Archivio | Senza categoria RSS feed for this section

«Riprendiamoci il tempo e le nostre responsabilità»: ecco la nuova AC diocesana

5 Apr

Il nostro Arcivescovo ha nominato Alberto Natali nuovo presidente dell’AC diocesana, scegliendolo da una terna di nomi: «Eredito un’AC tenace, con forti radici e tradizioni. La voglio capace di leggere con efficacia e amore il tempo in cui vive, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini». E«in AC dobbiamo dare più fiducia ai giovani, non guidarli in eterno, ma farci guidare da loro»

Natali, partiamo dalle “basi”: qual è la formazione ecclesiale del nuovo presidente diocesano di AC?

«Sono cresciuto e mi sono formato nella Chiesa che accoglieva la nuova Azione Cattolica nata dalla riforma voluta da S. Paolo VI e affidata a Vittorio Bachelet, accompagnato dall’esempio di mia madre che fu attivista di AC negli anni del dopoguerra, ma che accolse con semplicità e rigore le novità introdotte dal nuovo Statuto. Troppo piccolo per partecipare e comprendere la forza dirompente del ’68, ma abbastanza grande a metà degli anni ’70 per iniziare a partecipare attivamente alla vita della mia comunità, allora la parrocchia della Madonnina, e vedere il fermento di un mondo giovanile cattolico che cercava di accompagnare la Chiesa locale, con tutti i limiti che i giovani possono avere, ma anche con tutto il loro entusiasmo, dentro un mondo che era e stava continuamente cambiando. Sono stato educatore ACR, ho seguito gruppi giovanissimi e giovani, l’impegno e l’esperienza educativa è stata fin da ragazzo la mia più profonda vocazione».

Quali sono i suoi punti di riferimento, i “maestri”?

«Ho un debito verso moltissime persone. Ne citerò alcune, consapevole di far torto ad altre. Non posso che partire da mons. Giulio Malacarne, il mio vecchio parroco, un innamorato della Chiesa e dell’AC che ha speso ogni briciola di energia educativa per i giovani della sua parrocchia; mons. Andrea Turazzi, allora assistente diocesano ACR, che mi ha praticamente inventato come educatore; mons. Ivano Casaroli, che è stato assistente generale di AC, e ha sempre seguito ed accompagnato con rigore ed entusiasmo i campi giovanissimi a cui ho partecipato; mons. Francesco Forini, assistente diocesano del settore giovani negli anni ’80, che ha guidato e formato in quegli anni un gruppo di scapestrati ventenni, tra cui il sottoscritto, che si erano incoscientemente assunti il compito di guidare i giovani della diocesi nel loro percorso formativo».

Alberto Natali

E personalità che non ha avuto modo di conoscere personalmente?

«Gli anni più intensi della mia formazione hanno coinciso con gli anni più violenti del terrorismo: avevo 17 anni quando fu rapito ed ucciso Aldo Moro, 19 quando venne assassinato Vittorio Bachelet: se erano state, fino ad allora, figure significative, divennero, nel momento del loro sacrificio, soggetti di un confronto ineludibile».

L’AC, anche nella nostra Arcidiocesi, viene da un periodo difficile, soprattutto legato alla pandemia: come l’ha vissuto personalmente e come AC?

«Il periodo della pandemia è stato per me un tempo molto pesante, da un punto di vista psicologico, ho sofferto terribilmente, più di quello che potevo immaginare, la mancanza di contatto con le persone. Ho sfruttato al massimo, per quello che le regole, da un certo punto in poi, permettevano, la possibilità di incontrare amici e di stare con loro. Va da sé che tutto questo ha avuto ripercussioni anche sulla mia vita associativa. Sono cresciuto in un’associazione che aveva fatto del detto “meno carta e più chilometri” il suo modo di operare. Mi è mancato il contatto con la gente, guardare le smorfie dei loro volti, sentire il loro fiato mentre pronunciavano le parole, il tocco delle loro mani. Abbiamo scoperto l’online, che ci è stato molto utile per mantenere i contatti con i nostri associati, ma l’online non è relazione e non la crea e l’AC o è relazione o non è».

Venendo al presente, che AC eredita in Diocesi?

«Come detto, veniamo da un periodo difficile e l’AC ne è uscita, direi, un po’ sfiancata, appesantita, ha imparato ed assunto, forse in modo un po’ acritico, nuove modalità comunicative. Dobbiamo tener presente che il modo in cui comunichiamo esprime il nostro essere e non è del tutto indifferente rispetto alle relazioni che creiamo. Soffriamo, inoltre, come tutto il mondo associativo, di una crisi nell’assunzione di ruoli di responsabilità. Ma eredito anche un’AC tenace, che non si dà per vinta, che è consapevole della bontà e del valore del proprio mandato nella Chiesa e nel mondo. Un’AC che pur in mezzo a tante difficoltà e fatiche è pronta a rinnovarsi per essere utile ed efficace strumento di testimonianza della presenza del Signore in mezzo a noi».

E invece che AC intende costruire nei prossimi anni? Quali proposte avanzerete?

«Viviamo in quello che molti hanno definito un mondo “liquido”, la pandemia ci ha instillato la paura dell’altro, i nuovi mezzi di comunicazione ci fanno essere in contatto con tutti, ma non ci fanno conoscere nessuno, abbiamo perso molti punti di riferimento senza averne trovati di nuovi altrettanto efficaci. Il mio desiderio è quello di un’AC che, forte delle proprie radici e tradizioni, sappia leggere con efficacia e amore il tempo in cui è chiamata a vivere, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini e tutte quelle persone a cui, per qualsiasi motivo, vengono negati i diritti fondamentali. Desidero un AC che sappia donare, ancora, ai giovani la speranza che il futuro si può scrivere e che anche loro hanno una penna in mano. Spero che sappiamo guidare la nostra gente a riappropriarsi del proprio tempo, perché troppo spesso siamo presi “dall’affanno” e non sempre scegliamo la parte migliore. Desidero e spero che si riesca a fare tutto questo lavorando insieme a tutte le altre realtà ecclesiali con le quali l’AC già collabora da anni e che nel rispetto dei carismi di ognuno si crei quel poliedro che rappresenta la realtà vitale della Chiesa».

Quali sono le grandi sfide che l’AC diocesana dovrà affrontare nei prossimi anni?

«Qui si potrebbero dire molte cose, ma ne indicherò una, che a mio avviso se non le racchiude tutte, ne comprende però molte. Sappiamo bene che la realtà della nostra Diocesi è costituita, a parte poche eccezioni, da piccole comunità, i paesi della nostra campagna tendono a spopolarsi ed inoltre soffriamo della carenza di sacerdoti. Ora di fronte a questo scenario il nostro Vescovo ci ha indicato la strada delle Unità Pastorali. Ritengo che le Unità Pastorali debbano diventare il metro per un profondo ripensamento del modo di essere dell’associazione. Attenzione, però, questa non è una mera questione organizzativa, ma è un modo nuovo di incarnarsi nel territorio, un modo di leggere le esigenze del popolo da una prospettiva diversa. Ancora, è un modo nuovo di collaborare con i nostri pastori, ci è chiesto di assumerci delle responsabilità in una prospettiva più ampia, di essere, insomma, corresponsabili nella vita della Chiesa».

Infine, i giovani: diversi di loro sono stati eletti nell’Assemblea dell’11 febbraio scorso. Soffrite anche voi il ricambio generazionale? E chi sono i giovani della nostra AC diocesana? Come vivono l’appartenenza all’AC e alla Chiesa?

«Difficile parlare della realtà giovanile in poche parole, esprimerò un mio parere generale consapevole della sua assoluta opinabilità. Innanzitutto, è vero, anche noi soffriamo del ricambio generazionale e i giovani che passano in AC sono i giovani che noi vediamo per le strade della nostra città e dei nostri paesi. Dobbiamo, però, dire che in AC si fa un’incredibile esperienza di intergenerazionalità che ha pochi eguali. Ritengo che non esista una questione giovanile in sé, come spesso si dice, ma esiste una questione giovanile perché legata ad una questione del mondo adulto. Molti giovani si sono disaffezionati all’impegno in associazione e nel mondo civile perché noi adulti continuiamo a non dare loro fiducia, perché continuiamo a credere che debbano essere eternamente guidati, perché li trattiamo da bambini, e si comportano, quindi, come tali anche se hanno vent’anni. Se noi adulti avessimo il coraggio, almeno una volta, di lasciarci guidare dai giovani, penso resteremmo piacevolmente sorpresi della loro fantasia, della loro forza ed anche della loro lungimiranza. A noi adulti è chiesto di camminare al loro fianco e, se dovessero inciampare, di allungare una mano ed aiutarli a rialzarsi e, senza troppe paternali, riprendere gioiosamente il cammino insieme».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 5 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Ucraini di Ferrara, Pasqua fra tradizione e speranza

29 Mar

La guida degli ucraini cattolici in Diocesi, don Verbitskyy, ci racconta le iniziative per la Pasqua, la raccolta dei farmaci per il Paese in guerra e la prossima accoglienza di 18 bambini ucraini

di Andrea Musacci

Davanti alla nuova iconostasi, che divide il presbiterio dalle navate, sono stati posati alcuni dolci e della cioccolata. Un’offerta che regalerà un sorriso a diversi bambini ucraini, sia in Ucraina sia a Ferrara. Siamo nella chiesa di Santa Maria dei Servi in via Cosmé Tura, a due passi dal Castello. Qui incontriamo la guida dei fedeli cattolici ucraini di rito bizantino, don Vasyl Verbitskyy, per fare il punto sulla sua comunità in vista della Pasqua.

LA GIOIA DELLA PASQUA

Partiamo da come vivranno quest’ultima: la Domenica delle Palme, il Sabato Santo e il giorno di Pasqua «faremo il nostro mercatino pasquale qui sul sagrato della chiesa, con oggetti decorativi fatti a mano dal nostro circolo “Luce da luce”», ci spiega don Vasyl. Il programma della Settimana Santa, invece, prevede lunedì 25 la S. Messa per la Festa dell’Annunciazione del Signore. Dopo la liturgia del Giovedì Santo, il Venerdì Santo vedrà alle ore 14 i Vespri e l’esposizione della Sindone. Per l’occasione, la chiesa sarà aperta giorno e notte fino a sabato sera, quando alle 21.30 inizierà la Veglia di Pasqua, a cui seguirà la Messa e la benedizione dei cestini pasquali. «Questi cestini tradizionali – ci spiega don Vasyl – contengono un pane dolce» (rotondo, simile al nostro panettone), «uova naturali, burro, formaggio, carne, salumi»: vale a dire, tutto ciò che, preparato dalle famiglie, verrà da loro consumato per la colazione del giorno di Pasqua, «perché la notizia della Resurrezione è arrivata la mattina presto». L’agnello, invece, non fa parte della tradizione pasquale ucraina. Il giorno di Pasqua, poi, vi sarà la Messa mattutina alle ore 10 e quella pomeridiana alle ore 14.30 con la benedizione dei cestini.

Sul pane dolce prima citato: si chiama artos, dal greco, ed è un pane santo, benedetto, che viene avvolto in un’icona circolare con l’immagine del Cristo Risorto, come detto nel Vangelo: «Io sono il pane vivo» (Gv 6, 51), «il pane nuovo che ci invita a fare la comunione e che – prosegue don Vasyl – poi viene lasciato esposto in chiesa per una settimana, fino alla prima domenica di Pasqua, quando verrà diviso e dopo la Messa distribuito tra i fedeli presenti come simbolo della Resurrezione del Cristo». Sull’icona che lo avvolge è scritto: «Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita», come recita un canto del rito bizantino.

DOLORE E CARITÀ PER L’UCRAINA

Dal 6 al 12 febbraio scorsi, si è svolta anche a Ferrara e provincia la Giornata di Raccolta del Farmaco a cura del Banco Farmaceutico. Per l’occasione, alla comunità cattolica ucraina ferrarese sono stati donati 293 farmaci per un valore economico di 2.439,85 euro, parte dell’importante donazione di farmaci da parte del Banco Farmaceutico dal febbraio 2022 per i profughi ucraini in Italia. «I farmaci donatici – ci spiega don Vasyl – li abbiamo inviati in un ospedale di Lyman nel Donbass e in parte donati alle cinque mamme ucraine residenti nel Ferrarese che hanno figli al fronte: queste, li han fatti a loro volta recapitare ai loro ragazzi che combattono per difendere la nostra patria». Si tratta di antidolorifici, bende e garze. «Solo Cristo può aiutarci a sopportare questa guerra», ci dice don Vasyl. «Dobbiamo continuare a pregare per la giusta pace». Intanto, i furgoncini da Ferrara continuano a portare regolarmente in Ucraina anche farmaci specifici richiesti, vestiti, prodotti per l’igiene personale e alimentari «a familiari di nostri parrocchiani, persone che vivono in Ucraina e si trovano in difficoltà economica».

PREGHIERA, FUTURO E SPERANZA

Oltre alla carità, al centro della comunità cattolica ucraina vi è la preghiera. Nella Veglia serale dell’Annunciazione del Signore – prosegue don Vasyl – «le “Madri in preghiera” pregheranno per i loro figli in Ucraina. Ringraziamo Dio perché quest’anno festeggiamo i 15 anni del gruppo a Ferrara», gruppo di cui don Vasyl dallo scorso ottobre è coordinatore e guida spirituale a livello nazionale. Inoltre, «la Veglia dell’Annunciazione è una liturgia per noi particolarmente importante perché è stata la prima Messa della comunità cattolica ucraina qui a Ferrara, nel 2001». Dal ricordo all’avvenire, che non può non essere intessuto di speranza e vive anche nella carne dei più giovani: per questo, a fine maggio, per una settimana, «ospiteremo nella nostra comunità 18 bambini ucraini provenienti dall’Oratorio “Gloria” di Drohobych», nell’oblast’ di Leopoli. Il gruppo teatrale di quest’oratorio farà uno spettacolo nella nostra città il prossimo 31 maggio o 1° giugno (mentre il 30 maggio lo spettacolo si terrà nella Diocesi di Adria-Rovigo, la cui comunità cattolica ucraina di rito bizantino è diretta dallo stesso don Vasyl). Questa settimana di ospitalità riguarda bambini orfani o i cui genitori sono al fronte ed è resa possibile grazie al nostro Arcivescovo e alla Fondazione Migrantes, con l’aiuto anche della vicina parrocchia di San Benedetto. 

Proseguendo, domenica 2 giugno, continua don Vasyl, «festeggeremo i primi 5 anni del nostro circolo ricreativo “Luce da luce”». Inoltre, il prossimo 12 maggio, Festa della mamma, «il coro della nostra comunità ferrarese canterà nella Basilica di Santa Sofia a Roma per il raduno degli ucraini cattolici che vivono in Italia». Nel nostro Paese, l’Esarcato Apostolico per i fedeli cattolici ucraini di rito bizantino comprende 150 comunità, fra cui la nostra di Ferrara. Una grande famiglia unita nel Cristo Risorto, sofferente per la guerra nel proprio Paese ma salda nella fede e nella speranza.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cattedrale, racconto di una giornata indimenticabile

27 Mar
Foto Sergio Isler

Circa 1200 persone si sono ritrovate sabato 23 marzo per la storica riapertura. Un grande evento di popolo che vi raccontiamo nei dettagli, con le voci e i volti dei presenti e di alcuni dei protagonisti

Lo scorso 23 marzo, Michele aveva appena 8 giorni di vita. Nato venerdì 15, è di sicuro il più giovane partecipante alla storica riapertura della Cattedrale di Ferrara. I suoi genitori gli racconteranno della sua prima Messa nel Duomo riaperto, nella difficoltà a farsi strada fra quelle persone piene di gioia e curiosità. Michele è il simbolo della nostra Cattedrale, di cui ognuno si prende cura, per cui ognuno ha uno sguardo amorevole, colmo di speranza.

Sabato 23 marzo a Ferrara per lo storico evento erano previste 500 persone oltre ai 192 coristi e ai 50 sacerdoti e diaconi. Invece, di soli fedeli, ne sono arrivati circa 1200, la stragrande maggioranza dei quali in Duomo, gli altri all’esterno a seguire sul maxischermo. Necessari, quindi, sono risultati anche i quattro piccoli schermi all’interno, sulla navata destra, per le persone in fondo e per chi, coperto dai pilastri, non poteva vedere o non vedere bene il presbiterio.

All’apertura dell’edificio alle 17, numerose persone erano già sul sagrato in fremente attesa. Ad accoglierli una Cattedrale luminosa e tirata a lucido, con i pannelli della mostra “Il cantiere della Cattedrale”, precedentemente disposti ai lati della navata centrale, ora tutti tra la navata centrale e quella di sinistra, chiusa quasi integralmente per il cantiere. L’area cantierata sul sagrato, nei giorni precedenti il 23 è stata ricoperta da pannelli dedicati ai “Tesori nella pietra” (il nome del documentario dedicato ai capitelli riscoperti), col rosso della stessa mostra all’interno, a voler indicare una continuità con questa. Di nuovo, sono state riempite le acquasantiere e ricollocati, dai pilastri della navata destra, quasi tutti i confessionali. Impeccabile il servizio d’ordine, con 27 volontari di Comunione e Liberazione e 15 scout di AGESCI (l’intero Consiglio di Zona) e MASCI. Un libretto per seguire la liturgia, e ricco di immagini, è stato realizzato dall’UCS diocesano. Presenti diverse autorità: oltre al Sindaco di Ferrara e ad alcuni della Provincia, il Prefetto Massimo Marchesiello, il Questore Salvatore Calabrese, il presidente della Provincia Gianni Michele Padovani, l’ex Ministro Patrizio Bianchi, l’ex Soprintendente ai Beni Culturali Carla Di Francesco, l’Assessore regionale al Bilancio Paolo Calvano, vari rappresentanti delle Forze dell’ordine.

LA CERIMONIA

La cerimonia – trasmessa anche in diretta sul canale You Tube dell’UCS diocesano, dov’è rimasta la registrazione – è iniziata con la liturgia per la Domenica delle Palme nel cortile dell’Arcivescovado, già animato ben prima delle 17.30, ora di inizio. Tanti i giovani e i giovanissimi con le palme in mano (fra cui 25 provenienti da Comacchio e guidati da don Giuliano Scotton), e tante le persone con i rami di ulivo, la cui distribuzione è stata (anche il giorno successivo) a cura dell’Unitalsi diocesana, presente il 23 con una 50 di volontari fra cui una 15ina di Hospitalier di Lourdes. E allora si parte: ammonizione del Vescovo, Orazione e Benedizione sui rami d’ulivo, ascolto del Vangelo, avvio della Processione. Un corteo, questo, simbolo di ciò che è la Chiesa: corpo vivo e in cammino dentro la città e, al tempo stesso, segno visibile di luce distinto dal mondo.

Giunti in una Cattedrale già gremita (con, sulla porta d’ingresso, due poliziotti in alta uniforme), dopo l’orazione Colletta, la lettura della Passione di Marco (capp. 14 e 15). Lettura a tre voci, questa, con il diacono seminarista Vito Milella a prestare la voce al Cristo, Villi Demaldè come cronista, Cristina Scarletti e Alberto Natali per la folla e i vari personaggi. Le letture, invece, sono state a cura di Rinnovamento nello Spirito, con Patrizia Mazzoni e Alessandro Brandani. Dopo l’omelia dell’Arcivescovo e la Professione di fede con il Simbolo degli Apostoli, alcuni rappresentanti di AC e Scout hanno portato all’altare i doni per il sacrificio eucaristico. Al termine, la processione verso l’Altare della Madonna delle Grazie, patrona dell’Arcidiocesi e della città. Prima, i ringraziamenti da parte dell’Arciprete mons. Massimo Manservigi.

IL RITORNO DEI CAMPANARI

La giornata del 23 marzo ha rappresentato anche una gioia per le orecchie di tutti i ferraresi: le campane del Duomo, infatti, sono tornate a suonare a festa fin dalle ore 16, e lo stesso durante la Domenica delle Palme, e di nuovo il giorno di Pasqua. I Campanari Ferraresi guidati da Giovanni Vecchi e Francesco Buttino hanno dovuto, però, suonare solo a scampanio (non a distesa o doppio), per motivi di sicurezza, visti i lavori ancora in corso sulla struttura. Ci tengono a ringraziare, per questa opportunità, mons. Zanella, a capo dell’Ufficio Tecnico diocesano.

TESTIMONIANZE

Il 23 erano presenti anche diversi fedeli della comunità ucraina di Ferrara. «Poco prima della chiusura del Duomo nel 2019 – ci racconta la loro guida don Vasyl Verbitskyy -, ho festeggiato il Natale del 2018 in Duomo, celebrando assieme a mons. Perego. In questi cinque anni mi è mancato non poter celebrare più qui». Tanti fedeli ucraini, a Ferrara sono arrivati, profughi, dopo l’invasione russa del 2022: per loro, quindi, quella del 23, è stata la prima Messa nella nostra Cattedrale. Lo stesso si può dire per le ragazze della comunità di Shalom di stanza a S.Giorgio fuori le Mura, visibilmente emozionate per lo storico evento.

Angela, invece, di ricordi qui ne ha tanti, come la Giornata annuale per il tesseramento di AC l’8 dicembre, mentre Sergio ha memoria di quando, bambino, qui faceva il chierichetto. Enrichetta, poi, ci racconta degli ingressi dei nuovi Vescovi e dell’indimenticabile visita di papa Giovanni Paolo II. 

E a proposito di memoria, chi non ha un caro ricordo di mons. Andrea Turazzi, Vescovo dimissionario di San Marino-Montefeltro ed ex parroco del Corpus Domini e della Sacra Famiglia, presente e concelebrante in questo storico giorno…; o di padre Giovanni Di Maria, ex parroco francescano di Santo Spirito, che non ha voluto mancare a questo appuntamento così importante.

GUARDIAMO AL FUTURO

Il giorno dopo, il 24 marzo, Domenica delle Palme, alcune migliaia di persone sono entrate in Duomo fin dalle prime ore: alle 8, la prima S. Messa è stata presieduta da mons. Antonio Bentivoglio. Le altre, da mons. Ivano Casaroli (ore 10), don Giovanni Pertile (ore 11.30, in servizio anche nella vicina chiesa del Suffragio), mons. Renzo Benati (ore 17.30), don Marcello Gianoli (ore 19). Così sarà ogni domenica. 

Il futuro, dunque, è iniziato, lo sguardo è rivolto all’avvenire. Come quello dei genitori del piccolo Michele, con cui abbiamo aperto questo articolo. Ora c’è solo il futuro nel Signore, l’attesa e la costruzione, ogni giorno, del bene per il piccolo Michele, per il nostro grande Duomo, per ogni donna e uomo della nostra comunità.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Memoria e Incontro col Dio vivente: riflessione su Emmaus

25 Mar

Lectio divina su Emmaus il 21 marzo a Casa Cini per la Scuola di teologia per laici. Relatrice, Francesca Pratillo

L’Incontro che cambia la vita, la memoria del Dio vivente che vince sulla disperazione del sepolcro. Lo scorso 21 marzo a Casa Cini si è svolta la nuova lezione della Scuola di teologia per laici, “Una lectio divina su Emmaus” (questo il titolo) tenuta da Francesca Pratillo, biblista della comunità paolina di Arezzo.

Questi i prossimi incontri della Scuola (sempre alle ore 18.30): 11 aprile, “Ridire il kerigma attraverso l’arte”, Jean Paul Hernandez SJ (solo on line); 12 aprile, “Qualche parola prima dell’apocalisse, leggere il Vangelo in tempi di crisi”, Adrien Candiard op;2 maggio, “Prendersi cura dell’altro: l’ospite che non diventa ostaggio”, padre Claudio Monge;9 maggio, “Istituire comunità”, Stefano Rigo; data da destinarsi, “Arte del celebrare. Solo ritualismo?”, don Giacomo Granzotto. In via di definizione anche una data per la presentazione dell’ultimo libro di Timothy Radcliffe, “Il Dio delle domande”.

SE LA SPERANZA TORNA NEL CUORE

Il cammino come luogo centrale, «luogo dell’incontro e dell’annuncio» inEmmaus: da qui è partita Pratillo per la sua riflessione. «Anche noi, quindi, «dobbiamo essere camminanti, pellegrini, con poche sicurezze». E nel brano in questione, a una prima «linea discendente» – il cammino dei discepoli dal Calvario alla parte più bassa della Giudea, «simbolo del punto più basso della loro esperienza» – seguirà una «linea ascendente» – col ritorno pieno di gioia a Gerusalemme. Tra la disperazione e il ritorno alla comunità, c’è l’incontro con Gesù, «la Sua massima vicinanza». 

Tutto il brano di Emmaus – secondo Pratillo – si gioca quindi sulla scelta tra «memoria» e «sepolcro», cioè tra «memoria della Parola del Cristo, Parola vivente», e «ricordo triste, pessimista», sepolcrale.Quest’ultimo è per i discepoli di Emmaus il «simbolo del loro fallimento». Per loro, infatti, il Crocifisso non è Risorto, non credono alle parole delle donne dopo esser state al sepolcro. «Tra loro si scambiano parole, non la Parola»; però sono in cammino. SaràGesù,Parola vivente ad avvicinarsi a loro, a farsi compagno di viaggio, chiedendo – come chiede a ognuno di noi – di «fermarsi, di stare in silenzio, ascoltando anche la propria tristezza». Gesù chiede loro «ospitalità», ci invita ad avere «fede nella Parola», a non perdere, come i due discepoli, la speranza. Ma l’invito – «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» – è chiaro, com’è evidente ciò che sentono quando lo riconoscono «nello spezzare il pane». Nel cuore dei discepoli, dunque, è «nata una novità, il gusto per le Sacre Scritture che in Gesù diventano Parola di Dio per svelare il mistero della morte e dell’amore, del dolore e della gioia». Gesù – sono ancora parole della relatrice – «spezza il pane della propria vita, donando amore, spezza la propria vita per ognuno di noi». E Gesù «sparì dalla loro vista», affidando a loro e a ognuno di noi la «responsabilità del Vangelo». Ora i discepoli «hanno ripreso forza, la speranza è tornata nei loro cuori. Possono tornare alla loro comunità perché hanno incontrato Gesù».

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La vita in grembo non appartiene né alla madre né allo Stato né alla tecnica», diceva Guardini nel 1949

15 Mar

Le parole profetiche scritte dal teologo: «l’elevatezza di un’istanza assoluta» non può venir meno per un giudizio «di utilità o danno»

di Andrea Musacci

«Quell’essere umano che matura nel grembo della madre è tutt’altro che un’escrescenza qualsiasi la cui estrazione può solo giovare», «non è semplicemente “corpo della madre”, non ne è una parte»: «esso è profondamente unito a tutto l’essere della donna e all’ethos della sua esistenza» senza però «dissolversi in esso». Queste parole pronunciate nel 1949 dal teologo Romano Guardini (pubblicate in “Il diritto alla vita prima della nascita”, Morcelliana, 2005) colpiscono per la loro lucidità e franchezza, oltre che per la ragionevolezza del contenuto che portano. E risuonano con ancora di più in questi giorni nei quali è ancora forte l’eco della «vittoria delle donne» per l’inserimento del diritto di aborto nella Costituzione francese.

«Tutti coloro che cooperano al «divenire di un individuo», prosegue Guardini, «anzitutto i genitori e lo Stato, ne sono responsabili. Non debbono forse, in certe circostanze, rappresentare l’interesse dell’essere non ancora indipendente, anche per ciò che attiene alla sua presenza fisica?». Ciò significa una cura e una tutela maggiore, quella necessaria per l’esistenza quando è più indifesa. Per questo, abortire un essere ai primi stadi del suo sviluppo, rappresenta per Guardini «la distruzione (…) di ciò che dovrebbe venir salvato». Il teologo era sempre impeccabile nell’uso attento delle parole; ma ciò non toglie loro una certa potenza. In questo caso, conseguenza anche dell’incubo nazista da poco conclusosi. «Nella misura in cui l’uomo usciva dalla barbarie – scriveva Guardini -, emerse sempre più chiaramente il principio che afferma: non è lecito toccare la vita dell’uomo finché non ha commesso un delitto per il quale è fissata, secondo il diritto vigente, la pena di morte, oppure finché non attacca un altro uomo che può salvarsi soltanto uccidendo l’aggressore (…). Non è [quindi] lecito distruggere la vita dell’essere umano che matura nel grembo materno, poiché non ha commesso nessun delitto, né ha posto un altro uomo in stato di legittima difesa». «Non appena (…) viene a mancare il principio assoluto» della sacralità della vita («l’elevatezza di un’istanza assoluta», la definisce Guardini), «e al suo posto subentra un giudizio pratico di utilità o danno, tutto va a rotoli»: diventa cioè «impossibile farsi un’idea di quali minacce possano sorgere per la vita e l’anima dell’uomo, se, privo del baluardo di questo rispetto, viene consegnato allo Stato moderno e alla sua tecnica». 

E infine – logica conseguenza -, sul tema dell’obiezione di coscienza all’aborto, Guardini fa una riflessione radicale ma più che mai realistica e attuale: se l’aborto è un diritto assoluto della donna (tanto da inserirlo in una Carta costituzionale, possiamo aggiungere ora), la sua applicazione dev’essere portata avanti a ogni costo. Anche contro la volontà di terzi: «il singolo medico può rifiutarsi, se però si verificasse il caso limite che tutti i medici disponibili si rifiutassero, lo Stato dovrebbe costringerne uno». Parole da non dimenticare.

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Non c’è alternativa alla politica: ben vengano Scuole come la vostra»: Casini a Ferrara

13 Mar

Il sen. Pierferdinando Casini è intervenuto a Casa Cini. Intelligenza artificiale e Ius scholae fra i temi trattati. «La politica è necessaria, servono più luoghi di formazione. Impossibile l’unità dei cattolici»

Un incoraggiamento a proseguire nella creazione di luoghi di formazione politica, sempre più necessari, è venuto dal Sen. Pierferdinando Casini (foto Alessandro Berselli), intervenuto la sera dell’8 marzo scorso a Casa Cini, Ferrara, per la seconda lezione della Scuola diocesana di formazione politica. Casini arriva puntuale in S. Stefano, accompagnato da una leggera pioggia, e con al collo una sciarpa rossoblù del Bologna, sua squadra del cuore. Ad attenderlo una 70ina di persone (30 nel salone di Casa Cini, le restanti collegate on line) per ascoltare uno dei volti più noti della politica italiana, da 41 anni in Parlamento, fino al 2008 spalla centrista del centro-destra, poi alla ricerca di uno spazio autonomo al centro (con scarsi risultati) e infine alleato del centro-sinistra col suo movimento “Centristi per l’Europa”. Europa che è stata la grande assente di un confronto comunque vivace e pieno di spunti di riflessione.

«C’È BISOGNO DI LUOGHI DI FORMAZIONE»

«Più volte ho sollecitato anche il card. Zuppi», ha esordito Casini, interpellato dalle domande di Marcello Musacchi (foto di Alessandro Berselli): «vanno pensati nuovi luoghi per la formazione politica» perché «oggi non esistono più i partiti», quei luoghi «dove un tempo si formavano persone preparate. Proprio oggi parlavo di questo con Dario Franceschini», vecchio “compagno” nella DC. Oggi i partiti sono diventati «partiti personali», da qui i «forti sbalzi elettorali». Oggi dunque bisogna «sollecitare le università» (con master e corsi ad hoc) «e le Diocesi» a proporre iniziative di formazione politica. Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale, del web, «dell’ipermodernizzazione, non si è trovato un sistema alternativo alla politica per far partecipare la collettività», ha detto. Bisogna quindi «ricostruire un tessuto di motivazioni partendo dalla consapevolezza che non c’è alternativa alla politica». E una buona politica è possibile «se riusciamo a innervare in questa attività le migliori energie e i migliori propositi per costruire una società diversa». Bene, quindi, «una scuola di formazione politica come la vostra, scuola che deve giovare all’intera società, non a una parte o all’altra, e non deve avere come fine la nascita di una forza politica cattolica: le idee dei cattolici devono fermentare ovunque», ha aggiunto il senatore. Cattolici che, per loro natura, «devono guardare al futuro, ai più bisognosi», e quindi «sentire una motivazione più forte degli altri per partecipare alla vita politica». 

IL POTERE E IL COMPROMESSO

Nessun cedimento alla nostalgia, quindi. La prima Repubblica appartiene ormai a un altro mondo: «l’unità politica dei cattolici – ha riflettuto – era resa possibile dal timore di finire nell’orbita del comunismo sovietico. La DC rappresentava quindi un baluardo per garantire la libertà. Una storia andata avanti fino al 1989, anche se in realtà ben prima dell’’89 l’unità politica dei cattolici non esisteva più. Oggi – sono ancora sue parole – non è più ipotizzabile un partito che raccolga tutti i cattolici, la loro divisione è un dato acquisito», ma tutti i cattolici, a prescindere dalla collocazione, «dovrebbero sentire maggiormente la spinta a rendere migliore la politica». E dovrebbero farlo «con laicità, sapendo fare i giusti compromessi, come fu nel caso della legge sull’aborto: d’accordo i cosiddetti principi non negoziabili, ma in un’assemblea legislativa devi per forza negoziare». Stando sempre attento a non perderti: «il potere è un’illusione ottica, logora chi ce l’ha» (ha detto, “correggendo” Andreotti), è «una droga, una fuga dalla realtà. Le cose che rimangono sono altre, sono i valori veri, il rapporto coi propri figli. Quando nel 2001 venni eletto Presidente della Camera – ha raccontato -, dopo 30 telefonate da persone potenti (fra cui quella di Gianni Agnelli), decisi di chiamare alcune persone del bolognese che conoscevo, per me importanti, come il postino e alcuni agricoltori».

La politica si deve quindi «nutrire di progetti per il futuro, anche se la memoria non va rimossa, ma conosciuta e preservata». Soprattutto per le nuove generazioni: «oggi i giovani fanno molta più fatica a orizzontarsi, c’è molto smarrimento, e la stessa Intelligenza artificiale (le cui conseguenze non riusciamo ancora a immaginare) rende molto più condizionabile l’opinione pubblica. Anche per questo, anche per regolamentare l’Intelligenza artificiale, oggi serve la politica».

L’ATTUALITÀ: DALLO IUS SCHOLAE AI RISCHI PER LA DEMOCRAZIA

E a proposito di temi specifici, Casini ha risposto a una domanda sullo Ius soli, ricordando come lo difese già nel lontano 2001 per poi invece da alcuni anni preferire la formula dello Ius scholae, «perché con lo Ius soli c’è il rischio che molte donne vengano in Italia per partorire e ottenere la cittadinanza». In ogni caso, dare la cittadinanza a giovani stranieri che studiano nelle nostre scuole è importante soprattutto «per coinvolgerli in un destino comune». E integrazione, per Casini, significa anche avere «il coraggio (ma oggi in Italia è impopolare) di costruire moschee nelle città, spazi controllati da forze dell’ordine che eviterebbero la clandestinità di luoghi di preghiera fai-da-te negli scantinati». Rispondendo poi alle diverse domande e riflessioni provenienti dai presenti, Casini ha trattato vari temi fra cui l’immigrazione («il Mediterraneo oggi è una bomba atomica ma l’Italia nel Mediterraneo non conta più nulla»), la pace («si costruisce con la politica» e «la difesa dell’Ucraina oggi è fondamentale anche per difendere la nostra civiltà»), i rischi per la democrazia occidentale (da Trump alla Cina), l’utero in affitto («a cui sono contrarissimo, anche se il politicamente corretto non prevede il diritto di critica»). Chiusura con i valori fondamentali a cui un cattolico in politica non può rinunciare: «serietà, onesta e coraggio». E il «non deprimersi quando si è in basso e non esaltarsi quando si è in alto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Il sapere come luce e fuoco: Massimo Recalcati a UniFe

11 Mar
Foto Alessandro Berselli

L’intervento dello psicanalista al nuovo Polo Didattico di Cona per l’inaugurazione dell’anno accademico: «la formazione sia spazio di luce, fuoco, valore del nome proprio». I disagi dei giovani

A cura di Andrea Musacci

«Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo»: ha preso le mosse da queste parole di Goethe, Massimo Recalcati, noto psicoanalista e docente universitario, per la sua prolusione lo scorso 6 marzo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 dell’Università degli Studi di Ferrara. «Il movimento dell’eredità è sempre un movimento in avanti, pur nella fedeltà alla tradizione», ha proseguito. «Io adoro gli inizi, i battesimi, i matrimoni, lo sbocciare dei fiori, tutto ciò che prende vita. Ma affinché qualcosa possa cominciare, non deve mai smettere di incominciare», sono state ancora sue parole. Da qui, la citazione di Gentile sull’insegnare come continuo apprendere, «ricominciare ogni volta per evitare il rischio terribile della ripetizione senza sorpresa». 

«NAUFRAGIO DELLA PAROLA» E NOME PROPRIO

Parafrasando, poi, un passo de “La peste” di Camus, Recalcati ha detto: «oggi l’università deve “saper restare”, essere cioè un punto di riferimento in un’epoca di forti crisi». Epoca nella quale assistiamo al «naufragio della parola», dove cioè «la parola non ha più peso». Nell’università, quindi, oltre a una necessaria «anima-dispositivo» fatta di regolamenti, burocrazia, valutazioni, algoritmi e numeri, deve avere cittadinanza il «nome proprio»: «chiamare per nome è un atteggiamento di cura», il nome – con la «singolarità storta» che rappresenta – è «eccentrico» rispetto al numero, lo eccede sempre. I luoghi della formazione così intesi non possono che essere «luoghi della luce, dove si fa esperienza della luce, dove cioè si allarga l’orizzonte del mondo».

DALLA «TOSSICOMANIA» AL RIFIUTO DELLA VITA

L’opulenta e spesso vuota società contemporanea, però, crea nel mondo giovanile due forme di disagio: una, prevalente più nell’era pre covid, che Recalcati definisce «disagio neo-libertino», causato dall’idea che «tutto è possibile», con una «sregolazione pulsionale, del consumo e l’assenza di vincoli e legami». Una «tossicomania» non solo legata al consumo di droghe ma a una vera e propria «idolatria delle cose», una «sacralizzazione degli oggetti che desacralizza la vita». A questa si è aggiunta, dopo il covid, una nuova forma di disagio, un suo «rovescio malinconico»: quello dei giovani che «rifiutano la vita, si ritirano da essa», le cui camere diventano «bunker». Una «pulsione securitaria» che fa vedere «l’altro come una minaccia, l’aperto come fonte di angoscia». D’altra parte, però, oggi assistiamo anche a un «uso inflattivo della psicologia» e a una «medicalizzazione di ogni aspetto della vita», con un «abuso della diagnosi» ad esempio in ambito scolastico, che fa anche «identificare le nuove generazioni come vittime, porgendo così ai giovani alibi per sentirsi sempre giustificati».

C’È BISOGNO DI FUOCO

I giovani, invece, hanno bisogno di «una formazione intesa non tanto come una scala da salire ma come un fuoco»: hanno bisogno, cioè, di «qualcuno o qualcosa» (un insegnante, un libro, ad esempio) «che li scotti, che li accenda», che accenda la loro passione.

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Fine vita, il dolore estremo chiede compagnia e ci rimanda alla trascendenza

8 Mar

Eutanasia dal Belgio all’Emilia-Romagna: riflessioni sulla falsa pietà e l’autentica cura

di Andrea Musacci

Appena una settimana fa, in Belgio la Commissione federale di controllo e valutazione dell’eutanasia ha pubblicato i dati aggiornati: nel 2023 i casi di eutanasia certificata sono stati 3.423, il 15% in più rispetto al 2022 e il 3,1% di tutti i decessi (rispetto al 2,5% nel 2022). Ci spostiamo di poco geograficamente, e dai dati passiamo a una notizia: l’ex premier olandese (in carica dal 1977 al 1982, all’epoca del Partito cristiano democratico) Dries van Agt e sua moglie Eugenie, hanno chiesto e ottenuto l’eutanasia di coppia. Un fenomeno, quest’ultimo, in crescita nei Paesi Bassi (dove dal 2002 – come in Belgio – esiste una legge sull’eutanasia e il suicidio assistito): la Commissione di vigilanza Rte informa che nel 2022 sono state accolte quasi il doppio delle richieste di coppie. In totale 29: nel 2019 furono 17, nel 2020 13, e 16 nel 2021.

È utile partire dai dati di Paesi vicini dove l’eutanasia è permessa da molto più tempo, per renderci conto di quel che può essere il futuro anche nel nostro Paese se vengono fatte scelte come quella dell’Emilia-Romagna. Terra, questa, «sazia e disperata», come il card. Biffi definì il suo capoluogo Bologna.

Fa tremare le vene ai polsi il constatare, quindi, come nelle nostre società avanzate il morire si stia riducendo a un passaggio medico-burocratico fra i tanti. Una scelta come le altre, una rivendicazione estrema, assurda legata al falso principio del benessere: «Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo», scriveva San Giovanni Paolo II in “Evangelium vitae (EV 64). Perciò, «l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». Così, proseguiva papa Wojtyła, «nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone» (EV 66).

Pur nella sempre estrema pietà verso chi compie il gesto estremo, va ricordato come questo innanzitutto «comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi» (EV 66). Su questo riflette anche il filosofo Fabrice Hadjadj: «l’amore per la propria vita è il fondamento dell’amore per la vita altrui: se non amo me stesso, se detesto la vita, a quale scopo soccorrere il prossimo?» (in “Farcela con la morte”, 2005). Va contro il prossimo, dunque, e contro se stessi. È il non darsi nessun’altra possibilità: «Il suicidio è un assassinio più intimo, senza possibile pentimento, mentre ogni altro omicidio lascia il tempo per un’eventuale conversione (…). Colui che voleva poter fare tutto senza limiti si condanna a non poter fare più nulla. Con il suicidio pretende di liberarsi di tutto, invece si riduce a niente», prosegue Hadjadj.

Ma come scriveva Giovanni Paolo II, «la domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno» (EV 67). E la speranza per sua natura è un salto oltre la logica e il peso del dolore. È sempre speranza di qualcosa che non riusciamo a scrutare. Ancora Hadjadj: «vedere tutto nell’orizzonte della padronanza significa chiudersi all’incontro, all’imprevisto, all’altro». E all’Altro: «La morte rimanda a una trascendenza, e io» col suicidio «cerco di metterla al livello dei miei ragionamenti». Al contrario, «colui che parla dal pulpito dell’agonia lascia un insegnamento indimenticabile, anche se ridotto a un pietoso battito delle palpebre. È più vivo di ogni altro, ricorda agli altri l’imminenza della morte e l’esigenza della speranza (…). In  quell’ultima ora l’uomo giacente è un tabernacolo».

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è consolazione (e verità sul male e la sofferenza)

2 Mar

La lezione di don Paolo Bovina sul testo di Giovanni per l’8^ lezione della Scuola di teologia

Nell’immaginario comune, il termine “apocalisse” è sinonimo di distruzione totale. Non è così: deriva, infatti, dal latino apocalypsis e dal greco apokálypsisοcioè “rivelazione, svelamento, manifestazione”. Ce lo ha ricordato il biblista e sacerdote dell’UP Borgovado don Paolo Bovina in occasione della lezione della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”, che ha ripreso lo scorso 22 febbraio a Casa Cini, Ferrara. “Le sette chiese, una lettura pastorale di Apocalisse” il titolo dell’intervento, cui seguirà, allo stesso orario, giovedì 29 febbraio, la lezione “Esperienze di custodia dell’umano” con relatrice sarà Maria Teresa Spagnoletti (l’incontro si svolgerà esclusivamente on line).

«Apocalisse è un libro estremamente simbolico, dove ricorre spesso il numero 7, numero della completezza», ha detto don Bovina. Di conseguenza, le sette lettere alle Chiese vanno interpretare come «lettera alla Chiesa nella sua totalità». «Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù» (Ap 1,9):già dall’inizio si comprende l’approccio del libro. In Giovanni, «non vi è solo la sofferenza, c’è anche una risposta positiva a questa. Il cristiano si distingue per come affronta una situazione di sofferenza.Seguire Cristo non significa non avere difficoltà nella vita, ma cambiare atteggiamento davanti a queste».La perseveranza, infatti, è «conseguenza della speranza:cristiano è chi custodisce nel proprio cuore la speranza di Gesù, senza lasciarsi andare alla disperazione, non abbandonando la gioia». Il fine di Apocalisse è quindi quello di «consolare, di ricordare che andiamo verso la Gloria». Di conseguenza, ha proseguito don Bovina, «la tribolazione non può essere motivo per non testimoniare la propria fede».Anzi, inApocalisse la tribolazione «è la situazione migliore per evangelizzare». Il periodo di Apocalisse, lo ricordiamo, è quello dell’Impero romano, in Asia Minore: qui, il culto a Dio non era vietato ma si doveva sottometterlo a quello dell’imperatore.«Oggi – secondo don Bovina – non siamo molto distanti da una situazione del genere: ad esempio, se domani verrà meno l’obiezione di coscienza come possibilità in casi quali l’aborto, un medico sceglierà l’ingiusta legge dello Stato o la legge di Dio («non uccidere»)?». 

Giovanni in Apocalisse «parla alla luce di un’esperienza contemplativa dello Spirito, della preghiera, non da una sua opinione, da un suo prurito.Parte dall’ascolto dello Spirito». La preghiera non è, dunque, «una fuga dal reale» ma, al contrario, «ciò che ci permette di scavare in profondità nella vita quotidiana, nel reale, per capire anche il domani». Il Signore si rivolge a Giovanni «nell’intimità più profonda», così come conosce la Chiesa nel suo profondo. «La Parola ci è vicina, ma la sente solo chi, col cuore, vuole ascoltarla. E ascoltare porta con sé una fiducia in una promessa, in qualcosa che hai udito e non vedi». Non bisogna, perciò, fare come la Chiesa di Sardi che «dorme, non vigila», non è cioè «cosciente di ciò che gli accade attorno». Da questa «purificazione tramite la Parola di Dio», poi, in Apocalisse si arriverà all’apertura del cielo e della liturgia. Insomma, questo libro ci dice che «il male non ha l’ultima parola. Il male va riconosciuto e combattuto ma nella speranza che non trionferà». Apocalisse è un libro sulla consolazione più grande.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

“Casa dei Bambini”: alla Sacra Famiglia la «scuola della felicità»

2 Mar

Abbiamo visitato la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia a Ferrara. Metodo Montessori per un ambiente di cura e gioia, improntato al senso di responsabilità. E ora anche attento ai bisogni di diversamente abili e anziani

di Andrea Musacci

Quello che può sembrare un piccolo progetto, dice invece molto del luogo che lo accoglie e delle persone che lo hanno voluto e sostenuto. 

Da quasi 70 anni in via Recchi, una traversa di via Bologna a Ferrara, dietro la chiesa (ora anche Santuario mariano) della Sacra Famiglia, c’è la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini”. Lo scorso 24 febbraio è stata presentata alla stampa la nuova piattaforma per disabili e anziani con difficoltà motorie, che rappresenta il primo passo di un progetto più ampio intitolato “Scuola accesso facile – Per la disabilità motoria”, per abbattere tutte le barriere architettoniche, interne ed esterne, dell’edificio. Per l’occasione, erano presenti il parroco don Marco Bezzi, il vicario don Thiago Camponogara, Alessandro Atti (Consiglio Affari economici parrocchiale), Marianna Pellegrini della Fondazione Estense (che ha dato un importante contributo per l’acquisto) e tre delle quattro insegnanti della scuola: Angela Artioli, Franca Parisotto (che ne è anche la Direttrice) e Lara Mazzetto (la quarta insegnante, da poco arrivata, è Antonella Bertolino).

«Per ora non abbiamo persone disabili» (che siano alunni, insegnanti o genitori) – ha spiegato don Bezzi -, «ma in futuro potrebbero esserci: vogliamo essere preparati». La piattaforma è stata installata (e collaudata lo scorso 13 dicembre) a fianco della scala nel cortile d’ingresso su via Recchi, quindi in funzione dal piano di calpestio al piano rialzato. «L’anno prossimo faremo montare un’altra piattaforma nella parte posteriore della struttura», prosegue il parroco, nel cortile dove i bambini giocano e dove le prime suore domenicane fecero costruire una cappella-grotta mariana. Questa ulteriore piattaforma permetterà di scendere alla mensa nel piano interrato e di salire al piano rialzato.

Come accennato, la piattaforma è stata realizzata da “Ferrara ascensori” con l’importante contributo di Fondazione Estense (13 mila euro su 18.500 totali), grazie all’Associazione tra Fondazioni di origine bancaria dell’Emilia-Romagna, per l’acquisto, la progettazione, l’installazione, il collaudo e la sicurezza. Viene aperta e attivata solo da un operatore incaricato, per impedire che i bambini, giocando nel cortile, possano essere “tentati” di manovrarla.

“CASA DEI BAMBINI”, UNA GRANDE FAMIGLIA

La Scuola Materna “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia è parte dell’Opera Nazionale Montessori ed è aggregata alla FISM (Federazione italiana Scuole materne) di Ferrara-Comacchio. Attualmente ospita 75 alunni fra i 3 e i 6 anni di età, di cui la metà straniera (originari di diversi paesi africani, profughi dall’Ucraina, provenienti da Albania, Romania, Moldavia, Iran, Pakistan e Cina) e alcuni di loro musulmani. La Casa dei Bambini è sorta nel 1952 per volontà dell’allora parroco don Adriano Benvenuti e avviata nel ’56 con l’arrivo delle Suore Domenicane della Beata Imelda. Suore che, fin da subito, hanno improntato il loro servizio educativo sulla metodologia didattica di Maria Montessori ideata da lei stessa all’inizio del secolo. Una delle prime suore domenicane alla Sacra Famiglia, suor Fernanda Bersani, fu proprio un’allieva di Maria Montessori.

Attualmente l’edificio è progettato per contenere fino a 150 bambini, e per il pranzo accoglie anche una 60ina di piccoli del doposcuola. Al piano interrato ci sono la sala mensa e la cucina attrezzata, al pian terreno il salone con altre sale e al primo piano, la palestra, il dormitorio (entrambe con le pareti disegnate nel 2017 da suor Alma) e una cappella usata dalle suore, per la Messa mattutina del sabato e per le preghiere con i bambini. Il menù è sempre appeso sulla porta d’ingresso della scuola, affinché i genitori possano sapere cosa i figli mangiano.

Quattro le sezioni – l’ultima aperta nel 2022 – e diverse le donne impegnate nel servizio di pulizia e in mensa, oltre alle tre suore domenicane tuttofare: le filippine suor Marilla, suor Cristina e suor Helen della Congregazione Domenican Daughters of the Immaculate Mother, impegnate nella portineria, nell’accoglienza, nell’insegnamento della lingua inglese, nell’aiuto per il pranzo, nell’accompagnamento dei bimbi per il riposino pomeridiano.

Una scuola montessoriana, quindi, con un’identità ben precisa e con un metodo – ci spiega don Bezzi, «che sempre più scuole stanno adottando, anche nel nostro territorio». Grazie al metodo Montessori, infatti, «il bambino è incentivato a scoprire affiancato dalle maestre, pensata come una sorella maggiore. Qui non esistono cattedre e tutto l’arredamento è ad altezza bambino». A 4 anni iniziano a prendere confidenza con la scrittura, i numeri pari e dispari fino al 10 e la geografia, anche attraverso strumenti come le lettere sensoriali, giochi sonori o colorati. Sono attrezzature costose, molte delle quali presenti – e ancora in perfetto stato – dal ’56. «Il gioco lo scelgono loro, non gli viene imposto», proseguono le maestre. «Questo non significa che c’è anarchia, ma silenzio e rispetto». Ed educazione alla responsabilità: è frequente vedere i bimbi più grandi aiutare i più piccoli, insegnare loro piccole cose, o alcuni di loro, bardati col grembiule bianco, servire ai tavoli durante il pranzo. “Una mano attaccata alla ringhiera e una dietro alla schiena quando si sale le scale”: anche questo viene insegnato alla Casa dei Bambini. Piccoli gesti che fanno crescere donne e uomini grandi, educati e attenti agli altri. «Il bambino non è una scatola vuota da riempire ma una mente pensante, che fa domande», ci spiega ancora don Bezzi. «Qui le maestre devono parlare sottovoce, stare con loro, non dire al bambino “hai sbagliato” ma provare assieme per far crescere la fiducia in sé stesso». 

Le insegnanti della vicina scuola primaria “Mosti” su via Bologna – ci spiega il parroco – «non a caso ci dicono sempre che i bimbi provenienti dalla nostra scuola quando arrivano da loro sono già scolarizzati». Questa è la «scuola della felicità», dice spesso don Marco ai piccoli della scuola. E loro annuiscono, perché questa gioia la vivono, la sentono. Non è qualcosa che viene loro insegnato, ma semplicemente testimoniato.

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio