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Italiani emigrati all’estero: il nuovo libro di Dal Cin

13 Set

“Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani” è il libro dello scrittore ferrarese Luigi Dal Cin con le vicende di tanti nostri connazionali partiti per necessità. Lo abbiamo intervistato: «così, grazie soprattutto alla scuola, può cambiare lo sguardo verso chi oggi arriva nel nostro Paese»

a cura di Andrea Musacci

Raccontare cento, mille storie di viaggi, di partenze, prendendo le mosse da una soffitta. Qui, Luigi dal Cin (foto), scrittore e docente ferrarese, trova una vecchia valigia di cartone, nell’immaginario collettivo simbolo, tra XIX e XX secolo, della miseria di tanti nostri connazionali e al tempo stesso di un forte desiderio di riscatto. Le loro vicende, Dal Cin le ha raccolte nel libro “Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani”, edito alcuni mesi fa da “Terre di mezzo”, con illustrazioni di Cristiano Lissoni e pubblicato in collaborazione con la Fondazione Migrantes. 

I drammi non si contano: sono quelli della povertà e della mancanza di futuro nei paesi e nelle città italiane, fino a quelli nei Paesi dove, invece, in tanti speravano di trovare benessere, perlomeno una vita dignitosa. Spesso, invece, i nostri immigrati saranno costretti a compiere veri e propri viaggi della fortuna (quella che i marchigiani chiamano il passàgghju, cioè la traversata), a vivere in baracche di legno, a svolgere lavori disumani, senza diritti, lontani dagli affetti. Dal Cin, ad esempio, racconta degli operai friulani che lavoravano a 50 gradi sottozero per la Transiberiana o, in Germania, ai “mercati dei bambini” trentini destinati a fare i servi nelle case di contadini benestanti. Ma anche nel dramma più nero, è possibile cogliere segni di bellezza: come quel pugno di terra modenese posta su quella cilena sopra la tomba di due modenesi sepolti a Capitan Pastene, località “italiana” in Cile. O segni di vita nuova: le storie  di immigrati italiani divenuti famosi, come i salernitani Joe Petrosino, noto poliziotto a New York, e Francesco Matarazzo, imprenditore in Brasile. O da Viggiano, nel potentino, la storia dei Salvi, noti musicisti e costruttori di arpe, o quella dell’Editorial Maucci Hermanos dei toscani di Pontremoli (Massa-Carrara), a fine Ottocento la più nota casa editrice in Argentina.

Dal Cin, in che senso con questo libro intende «riportare le storie a casa»?

«“Riportare le storie a casa” credo sia il lavoro dello scrittore, sempre. Immaginare, costruire con cura, passo dopo passo, organizzare con metodo, scrivere, con attenzione, col fiato sospeso, cercare le parole giuste, con pazienza, svelarle, scartarle, sceglierle, e togliere, dubitare, cambiare, limare con passione, con amore: è un addomesticamento, un corteggiamento, un viaggio. Tutto questo per cosa? In fondo, per riportare ogni storia a casa sua. Quando mi sono immerso a descrivere il dolore e i sogni di chi è emigrato è per riportare quel dolore e quei sogni a casa loro».

Sono, quelle che scrive, storie di poveri, degli umili, degli sconfitti della Storia. Storia che, invece – concordo con lei -, è sempre scritta dai potenti. Il suo libro, dunque, in un senso alto e nobile, si può anche definire “politico”? Tante, ad esempio, sono le storie di lotte sindacali, come il massacro di minatori italiani in sciopero a Ludlow, nel Colorado, nel 1914…

«Credo di sì, il mio desiderio è che abbia la forza di incidere nel nostro sguardo. La scuola italiana è impegnata da tempo a valorizzare la cultura di chi arriva nelle nostre classi: per un’integrazione accogliente, credo sia utile portare l’attenzione anche all’altro piatto della bilancia, all’altra faccia. Perché non si può semplicemente chiedere ai nostri alunni “siate gentili con chi arriva”: la gentilezza non ama l’imperativo, così come il verbo “amare”, o il verbo “sognare”. Ma se si comprende che anche la nostra storia di italiani è fatta di generazioni che hanno vissuto la miseria e la fame e che, per sopravvivere e mantenere i figli, sono emigrate anche molto lontano, e che se i nostri alunni possono oggi acquisire a scuola strumenti per realizzare i propri sogni è anche grazie al viaggio, al coraggio e ai sacrifici di chi un tempo è emigrato: allora sì, forse, lo sguardo verso chi arriva può cambiare».

Le donne sono fra le protagoniste del suo libro. Spesso sono le più sfruttate fra gli sfruttati. Donne che han vissuto lutti indicibili ma che a volte sono state capaci, da questa esperienza, di conquistare un’indipendenza economica…

«Un’indipendenza economica e una libertà di pensiero. Così ci dice, ad esempio, la storia di Rosa Cavalleri, orfana, abbandonata, cresciuta nella miseria: una vita eroica di donna emersa, grazie alla scrittura del suo diario, dall’abisso di silenzio in cui sono immerse le altre storie di milioni di emigranti non identificati che sono approdati in America. Una storia universale di chi è riuscito a reinventarsi oltreoceano nonostante le miserie e le sofferenze, grazie a un ambiente più libero: “La povera gente del mio paese in Italia rideva, cantava e raccontava storie, ma aveva sempre paura. In America le persone ricche insegnano ai poveri a non avere paura, ma in Italia la povera gente non osava guardare in faccia i ricchi. Tutto quello che i poveri sapevano lo apprendevano l’uno dall’altro nei cortili, nelle stalle o alla fontana quando andavano a prendere l’acqua in piazza. E avevano sempre paura. In America ho imparato a non avere paura”».

E poi ci sono i bambini e i minori, come gli spazzacamini piemontesi: vittime spesso dimenticate di un mercato schiavista, trattati da subumani…

«Ho voluto far rivivere soprattutto le storie di coloro che erano considerati gli ultimi della società, le donne e i bambini appunto. Raccontava nel suo diario Gottardo Cavalli, l’ultimo bambino del villaggio di Intragna a lavorare come spazzacamitt: “Ridotti come talpe ad entrare in tutti i buchi dei camini, nelle caldaie delle macchine a vapore, nelle ciminiere, mal nutriti, costretti a cercare in ogni casa un pezzo di pane per sfamarsi. Un sacchetto di tela copriva la testa e veniva attorcigliato sotto il mento per resistere alla polvere. In una mano avevo la raspa, nell’altra lo scopino. Nessuno può immaginare quale impressione si può vivere racchiusi in un buco, tutto buio, salire a forza di gomiti e di ginocchia, dieci o venti centimetri per volta. Più il camino era stretto, più ti sentivi soffocare, t’arrivava addosso tutta la fuliggine, anche col sacco in testa dovevi respirare, non potevi scendere perché sotto c’è il padrone, cioè lo sfruttatore. Ancora oggi dopo cinquant’anni mi capita di sognare d’esser in un cunicolo stretto, buio, polveroso, con la testa avvolta in un sacco. Mi sembra d’asfissiare e mi sveglio”».

