccoglimento la messa e la partecipazione ai sacramenti». Lo abbiamo incontrato per farci raccontare le sue esperienze in giro per l’Italia, e non solo, e il senso di tutto ciò.

Qual è il suo rapporto con la fede? 

«La fede ha sempre caratterizzato la mia vita, sono nato e cresciuto in una famiglia che me l’ha trasmessa, ho continuato a frequentare la parrocchia anche dopo il catechismo perché sentivo e sento la necessità di partecipare alla Messa per ricevere con frequenza i sacramenti senza i quali il rischio di perdersi per strada è molto grande e per cercare di approfondire la parola di Dio, che riesce a dire al cuore qualcosa di nuovo ogni volta che la si riascolta».

Quando è iniziata questa sua passione per i pellegrinaggi a piedi? 

«Fin da giovane sono stato incuriosito dalla storia e l’idea di poter raggiungere le grandi mete della cristianità a piedi come un pellegrino medievale mi ha sempre affascinato. Il timore di affrontare una prova che mi pareva complessa e faticosa e più grande delle mie capacità mi ha a lungo fatto desistere. Solo da adulto ho avuto il coraggio di affrontare per la prima volta il cammino…e da allora non ho più smesso». 

Qual è stato il suo primo pellegrinaggio di questo tipo? 

«La prima esperienza a piedi è stata verso Santiago de Compostela, raggiunto lungo il Camino Francés percorrendo quasi 800 km dai Pirenei francesi alla Galizia».

Cosa rappresenta per lei il pellegrinaggio? 

«Non una prova fisica o di resistenza ma un’esperienza di fede. Anche se oggi il cammino è diventato per molti una moda, rimane un’occasione di ricerca spirituale per riflettere e interrogarsi. Mettersi in cammino è accettare di cambiare. La cosa complessa è portare il cambiamento positivo vissuto lungo il cammino nella vita di tutti i giorni. Il pellegrinaggio si può dire che sia devozione verso il santo che si venera raggiunta la meta del cammino ed è anche occasione per rendere grazie. Proprio quest’anno lungo la strada verso Roma, raggiunta Bolsena, ho visitato il Santuario di Santa Cristina nel quale è avvenuto il miracolo eucaristico che ha portato all’istituzione della festa del Corpus Domini. Durante la visita al Santuario ho incontrato un ragazzo molto giovane con una grave malformazione che poteva muoversi solamente con una carrozzina elettrica. Mi sono reso conto che è un privilegio poter compiere a piedi un pellegrinaggio e che posso farlo anche per chi non ne ha la possibilità ricordandolo e portandolo così alla meta».

Qual è il legame tra la fede come mistero da indagare e il pellegrinaggio come esperienza anche dell’imprevisto, dell’ignoto? 

«Il pellegrinaggio è paradigma della vita dell’uomo, camminare verso una meta sacra ci ricorda che durante la nostra vita dobbiamo raggiungere un obiettivo ben più alto rispetto a quelli che il mondo ci fa ritenere essenziali. Quando si raggiunge la meta del cammino non si è arrivati alla vera Meta, occorre continuare. Raggiunta Santiago de Compostela, sulla facciata laterale della Cattedrale che si affaccia sulla piazza de Las Platerias è raffigurato un Crismon, il monogramma di Cristo affiancato dalle lettere greche omega e alfa, la fine e l’inizio, poste in ordine opposto rispetto a come solitamente siamo abituati a vederle rappresentate. Questo ci ricorda che il pellegrinaggio non termina alla meta, da lì si deve ripartire perché la vera Meta faticosa ed elevata è un’altra, offerta a tutti, camminatori o sedentari: la santità e il Regno dei Cieli».

E il farlo a piedi cosa rappresenta? 

«Aiuta a rendersi conto di quanto la Provvidenza sia presente nella nostra vita. Spesso non ce ne accorgiamo. E camminare a piedi comporta dover ridurre il più possibile il bagaglio sulle spalle, rendendo consapevoli che ciò che prima sembrava indispensabile è divenuto inutile; l’essenziale può ridursi a così poco da essere contenuto in uno zaino leggero». 


Solitamente è da solo? 

«Dipende: ho camminato prevalentemente in compagnia di amici, ma a volte da solo. Può capitare che si avverta la necessità di camminare con un passo diverso da quello dei compagni di viaggio per ascoltare sé stessi oppure, in altri momenti, si avverte la necessità di procedere assieme, di parlare, di scherzare, di raccontare di sé, di pregare insieme. Inoltre se si parte da soli o in piccoli gruppi si incontrano altri pellegrini lungo la strada, si formano amicizie a volte profonde che rimangono anche dopo il cammino». 


Quali sono stati i suoi pellegrinaggi più significativi? 

«Certamente il cammino di Santiago, e raggiungere Roma partendo da casa, chiudendo la porta e poi iniziando a camminare, è stato particolarmente significativo. Per tre volte sono andato a Roma lungo la Francigena, nel 2013 e in occasione dei due ultimi Giubilei, quello straordinario della Misericordia nel 2016 e quest’anno. Ho raggiunto sei volte Santiago de Compostela, ho attraversato da est a ovest la penisola iberica l’anno dell’ottavo centenario del pellegrinaggio a Compostela di San Francesco d’Assisi. Nel 2020 sono stato alla Santa Casa di Loreto partendo da Ravenna e camminando lungo la riviera romagnola, nel 2021 ho camminato sulla via francigena del sud, da Roma a Benevento e nel 2023 ho percorso il cammino da Perugia all’Aquila, lungo la strada che San Bernardino da Siena fece prima di morire in cammino, per recarsi sulla tomba di San Celestino V, a Collemaggio. Lo scorso anno mi sono recato pellegrino a Loreto, questa volta percorrendo la via lauretana più classica che parte da Assisi».

Quali volti di persone incontrate lungo il cammino ricorda in modo particolare? 

«Voglio ricordare un signore francese molto simpatico, 72 anni, conosciuto quest’anno in cammino verso Roma. È partito da solo da Parigi. La sua fede semplice e profonda mi ha colpito, così come la sua tenacia e forza. Camminava rapidissimo, sembrava volare sulla strada. Sul cammino si riescono a parlare tutte le lingue d’Europa o quanto meno ci si riesce a capire. O alcuni aneddoti: ad Astorga, in Spagna lungo il Camino Francés, il pane viene consegnato direttamente a domicilio alla maggioranza delle famiglie che comunemente fanno una convenzione con il fornaio di fiducia. Un furgoncino che stava distribuendo pane, quando sono passato, ha visto arrivare noi pellegrini, 5 o 6 in fila indiana all’entrata del paese. L’autista ha aperto il finestrino e a ciascuno ha dato una pagnotta. Così alle porte di Pontevedra, in Galizia, lungo il cammino portoghese, una signora di ritorno dall’orto aveva un cesto di pere appena raccolte. Ha allungato ad ogni pellegrino che passava un frutto del suo albero. Sono piccoli gesti che toccano il cuore».


Qual è stato l’ultimo pellegrinaggio che ha fatto? 

«Il pellegrinaggio che ho appena concluso il 22 agosto: son partito da casa il 1° di agosto dopo aver partecipato alla Messa e ricevuto la benedizione del pellegrino e mi son diretto verso sud; raggiunta Bologna ho percorso la via Francesca della Sambuca, antica via di valico utilizzata dai pellegrini per raggiungere Pistoia, piccola Santiago italiana perché l’unica reliquia che proviene dal sepolcro di S. Giacomo a Compostela si trova lì, dove fu portata nel 1144. Da Bologna si raggiunge Pistoia. Con altre due tappe lungo lo splendido padule di Fucecchio abbiamo intercettato il percorso ufficiale della via Francigena. Si è proseguito per San Miniato, Gambassi Terme, San Gimignano, Abbadia Isola e poi Siena. Da Siena abbiamo raggiunto in tre tappe l’estremo confine sud della Toscana. Si è aperto poi il bel tratto nel Lazio e da Viterbo passando per Vetralla, Sutri e Campagnano siamo giunti alla periferia della città eterna. La domenica successiva abbiamo partecipato l’Angelus di Papa Leone: in una piazza gremita di persone dalle più disparate provenienze, ho percepito forte il senso di appartenenza alla Chiesa che è davvero cattolica, universale».

Quale e quando sarà il prossimo?

«La prossima estate, a Dio piacendo, mi piacerebbe camminare tra due santuari mariani a cavallo dei Pirenei: partire da Lourdes per dirigermi verso Saragozza al Santuario della Beata Vergine del Pilar».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 settembre 2025

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«Una forma di preghiera, una vita di carità»: Giulio Zambon poeta social

11 Set


Dialogo sull’essenza della poesia col giovane catechista dell’Unità Pastorale Borgovado e insegnante all’Einaudi di Ferrara: «su Instagram e Tik Tok non cerco visibilità ma continuo la mia ricerca attraverso la parola, questo trovare misterioso mettendo una parola dopo l’altra»

di Andrea Musacci

«Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo». 

(G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

«Ciò che ti dà la poesia è parole per capire la tua vita e quella che ti è attorno. Parole per prenderle entrambe per mano». Così Giulio Zambon, 27 anni, ci spiega la sua vocazione di poeta. E di poesia ha scelto di parlare attraverso alcuni social: i suoi reels su Instagram raccolgono da “appena” qualche decina di migliaia di visualizzazioni ad alcuni milioni. Lo stesso su Tik Tok. Ma a incontrarlo, Giulio, non pare avere nessuna voglia di atteggiarsi da VIP.

Cresciuto a Schio, nel vicentino, insegna italiano e storia all’Einaudi di Ferrara e nel proprio curriculum ha gli studi di pianoforte al Conservatorio e una laurea in Lettere all’università. «Fatico – spiega a “La Voce” – a definire il leggere e lo scrivere come passioni perché non occupano una fetta del mio tempo, ma la mia vita». Suoi versi sono apparsi nella rivista Poesia, edita da Crocetti, e suoi testi sono apparsi anche in riviste online (Minima Poesia, Medium Poesia, Vallecchi Poesia).

Prossimamente uscirà una sua pubblicazione. «Poi c’è la musica, ci sono le passeggiate, le lunghe conversazioni con gli amici». E una fidanzata, con la quale condivide – ogni domenica prima della Messa delle 11 – il catechismo nell’Unità Pastorale di Borgovado a Ferrara. Proprio da qui inizia il nostro dialogo.

Giulio, parlaci della tua appartenenza alla Chiesa: dove nasce, come cresce, come si concretizza…

«Nasce da una diffidenza, come da piccoli si guarda di nascosto qualcosa che non si capisce. E si mantiene fisso lo sguardo, consapevoli del mistero. La Chiesa, o più specificamente la fede, era per me questo: un mistero commestibile, che provavo ad addentare ma che non comprendevo. A un certo punto le parole e la Parola le ho sentite dirette a me, mi hanno dato del “tu”. Penso che si sia figli da quando un padre ti chiama per nome. Ora sono in un momento di silenzio, che non è altro di uno dei normali momenti di un dialogo che continua. Sento che questo rapporto si esplica concretamente mentre scrivo, che non è altro che una forma di preghiera. Continua nel mondo attraverso i bambini del catechismo».

Leggi l’intero articolo qui!

(Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 settembre 2025)

Come “comunicare” Dio? Le sfide della cultura diocesana nel nuovo anno

5 Set

Abbiamo intervistato Marcello Musacchi, alla guida dell’Ufficio diocesano Cultura e dell’Istituto “Casa Cini”. Tanti i relatori che nell’anno 2025/2026 interverranno a Ferrara, fra cui Riccardo Manzi, Paolo Cotignola, Linda Pocher e don Alberto Ravagnani. Ecco i nuovi progetti

Direttore, anno (pastorale) nuovo, vita nuova anche per la cultura diocesana. Quali le novità più rilevanti?

«Già la parola Direttore, che mi rivolgi, vista la straordinaria tradizione di Casa Cini, mi fa pensare ad un cortocircuito dello Spirito Santo, sul tipo della Genesi di Gucciniana memoria. In ogni caso, battute a parte, con il gruppo di amici che anima l’attività del nostro Istituto, stiamo osservando come la vita della Diocesi sia sempre più ricca di iniziative. Casa Cini vorrebbe inserirsi in questa vitalità generativa e variegata, con la modalità di un playmaker e con l’intento di dare respiro al gioco di squadra. Il pensiero va più ad una rete che ad una struttura piramidale. Per questo abbiamo scelto l’immagine delle tre porte: teologica, spirituale e culturale. Si tratta di punti di passaggio, aperti in entrata e in uscita. Casa Cini non vuole monopoli sulle proposte. Prediligiamo un sano meticciato culturale tra le diverse realtà cittadine, comprese ovviamente quelle diocesane».   

Soffermiamoci sulla Scuola di Teologia, che ogni anno richiama tanti iscritti e iscritte. Perché quest’anno è stato scelto il tema della comunicazione?

«La comunicazione è una specializzazione particolare della teologia. Ne costituisce l’esito finale. Dopo la ricerca, l’interpretazione, la storia con le sue dialettiche, la vita spirituale del teologo, la dottrina, la sistematica, tutto questo enorme patrimonio giunge a noi, alla cultura del nostro tempo, ma anche a tutte le sottoculture, che ogni giorno costruiamo all’interno delle comunità. La contemporaneità del messaggio cristiano, la sua carica di provocazione è opera dello Spirito che si imbatte nell’«invenzione del quotidiano» (cfr. De Certeau). Lo Spirito accompagna il caos delle nostre esistenze, delle domande che ci poniamo, dei nostri dubbi… una teologia che ignori tutta questa “vita” è un ideale accademico astratto, destinato a non comunicarsi. Il rischio opposto è quello di sostituire al Vangelo le mode culturali imperanti, smettendo di denunciare ingiustizie, disumanità, economie di scarto, tutti contesti dove davvero è difficile sperimentare l’amore di Dio. Bisogna tenere in tensione fede e vita. La comunicazione teologica si esprime nell’annuncio, nell’arte, nel dialogo, nelle simboliche, nelle narrazioni, persino nei silenzi. È rischio, messa in gioco di se stessi, ascolto, accoglienza, cambiamento».

Ci può anticipare i nomi della prossima Scuola di Teologia e, in generale, perché si è scelto di coinvolgerli?

«Sarà con noi, come ogni anno il nostro Arcivescovo, mons. Gian Carlo Perego con una prolusione sul senso della corresponsabilità nella gestione delle risorse. La cosiddetta accountability (trasparenza gestionale) costituisce una delle sfide sinodali e un punto di credibilità fortissimo della proposta cristiana. In sostanza, ci attende una stagione di prove generali decisive, con al centro la futura visita pastorale: un evento di grazia! Poi i giovani e il loro modo di dire Dio; saremo guidati da Giordano Goccini. L’IA e la robotica con l’intervento di Riccardo Manzi dell’Unicatt. Il linguaggio della cura e dell’accompagnamento pastorale, con Valentino Bulgarelli. Le difficoltà del linguaggio relazionale nella Bibbia, ovvero la fraternità minacciata, col nostro Paolo Bovina. Un momento davvero importante sarà quello del dialogo tra un regista (Massimo Manservigi) e un Montatore Cinematografico (Paolo Cotignola, vincitore del David di Donatello) sul senso del linguaggio della “settima arte” e sulla capacità di reinventare creativamente narrazioni. Nella seconda parte, incontreremo Linda Pocher, la prima donna Prefetto di un Dicastero Vaticano, che ci parlerà di come le ambiguità del potere possano inquinare anche le relazioni nella Chiesa. Poi un gruppo di teologi-filosofi di alto livello ci aiuteranno, partendo da Nicea, a rileggere la fede verso nuovi orizzonti (Cristina Simonelli, Panaghiotis Ar Yfantis, Matteo Bergamaschi). Sempre per la Sacra Scrittura tornerà a trovarci Annalisa Guida. Probabilmente, l’ultimo, a chiudere le danze, sarà Marco Lorenzo Gallo, di recente nominato preside della Facoltà di Liturgia di Parigi».    

Nel 2026 tornerà anche la Scuola di Politica: cosa possiamo anticipare?

«Posso dire ancora poco. Giorgio Maghini sta facendo, col gruppo di progettazione (che comprende associazioni e movimenti), un grande lavoro di confronto e coordinamento. La Scuola di formazione politica è per volontà stessa del Consiglio pastorale diocesano e del nostro Vescovo una realtà della Chiesa Locale. In questo senso, Casa Cini è solo uno dei soggetti impegnati nell’iniziativa. Credo che in gioco ci sia davvero molto. Le ultime Settimane Sociali di Trieste e lo stesso Magistero iniziale di Leone XIV chiedono ai cattolici di costruire insieme percorsi orientati dalla dottrina sociale della Chiesa. Il mondo cerca testimonianze, che aprano a forme di umanità “diversa” e la comunità cristiana può essere un importante laboratorio di solidarietà evangelica. La speranza deve trovare segni concreti, per ispirare le generazioni future». 

Altri progetti in programma?

«Un’aula studio per universitari (ne stiamo parlando con i responsabili della Pastorale giovanile ed universitaria), un aggiornamento per i giornalisti della regione (sono già avviati contati con Lucia Capuzzi di Avvenire e con Giuseppe Riggio di Aggiornamenti Sociali). Poi c’è tutta la questione della Porta Spirituale, sostenuta da un fantastico gruppo di lavoro, coordinato da Marco Berti, che vedrà il percorso per educatori e per giovani tenuto dalla Prof.ssa Chiara Scardicchio (Università di Bari). Altri tre appuntamenti spirituali saranno aperti a tutti coloro che vorranno partecipare. Sono opportunità importanti. Il 21 novembre, in collaborazione con Sovvenire e nell’ambito del Festival della Vita, sarà nostro ospite don Alberto Ravagnani. Tema: “La rete dall’altra parte della barca; evangelizzazione e social, un binomio possibile!”.  Infine…sogno nel cassetto: una serie di cantieri, organizzati e gestiti dai giovani. Cosa pensano i giovani di loro stessi? Come si vedono? Parliamo spesso dei giovani, lo facciamo secondo le nostre categorie mentali, magari di saggi 70enni. Avvertiamo il problema della loro assenza, ma sarebbe interessante almeno ascoltarli». 

Infine, una riflessione più generale: da alcuni anni la nostra Diocesi ha ripensato l’ambito culturale (che ha come cuore Casa Cini). Quali frutti si sono visti? Perché è fondamentale che la Chiesa punti sulla formazione e sul dialogo?

«Direi che il ripensamento nasce da una Chiesa che si è messa in stato di missione permanente. Questo fatto cambia tutti i paradigmi pastorali e formativi. Quando ci si lascia provocare dallo Spirito, accadono cose davvero straordinarie. I frutti del cambiamento forse li vedranno le generazioni future, difficilmente noi. È questa la grandezza della Chiesa: digerisce lentamente, non ha fretta. Ciò che è fondamentale è stare con decisione nel dialogo. Dialogo, non finta tolleranza. La tolleranza è sempre una realtà, che nasce da posizioni di superiorità. Il dialogo prende sul serio l’interlocutore, lo studia appunto, vuole comprenderlo, anche, al limite, per contestarne le posizioni. Il dialogo è davvero rispettoso dell’altro. Sta qui, a mio modestissimo avviso, il discrimine tra una Chiesa sinodale e una comunità che cambia tutto, per non cambiare nulla».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025

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(Foto: Casa Cini, incontro con Candiard, aprile 2024)

Nicola Sebastio scultore di Dio

3 Set

Ritratto dell’artista morto 20 anni fa, vissuto a lungo a Milano ma cresciuto tra Codigoro e Lagosanto: un maestro di arte sacra e liturgica. Ecco la sua vita e la sua “teologia estetica”, oltre all’amicizia con Paolo VI e don Barsotti

di Andrea Musacci

«Il vero futuro deve realmente “arrivare” a noi da Dio: in quanto “nuovo cielo e nuova terra” in cui si manifesta l’essenza delle cose; in quanto “nuovo uomo” formato a immagine di Cristo. Questa è la nuova esistenza in cui tutto è manifesto, in cui le cose stanno nello spazio del cuore umano e l’uomo irradia la sua essenza nelle cose. Di quest’essere nuovo parla l’arte». Queste parole di Guardini(1) penso introducano al meglio la missione dello scultore Nicola Sebastio, di cui il 5 settembre ricorrono i 20 anni dalla morte. Nato a Bologna, ma vissuto perlopiù a Milano, Sebastio in gioventù abitò anche a Codigoro e Lagosanto. Ripercorriamo brevemente la sua esistenza e il suo cammino al Destino, dove arte e incontro con Cristo si intrecciano.

I PRIMI 30 ANNI

Sebastio nasce il 21 marzo 1914 da Carlo, medico condotto di origini tarantine, e da Elena Zani, modista di origini svizzere. Ha un fratello più piccolo, Cataldo. La famiglia va a vivere prima a Codigoro (in via XX settembre, 18) – dove Nicola a 18 anni esegue i suoi primi ritratti di gente del luogo – poi dal ‘24 a Lagosanto. Nel ‘32 Nicola si diploma al Liceo Artistico di Bologna, allievo di Giorgio Morandi, e nel ‘36 in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Torna poi a Lagosanto, dove mantiene stretti rapporti con i suoi amici Rino Guidi e don Guido Cinti. Qui, nella chiesa di Santa Maria della Neve esegue, negli anni, diversi lavori, fra cui la lunetta esterna, dove nel ‘38 colloca un cotto raffigurante la Madonna che regge il piccolo Gesù, Sant’Appiano e San Venanzio di Camerino. Fra le sue mostre, la prima è del ‘39 quando espone nella collettiva Mostra Sindacale d’arte nel Castello di Ferrara, poi nel ’42 partecipa alla mostra nazionale di G.U.F. nella Casa della Gioventù in c.so Giovecca, e l’anno successivo a un’altra collettiva di ferraresi a Diamanti. 

DALL’EGITTO A MILANO

Nel ‘40 – anno in cui parte per la guerra e viene fatto prigioniero in un campo di concentramento inglese in Egitto, esperienza che sarà decisiva per la sua vita – insieme a don Cinti progetta la Madonna di Lourdes, con Santa Bernadette, per la facciata della Casa della Gioventù a Comacchio. Nel ’53 realizza un busto in marmo raffigurante Pio XII per il Seminario di Comacchio, mentre nel ‘58 dà vita alle 14 stazioni della Via Crucis e negli anni ‘60 sperimenta – fra l’altro – la tecnica del mosaico raffigurando nell’abside il Cristo Pantocratore. Fra fine anni ’40 e fine anni ’60 a Milano realizzerà diverse opere, fra cui nel ‘53 la statua di San Giovanni Battista De La Salle, posta sopra la prima guglia della facciata del Duomo (per cui realizzerà anche un tabernacolo portatile) e altre per la chiesa di Dio Padre. Nel ‘58 alla Pro Civitate Christiana di Assisi viene premiato alla collettiva sul tema Gesù Divino Lavoratore, nel ’65 per la chiesa Sant’Anna di Bologna crea il fonte battesimale progettato insieme al card. Lercaro e nel ‘70 riceve il prestigioso premio Madonnina d’oro, vinto quell’anno anche da Ungaretti. Nel ‘66 muore il padre e Nicola ne disegna e modella la tomba monumentale. Nonostante vivrà stabilmente a Milano, tornerà spesso a Lagosanto, Comacchio e Porto Garibaldi, per dar vita a diverse altre opere. Aderisce anche al Gruppo Arte e Comunità, nato a Milano a fine anni ’70, unendo artisti di generazioni e sensibilità diverse ma uniti dalla fede(2).

SUL COMODINO DI PAOLO VI

Negli anni ‘60 Sebastio – racconta don Dolz(3) – iniziò a realizzare «bronzetti di modeste dimensioni come opere finite. Usava una tecnica grumosa, figlia delle versioni previe in terracotta o gesso, di potente plasticità. (…) Fece dono di uno di questi a Paolo VI» che il 29 maggio del ‘70 festeggiava il 50° di ordinazione sacerdotale. «Il papa gli fece arrivare un caldo ringraziamento e mons. Pasquale Macchi lo conservò nella collezione di opere moderne. In quegli anni scriveva spesso a Paolo VI con I’intento di raccontargli delle attività con artisti cristiani. Papa Montini lo conosceva come persona e come artista da quando era arcivescovo di Milano». Per esempio, all’inaugurazione della chiesa di Sant’Eugenio, racconta Sebastio(4) «celebrando la messa, il cardinale notò un mio crocifisso sopra il tabernacolo. Era un crocifisso stretto e alto, piantato sulla pietra. Espresse il desiderio di averlo». Quando fu eletto papa, «si portò via questo crocifisso che tenne sempre sul comodino della sua camera da letto (…)».

GLI ULTIMI ANNI

Nel 2000 il Palazzo Arcivescovile di Ferrara ospita la sua personale La Croce e la speranza, organizzata dal Centro Culturale L’Umana Avventura e già esposta nel 1980 alla I^ edizione del Meeting di Rimini. Nel 2004, invece, Giglio Zarattini, mons. Samaritani e Laura Ruffoni curano a Palazzo Bellini a Comacchio una sua mostra sul tema del Crocefisso. Nel 2005, dopo la sua morte (avvenuta pochi mesi dopo quella della moglie), nasce l’Associazione Amici di Nicola Sebastio. Nel 2012 a Palazzo Bellini viene riservato uno spazio esclusivo per diverse sue opere, alcune di esse ora sparse in sale dell’edificio. Nel 2014 gli vengono dedicate due mostre, una a Pomposa, l’altra a Comacchio. Sebastio torna alla Casa del Padre il 5 settembre 2005, all’età di 91 anni, otto mesi dopo la morte di Maria Mazzoleni (morta il 6 gennaio), la sua «sposina cara, sposina bella» come teneramente la chiamava, con cui era convolato a nozze nel ’47: «Maria – racconta l’amico don Dolz(5) – si ammalò gravemente nel 2001. (…) Ormai terminale, fu trasferita in un hospice ad Abbiategrasso. Nicola passava le ore accanto al suo letto e lì, su un normale foglio A4 e con la biro azzurra, fece il disegno più drammatico della sua vita, sua moglie in punto di morte».

DON DIVO, FRATELLO

Oltre a CL, Sebastio nella sua vita si interessò ai Focolarini, a Rinnovamento nello Spirito e ai Domenicani e fu attivo nel Serra Club. Ma in generale «era attaccato alla Chiesa in tutte le sue varie dimensioni e realtà. Mantenne un rapporto filiale con i vescovi, in particolar modo col cardinal Martini, con il quale scambiò corrispondenza fino alla fine»(6). Il legame più forte, però, era quello con la Comunità dei figli di Dio fondata da don Divo Barsotti, nato un mese dopo Sebastio (il 25 aprile ’14) e morto pochi mesi dopo (il 15 febbraio 2006): «Con Barsotti ci furono rapporti molto stretti, sia sul piano religioso che artistico. Ne è rimasta la fitta corrispondenza». Il 18 luglio ‘62 Barsotti compiva 25 anni di ordinazione «e i suoi figli spirituali gli prepararono alcuni “regali”. Sebastio disegnò e fece confezionare un calice dalla coppa semplicissima, liscia, giocata sulla perfezione della curva, appena mossa da piccole pietre incastonate ritmicamente. E si premurò di fare anche la custodia per il calice, un’arca a capanna, come i reliquiari medievali, sbalzata con scene dell’Epifania»(7). L’anno prima, nel ’61 – raccontò(8) – «partecipai agli Esercizi Spirituali dell’UCAI (Unione Cattolica Artisti Italiani, ndr) a Campo Morone (GE) predicati da padre D. Barsotti (…) e mi portò a Settignano (FI)» alla Casa di San Sergio, «dove mi ordinò un San Sergio di Radonez»: «p. Barsotti mi diede il Cantico di San Sergio nella luce della Trinità. Dopo cena andai nella mia stanza per riposare e sul letto cominciai a leggere e a declamare il Cantico della Trinità. Lo lessi più volte velocemente, poi una zanzara si posò sulla mia mano sinistra, la schiacciai, e da lì, dalle ali divaricate, disegnai le tre Fiamme dello Spirito Santo centrate dal sole, col nome di Gesù Cristo. La mattina dopo Don Divo stupito approvò e mi ordinò il rilievo per l’esterno della Cappella della Comunità dei figli di Dio. Mi ordinò pure la croce gloriosa col Cristo Risorto, il Tabernacolo e i tre simboli della Trinità».

LA CROCE E LA PENTECOSTE

«Vuol dirci perché fa l’artista?»

«Per dire una parola che possa servire anche agli altri. Perché la mia scultura, nel suo limite, possa manifestare il mistero cristiano agli uomini». (…) La «fede degli italiani è troppo di carattere devozionale. La massa non arriva a capire il Cristo che racchiude in sé tutto (…). Occorre ridare alla gente il senso pasquale». In questo passaggio di un’intervista che Sebastio rilasciò nell’ottobre del ’66 a Famiglia cristiana(9) emerge bene come il centro dell’esistenza di quest’artista fosse chiaro: Gesù Cristo. E la Croce, intesa non solo come simbolo della Passione ma della Redenzione, cuore della storia universale.

In un altro testo(10), prima di ripercorrere la storia del simbolo della croce dal 4000 a. C. (con la Croce di Tepe Siyalk, conservata al Museo di Teheran), Sebastio scriveva: «La Croce riassume in sé tutto il mistero della redenzione. Per la Bibbia la croce è l’albero della vita, al centro del Paradiso Terrestre, che a sua volta rappresenta il centro del Mondo(11). (…) Vediamo come sia attuale e necessario testimoniare la resurrezione di Cristo con la croce gloriosa – proseguiva – e come questa possa contribuire a ridare luce, sollievo, gioia all’umanità angosciata di oggi».

Dalla gloria del Cristo Risorto, Sebastio arriverà – in un profondo cammino personale – al senso della Pentecoste. Quell’estate sopracitata del ’61 Sebastio sarà anche a Friburgo; raccontò(12): «Da poco ho capito la Pentecoste, il tempo di Pentecoste, il tempo nel quale i cristiani, come nuovi apostoli, dovrebbero far lievitare cristianamente la società che li circonda. Spesso ciò non avviene, perché il nostro maggiore nemico è in noi, nella nostra superbia di europei portatori di civiltà, dimentichi della frase del Vangelo: “Gli ultimi saranno i primi”. La netta sensazione di ciò l’ho avuta al recente Convegno del Segretariato Internazionale degli Artisti Cattolici dipendente da Pax Romana, tenutosi a fìne luglio in Svizzera a Friburgo. A Friburgo ho visto la Chiesa, ma l’ho sentita soprattutto per opera dei Cinesi, dei Vietnamiti, degli Africani, di qualche Tedesco dell’Est, degli Irlandesi e di alcuni Svizzeri. In loro il Cristo veramente abitava ed era il centro della loro vita».

Cristo centro dell’esistenza di ognuno verso il comune Destino. E arte come segno di ciò: «Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente escatologica e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà»(13).

***

Grazie per l’aiuto a don Andrea Zerbini (CEDOC S. Francesca Romana), Fosco Bertani (artista amico e allievo di Sebastio), Maria Rosa Sabattini (Comune di Comacchio) e P. Agostino Ziino (Comunità dei figli di Dio).

NOTE

1 – R. Guardini, L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia, 1998.

2 – Vedi Arte e Comunità: come nasce un gruppo, Centro Culturale San Michele, Sala G. Varischi, Cremona, 11-25 maggio 1986.

3 – M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, Medusa ed., 2014.

4 – Ibid.

5 – Ibid.

6 – Ibid.

7 – Ibid.

8 – Arte e fede: intervista a Nicola Sebastio, a cura di Margherita Giuffrida Ientile, 1980.

9 – In M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, cit.

10 – In N. Sebastio, La croce e la speranza alle soglie dell’anno 2000, Centro Culturale La traccia, Galeati, Imola, 1984.

11 – A tal proposito mons. Antonio Samaritani scrisse: «Ebbi una specie di folgorazione quando Sebastio mi fece conoscere il tema della croce di Cristo in versione transculturale, che ritengo sigla fondamentale di tutto il suo organico per quanto articolatissimo iter spirituale e artistico» (in Nicola Sebastio. Un uomo, un impegno: l’arte del sacro, supplemento di Anecdota, Quaderni della Biblioteca L.A. Muratori del Comune di Comacchio, 2004).

12 – Dall’articolo di Sebastio, La mia Pentecoste, in Rivista Liturgica del Centro di Azione Liturgica, Anno XLVIII – n. 5-6 – settembre-dicembre 1961.

13 – R. Guardini, L’opera d’arte, cit.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025

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Ridateci il Ferrara Buskers Festival! Riflessioni sull’evento: fra teloni, balzelli e tornelli, dov’è finita la sua essenza?

1 Set

di Andrea Musacci

Polemiche e imbarazzi, confusione e battibecchi. Se è vero che il Ferrara Buskers Festival (FBF) da quando è nato nel lontano 1988 ha sempre diviso l’opinione pubblica cittadina, è altrettanto vero che la formula a pagamento ideata dagli organizzatori ha creato dall’anno scorso non pochi malumori, polarizzando ulteriormente il dibattito. Quel che abbiamo percepito è un senso di disagio diffuso per la perdita di un punto di riferimento, di una certezza: che il FBF pur essendo una manifestazione sicuramente complessa e variegata, per sua natura faceva della libertà di movimento qualcosa di irrinunciabile.

Invece, il Covid ha segnato la fine di un’epoca: nel 2020 la formula era di tre concerti a sera per ognuno dei cinque luoghi del centro scelti con biglietto a 12 euro. L’anno dopo, sarà di 10 euro, col Festival dentro Parco Massari. L’anno scorso, Quadrivio degli Angeli e Parco Massari a 11 euro (+ eventuali costi di prevendita), mentre quest’anno tra i 10 e i 12 euro (8-10 euro per l’ultima giornata) a seconda del periodo di acquisto del biglietto (+ 2 euro su Ticket Master per avere il biglietto digitale). Pagamento è sinonimo inevitabile di chiusura, separazione. Di transenne e teloni neri. Di varchi presidiati, oltre che da giovani volontari, da robusti vigilantes privati a sorvegliare la zona rossa, il nuovo privé allestito fra il Castello e Palazzo San Crispino, con tanto di sdrai e cuscini sul Listone in un’oasi surreale che ha tolto ulteriormente magia e senso dell’imprevisto alle esibizioni degli artisti. Non si tratta, qui, di mettere in dubbio la qualità e la serietà di quest’ultimi; ma la privatizzazione del cuore di Ferrara è una scelta politico-ideologica che va contro la libera arte; arte a cui l’organizzazione dovrebbe limitarsi a dare una forma, un ordine minimo, un nome e una voce. Nulla di più.

Vedere invece musicisti e giocolieri recintati all’interno di un’area protetta ha dato la sensazione di trovarsi dentro uno dei tanti festival, o in un “circo”… Storicamente, al contrario, la pur inevitabile “area buskers” non segnava in modo netto un dentro e un fuori, ma i suoi confini erano più simbolici che fisici. Vi era aria, respiro, comunicazione e fluidità: i buskers davano maggiore risalto alla nostra città – soprattutto al centro, ma non solo. Trasmettevano un’energia, un calore, una bellezza estetica che scuoteva le strade e i muri di Ferrara ma senza stravolgerne la natura. Negli anni, la città e il suo Festival (che il mondo ci ha sempre invidiato) erano tra loro sempre più fusi pur senza confondersi. 

E non reggono le obiezioni dei costi sempre crescenti: i contributi pubblici, infatti, sono alti e in continuo aumento, gli sponsor non mancano e nemmeno le erogazioni liberali.Si semplifichi, piuttosto, il contorno, l’eccesso, e si torni alla semplicità degli esordi.

Leggendo rassegne stampa e tesi dedicate negli anni al Ferrara Buskers Festival, tre citazioni in particolare mi hanno colpito, ma non stupito (perché raccontano quell’essenza del Buskers Festival che – ora – ci vogliono convincere non sia davvero così essenziale…). La prima è di Monica Forti, addetta stampa del Ferrara Buskers Festival, che in un articolo del 23 luglio 1988 uscito su “La Voce di Ferrara-Comacchio” scriveva: «Quantificare l’afflusso del pubblico è praticamente impossibile, proprio per la peculiarità della manifestazione che non richiede spazi chiusi né tributi pecuniari» (corsivo nostro). La seconda è di Giancarlo Petrini, uno che di teatro popolare e di strada se ne intendeva…: «Lo spettacolo di strada è contemporaneamente spettacolo di “cappello”», scrisse. «Nella piazza non si paga un regolare biglietto per assistere alle singole esibizioni» (in “La piazza delle meraviglie”, Trapezio, Udine, 1999) (corsivo nostro). Terza, ma non meno importante, la citazione da un articolo uscito su “Il Resto del Carlino” il 20 agosto 2000, in cui Beppe Boron e Fabio Koryu Calabrò spiegavano così la loro idea del “Grande Cappello”, la possibilità – cioè – di donare una piccola cifra che sarebbe andata per 2/3 a progetti solidali, mentre 1/3 sarebbe rimasta nelle casse del FBF: si chiede «solo mille lire a testa perché non vogliamo entrare in concorrenza con gli artisti di strada». A ricordarci, quindi, 25 anni dopo, che l’unica forma di contributo economico legato all’artista di strada non può che essere quello libero, spontaneo (non obbligatorio) che lo spettatore dà direttamente al busker.

Tutto il resto – barriere, teloni neri, “polizia” privata e balzelli – sono un’offesa alla libera cultura e ai luoghi della città, beni comuni da valorizzare e non da affittare con tanto di tornelli.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025

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