Nel libro racconta anche le storie di suoi famigliari immigrati: il nonno paterno Lorenzo emigrato prima in Australia e poi in Canada, la zia Wilma e il bisnonno materno emigrato in Argentina. Immagino, quindi, sia stato a maggior ragione molto forte l’impatto emotivo nello scovare tutte queste storie…

«Nel definire la cornice narrativa delle vicende ricavate dai documenti, non ho avuto dubbi sulla necessità di mettermi in gioco raccontando la verità della mia famiglia anziché una narrazione inventata. I giovani lettori pretendono dall’adulto, innanzitutto, onestà».

Tanti i parallelismi con le spesso tragiche migrazioni di oggi. La Storia – anche attraverso le storie come quelle nel suo libro – può ancora insegnarci qualcosa?

«Storie di emigrazione affiorano dagli album fotografici di ogni famiglia italiana, eppure si tratta di ricordi spesso collettivamente rimossi: per aiutarci a comprendere e sentire la realtà in cui viviamo, e poter quindi immaginare insieme una società del futuro, credo sia invece fondamentale che docenti e alunni si approprino di un’esaustiva narrazione della storia dell’emigrazione degli italiani nel mondo. Poi è un attimo percepire una connessione tra la nostra storia di emigranti e ogni migrazione dei nostri tempi. “Perché non c’era qualche donna dal cuore tenero che si prendesse pena di tante miserie, di tante lacrime?”, scriveva Ernestine Branche, emigrante valdostana, raccontando il suo sbarco a New York nel 1912, ventiduenne. “Erano considerati come dell’immondizia umana, e le grida continuavano senza tregua”».

Pubblicato sulla “Voce” del 13 settembre 2024

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«Sete continua di pienezza»: la formazione spirituale di un giovane (e di tutti noi)

6 Set


“Sogni e avventure sull’Appennino”: i racconti d’esordio di Piero Ferraresi

La consueta vacanza estiva di un ragazzo con la famiglia nella casa di Lizzano in Belvedere, sull’Appennino bolognese, è il “contesto” per i tre racconti di formazione contenuti nel libro d’esordio di Piero Ferraresi, “Sogni e avventure sull’Appennino” (Este Edition, Ferrara, luglio 2024).

Un romanzo sulla formazione umana e spirituale di un giovane, Pierino, verso una maturità nell’Amore declinata nel «Noi» e nella «Cura». A un tempo, un’ascesi e uno sprofondare tra estasi e antri abissali, a strapiombo sul mistero orrido della morte, visione di terrore che solo Dio permette, tenendoci per mano.

Il «Bastone», che durante le escursioni infonde sicurezza a Pierino, è nel libro il primo elemento carico di aspetti fantastici e simbolici, scettro umile del viandante o “arma” biblica dei fratelli Mosè e Aronne. Bastone che lo condurrà alla sua meta: il Regno della «Grande Aquila», la «Regina delle montagne», che, unica, può «insegnargli il segreto del Volo». Pierino sogna, infatti, di librarsi libero, senza vincoli né pesi, «con il suo viso che veniva accarezzato da una brezza leggera», come quella udita dal profeta Elia.

Anche la «Sorgente» rivolgerà la parola a Pierino come fosse, quest’ultimo, il Dante della Divina Commedia: «Pierino, giusta è la via. / Da sempre, la Grande Aquila, / nel suo Regno t’attende». E ancora: «Con lei inizia il cammino infinito, / di chi cerca il sogno dell’Amore donato (…). Devi vincere la paura / e lo sconforto, suo degno consorte. / Se incontri le fiere non provocarle, / ma per la via prosegui dritto». Qui, non vi sono la lonza, il leone e la lupa ma, ad esempio, la vipera, animale che, forse non a caso, richiama il libro di Genesi. «Grazie, sorella Acqua», risponde Pierino, novello San Francesco del Cantico.

Ma «forze avverse», «negative», misteriose, «nemiche di ogni sogno e di ogni desiderio di perfezione», «vogliono rallentargli l’ascesa verso l’inaccessibile Regno della Grande Aquila». Una di queste è lo «Spirito Padronale», quello del possesso, dell’accumulo e del dominio, contro la logica del dono e della gratuità. Anche gli animali – formiche, cinghiali, vipere e calabroni – seppur raccontati in maniera simbolica e quasi favolistica, non sono scevri da aspetti inquietanti e maligni, rimandando alle infinite dipendenze mortali dell’uomo, contrarie a quella dipendenza all’Assoluto nostra fonte, nostra vita che, unica, rende vera la nostra libertà.

In questo sogno, Pierino arriverà alla visione del Regno della Grande Aquila, Regno d’Amore, dell’Eterno: «un’intensa emozione lo colse, riempiendolo di consolazione (…). Per un attimo gli parve che non esistesse più la dimensione del tempo e che tutto il suo vivere non fosse altro che un eterno presente». È un’esperienza mistica che fa esplodere la sua esistenza: «Si accorgeva che solo il gustare e ricordare i momenti di luce poteva aprire i suoi occhi e dare sapore alla vita ordinaria». Ma a muovere Pierino in questo cammino arduo e immenso sarà «una sete continua di pienezza», «un fuoco che non si spegneva». Una ricerca continua, quindi, la sua, contro l’apatia, il vuoto, il ripiegamento su di sé, quella oscura «malattia dell’animo».

A completamento di questo cammino educativo vi sarà – oltre all’esperienza iniziatica del campeggio con gli amici – anche un altro sogno, nella miseria e nella bellezza della storia, con la fame, la guerra e, per lui, il dono ulteriore di poter parlare all’improvviso una lingua sconosciuta, come gli apostoli a Pentecoste. Qui, Pierino imparerà la vera fraternità, il leggere i segni della Speranza in «alcune timide margherite» davanti ai corpi di soldati uccisi.

L’assurdità del male e della morte si vive, quindi, solo nella carità, nella fraternità e nella speranza. L’essenziale della realtà si può cogliere solamente attraverso la Grazia: è il dono e l’apertura all’altro e all’Altro, il cammino nella fede a farci diventare adulti, con gli occhi – sempre bagnati da una divina inquietudine – di un ragazzo che si apre alla vita.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 6 settembre 2024

Abbònati qui!

Quei cieli padani porte verso l’Eterno

20 Gen

“Il cielo parla” è il volume di fotografie di Paola Volpe, con testi di don Graziano Donà: un invito ad alzare lo sguardo e il cuore

di Andrea Musacci

Pezzi di anima che la nostra immaginazione illuminata dal cuore proietta in alto, in una visione speciale, più interiore che esteriore. Sono i cieli che Paola Volpe ha fotografato e raccolto in un volume in uscita questo mese, “Il cielo parla” (Faust edizioni, euro 20). Un progetto ideato assieme all’amica e collaboratrice Olga Nacu e che vede la prefazione, i commenti alle immagini e la conclusione affidate a don Graziano Donà, parroco di San Martino-UP del Poggetto.

UNO SGUARDO DI SPERANZA

Un centinaio le foto contenute nel libro, scatti unici realizzati con un semplice smartphone da cui emerge la capacità di Volpe di perdersi nell’ammirare quel luogo sconfinato che è il cielo. O meglio, i cieli. Quei cieli così cangianti e imprevedibili da rapire chi conserva il desiderio di farsi tutt’uno con loro, catturandone la maestosità, scorgendovi richiami, figure, volti. Tutte porte di accesso verso l’Eterno, verso il Cielo. Nessuno “spettacolo” fine a sé stesso, dunque, ma una forma di preghiera contemplativa.

I cieli padani e del Delta del Po diventano, dunque, luogo di ricerca spirituale. Il libro, per don Donà «non è semplicemente un catalogo di foto ma un’opportunità per fare un viaggio che ci rieduca ad alzare gli occhi verso il cielo, in cui possiamo trovare suggestioni e risposte; capace di dare speranza, di stimolare le idee di cambiamento, di assaporare qualche momento di consolazione e di ritrovare il desiderio profondo della pace». «Il nostro cammino è verso il cielo – scrive ancora – e in questo viaggio abbiamo bisogno di consolazione e di coraggio». A questo servono gli angeli, ai quali è dedicata la prima parte del volume. Il cielo, dunque, «ci invita alla Speranza, cioè all’intima certezza che, oltre ciò che vediamo e ciò che viviamo, c’è un Bene più grande che vogliamo e dobbiamo raggiungere».

SE IL CIELO È DIO

Che la bellezza stia nello sguardo del soggetto è un’iperbole. Ma come tutte le iperboli contiene un nocciolo di verità: senza un cuore aperto e due occhi vivi, è impossibile cogliere la bellezza e la verità che sempre la accompagna, e dunque è come se non esistessero. Associamo tra loro bellezza e verità perché lo stesso volume di Volpe non è un catalogo di capricci estetici, ma un progetto, come detto, fortemente impregnato di spiritualità. Possiamo quindi riflettere su come nella Sacra Scrittura il cielo non sia tanto il firmamento quanto il “luogo” delle creature spirituali – gli angeli – e di Dio. Ma Dio non può stare in un luogo delimitato: il cielo è, quindi, Dio stesso, l’Eterno, la gloria escatologica. È un modo di essere, il fine ultimo dell’uomo, la felicità suprema e definitiva: è la vita in Cristo, la piena comunione in Lui, la Patria eterna alla quale dobbiamo tornare. Non a caso, nella Lettera a Diogneto (testo anonimo del II secolo), i cristiani vengono chiamati «cittadini del cielo».

«“Cieli” è parola che significa la modalità in cui il Dio santo è con sé stesso», scrive Romano Guardini in “La preghiera del Signore”, commento al Padre nostro. «I cieli sono l’inaccessibilità di Dio, sono la beata e inviolabile libertà, in cui Egli appartiene a sé medesimo, come Colui che Egli è (…). Il cielo è l’essere-altro di Dio; ma proprio in questa alterità sta la nostra patria con le “dimore eterne” (Lc 16,9)». Il cielo «non è un luogo che sussista per sé, “in” cui Dio si trovi (…)», prosegue il teologo. «Il cielo è Dio, in quanto Egli dimora presso sé medesimo».

Benedetto XVI in “Gesù di Nazaret” pone ancora più in risalto la nostra nostalgia del cielo/Dio Padre: «Se la paternità terrena separa, quella celeste unisce», scrive. «Cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino». Un cammino che Volpe compie nella propria esistenza e che con le sue fotografie ci invita a non dimenticare, a compierlo assieme, da pellegrini dell’Eterno.

Chi è Paola Volpe 

Paola Volpe, nata a Lendinara (Rovigo), classe ‘67, vive a Ferrara, ha due figli e, da oltre dieci anni, si occupa di fotografia con soggetto principale il Cielo. In sinergia con Olga Nacu, amica e ideatrice del progetto, l’Artista ha partecipato ad alcune esposizioni di rilievo nazionale e internazionale. Tra le personali: “Il cielo non ha limiti”, Centro Culturale di Palazzo Pisani Revedin a Venezia (settembre 2023); quella al “Dosso Dossi” di Ferrara in programma per marzo 2024.

Olga Nacu, classe ’74, moldava d’origine, è ideatrice del progetto. Vive a Ferrara, è sposata e ha due figlie.

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Don Minzoni, incontro col Vescovo a Libraccio

5 Dic

Far luce su uno dei delitti che hanno segnato il periodo dello squadrismo fascista nel nostro territorio. Lo scorso 1° dicembre la libreria Libraccio di Ferrara ha ospitato la presentazione del libro “Un delitto di regime. Vita e morte di Don Minzoni, prete del popolo”, di Girolamo De Michele, che per l’occasione ha dialogato col nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e con Paolo Veronesi.

Una 40ina i presenti in un incontro introdotto proprio dal nostro Vescovo: quello vissuto da don Minzoni – ha detto – è «odio nei confronti della fede», verso quegli uomini e quelle donne per cui «la fede è strettamente legata alla vita». E don Minzoni ha fatto «della vita della gente la ragione della propria missione, soprattutto verso i più poveri». Don Minzoni – così lo ha definito il Vescovo – è un esempio di «prete sociale», assieme a figure come quelle di don Milani e don Mazzolari. Mons. Perego ha quindi sottolineato la formazione del prete ravennate nella Scuola sociale di Bergamo, il suo forte legame col magistero sociale della Chiesa e il suo grande interesse per l’ambito educativo, in particolare attraverso lo scoutismo. Da qui, «l’importanza della libertà educativa – oltre a quelle politiche e civili – ancora oggi, per poter guardare al futuro con occhi diversi».

Occhi che possono essere illuminati solo se la luce proviene anche dal passato. Ed è questo che ha tentato di fare De Michele nel suo libro e nel suo intervento a Libraccio, dove ha ripercorso la vita del sacerdote, sottolineando innanzitutto il suo  forte legame col popolo: quello del territorio argentano assegnatogli, che raggiungerà – viste le lunghe distanze – in bicicletta (fatto anomalo per un prete di quell’epoca); o quello mandato a combattere sul fronte nel primo conflitto mondiale, che seguirà arruolandosi, «pur non essendo un guerrafondaio». Ma la reazione al cosiddetto “biennio rosso” (per De Michele più correttamente da individuare tra il ’20 e il ’21), fu quello squadrismo fascista sostenuto in ogni modo dal mondo agrario anche ferrarese:a tal proposito, per De Michele «il “metodo Balbo” venne inaugurato proprio ad Argenta con l’omicidio Gaiba», consigliere comunale socialista, avvenuto  nel maggio ’21.

De Michele ha quindi accennato ad alcune vicende riportando, a tratti, anche particolari inediti: fra le curiosità, la presenza accertata di un deputato ferrarese, Vico Mantovani, nel gruppo di squadristi che hanno disturbato l’inaugurazione della sede scout argentana e il ruolo di Augusto Maran (capo fascista locale e mandante dell’omicidio di don Minzoni), nella cui casa ha accolto i due assassini del sacerdote subito dopo l’omicidio, e prima di farli nascondere a casa di un suo parente. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Giovani voci di libertà: Ucraina, Iran e Afghanistan 

2 Ott

Festival Internazionale /2. La giornalista Cecilia Sala (Il Foglio, Chora Media) a Ferrara ha presentato il suo nuovo libro, analizzando la situazione drammatica nei tre Paesi

Guardare il mondo con le sue profonde trasformazioni attraverso gli occhi delle giovani generazioni. È quello che ha tentato di fare Cecilia Sala – giornalista lei stessa giovane (28 anni),  che lavora per Il Foglio e Chora Media – col suo nuovo libro “L’incendio” (Mondadori, 2023), presentato lo scorso 30 settembre al Ridotto del Comunale di Ferrara per il Festival di Internazionale. Nel suo volume, Sala racconta le storie di giovani ucraini, iraniani e afghani, protagonisti coraggiosi in Paesi in guerra o nei quali vengono negate alcune libertà fondamentali.

UCRAINA: DIFENDERE LA LIBERTÀ

«I giovani ucraini nati nei primi anni ’90 – ha spiegato Sala rispetto al Paese in guerra –  rappresentano la prima generazione post sovietica, quindi indipendente». Le proteste di Euromaidan nel 2013, che l’anno successivo portarono alla fuga del presidente filorusso Janukovyc, hanno visto tanti di questi giovani diventare protagonisti.

«Non voglio vivere nella paura, so che la violenza è inevitabile, e quindi non voglio vivere con questa minaccia incombente. E  non voglio che il compito di combattere contro Putin spetti a un’altra generazione successiva alla mia. Per questo, spero ci sia la guerra». Oggi Kateryna è una soldatessa dell’esercito ucraino, ma queste parole le disse a Cecilia Sala a inizio 2022, prima dell’invasione russa. «I giovani come lei – ha spiegato la giornalista – vogliono difendere la loro libertà, le loro conquiste. Lei a inizio 2022 era più lucida di molti anziani ucraini e dello stesso Zelensky, che minimizzava e credeva che al massimo l’esercito di Putin avrebbe provato a invadere il Donbass».

Purtroppo, «un odio e un rancore profondi vivono ormai nei cuori degli ucraini», alimentato dalla guerra ma con radici antiche, a causa di storia di sottomissione alla Grande Russia.

IRAN: TRASFORMAZIONI INARRESTABILI

Chi da oltre 40 anni vive sotto un regime è il popolo iraniano. «È difficile che qualcosa cambi in tempi brevi – ha detto Sala -, dato che il Governo continua comunque a mantenere la totalità dei gangli economici e delle armi. Ma le trasformazioni sono inarrestabili». Già da 15 anni gli ayatollah «sanno di aver perso i loro giovani – che non condividono le loro tradizioni -, e così sanno di aver perso il futuro». Le repressioni e l’inasprimento delle sanzioni per le donne che non indossano il velo convivono con la consapevolezza concreta del regime che non può arrestare tutte le donne – tante, sempre di più – che lo indossano “male” o non lo indossano. E che «oggi in Iran vi sono comunque donne che pilotano aerei, che hanno ruoli dirigenziali, che sono ingegneri aerospaziali. Una donna è stata anche vicepresidente» (Masoumeh Ebtekar, dal 2017 al 2021).

Storicamente, Sala ha ricordato anche come la rivoluzione che nel 1979 portò al potere la Repubblica Islamica deponendo lo shah Muhammad Reza Pahlavi, inizialmente non fosse solo islamica ma composta anche da marxisti, socialisti, nazionalisti e da femministe, donne che il velo non lo indossavano. Poi, purtroppo, il clero sciita prese il controllo del potere.

AFGHANISTAN: LA VERGOGNA DEL RITIRO

Qui il potere oppressivo il potere l’ha ripreso dopo 20 anni: «tanti giovani nei 20 anni dopo la liberazione del Paese dal regime talebano, hanno solo sentito parlare di loro». Con il ritiro delle truppe USA e NATO (iniziato nel 2020 con Trump, proseguito nel ’21 con Biden presidente), i talebani sono tornati al potere «nonostante non rappresentino assolutamente la maggioranza degli afghani. Il ritiro è stato un disastro totale, una grande vergogna», ha detto Sala. «E non si è riusciti a mettere in salvo fuori dal Paese tanti che in quei 20 anni avevano collaborato con USA e NATO e tante donne che in questo ventennio avevano scoperto la libertà e  magari ottenuto il divorzio da mariti che le sottomettevano. Questo atto di debolezza di USA e NATO ha convinto Putin a invadere l’Ucraina. Ma l’Ucraina se non fosse stata fin da subito aiutata dalla NATO, in poco tempo sarebbe stata interamente occupata dai russi».

Speriamo di imparare dalla storia, più  o meno recente, e dalla voglia di libertà dei questi giovani.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 6 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Persona, dono e comunità: l’Avis massese in un libro

28 Giu

“Un viaggio tra i Valori della Vita”: il volume di Alberto Fogli

Si intitola “Un viaggio tra i Valori della Vita. Storie di umanità e solidarietà” (Ed. La Carmelina, 2023) il libro da poco uscito scritto da Alfredo Alberto Fogli. Il volume racconta la storia ultra cinquantennale dell’Avis di Massa Fiscaglia, di cui Fogli è stato presidente dal 1991 al 2021.

Fin dalla sua costituzione nel 1967, l’Avis massese, scrive Fogli, ha organizzato «iniziative mirate a testimoniare concretamente la possibilità di sviluppare una nuova cultura della solidarietà tra la nostra gente nonché di diventare “lievito” di un rinnovato impegno culturale, sociale e umano da proporre alle future generazioni». Perché l’obiettivo di un’associazione come l’Avis è di costruire una società «migliore e più umana e più solidale per le generazioni che verranno».

Per fare questo, fin dalla sua nascita ha svolto «un’incessante opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica locale e della popolazione scolastica sull’importanza sanitaria, morale e civica della donazione di sangue ma più in generale di un’educazione al dono e alla gratuità come valori sociali di una autentica civiltà solidale».

Civiltà solidale che, riflette Fogli nel libro, non può non avere le proprie radici e il proprio orizzonte in un sistema democratico che garantisce le libertà, incluse quelle di associazione e partecipazione alla vita pubblica. Senza dimenticare che «ciò che conta nella nostra quotidianità è un rapporto d’amore».

Ma per l’Avis massese la cultura del dono si accompagna e si è sempre accompagnata ad altre attività collaterali ma non meno importanti per la missione di fondo: iniziative per l’integrazione e l’inclusione sociale e culturale, screening sanitari per la popolazione locale, corsi di primo soccorso e di protezione civile, missioni umanitarie all’estero. E poi ci sono le collaborazioni – oltre che con le Istituzioni, con associazioni come Aido o Fondazioni come Telethon (dal ’94) -, i numeri che dicono della crescita dai primi 37 donatori del 1967 al picco nel ’96 (229 donatori) e il successivo calo fino ai 117 del 2022 – e alcune tappe significative: il 1975, con la prima sede nel Palazzo Comunale e il primo punto fisso di prelievo sangue. E il 2014, con la «rifondazione avisina massese» e il nuovo punto di raccolta sangue per l’intero Comune di Fiscaglia.

Tappe di un cammino che prosegue, e che ha la persona e il suo servizio al centro, il dono come bussola imperitura, la comunità come luogo concreto dove far vivere la carità quotidiana.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Diario di un prete di Comacchio nella tempesta di inizio ‘900

10 Giu

Le memorie di don Antonio Fogli sono state trascritte e pubblicate da Maurizio Marcialis in un libro: il sacerdote racconta la politica, la fame, la guerra e la fede di un popolo

di Andrea Musacci

Quel grande guazzabuglio che è stata l’Italia di inizio Novecento, con le sue passioni divoranti, la guerra che falciava vite, le epidemie, la sorda miseria, gli embrioni dei grandi partiti politici. E la fede in Cristo che non muore, pur iniziando a vivere come sotto assedio, odorando l’arrivo dell’ateismo diffuso.

A volte è più utile un diario personale che un pur più preciso e obiettivo manuale di storia, a descrivere tutto ciò. Per questo, i diari ritrovati del canonico comacchiese Antonio Fogli sono un documento alquanto prezioso, perché testimonianza non solo dei fatti storici, locali, nazionali e mondiali, ma anche un documento importante per capire la visione del mondo di un anziano prete a contatto con le miserie del suo tempo.

È grazie all’architetto Maurizio Marcialis, che questi diari sono stati editi nel volume “Diario di un curato di valle. Dal 1900 al 1921 del Canonico Antonio Fogli” (Gruppo Editoriale Lumi, 2020). L’autore ha presentato il libro lo scorso 29 maggio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara assieme a Diego Cavallina e Alberto Lazzarini, quest’ultimo prefatore assieme ad Aniello Zamboni.

Marcialis ha ritrovato casualmente il manoscritto oltre 20 anni fa in un mercatino invernale a Cesena, trascrivendolo con minuzia durante il lockdown di tre anni fa. Nato nel 1842 a Comacchio, dove muore nel 1938, don Fogli – secondo di otto figli – viene ordinato sacerdote a Ravenna nel ’65. Nella sua città sarà canonico dopo esser stato arciprete a Mesola, Goro e Gorino, e poi a Codigoro.

Nel 1900 il sacerdote inizia il proprio diario già prevedendo i tumulti che investiranno anche la sua terra: «Dal 1899 al 1900 nella mezzanotte in tutte le cattedrali e chiese parrocchiali del mondo cattolico si cantò la messa e il Tedeum. Nei primi dell’anno fu innalberato su i principali monti il vessillo della Croce e in molti luoghi elevati la statua del Redentore. Ah! Si prevedeva che nella corrottissima società si sarebbero svolti fatti eccezionali: epperciò fin da allora si scongiurava la divina Misericordia a salvare religione e società dal massimo pericolo».

L’ODIO POLITICO: DALLE VIOLENZE SOCIALISTE ALL’ARRIVO DEL FASCISMO

Un umile, pur dotto, prete di provincia, non poteva non avere una visione del movimento socialista esclusivamente come ateista e dedito alla violenza contro l’ordine costituito. Sua fonte, dalla quale a volte ritagliava anche articoli che inseriva nel proprio diario, era il giornale cattolico locale “La Domenica dell’operaio”. Nel 1912 a Comacchio viene linciato Demetrio Faccani, guardia valliva proveniente da Alfonsine. Don Fogli ne parla così: «Lo sciopero indetto dalla brutta peste dei Socialisti, che raccogliendo il fango delle piazze si nutriva di passioni e di odi feroci, si convertì in atto sanguinesco di crudeltà». Nel 1919 scrive: «I socialisti fanno dovunque atti di violenza contro le persone dabbene, contro il Clero, contro le Chiese e seminano contro le più sacre funzioni lo scompiglio e perfino le morti. Quasi la nazione viveva meglio nel tempo della guerra, se la perdita di tanti carissimi giovani non l’avesse addolorata». 

Nel 1919 si affaccia la speranza grazie al neonato Partito Popolare Italiano: «Un partito però dell’ordine che richiamava i principi cristiani sorse per incanto e, sebben bambino, e contrastato con tutte le arti maligne prese un posto dignitoso sorpassando per numero gli altri partiti e mettendosi di fronte ai Socialisti». 

Ma nel febbraio del ’21, vede nel nascente squadrismo fascista una reazione giustificata alle violenze socialiste: «I grandi soprusi, le soverchierie, le barbarie commesse dai socialisti, che hanno innalzato il regno del terrore» nel nostro Paese, e che il governo «è impotente ormai a frenare: ha fatto sì che nei popoli è nata una reazione contro di loro e per bisogno di difendere la libertà sono sorti i fascisti». Ma poco dopo avrà modo, almeno in parte, di ricredersi: «Introdottisi nei fascisti degli elementi sovversivi, e può dirsi anche criminabili, non si fermò più il fascismo alla giusta difesa del popolo e de’ suoi diritti, ma a sfogare con violenza gli odi personali». Nell’agosto dello stesso anno scrive: gli uomini «non ascoltano sacerdoti, anzi li guardano come nemici: non vanno più in chiesa, epperciò il Signore li abbandona ai loro partiti diabolici».

LA CARNEFICINA DELLA GUERRA

Don Fogli vive la guerra innanzitutto come peste che distrugge le vite della povera gente, costretta a partecipare al massacro, o di cui ne subisce le conseguenze. Non manca però il sentimento nazionalista; l’Austria, scrive, «teneva la nostra penisola come una serva da strapazzo». 

Ma il 6 luglio 1915 accenna a un episodio che ben spiega il clima bellico: «Alle 15 vengono arrestati tutti i frati del Convento dei Cappuccini e scortati a Ferrara sotto l’iniqua imputazione di fare segnalazioni al nemico». Don Fogli incolpa di ciò «la camorra brutale della massoneria». I frati verranno liberati senza processo 24 giorni dopo.

Nelle sue memorie accenna anche ai bombardamenti nemici, come quello nel 1916 a Codogoro: «altra barbarie» commesse dagli austriaci «con l’intenzione malefica» di bombardare l’idrovora e il vicino zuccherificio. Morirono 5 persone fra cui una bambina, 2 i feriti. Nel giugno ’17 riporta di altre incursioni aeree sopra Codigoro e poi sopra Comacchio: gli aerei nemici «li abbiamo veduto girarci sopra: ma anche in tal occasione la Madonna ci ha salvato: e a quegli uccellacci, portatori di rovine e morte, ha intimato: vade retro satana». Il 4 novembre 1918, con l’armistizio di Villa Giusti che sancì la resa dell’Impero austro-ungarico all’Italia, finisce la guerra: «vittoria grande incredibile» dell’Italia sull’Austria, scrive il sacerdote. L’Austria «ha abbassato la sua testa grifagna» davanti al nostro Paese. 

LA MISERIA: «TUTTO È SECCO, TUTTO MUORE»

La tragedia del conflitto mondiale, unita all’inclemenza della terra, gettano il suo popolo nella povertà più assoluta. Nel luglio 1916 scrive della siccità: «Sono tre mesi dacché non piove (…). Tutto è secco, tutto muore. Frumentone è andato, faggioli sono perduti: muoiono disseccati perfin gli alberi, e alle viti crolla l’uva». Mentre a novembre dello stesso anno, è l’esatto contrario: «Rovesci di pioggia continua han fatto temere rotte ed ancora non siamo fuori di pericolo. Burrasche di mare prodotte da fortissimi scirocchi hanno portato le onde sopra le dune di Magnavacca». A gennaio ’17, una nuova inondazione: «Quasi tutti i piani terreni delle case hanno l’acqua dentro».

A ciò si aggiungerà l’epidemia di spagnola tra il ‘17 e il ’18, che «sempre più infierisce e miete giovani vittime (…). Si indicano preparativi, disinfettanti. (…) Conseguenza della guerra! (…)». Le precauzioni ricordano, pur con le dovute differenze, ciò che abbiamo vissuto col Covid: le limitazioni di movimento e di assembramento, il divieto di stringersi la mano, i consigli ad arieggiare frequentemente le abitazioni, a proteggere gli ammalati, a rimanere in casa per ogni minima indisposizione, a fare lunghi periodi di convalescenza.

La guerra farà il resto; a fine 1916 scrive: «Decreti sopra decreti limitano i generi più necessari. La carne, i salumi non si possono vendere che tre volte la settimana: le ova si vendono in Comune; il latte è requisito. Il pane non si può mangiare che vecchio. Vino non ce n’è più e solo un poco a £2 il boccale. L’acqua scende e minaccia innondazione (…). La caccia è proibita (…). La pesca di mare è proibita. Poi notizie sempre dolorose e mai un barlume che accenni la pace. O gran Dio salvaci da tante torture!». 

MARIA, MADRE NOSTRA, AIUTACI!

Quella «divina Misericordia» implorata a inizio secolo, sarà sempre presente nel suo cuore, come in quello della sua gente. Nel maggio del ’17, di fronte a così tanti orrori e tragedie, racconta di come «nel popolo comacchiese sorse il desiderio ardente di muovere la vetustissima e sempre venerata immagine di Maria SS.ma in Aula Regia». Ma il Vescovo non poteva permetterlo dato il divieto, in tempo di guerra, di processioni pubbliche. Si decise, quindi, di portarla in Duomo a mezzanotte del 30, di nascosto, scortata dai carabinieri. «Nonostante però tali precauzioni molta parte della popolazione ne aspettò il trasporto che arrivato alle porte della cattedrale, eruppe da ogni petto il grido di “Evviva Maria”».

Un episodio che dice, a distanza di un secolo, di come la devozione popolare, la fede mai sradicata dall’anima del nostro popolo, in tempi bui possa essere, ancora, l’estremo rifugio, l’unica vera àncora di salvezza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto: bambini sul Ponte Pizzetti, posto di lato alla facciata della chiesa del Carmine, nel 1920. Grazie a Maurizio Marcialis)

L’ebraismo ferrarese tra memoria e futuro

23 Mag

Asti, 16 aprile 1938: al centro Ermanno Tedeschi con la moglie Magda Tedeschi. Al fianco di Ermanno la sorella Aurelia con il marito Guido Debenedetti.  Seduto, con le mani sulle ginocchia, Marcello Tedeschi con la cugina Alda Debenedetti Jesi

“Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” è il nuovo libro di Ermanno Tedeschi: aneddoti e riflessioni

di Andrea Musacci

Tutta la vita in una racchetta da tennis. È possibile? Forse sì. Ma, si badi bene, non si intende concentrare un’intera esistenza dentro un pur nobile gioco ma, in questo, vedere l’essenza della vita vincere sulla morte, la compagnia, la gioia e la condivisione trionfare sullo spirito demoniaco. Insomma, la fede e la speranza avere l’ultima parola nonostante l’immagine tragedia della Shoah.

Questo ha voluto trasmetterci Ermanno Tedeschi, curatore, critico d’arte e scrittore torinese di origini ferraresi, nel suo nuovo libro “Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” (Silvio Zamorani editore, Torino, 2023). 

Il libro è stato presentato il 22 maggio al MEIS con interventi di Umberto Caniato (Presidente del Circolo Marfisa), Luciano Meir Caro (Rabbino capo di Ferrara), Dario Franceschini (Presidente Giunta elezioni e  Immunità parlamentari), Marcello Sacerdoti, Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS) e Silvio Zamorani (editore).

LA MEMORIA

Le radici estensi di Tedeschi sono nel ramo paterno: il padre Marcello si era trasferita da giovane a Torino per esercitare la professione di medico. Nel capoluogo piemontese a fine anni ’50 ha conosciuto e poi sposato Elsa Momigliano: dal loro amore, oltre a Ermanno sono nati Lino e Arturo. «Le radici ferraresi ereditate da mio padre sono sempre state molto forti in me e in tutta la mia famiglia», spiega Ermanno Tedeschi. Così, il fine settimana era rituale trascorrerlo a Ferrara: «allora non esisteva il Freccia Rossa e il viaggio era lungo, ma la gioia di vederla e respirare l’aria della grande casa di via Bersaglieri del Po facevano dimenticare ogni fatica. Durante quelle visite, non mancavamo mai di entrare nel negozio di giochi, in sinagoga, di andare al ristorante, da Giovanni o alla Provvidenza, e, naturalmente, al cimitero ebraico per recitare una preghiera sulla tomba del nonno Ermanno».

Ma il racconto più affascinante nel libro è quello di Marcello Tedeschi, padre di Ermanno, morto nel 2020, figlio di Magda ed Ermanno.

Marcello raccolse le proprie memorie dieci anni fa: ricordi amari ma sempre innervati da una tenacia che lo ha portato a superare ogni sorta di difficoltà. A partire da quel maledetto anno 1938: «eravamo in vacanza a Rimini quando fu annunciata l’imminente promulgazione delle leggi razziali. Stupore, smarrimento, tristezza, previsioni fosche. Era un fulmine a ciel sereno. In quegli anni abitavamo a Venezia (…). Comunicarono a mio padre che era stato sollevato dal suo lavoro per telefono. Andò quindi nel suo ex ufficio alla stazione Santa Lucia per gli adempimenti del caso. Alcuni dei colleghi avevano gli occhi lucidi. Io ho frequentato il liceo fino al fatidico 1938. Un giorno ho trovato nel grembiule nero un biglietto con sopra scritto “S. P. Q. E.” (Sempre Porci Questi Ebrei)». Poi, «da Venezia ci trasferimmo a Ferrara nella vecchia residenza di via Bersaglieri del Po 31. Per anni, fino alla fine del 1943, abbiamo trascorso una vita grigia di apartheid». 

Tedeschi racconta di quando fortunosamente scampò al rastrellamento dei poliziotti italiani e dei militari tedeschi. E poi la famiglia che si rifugia nella cascina di Porotto, dove ascoltano Radio Londra, poi a Sabbioncello San Pietro grazie all’aiuto di un dirigente fascista locale, e poi a Loano nel savonese, a Demonte vicino Cuneo, in una drammatica e avventurosa fuga per raggiungere la Svizzera. E quel bigliettino gettato dal carro bestiame dal fratello di Marcello, Arrigo, che purtroppo non ce la farà e morirà ad Auschwitz nell’ottobre ‘43.

Marcello e la sua famiglia, invece, riuscirono a tornare in Italia, prima a Firenze in un campo per rifugiati, poi a Ferrara.

IL FUTURO

Sulla Comunità ebraica ferrarese nel libro emergono alcuni spunti interessanti. «Dopo la Liberazione – scrive l’autore -, la comunità ebraica ferrarese è decimata e in totale declino. Oltre a quelli uccisi barbaramente dai nazi-fascisti molti avevano lasciato la città prima del 1938 per trovare lavoro altrove o all’estero. Oggi la comunità ebraica di Ferrara conta circa ottanta iscritti tra cui alcuni che vivono a Cento, Forlì, Lugo e Ravenna o in altre città in Italia e all’estero. Il tempio viene regolarmente aperto per le funzioni di Shabbat e delle festività principali anche se si fatica a raggiungere il numero di dieci uomini necessario per la celebrazione delle preghiere». 

E l’avv. Marcello Sacerdoti, figlio dello storico Rabbino Simone, spiega: «il futuro purtroppo non è esaltante, i numeri diminuiscono, non ci sono giovani, e il destino pare segnato. Desidero però evidenziare che già in passato in piccole comunità si è assistito all’immigrazione di ebrei provenienti da Paesi dove venivano discriminati (per esempio Egitto, Libia). (…) Quando ho ricoperto la carica di consigliere mi sono “dannato” per far venire un paio di famiglie a ripopolare la comunità. Purtroppo non si è arrivati a niente. (…) Il MEIS, un paio di famiglie (anche all’estero, vedi Venezuela, Argentina, ex Jugoslavia, Ucraina) potrebbero dare nuova linfa ed entusiasmo». 

L’attuale Rabbino Capo Luciano Meir Caro, invece, riflette così: «C’è un futuro per le piccole comunità? La risposta non è facile. Ritengo che negli anni passati qui, analogamente a quanto accade in comunità grandi e piccole, il problema non è mai stato affrontato come esigenza prioritaria. Inoltre nel tempo sono venuti a diminuire drasticamente i numerosi studenti israeliani ed ebrei che frequentavano la nostra comunità. La partecipazione alla vita religiosa è scarsa ma in linea con quanto avviene altrove. (…) La speranza è che l’afflusso di qualche famiglia ebraica da altre comunità concorra a garantire un futuro a un’istituzione prestigiosa che ha dato importanti contributi alla cultura italiana».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Salvia, un martire del dovere. Antonio Mattone: «quel giorno che incontrai Cutolo»

8 Mag
Claudio Salvia e Antonio Mattone

Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu ucciso nel 1981 per volontà del boss Raffaele Cutolo. Il 5 maggio a Ferrara la testimonianza del giornalista Mattone e del figlio Claudio

«Salvia era un martire del dovere, un integerrimo funzionario delloStato che incappò nel più grande delinquente italiano del secondo dopoguerra: Raffaele Cutolo. Ma che non si volle piegare alla sua prepotenza».

Sempre più persone iniziano a conoscere la straordinaria testimonianza di coraggio e di amore alla verità e alla giustizia rappresentata dalla vita e dalla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nell’aprile del 1981 per volere di Cutolo.

Due anni fa Antonio Mattone, giornalista napoletano, raccontò la sua storia nel libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, presentato la sera del 5 maggio nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara. Un incontro voluto da Dario Poppi, insegnante in pensione, e organizzato dall’Unità Pastorale Borgovado. Un libro scritto sotto richiesta dei familiari di Salvia:della moglie Giuseppina e dei figli Antonino e Claudio. Quest’ultimo, che nell’81 aveva solo 3 anni (il fratello, 5) è intervenuto a Ferrara proprio insieme a Mattone, alla presenza di circa 80 persone. 

«TANTI AGENTI HANNO PAURA DI PARLARE»

Sono oltre trenta le presentazioni del libro di Mattone in giro per l’Italia, fra cui una col card. Zuppi, e tante nelle scuole. Qui, purtroppo, ha spiegato l’autore, «nessuno sapeva chi fosse Salvia, molti sapevano invece chi fosse Cutolo».

«Ho ascoltato 90 persone in diversi modi legate a Salvia: familiari,  agenti di polizia penitenziaria, terroristi, magistrati, inquirenti, forze dell’ordine, giornalisti». A proposito degli agenti di polizia penitenziaria, «alcuni di loro, dopo oltre 40 anni, non hanno voluto parlarmi: alcuni, forse perché collusi, altri perché si vergognano ancora di averlo allora lasciato solo, altri ancora per paura o per non voler riaprire vecchie ferite».

IN CARCERE, COME UN PRINCIPE

Innanzitutto, Mattone ha ricordato come Cutolo si trovasse a Poggioreale per omicidio, ma lì, dietro le sbarre, costruì la Nuova Camorra Organizzata, «il suo impero». Alcuni testimoni «mi hanno raccontato di quali privilegi godesse in carcere, fin dal ’73», segno di forti collusioni: «aveva la cella sempre aperta, la moquette, il frigo, la tv, passeggiava in vestaglia e un altro detenuto gli  faceva, di fatto, da maggiordomo. E un agente mi raccontò che un giorno nella posta destinata a Cutolo, trovò anche alcuni biglietti di auguri di buon onomastico provenienti da Deputati della nostra Repubblica. Questo agente mi ha chiesto di rimanere anonimo».

Arriviamo al 1981. Al ritorno dall’udienza in un processo, Cutolo incrocia casualmente Salvia.Quest’ultimo dice agli agenti di perquisirlo, come da regolamento. Prima di allora, invece, Cutolo era l’unico detenuto a non venir mai perquisito.Allora Cutolo, davanti agli altri detenuti e agli agenti, gli dà uno schiaffo, così forte da fargli cadere gli occhiali. Giorni dopo, Salvia gli negò, dopo aessersi consultato col Ministero, di poter fare il “compare di nozze” per il matrimonio di un boss anch’egli detenuto a Poggioreale. Allora Cutolo ordinò, dal carcere, di ammazzarlo. L’omicidio avvenne sulla tangenziale di Napoli il 14 aprile 1981.

Giuseppe Salvia

IL MIO INCONTRO CON RAFFAELE CUTOLO: «SÌ, L’HO UCCISO IO»

Oltre ad aver potuto incontrare Mario Incarnato, l’esecutore materiale dell’omicidio, Mattone il 21 luglio 2019 ha potuto parlare con Cutolo nel supercarcere di Parma, un anno e mezzo prima della sua morte. «Era isolato, e non incontrava giornalisti da 30 anni. Parlammo 1 ora, un vetro ci divideva. Era molto invecchiato, col parkinson e l’artrite. Iniziò a fidarsi di me quando gli dissi che dal 2006 ero volontario nel carcere di Poggioreale: gli si illuminarono gli occhi. “Sì, l’omicidio Salvia l’ho fatto io”, mi disse. Prima di allora, almeno pubblicamente, non l’aveva confessato a nessuno».

CLAUDIO SALVIA: «MIO PADRE MI HA INSEGNATO MOLTO»

Il figlio Claudio lavora in Prefettura a Napoli, si occupa di antiracket, in passato si è occupato anche di antimafia. «Mio padre in casa non parlava mai di lavoro. Nel libro di Mattone viene raccontato un episodio che dice molto di che persona fosse mio padre. Un giorno andò a trovare in ospedale “Zio Antonio”, un suo caro amico.Ma con sé aveva anche dei cioccolatini: doveva portarli  a un ragazzino figlio di detenuto, lì curato, e lasciato solo».

Erano gli anni di piombo, del terrorismo, della corruzione dilagante. «Servivano, allora più che mai, servitori dello Stato integerrimi, come mio padre. Tanti corrotti lavoravano anche nel carcere di Poggioreale». Tra l’altro, «a mio padre 2 o 3 volte rifiutarono anche la richiesta di trasferimento in un altro carcere. Richiesta che fu accettata solo il giorno dopo la sua morte».

«Mio padre servì lo Stato fino all’estremo sacrificio», ha proseguito. «La camorra, prima di ammazzarlo, aveva anche cercato di corromperlo, e poi lo minacciò. Fu vittima di una delle peggiori, se non la peggiore, associazione criminale al mondo», la Nuova Camorra Organizzata.

«Io, come Mattone, faccio tanti incontri nelle scuole per sensibilizzare sul tema della legalità, per parlare di antimafia e antiracket. Per parlare di mio padre. E negli incontri con gli studenti, spesso noto come molti giovani e giovanissimi abbiano il mito del camorrista killer, anche per colpa di serie tv come “Gomorra”, che non apprezzo anche perché non vi è mai un risvolto positivo. E poi bisogna continuare a lavorare molto sulla forte correlazione tra dispersione scolastica e devianza sociale:così tanti ragazzi iniziano a delinquere».

«Mio padre, quindi – ha aggiunto -, mi ha insegnato molto, anche se praticamente non ho avuto modo di conoscerlo di persona: il suo sacrificio mi ha consegnato valori altissimi e profondi. A mia figlia, che ha 8 anni, cerco di trasmetterglieli a mia volta. E ho capito quanto sia importante testimoniare ciò che si dice coi fatti». È quel che ha fatto Giuseppe Salvia, testimone di verità e giustizia fino alla morte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Misericordia e vita giusta nel Manzoni

28 Feb

Antonia Arslan e Davide Rondoni il 20 febbraio sono intervenuti a Ferrara su “I promessi sposi”

Cos’è che rende una vita davvero giusta? Su questo tema centrale per le donne e gli uomini di ogni tempo si è riflettuto lo scorso 20 febbraio interrogandosi su un capolavoro della letteratura di ogni tempo, “I promessi sposi”.

Nella sede dell’Università di Ferrara in via Adelardi si sono confrontati Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, e Davide Rondoni, poeta, scrittore e direttore artistico del Festival Della Fantasia. L’incontro “Che cosa c’è di allegro in questo maledetto paese?” – primo evento del Festival 2023 che si svolgerà l’11, 12 e 13 maggio in Castello e contributo in preparazione al concorso con lo stesso titolo – è stato organizzato da Accademia e Fondazione Enrico di Zanotti, in collaborazione con altre associazioni e istituzioni.

Arslan: «in un atto di amore, Manzoni si è inchinato agli umili»

Arslan nel suo intervento è partita innanzitutto dalla biografia di Alessandro Manzoni, «romantico non nichilista, personaggio complesso, nevrotico folle, con profonde ferite interiori». Un vero «genio», autore di «un romanzo che non fu per nulla, fin dall’inizio, un santino della nuova Italia, ma un grande romanzo d’avventura».

Nel libro, Manzoni «riesce ad accettare il mondo degli umili con unità personale, lui aristocratico, riesce a capire la realtà dei semplici e, ammirando la loro fede, a raccontarlo». Un mondo, quello degli umili, per nulla «mitizzato ma raccontato» da chi è stato capace di comprenderne il nucleo essenziale: «una semplice dirittura e onestà». Con «un continuo atto di volontà – ha proseguito la scrittrice -, Manzoni ha piegato sé stesso e si è inchinato, in un atto di amore, con ironia e chiarezza di linguaggio, a questo mondo» così diverso dal suo.

“I promessi sposi” sono «una pietra di inciampo, perché lì si frantuma un modo di scrivere precedente, pesante». Manzoni riesce, invece, a realizzare «un’avvolgente spirale di avventure, vissute da personaggi che ama, che descrive vivamente, con dialoghi della più alta qualità letteraria».

Rondoni: legame tra sapienza del popolo e Provvidenza

Manzoni nel romanzo «racconta una storia che non è consolatoria come tanti vogliono far credere», il popolo da lui narrato «è una questione tutt’altro che tranquilla e pacifica», ha spiegato invece Rondoni. 

Quel «sugo di tutta la storia» che Renzo e Lucia colgono nel finale, è «il loro tempo, è comprendere loro stessi. Non c’è bisogno di intellettuali, di un’élite per coglierlo, per avere questa sapienza: il “sugo della storia” è il senso di avere giustizia nella vita». Insomma, non evitare i guai, «dividendo la storia in fortunati e sfortunati», ma avere fede, «la fede del popolo, un’esperienza di un popolo più grande di sé». Popolo la cui vita «è determinata da cose non create dal popolo stesso, ma che lo generano». 

Da qui, il tema della Provvidenza, «parola descrittiva della Misericordia» – a sua volta «bomba che fa esplodere tutto, che non ha confini»: Provvidenza  che fa «leggere il valore dell’esistenza a un altro livello, cercando di capire cos’è che rende una vita giusta». Compito supremo per l’uomo, questo: significa comprendere «come la libertà dell’individuo entra nel tempo, come il singolo sta nel tempo con più libertà e profondità, senza dividere la storia in fortunati e sfortunati». È, infatti, il cuore stesso a «non poter accettare che la vita si divisa solo in fortuna e sfortuna».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio