Tag Archives: Arte

«Convocato all’avvenire»: la luce divina di Paolo Baratella

5 Dic

90 anni fa nasceva un artista ferrarese forse ancora troppo sottovalutato: lo vogliamo ricordare in particolare nelle sue realizzazioni sacre: l’affresco per la Sacrestia del Duomo di Ferrara e il Risorto per la chiesa di Santa Francesca Romana

di Andrea Musacci

Del tempo e dell’eterno, fra le altre cose, parlava l’artista Paolo Baratella in un’intervista all’amico Gian Pietro Testa, circa 20 anni fa1. E proprio del tempo dobbiamo trattare, col tempo misurare e misurarci, ma coscienti che quest’abito artificioso, kronos, ci sta stretti, noi creature elette alla dura e sublime veste dell’Eterno. Dura finché chiusa fra le maglie terrene, noi che «ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro»; ma già capaci di un abbandono di quel che verrà, nel Dio vivente e veniente, attraverso forme che, pure tali, rompono il gioco del kronos: le forme dell’arte. E Baratella questo lo sapeva bene, cristiano inquieto ma capace di abbandonarsi nella dolce luce della fede.

Lo vogliamo ricordare a 90 anni dalla nascita e in occasione della mostra dedicata in questo periodo a Ferrara proprio a quel suo sopracitato e quasi coetaneo amico, Far luce nel buio: Gian Pietro Testa tra giornalismo d’inchiesta, poesia e arte. Mostra nel quale compare anche Baratella (ne parliamo a pagina 10).

Baratella ha fatto ritorno al Padre il 3 marzo 2023, quando nel Castello Estense a lui era dedicata l’apertura e la menzione alla carriera del IX premio internazionale della Fondazione VAF, alla presenza della figlia Silvia Baratella e di Vittorio Sgarbi. Nove mesi prima, il 31 maggio 2022, in Biblioteca Ariostea e introdotto da Lucio Scardino, aveva presentato il suo libro autobiografico Davanti allo specchio.

Tante le sue mostre in Italia e all’estero nel corso di una vita, ma qui vogliamo ricordare quando esattamente dieci anni prima di morire, nel 2013, aveva dipinto il Risorto nella chiesa ferrarese di Santa Francesca Romana e nel 2006 gli affreschi della sagrestia della Cattedrale.

Ma prima alcuni accenni biografici.

DALLA CITTÀ «FANTASMATICA» A MILANO (CON RITORNO)

Baratella nasce a Bologna il 5 luglio 1935 da genitori ferraresi e trascorre l’infanzia nella città felsinea, in via Lame. Il negozio del papà sarto in via Zamboni è al servizio del regio esercito. Nel 1940 con la famiglia torna a Ferrara, in via Bellaria, 10, casa dei nonni materni; così la racconterà in una poesia2: «mondo-cortile / di via Bellaria numero dieci / immensamente grande / luogo di accanite osservazioni, / sguardi, miraggi / all’interno e oltre / i tanti muri impassibili, / inaccessibili confini / di mondi-giardini / al di là. / Giardini sognati / e mai visti, / luoghi di sogni proibiti». Poco dopo, all’età di 6 anni, decide che sarà un pittore.

Nella sopracitata intervista all’amico Testa racconterà così quel turbinio ancora confuso ma vivo, vivissimo della sua infanzia e adolescenza: «La tragedia della guerra, lo sfollamento, i rifugi antiaerei, le bombe, i bengala, le buche scavate nella terra per nascondersi, le grandi passioni trasmesse dal burattinaio Forni (…), la compagnia teatrale Doriglia-Palmi con quella Passione e Morte di Cristo fatta di vapori e sangue di pomodoro con l’uomo respirante sulla croce, e Gigetto il gelataio di vicolo Ocaballetta [vicino alla chiesa di S. Spirito, ndr] con i sontuosi carri di cigni e draghi (…): realtà che negli occhi del fanciullo che ero, costituirono la valle della visione, il mondo dello stupore, la tensione delle forti emozioni legate alla lotta per la sopravvivenza: scuola di estetica, di forme e di contenuti». E ancora: «L’immensità della chiesa di S. Spirito» – dove di fronte, a Palazzo Calcagnini, civico 33, aveva abitato il giovanissimo De Pisis -, «gli addobbi per le grandi festività…stupore, estraniazione, sospensione del tempo, portati dentro come tono esistenziale nei viaggi di attraversamento della città misteriosa, schiacciata dal sole furente, fantasmatica nella nebbia profumata di bagnato, i trasalimenti per le prospettive immaginate e viste, quando cavalletto, cartone, colori e pennelli sostavo vergognoso, un po’ nascosto, là dove queste prospettive si disegnavano». E poi i maestri a Schifanoia, veri maestri della giovinezza.

Ma la vita per il giovane Paolo è altrove, nel cuore del boom economico, dove il dedalo degli affari e degli scambi culturali brulicano giorno e notte: dal 1960 inizia così ad vivere e ad esporre a Milano e in altre città italiane ed europee (fra cui Londra, Parigi, Berlino). Risale al 1961 la sua prima personale nel capoluogo lombardo. Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 1974 e 1994 è alla Biennale di Milano, nel 1986 e 1999 espone alla Quadriennale di Roma e nel 1992 alla Triennale di Milano. Tra la città meneghina (dove dal ’92 al 2002 sarà anche docente all’Accademia di Belle Arti di Brera) e Lucca vivrà gli ultimi anni, e a Lucca si spegnerà. Ma mai conobbe quella alterigia capace di allontanarlo dalla sua piccola città di provincia, che anzi – come accennato – arricchirà.

L’AFFRESCO NELLA SACRESTIA DELLA CATTEDRALE

L’affresco a secco realizzato nel 2006 su incarico del Capitolo della Cattedrale (allora presieduto da mons. Nevio Punginelli) nella nuova Sacrestia della Cattedrale merita di essere raccontata – per quanto possibile – a fondo e grazie anche alle voci di suoi amici, collaboratori, ammiratori. L’opera di Baratella occupa il soffitto cuspidato della Sacrestia realizzata negli anni ’90 dopo la demolizione da parte delle bombe alleate dell’antico edificio sul lato di piazza Trento e Trieste.

Nel suo testo contenuto nel libro La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, mons. Punginelli raccontava di quando un giorno l’allora Vicario Generale diocesano mons. Giulio Zerbini gli disse, in mano un bozzetto per una vetrata istoriata: «”Cosa ne dici?, l’architetto [Caro Bassi, ndr] vorrebbe qualcosa per abbellire la Sacrestia. C’è un certo Paolo Baratella, l’architetto lo conosce, è ferrarese ed è stato mio ragazzo quando ero in Azione Cattolica. Ai campiscuola ogni tanto si isolava e lavorava con i suoi colori…è un poco estroso…maniaco della pittura ma molto bravo”». Poi la malattia, e la morte (nel 2001), colpiscono mons. Zerbini. Nel suo testo nello stesso libro3, proprio Bassi spiega: mons. Zerbini «ebbe il piacere e la consolazione di vedere le prime fasi dello studio condotte dal pittore: una piccola mostra di bozzetti fu allestita in occasione della benedizione dei locali e ne fu soddisfatto e commosso». 

E lo stesso Bassi nel 2006 su Ferrara. Voci di una città dedica un altro bell’articolo all’opera di Baratella nella Sacrestia; questo un passaggio: «Il suo cielo è squassato da venti impetuosi di azzurro intenso che generano le figurazioni e danno loro sostanza quasi fosse il vento dello Spirito che soffia dove vuole e rende la forza materica della croce dominante su tutto». Sarà lo stesso Bassi a consigliare di far richiesta di accesso a un finanziamento europeo per la sistemazione della zona absidale e per la decorazione della Sacrestia.

È don Massimo Manservigi a intervistare Baratella sulla nostra Voce del 4 marzo 2006 (con servizio fotografico di Luca Pasqualini), poco prima della conclusione dell’opera: «Mons. Zerbini è rimasto subito convinto del progetto che ora si è realizzato, del quale ha potuto vedere in opera solo la vetrata», raccontava Baratella. «Il dipinto l’ho iniziato ai primi di ottobre e non posso negare che al principio è stato molto difficile, mi ha procurato ansia ed emozione (…). Quando sono arrivato per iniziare l’opera mi sono reso conto che la struttura quadripartita non funzionava più, lo spazio doveva diventare un tutt’uno, un unico atto di fede capace di abbracciare l’unico mistero della vita di Cristo in diverse tappe. Infatti la fede vuole che si creda contemporaneamente all’Annunciazione e alla Resurrezione, al valore salvifico della Croce e al peccato originale. Così ho risolto il problema trasformando il soffitto in una cupola, con alcuni accorgimenti pittorici, accentuando le linee curve per dare una sensazione di movimento e molteplicità di linee di forza».

E così descrive la sua opera: «Partirei dall’Annunciazione che resta sopra all’ingresso ed è rappresentata da una Madonna fortemente ispirata a Cosmé Tura (…). In ordine orario segue la Natività con i simboli dell’Agnello mistico, una testa di San Giovanni, San Giuseppe, l’Angelo glorificante e l’arrivo dei Re Magi (…). A seguire la Crocifissione, ai cui piedi stanno il serpente, Adamo ed Eva da un lato, e la Pietà dall’altro: la causa della crocifissione e le sue “conseguenze terrene”. L’ultimo quadro rappresenta la “conseguenza divina” della crocefissione ovvero la Resurrezione (…). Ai lati del Risorto due Angeli, specularmente, indicano con una mano il Cristo risorto e con l’altra noi, spettatori, creature terrene». Sotto il dipinto c’è una scritta: «Si tratta di stralci di una preghiera di Giovanni Paolo II a Maria. Sono stati scelti dall’architetto Bassi».

In conclusione spiega: «È la prima volta che concludendo un lavoro sento di essere “convocato all’avvenire”. Mi ritengo un privilegiato perché avverto come questo lavoro sia per i posteri».

IL MISTICISMO DI BARATELLA

Ma dove nasce in lui questo legame col sacro? «E giù a dipingere in un solaio al n. 8 di via Montebello, a parlare le notti di Kante Nietzsche, mentre turbamenti mistici continuavano a minacciare l’integrità dell’atleta ciclista, alla ricerca solitaria di Dio».

Così racconta sempre all’amico Testa4 della sua iniziazione al rapporto con Cristo: le radici – parla di sé in terza persona – «affondano lontano, quando quel ragazzo ferrarese, stupito, estraniato e sospeso, nell’odore di incenso della chiesa di S. Spirito, alla vista del Cristo morto nell’urna sotto la grande pala raffigurante il crocifisso tra panneggi viola, oro e neri della quaresima, rimuginava pensieri metafisici. Il trascendente allora prendeva forma nella fantasia (…). Mise ordine in queste suggestioni e rapimenti mistici l’allora don Giulio Zerbini, divenendo mio maestro e fratello maggiore (…). Decisi di abbandonarmi e di farmi trasportare dalla fede nella verità, nei percorsi così insidiosi, predisposti da me (…), in quella “zona” che è l’anima. Alcune volte non sono arrivato alla luce che scaturisce dal luogo più recondito della “zona”, che è la stanza dove risiede il nocciolo duro della realtà. Ma altre volte mi è accaduto di entrare e finalmente con il segno dell’immaginazione arrivare a scrivere la “cosa”: aletheia, verità. Con questo atteggiamento, sottomesso alla più grande angoscia, mi sono disposto a realizzare l’affresco nella Sacrestia della Cattedrale di Ferrara».

Questo sguardo religioso glielo riconosceva il poeta e scrittore Roberto Pazzi5, parlando dell’affresco della Sacrestia: «Si avvertiva in quelle grandiose figure l’afflato del credente, di colui che non gioca con gli elementi figurali del Cristianesimo come fossero figure dei tarocchi, indifferente alla loro più intima significazione. Non era insomma il laico a tenere in mano quel pennello, ma il convinto cristiano della nostra inquieta postmodernità». 

Dello stesso affresco don Franco Patruno diceva6: «È come un roveto, lo scintillio di colori e i voluttuosi e mai circoscritti contorni (…)». E così invece descriveva Barbara Giordano questo capolavoro di bellezza7: «L’impressione è quella di una stanza illuminata dalla luce a tratti crepuscolare di un camino dimenticato acceso, solo più tardi ti accorgi che quella luce fatta colore, prende la forma di poche e decise figure, che non si lasciano indovinare dietro una fumosa cortina, ma penetrano lo spazio architettonico per disegnare una maggiore ariosità».

QUELLA PICCOLA PAROLA

È il 2013 quando Baratella realizza, nel periodo pasquale, la sua opera pittorica dedicata al Cristo Risorto nell’aula battesimale della chiesa di Santa Francesca Romana, in via XX settembre a Ferrara. Così il parroco don Andrea Zerbini, in memoria dell’amico artista, sulla Voce del 17 marzo 2023 lo ricordava: «Un grazie di vero cuore al maestro Paolo Baratella, scomparso lo scorso 5 marzo, perché continuerà a ricordarci lo splendore del Cristo Risorto e con essa quella della sua vita, il suo sentire di artista che le sue mani hanno mescolato, fissato, impresso insieme ai colori sulla grande tela del risorto dai morti (2,65 x 1,75 metri), le cui mani segnate da ferite gloriose hanno tratto fuori dallo Sheol, dal grande e irreversibile abisso, con Adamo, l’intera umanità. Era il 2013, appena terminato il restauro del battistero ad opera dell’arch. Andrea Malacarne, al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale».

A Gian Pietro Zerbini su La Nuova Ferrara lo stesso Baratella raccontava: «Mi hanno particolarmente colpito le figure giottesche dei meravigliosi affreschi di Sant’Antonio in Polesine, il monastero che si trova a due passi dalla chiesa di Santa Francesca. Ho studiato per mesi anche il volto del Cristo che nei disegni di Sant’Antonio appaiono in trequarti, mentre a me serviva di fronte. Diciamo che mentre nella realizzazione degli affreschi della sacrestia del Duomo mi sono ispirato all’Officina ferrarese del Quattrocento, per questo quadro del Cristo ho avuto interessanti spunti dalla pittura giottesca ferrarese».

E sempre nel 2013, Baratella rilascerà per la nostra Voce del 12 aprile 2013 un’intervista a don Andrea Zerbini; così il pittore ci raccontava la sua opera: «Risorto, parola minima per dire tutta l’intensità dello sforzo umano per arrivare alla luce. Così ho pensato al Cristo che con forza sbuca dai subtettonici recessi, scardinando le porte che dividono il chiaro dallo scuro, l’inganno dalla verità, travolgendo il demonio menzognero, trascinando con sé alla luce i Padri dell’umanità. Non c’è parola più simbolica e satura di significato attivo, veniente, arrivante, risorgente, che questa piccola parola: RISORTO».

Non poteva esserci maniera migliore per concludere il ricordo di questo artista così unico nel panorama ferrarese contemporaneo.

*

NOTE

1 – Dall’intervista a G.P. Testa contenuta in La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, a cura di Carlo Bassi,Editrice Ariostea, 2006.

2 – Dalla poesia Via Bellaria, presente nel catalogo Baratella prima di Baratella, Studio d’arte Dolcetti, 2011 (catalogo edito in occasione dell’esposizione presso il Centro Frau di Ferrara, 29 gennaio-27 febbraio 2011, a cura di Angelo Andreotti).

3 – La Storia della Salvezza di Paolo Baratella nel Duomo di Ferrara, op. cit.

4 – Idem.

5- Idem.

6 – Idem.

7 – B. Giordano, Come in una nuova Officina Ferrarese, la Voce di Ferrara-Comacchio del 4 marzo 2006.

*
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

Abbònati qui!

Francesco trasfigurato da Cristo: a San Giorgio la mostra di Ciaramitaro

20 Set

“Dal dolore alla lode” è il nome della personale di pittura esposta nel chiostro dal 27 settembre al 5 ottobre. La nostra intervista all’autore 

di Andrea Musacci

Il 27 settembre, in occasione della Giornata Mondiale del Turismo, il chiostro della Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita l’inaugurazione della mostra di pittura dal titolo “Dal dolore alla lode. Il canto trasfigurato di Francesco” con opere di Carmelo Ciaramitaro. Alle ore 18, S. Messa presieduta da mons. Massimo Manservigi e alle 18.50 inaugurazione della mostra nel chiostro con intervento dello stesso mons. Manservigi (Vicario Generale e Direttore dell’Ufficio diocesano Comunicazioni Sociali), alla presenza dello stesso Ciaramitaro. La mostra sarà visitabile a ingresso libero fino al 5 ottobre dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 18.30.

Abbiamo rivolto alcune domande a Ciaramitaro, 39enne di origini siciliane che vive a Ferrara da circa un anno, è laureato in Teologia presso la facoltà pontificia San Giovanni Evangelista e ha seguito anche il corso di licenza in Teologia sacramentale. Sono diverse le esposizioni personali negli ultimi anni: fra queste, alla galleria francescana internazionale nel Santuario di San Damiano in Assisi, alla Pinacoteca Caracciolo a Fulgenzio nel leccese, nel Museo Diocesano di Terni. Attualmente è in corso una personale itinerante al Santuario di Chiesa nuova in Assisi (mostra che a breve esposta nel Museo Diocesano di Acireale).

Carmelo Ciamaritaro
Carmelo Ciaramitaro

Ciaramitaro, quando e dove ha iniziato a dipingere?

«La pittura è nata con me. La considero un dono di Dio; dono affinato attraverso alcuni corsi iconografici. Tuttavia la densità espressiva la devo più alla mia storia personale e al mio percorso di fede che agli studi compiuti».

Si definisce un artista di arte sacra?

«Sono un artista prevalentemente d’arte sacra e in particolar modo di ispirazione  francescana. Vivo il mio talento  come una missione dedita alla bellezza della dimensione trascendente insita nell’uomo. L’arte sacra è sicuramente veicolo immediato, direi sensoriale, del rapporto con il divino».

Leggi qui l’intervista integrale.

(Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 settembre 2025)

Nicola Sebastio scultore di Dio

3 Set

Ritratto dell’artista morto 20 anni fa, vissuto a lungo a Milano ma cresciuto tra Codigoro e Lagosanto: un maestro di arte sacra e liturgica. Ecco la sua vita e la sua “teologia estetica”, oltre all’amicizia con Paolo VI e don Barsotti

di Andrea Musacci

«Il vero futuro deve realmente “arrivare” a noi da Dio: in quanto “nuovo cielo e nuova terra” in cui si manifesta l’essenza delle cose; in quanto “nuovo uomo” formato a immagine di Cristo. Questa è la nuova esistenza in cui tutto è manifesto, in cui le cose stanno nello spazio del cuore umano e l’uomo irradia la sua essenza nelle cose. Di quest’essere nuovo parla l’arte». Queste parole di Guardini(1) penso introducano al meglio la missione dello scultore Nicola Sebastio, di cui il 5 settembre ricorrono i 20 anni dalla morte. Nato a Bologna, ma vissuto perlopiù a Milano, Sebastio in gioventù abitò anche a Codigoro e Lagosanto. Ripercorriamo brevemente la sua esistenza e il suo cammino al Destino, dove arte e incontro con Cristo si intrecciano.

I PRIMI 30 ANNI

Sebastio nasce il 21 marzo 1914 da Carlo, medico condotto di origini tarantine, e da Elena Zani, modista di origini svizzere. Ha un fratello più piccolo, Cataldo. La famiglia va a vivere prima a Codigoro (in via XX settembre, 18) – dove Nicola a 18 anni esegue i suoi primi ritratti di gente del luogo – poi dal ‘24 a Lagosanto. Nel ‘32 Nicola si diploma al Liceo Artistico di Bologna, allievo di Giorgio Morandi, e nel ‘36 in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Torna poi a Lagosanto, dove mantiene stretti rapporti con i suoi amici Rino Guidi e don Guido Cinti. Qui, nella chiesa di Santa Maria della Neve esegue, negli anni, diversi lavori, fra cui la lunetta esterna, dove nel ‘38 colloca un cotto raffigurante la Madonna che regge il piccolo Gesù, Sant’Appiano e San Venanzio di Camerino. Fra le sue mostre, la prima è del ‘39 quando espone nella collettiva Mostra Sindacale d’arte nel Castello di Ferrara, poi nel ’42 partecipa alla mostra nazionale di G.U.F. nella Casa della Gioventù in c.so Giovecca, e l’anno successivo a un’altra collettiva di ferraresi a Diamanti. 

DALL’EGITTO A MILANO

Nel ‘40 – anno in cui parte per la guerra e viene fatto prigioniero in un campo di concentramento inglese in Egitto, esperienza che sarà decisiva per la sua vita – insieme a don Cinti progetta la Madonna di Lourdes, con Santa Bernadette, per la facciata della Casa della Gioventù a Comacchio. Nel ’53 realizza un busto in marmo raffigurante Pio XII per il Seminario di Comacchio, mentre nel ‘58 dà vita alle 14 stazioni della Via Crucis e negli anni ‘60 sperimenta – fra l’altro – la tecnica del mosaico raffigurando nell’abside il Cristo Pantocratore. Fra fine anni ’40 e fine anni ’60 a Milano realizzerà diverse opere, fra cui nel ‘53 la statua di San Giovanni Battista De La Salle, posta sopra la prima guglia della facciata del Duomo (per cui realizzerà anche un tabernacolo portatile) e altre per la chiesa di Dio Padre. Nel ‘58 alla Pro Civitate Christiana di Assisi viene premiato alla collettiva sul tema Gesù Divino Lavoratore, nel ’65 per la chiesa Sant’Anna di Bologna crea il fonte battesimale progettato insieme al card. Lercaro e nel ‘70 riceve il prestigioso premio Madonnina d’oro, vinto quell’anno anche da Ungaretti. Nel ‘66 muore il padre e Nicola ne disegna e modella la tomba monumentale. Nonostante vivrà stabilmente a Milano, tornerà spesso a Lagosanto, Comacchio e Porto Garibaldi, per dar vita a diverse altre opere. Aderisce anche al Gruppo Arte e Comunità, nato a Milano a fine anni ’70, unendo artisti di generazioni e sensibilità diverse ma uniti dalla fede(2).

SUL COMODINO DI PAOLO VI

Negli anni ‘60 Sebastio – racconta don Dolz(3) – iniziò a realizzare «bronzetti di modeste dimensioni come opere finite. Usava una tecnica grumosa, figlia delle versioni previe in terracotta o gesso, di potente plasticità. (…) Fece dono di uno di questi a Paolo VI» che il 29 maggio del ‘70 festeggiava il 50° di ordinazione sacerdotale. «Il papa gli fece arrivare un caldo ringraziamento e mons. Pasquale Macchi lo conservò nella collezione di opere moderne. In quegli anni scriveva spesso a Paolo VI con I’intento di raccontargli delle attività con artisti cristiani. Papa Montini lo conosceva come persona e come artista da quando era arcivescovo di Milano». Per esempio, all’inaugurazione della chiesa di Sant’Eugenio, racconta Sebastio(4) «celebrando la messa, il cardinale notò un mio crocifisso sopra il tabernacolo. Era un crocifisso stretto e alto, piantato sulla pietra. Espresse il desiderio di averlo». Quando fu eletto papa, «si portò via questo crocifisso che tenne sempre sul comodino della sua camera da letto (…)».

GLI ULTIMI ANNI

Nel 2000 il Palazzo Arcivescovile di Ferrara ospita la sua personale La Croce e la speranza, organizzata dal Centro Culturale L’Umana Avventura e già esposta nel 1980 alla I^ edizione del Meeting di Rimini. Nel 2004, invece, Giglio Zarattini, mons. Samaritani e Laura Ruffoni curano a Palazzo Bellini a Comacchio una sua mostra sul tema del Crocefisso. Nel 2005, dopo la sua morte (avvenuta pochi mesi dopo quella della moglie), nasce l’Associazione Amici di Nicola Sebastio. Nel 2012 a Palazzo Bellini viene riservato uno spazio esclusivo per diverse sue opere, alcune di esse ora sparse in sale dell’edificio. Nel 2014 gli vengono dedicate due mostre, una a Pomposa, l’altra a Comacchio. Sebastio torna alla Casa del Padre il 5 settembre 2005, all’età di 91 anni, otto mesi dopo la morte di Maria Mazzoleni (morta il 6 gennaio), la sua «sposina cara, sposina bella» come teneramente la chiamava, con cui era convolato a nozze nel ’47: «Maria – racconta l’amico don Dolz(5) – si ammalò gravemente nel 2001. (…) Ormai terminale, fu trasferita in un hospice ad Abbiategrasso. Nicola passava le ore accanto al suo letto e lì, su un normale foglio A4 e con la biro azzurra, fece il disegno più drammatico della sua vita, sua moglie in punto di morte».

DON DIVO, FRATELLO

Oltre a CL, Sebastio nella sua vita si interessò ai Focolarini, a Rinnovamento nello Spirito e ai Domenicani e fu attivo nel Serra Club. Ma in generale «era attaccato alla Chiesa in tutte le sue varie dimensioni e realtà. Mantenne un rapporto filiale con i vescovi, in particolar modo col cardinal Martini, con il quale scambiò corrispondenza fino alla fine»(6). Il legame più forte, però, era quello con la Comunità dei figli di Dio fondata da don Divo Barsotti, nato un mese dopo Sebastio (il 25 aprile ’14) e morto pochi mesi dopo (il 15 febbraio 2006): «Con Barsotti ci furono rapporti molto stretti, sia sul piano religioso che artistico. Ne è rimasta la fitta corrispondenza». Il 18 luglio ‘62 Barsotti compiva 25 anni di ordinazione «e i suoi figli spirituali gli prepararono alcuni “regali”. Sebastio disegnò e fece confezionare un calice dalla coppa semplicissima, liscia, giocata sulla perfezione della curva, appena mossa da piccole pietre incastonate ritmicamente. E si premurò di fare anche la custodia per il calice, un’arca a capanna, come i reliquiari medievali, sbalzata con scene dell’Epifania»(7). L’anno prima, nel ’61 – raccontò(8) – «partecipai agli Esercizi Spirituali dell’UCAI (Unione Cattolica Artisti Italiani, ndr) a Campo Morone (GE) predicati da padre D. Barsotti (…) e mi portò a Settignano (FI)» alla Casa di San Sergio, «dove mi ordinò un San Sergio di Radonez»: «p. Barsotti mi diede il Cantico di San Sergio nella luce della Trinità. Dopo cena andai nella mia stanza per riposare e sul letto cominciai a leggere e a declamare il Cantico della Trinità. Lo lessi più volte velocemente, poi una zanzara si posò sulla mia mano sinistra, la schiacciai, e da lì, dalle ali divaricate, disegnai le tre Fiamme dello Spirito Santo centrate dal sole, col nome di Gesù Cristo. La mattina dopo Don Divo stupito approvò e mi ordinò il rilievo per l’esterno della Cappella della Comunità dei figli di Dio. Mi ordinò pure la croce gloriosa col Cristo Risorto, il Tabernacolo e i tre simboli della Trinità».

LA CROCE E LA PENTECOSTE

«Vuol dirci perché fa l’artista?»

«Per dire una parola che possa servire anche agli altri. Perché la mia scultura, nel suo limite, possa manifestare il mistero cristiano agli uomini». (…) La «fede degli italiani è troppo di carattere devozionale. La massa non arriva a capire il Cristo che racchiude in sé tutto (…). Occorre ridare alla gente il senso pasquale». In questo passaggio di un’intervista che Sebastio rilasciò nell’ottobre del ’66 a Famiglia cristiana(9) emerge bene come il centro dell’esistenza di quest’artista fosse chiaro: Gesù Cristo. E la Croce, intesa non solo come simbolo della Passione ma della Redenzione, cuore della storia universale.

In un altro testo(10), prima di ripercorrere la storia del simbolo della croce dal 4000 a. C. (con la Croce di Tepe Siyalk, conservata al Museo di Teheran), Sebastio scriveva: «La Croce riassume in sé tutto il mistero della redenzione. Per la Bibbia la croce è l’albero della vita, al centro del Paradiso Terrestre, che a sua volta rappresenta il centro del Mondo(11). (…) Vediamo come sia attuale e necessario testimoniare la resurrezione di Cristo con la croce gloriosa – proseguiva – e come questa possa contribuire a ridare luce, sollievo, gioia all’umanità angosciata di oggi».

Dalla gloria del Cristo Risorto, Sebastio arriverà – in un profondo cammino personale – al senso della Pentecoste. Quell’estate sopracitata del ’61 Sebastio sarà anche a Friburgo; raccontò(12): «Da poco ho capito la Pentecoste, il tempo di Pentecoste, il tempo nel quale i cristiani, come nuovi apostoli, dovrebbero far lievitare cristianamente la società che li circonda. Spesso ciò non avviene, perché il nostro maggiore nemico è in noi, nella nostra superbia di europei portatori di civiltà, dimentichi della frase del Vangelo: “Gli ultimi saranno i primi”. La netta sensazione di ciò l’ho avuta al recente Convegno del Segretariato Internazionale degli Artisti Cattolici dipendente da Pax Romana, tenutosi a fìne luglio in Svizzera a Friburgo. A Friburgo ho visto la Chiesa, ma l’ho sentita soprattutto per opera dei Cinesi, dei Vietnamiti, degli Africani, di qualche Tedesco dell’Est, degli Irlandesi e di alcuni Svizzeri. In loro il Cristo veramente abitava ed era il centro della loro vita».

Cristo centro dell’esistenza di ognuno verso il comune Destino. E arte come segno di ciò: «Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente escatologica e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà»(13).

***

Grazie per l’aiuto a don Andrea Zerbini (CEDOC S. Francesca Romana), Fosco Bertani (artista amico e allievo di Sebastio), Maria Rosa Sabattini (Comune di Comacchio) e P. Agostino Ziino (Comunità dei figli di Dio).

NOTE

1 – R. Guardini, L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia, 1998.

2 – Vedi Arte e Comunità: come nasce un gruppo, Centro Culturale San Michele, Sala G. Varischi, Cremona, 11-25 maggio 1986.

3 – M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, Medusa ed., 2014.

4 – Ibid.

5 – Ibid.

6 – Ibid.

7 – Ibid.

8 – Arte e fede: intervista a Nicola Sebastio, a cura di Margherita Giuffrida Ientile, 1980.

9 – In M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, cit.

10 – In N. Sebastio, La croce e la speranza alle soglie dell’anno 2000, Centro Culturale La traccia, Galeati, Imola, 1984.

11 – A tal proposito mons. Antonio Samaritani scrisse: «Ebbi una specie di folgorazione quando Sebastio mi fece conoscere il tema della croce di Cristo in versione transculturale, che ritengo sigla fondamentale di tutto il suo organico per quanto articolatissimo iter spirituale e artistico» (in Nicola Sebastio. Un uomo, un impegno: l’arte del sacro, supplemento di Anecdota, Quaderni della Biblioteca L.A. Muratori del Comune di Comacchio, 2004).

12 – Dall’articolo di Sebastio, La mia Pentecoste, in Rivista Liturgica del Centro di Azione Liturgica, Anno XLVIII – n. 5-6 – settembre-dicembre 1961.

13 – R. Guardini, L’opera d’arte, cit.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025

Abbònati qui!

Grazia e dolore nel volto del Crocefisso: Celiberti in mostra a San Paolo

18 Giu
Foto Roberto Targa


L’importante progetto espositivo nella chiesa della Conversione di San Paolo in piazzetta Schiatti a Ferrara. Il 14 giugno un centinaio i presenti per omaggiare il maestro 96enne Giorgio Celiberti: protagonisti, la commozione e la gratitudine

Erano un centinaio i presenti nel pomeriggio di sabato 14 giugno nella chiesa di San Paolo a Ferrara che, sfidando il caldo e l’orario, hanno partecipato all’inaugurazione del progetto espositivo  “I volti della Passione”, con opere di Giorgio Celiberti, artista udinese di 96 anni di fama internazionale. La mostra è stata organizzata dallo Studio Giorgio Celiberti assieme all’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e alla chiesa della Conversione di San Paolo. L’intenso pomeriggio ha visto i saluti del nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e gli interventi di mons. Massimo Manservigi, Vicario Generale e Presidente dell’UP San Paolo-S. Stefano, mons. Stefano Zanella, Direttore Ufficio Tecnico Amministrativo Diocesano, dello stesso Celiberti (visibilmente commosso) e di Romeo Pio Cristofori, Conservatore del Museo della Cattedrale. A seguire, vi è stata la proiezione del documentario “Come il primo giorno” di mons. Manservigi, realizzato con la fondamentale collaborazione di Giovanni Dalle Molle e Giovanni Zardinoni.

Nel documentario, il fil rouge è la commozione davanti ai dolori e alle grazie dell’esistenza: in esso, Celiberti, ad esempio, racconta commosso dello zio pittore Angilotto Modotto, figura centrale nella sua vita, del gatto morto 6 mesi prima perché avvelenato, del libro con i pensieri dei bimbi di Terezin. dell’incontro nel ’48 alla Biennale di Venezia alla quale partecipò, con l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che lo salutò e incoraggiò. Su tutto, il Cristo che sempre l’ha accompagnato e il cui sacrificio «sempre sento vicino»: insomma, una figura «che ho sempre con me, sempre».

IL PATRIARCA E LA CROCE

«Giorgio è il nostro patriarca: ci precede tutti, sia come età sia come spirito e voglia di vivere», ha detto mons. Manservigi parlando di Celiberti. Celiberti che – ha rivelato poi mons. Manservigi – «sta lavorando a una personale interpretazione della Croce di Gerusalemme, con l’intenzione di donarla a Papa Leone XIV il giorno del suo compleanno, il 14 settembre, Festa dell’Esaltazione della Santa Croce». La Croce di Gerusalemme è anche il simbolo dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Ordine che ha visto il 14 giugno a San Paolo la presenza di alcuni suoi rappresentanti da Bologna.

LA MOSTRA

La mostra nella chiesa di San Paolo è visitabile fino al prossimo 6 gennaio il sabato dalle ore 16 alle 19 e la domenica dalle 10 alle 12. Da metà luglio, anche il venerdì, in orari da definire.

L’esposizione, dislocata nei diversi spazi dell’edificio, è pensata come una Via Crucis nelle navate laterali, con 8 bacheche ognuna contenente tre opere raffiguranti il Cristo Crocefisso. Inoltre, all’altare della Madonna del Carmelo vi è il Grande Libro e, nel coro dietro l’altare principale, le 12 Stele (finestre) tra cui alcune dedicate a Terezin. 

ANEDDOTO DEL VESCOVO E INTERVENTO DI DON ZANELLA

Il nostro Arcivescovo, prima del suo intervento (v. il testo integrale a dx) ha raccontato di quando nei primi anni 2000, quand’era Responsabile Area Nazionale per Caritas Italiana, andò a Udine per ritirare un’incisione di Celiberti donata proprio a Caritas Italiana.

Ha preso poi la parola mons.Zanella che ha spiegato come «questa mostra è un’occasione per dimostrare come il nostro Ufficio (Tecnico Amministrativo, che si occupa anche di Beni Culturali, ndr) non è solo un ufficio burocratico ma luogo vivo di idee». In questo «scrigno di arte e architettura, mi auguro che le opere di Celiberti parlino al cuore dei fedeli e dei visitatori». Una mostra, quindi, «che può far vedere a ognuno come ancora sia possibile un dialogo tra Dio, l’arte e la persona».

CRISTOFORI: «CI FA INCONTRARE LA PASSIONE DI CRISTO»

«Celiberti è un artista straordinario, unico», ha poi commentato Cristofori del Museo della Cattedrale. «Se nel silenzio – ha riflettuto – guardiamo con la memoria, la coscienza, l’anima, allora lo sguardo cambia, il cammino ci conduce al volto del Cristo, volto sofferente e carico di dignità, volto che è presenza, volto familiare che sempre ci guarda, che ci è vicino». L’arte, come la fede – ha aggiunto -, ha bisogno di luoghi dove accadere:in questa chiesa, l’opera di Celiberti trova una nuova profondità, si fa memoria, non spettacolo, non racconta ma evoca, ci fa incontrare la Passione», attraverso «un’interrogazione rivolta anche al presente». 

In Celiberti, quindi, «c’è la volontà di trasformare la Storia in segno, in atto poetico», atto che «cerca profondità, tra il segno e la sua resurrezione». 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 giugno 2025

Abbònati qui!

William Congdon, «l’arte è la mia carne nella certezza della resurrezione»

31 Mag

LA PITTURA COME LUOGO DELLA PRESENZA DI DIO. La storia del pittore nato negli USA nel 1912 e morto in Italia nel 1998: un racconto di conversione a Cristo e il suo continuo porre il Crocefisso al centro della tela e della propria vita

di Andrea Musacci

«Il mistero dell’incarnazione nella croce non può essere risolto dialetticamente, sembra dirci Congdon; nell’istante in cui Cristo invoca il Padre è sancita una separazione che nessun lavoro del concetto può superare». (M. Recalcati)

Ci sono storie di vite redente che è impossibile raccontare con uno stile agiografico, tanto sono complesse, tormentate, fuori da ogni schema e sovrastruttura. Una di queste è quella di William Congdon, pittore statunitense nato a Providence, Rhode Island, il 15 aprile 1912, e morto il 15 aprile (strana coincidenza) del 1998 nella Bassa Milanese. Sì, perché Congdon dopo aver lasciato la propria terra e aver viaggiato in mezzo mondo, ha deciso di vivere in Italia, pur continuando fino agli anni Settanta a esplorare Paesi lontani. Dal 29 al 31 maggio a Ferrara, all’interno del Festival della Fantasia, sarà esposta la mostra “Nel mio solco estremo. Paesaggi esteriori e interiori di W. Congdon”, a cura di Roberta Tosi. Inaugurazione il 29 alle ore 19.30 nel Salone d’Onore del Municipio, con visita guidata a cura di Rodolfo Balzarotti (Direttore Scientifico W. Congdon Foundation). Qui il programma: urly.it/319tf2

Sono quattro le mostre di Congdon a Ferrara, quand’era ancora in vita: nel 1964, nella collettiva “Gesù nell’arte contemporanea”, Palazzo Arcivescovile; 1981, “W. Congdon: Europa e America”, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti; 1986: “Congdon: opere recenti 1980-1986”, Istituto di Cultura “Casa Cini”; 1995-’96, “Congdon. Pastelli 1984-1994”, Istituto di Cultura “Casa Cini” (con in catalogo anche un testo di Angelo Andreotti).

SULL’ABISSO TRA ETERNO E NULLA

William Grosvenor Congdon nasce in un ambiente alto borghese, figlio di due facoltosi industriali. Per fuggire dal puritanesimo e dal materialismo di questo mondo, dopo gli studi, nel ’42, si arruola volontario nell’American Field Service (AFS), servizio di sanità, e come autista di ambulanze partecipa alla battaglia di El Alamein, per poi essere chiamato nel centro Italia. «La guerra mi ha aperto all’amore», dirà, in Italia «cominciavo a vivere, a riconoscermi amato». Un’altra esperienza che lo segnerà profondamente sarà quella vissuta, sempre con l’AFS, nel maggio ’45, nel campo di concentramento di Bergen Belsen appena liberato. Qui scriverà: «Questo non è un uomo / ma materia inesistente (…)». Nel ’48, a 36 anni, inizia a dipingere, va a New York, prima nella miseria del Bowery, e poi nel lusso del 30esimo piano di Park Avenue. Nel ’49 la sua fama di artista esplode grazie anche all’incontro con Peggy Guggenheim e Betty Parsons, assieme ai nuovi talenti della “Action Painting”, fra cui Pollock e Rothko. 

Nel ’50 si innamora di Venezia, dove si trasferisce: «Andai a Venezia – scrive – perché il suo aspetto fantasioso di città nell’acqua mi sembrava offrire un rifugio dal mondo materialistico che dopo la guerra mi disgustava». Ma il luogo che gli stravolge l’esistenza è Assisi, dove vi arriva, per la prima volta, nel ’51, e dove ci vivrà per quasi 20 anni, da fine anni ’50 a fine anni ’70. Qui conosce – tra gli altri – don Giovanni Rossi, fondatore e guida della Pro Civitate Christiana, associazione missionaria e centro culturale, e Paolo Mangini, membro della Pro Civitate che a sua volta gli permetterà di conoscere don Luigi Giussani, fondatore di CL (altra conoscenza decisiva). Di Assisi, scrive Congdon: «Nel convento di San Damiano cominciai a leggere i Fioretti di San Francesco dai quali non mi separai più durante gli ultimi nove anni che precedettero la mia conversione». Lo stesso anno, ad Assisi vi torna a Natale: «La spontaneità e la passione colla quale il popolo celebrò la Messa di mezzanotte e la Messa solenne di Natale mi commossero profondamente». Inizia a comprendere come «le ferite della mia infanzia» – in particolare il rapporto difficile col padre -, «il peso della colpa non potevano essere guarite dalla sola pittura». India, Grecia, Egitto, Istanbul, Santorini, ancora Venezia…e Cambogia. Il vuoto e le lacerazioni dell’anima non poteva curarle nemmeno viaggiando. Quelle ferite antiche potevano essere superate solo in un modo: «Fin dalla mia infanzia, mi si era fatto sentire il senso della colpa quando non avevo peccato. Il peccato era stato presunto per me, e la colpa imposta. Adesso che avevo veramente peccato, in un attimo mi ritrovavo senza colpa nel perdono di Cristo».

Nel ’59, infatti, torna ad Assisi e, assieme ad altri e altre giovani, riceve il battesimo dalle mani del Vescovo mons. Giuseppe Placido Nicolini. Da qui, cambia – inevitabilmente – anche la sua pittura: «Nella misura in cui il Cristo aveva salvato la mia vita dal naufragio e adesso era la mia verità, la Sua figura cominciava a prevalere su qualsiasi altra fonte di ispirazione, e a diventare tutti i paesaggi e i templi delle diverse fedi fino adesso dipinti, e il mezzo inevitabile di proclamare la mia libertà riconquistata e la mia salvezza». Alcuni suoi Crocifissi, non a caso, ricordano anche il Tau francescano, essendo la testa del Cristo a livello del costato.

Poi va a Subiaco, nel convento abbandonato del beato Lorenzo e a fine anni ‘70 si trasferisce nella Bassa milanese, a Gudo Gambaredo, in una casa-studio (o «studio-cella») annessa a un monastero benedettino, la Cascinazza: qui entrerà nei Memores Domini di CL, dopo averli conosciuti a Milano (dove vive dal ’66 al ’79). A Gudo rimarrà fino alla morte.

«È NEL MIO SPARIRE CHE L’IMMAGINE NASCE»

In occasione della sua seconda personale a Ferrara – nel 1986 a Casa Cini – Congdon scriveva: «Il Dono vuole fulminare, cancellare dalla faccia della terra ogni contaminazione di oggetto, perché emerga limpida e pura l’immagine. Agonia delle cose spogliate dallo spazio; la quale agonia, mentre cancella le cose, le restituisce risorte, come il vero spazio che è l’immagine».

Una riflessione, questa del Congdon maturo, sopraggiunta dopo tanti anni di inquieta ricerca, di assillo. Scriveva, infatti, da giovane in una delle lettere a Belle, sua cugina poetessa: «Paghiamo un caro prezzo per il fatto di giungere così vicino e poi ignorare il resto, non andando, con Dio, più oltre. Ma è questo “resto” che vorremmo creare, come compensazione. Nell’arte creiamo ciò che, di Dio, non possiamo essere. Naturalmente non ci riusciamo, e quindi siamo spinti oltre». Insomma, «creiamo nel dolore della nostra non-santità». È nel non-ancora che ci muoviamo – sembra dirci qui -, è nel non-Essere che, al tempo stesso, è brano, segno, anticipazione della Chiarità senza la quale nulla potrebbe rifulgere. Chiarità che ha dovuto impiegare molto tempo per vincere le nebbie non solo di Venezia e della Bassa, ma soprattutto del suo cuore.

Arriverà, ad esempio, in uno scritto del 1975, così ad esporre la sua matura riflessione teologico-esistenziale: «L’opera d’arte nasce, sgorga da un incontro fra me-artista e una qualche cosa, vista, che mi afferra, e che mi chiama per nome; o meglio: mi chiama con la promessa di darmi il nome». Questa promessa è «amore». In un oggetto visto, e che si vuole rappresentare, è necessario quindi «partire dal segno» che «risveglia di sé come Presenza in me, perché è questa Presenza nella mia esistenza che io dipingo», e non l’oggetto in sé. Questa Presenza è Cristo, Dio-Amore e quindi il pittore nel dipingere l’oggetto è lui stesso «rigenerato nell’essere, egli stesso dipinto da esso – dal mistero». Proprio «come – prosegue Congdon – nella santa comunione noi mangiamo, sì, il corpo del Signore, ma per essere assimilati, consumati in Lui. È Cristo, in fondo, che “mangia” noi». Per questo motivo, l’artista deve cercare «la trasparenza della povertà di Spirito! È nel mio sparire, nel mio perdermi (…) – “morire” – che l’immagine nasce». Quello “sparire” per far posto a Cristo di cui ha parlato anche Papa Prevost nella sua prima omelia del 9 maggio scorso.

Per Congdon, quindi, «l’artista è sacerdote in quanto trasfigura la realtà, la materialità della nostra vita in alleanza, e in quanto la offre proclamando che il significato esauriente di tutto è Cristo». E così posso riconoscere che «il Cristo sulla croce è me stesso; che è il mio peccato inchiodato alla croce», e quindi per Congdon i suoi Crocifissi dipinti – dice – sono «la mia propria carne che dipingo con dentro la certezza della resurrezione». La “conclusione”, per Congdon non può quindi che essere questa presa di coscienza piena dopo l’abisso nel quale era vissuto, nella lontananza da Dio-Misericordia: «Io, morto, Dio mi fece rigenerare me stesso dal male, partorendo con questi quadri l’immagine della sua morte e resurrezione! Mi fece risorgere: immagine io stesso di Cristo con il mio proprio dono!».

***


FONTI

U. Casotto (a cura di), “William Congdon. L’essenziale è visibile agli occhi” (Dario Cimorelli ed., 2024).

M. Recalcati, “W. Congdon. La poetica del crocefisso”, in “Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti” (Feltrinelli ed., 2016).

F. Patruno, “William G. Congdon: Lo splendore è sempre sofferenza”, in “L’Osservatore romano”, maggio 1995.

W. Congdon, “Arte-Persona-Cristo”, in “Communio”, 1975.

W. Congdon, “Nel mio disco d’oro. Itinerario a Cristo” (Pro Civitate Christiana, 1961).

***

IMMAGINI

In alto: Congdon (da: https://lc.cx/Y2gJrK).

Sotto: Crocefisso, 1b, 1960. 

***

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 maggio 2025

Abbònati qui!

Chiesa San Paolo, antiche gemme di bellezza ora ammirabili da tutti

21 Mag

Il progetto di Assorestauro portato avanti con la nostra Arcidiocesi grazie alla storica dell’arte Barbara Giordano e a mons. Massimo Manservigi: affreschi del XIV e XV sec. nascosti dietro la parete occidentale e ora visibili grazie alla Virtual Reality Experience

di Andrea Musacci

Affreschi finora inaccessibili che ora, invece, possono essere fruiti da tutti. Sono le opere d’arte riscoperte nella chiesa della Conversione di san Paolo a Ferrara (piazzetta Schiatti), presenti sull’antico muro (costruito fra il XIII e il XIV sec.) dell’edificio; dopo il terremoto del 1570, però, venne costruito dall’architetto Alberto Schiatti il nuovo edificio a tre navate con cappelle absidate (prima era a una navata), con un nuovo muro a poche decine di centimetri da quello antico, che quindi ha sempre reso molto difficile il poter analizzare gli antichi affreschi. Stiamo parlando del lato occidentale della chiesa, quello che affaccia sul primo dei due chiostri del complesso, il maggiore. 

Dallo scorso gennaio, la nostra Arcidiocesi – nelle persone di Barbara Giordano, storica dell’arte e membro dell’UCS–Ufficio Comunicazioni Sociali diocesano, e mons. Massimo Manservigi, parroco di san Paolo e Direttore dell’UCS – ha collaborato a un interessante progetto di valorizzazione promosso da Assorestauro, in collaborazione anche con la parrocchia di San Paolo e finanziato dal Ministero della Cultura tramite fondi PNRR. Grazie a tecnologie digitali avanzate, ricostruzioni 3D e narrazione storica, ora viene restituito alla città – e non solo – un patrimonio di bellezza senza prezzo. L’esperienza VR (Virtual Reality Experience – Esperienza di Realtà Virtuale) è disponibile in loco all’interno della chiesa, tramite visori di ultima generazione posizionati nella navata di destra, all’altezza della quinta cappella rispetto all’ingresso principale.  Un’esperienza, inoltre, accessibile a tutti, incluse persone con disabilità. Al monitor presente, è inoltre possibile vedere il video esplicativo, con immagini degli affreschi e video interviste ai protagonisti del progetto, oltre a un “trailer” di 20 secondi. 

QUALI SONO GLI AFFRESCHI PROTAGONISTI DEL PROGETTO 

Nel 1991, durante controlli preliminari effettuati dai restauratori della Direzione dei Musei Civici d’Arte Antica in previsione dei lavori di restauro architettonico all’intero complesso, ci si è imbattuti, nella parete della chiesa in confine col chiostro maggiore, in una serie di tracce estremamente complesse e in una tomba collocata in un vano di risulta fra il muro antico e le absidi laterali. Il lavoro eseguito ha, infatti, permesso di vedere – dai sottotetti o da parti accessibili dal chiostro adiacente – tutte le fasi decorative assieme. «Una parete straordinaria – spiega Barbara Giordano -, perché attraversa l’intera parabola storica e artistica della chiesa di san Paolo».

Partendo quindi dall’attuale ingresso principale della chiesa, se ci dirigiamo verso la navata destra, dietro l’attuale parete, all’incirca fra la prima e la seconda cappella, vi è quella che la stessa Giordano definisce «la scoperta più incredibile»: una “Madonna annunciata” databile al 1476, probabilmente eseguita da un allievo di Piero della Francesca.

Proseguendo, sempre dietro l’attuale parete, su quella più antica, all’altezza più o meno tra la seconda e terza cappella, vi è l’ormai noto affresco del “miracolo della gamba” dei Santi Cosma e Damiano, scoperto e presentato nel 1991. Così ne scriveva, nel ’94, Anna Maria Visser Travagli, allora Direttrice dei Civici Musei d’Arte Antica di Ferrara, su “Ferrara. Voci di una città”: «La visione, piena di dettagli, ha quasi un valore didascalico, con l’iscrizione illustrativa dell’avvenimento diligentemente riportata ai piedi del letto; non c’è dolore, non c’è sofferenza, non c’è sangue nella scena, tutto si svolge con naturalezza. Il malato dorme ignaro, quasi sorridendo, mentre i due Santi, sontuosamente abbigliati, maneggiano con disinvoltura gli arti che con virtù taumaturgiche stanno sostituendo. La stanza è inondata di luce e trasmette una calma tranquillità; accanto al letto vediamo il mobile coperto con una tovaglia ricamata, con la bottiglia d’acqua e il bicchiere per la notte; sulla finestra semiaperta s’intravede un vaso con una pianta verde e sulle testata del letto sono mescolati agli oggetti della stanza gli attributi dei Santi: le scatole con i medicamenti, l’ampolla con l’unguento, i libri con le prescrizioni mediche, resi con lo stesso ordine compositivo delle coeve tarsie lignee. Con questa scena, con quella successiva del gruppo di nobildonne mirabilmente acconciate e con l’immagine di uno dei santi lapidato – secondo la versione del martirio riportata da Jacopo da Varagine alla fine del XIII secolo – siamo lontani dalle astruserie, dal simbolismo e dai contorcimenti dei grandi maestri della scuola ferrarese del Quattrocento; qui c’è una chiarità inusitata di derivazione pierfrancescana; il miracolo è tale proprio per la naturalezza con la quale si manifesta; siamo più vicini all’area toscana come sensibilità e come stile e forse la mano è di un maestro di formazione o di cultura fiorentina, come di origine fiorentina poteva essere forse il committente: Baldinus, un mastro vetraio che, nel 1476, dedica una cappella in San Paolo ai Santi Cosma e Damiano, il cui culto è particolarmente radicato a Firenze».

Nel terzo affresco, dietro la quarta-quinta cappella della navata destra, vi è un enorme arcone tamponato, sottolineato da una fascia dipinta a partiture, con l’immagine del Cristo Redentore benedicente e di San Pietro con le chiavi in mano entro cornici polilobate, databile alla fine del Trecento. Nello stesso punto, più in basso, è stata rinvenuta un’altra Madonna, col manto blu, “picchiettata”, «che – spiega Barbara Giordano – ci ricorda soprattutto che c’era una grande devozione alla Madonna del Carmelo». 

Nella cappella successiva, sopra la tomba, c’è invece un affresco del XIV secolo raffigurante una “Madonna con bambino”, «ascrivibile – spiega sempre Giordano – al Terzo Maestro di Sant’Antonio in Polesine. Una figura molto delicata, con la fronte alta e lo sguardo affusolato, tipico della metà del XIV secolo».

San Paolo, quindi, ora diventa anche un laboratorio aperto, con queste meraviglie artistiche ancora tutte da analizzare e interpretare.

***
Esperti da tutto il mondo per vedere i nostri tesori

La visita per ammirare, grazie alla realtà virtuale, gli affreschi nascosti. Solo l’ultima tappa di un lungo processo di valorizzazione

Lo scorso 15 maggio, nell’ambito del Salone del Restauro svoltosi a Ferrara, per la prima volta dopo oltre quattro secoli oltre 70 restauratori da tutto il mondo hanno potuto ammirare in anteprima questi affreschi nascosti. Doppio appuntamento in quella giornata storica: nel primo pomeriggio, in Fiera (Sala Antonioni), presentazione del progetto di Realtà Virtuale sulla chiesa di San Paolo e di quello simile sul Museo di Palazzo Schifanoia. Per l’occasione, sono intervenuti Andrea Griletto (Assorestauro), don Massimo Manservigi, Barbara Giordano, Antonino Libro (Agenzia Regionale Ricostruzioni), Matteo Fabbri (Tryeco 2.0 – Nuove ricostruzioni storiche di Palazzo Schifanoia), Alex Cayuela e Marco Usuelli (Elaborazione in Virtual Reality degli affreschi di San Paolo). Sono stati anche proiettati i documentari a cura del regista Fabio Martina. Replica, dentro San Paolo, nel tardo pomeriggio, per ammirare la splendida chiesa e vedere di persona la postazione con monitor e provare i visori per l’esperienza virtuale.

APRILE 2024: RIAPERTURA CHIESA DI SAN PAOLO

Risalente, nel suo primo nucleo, al X secolo, l’edificio di epoca tardo rinascimentale si trova all’angolo tra corso Porta Reno e piazzetta Alberto Schiatti, nome dell’architetto che ne progettò la rinascita tra il 1573 ed il 1611, dopo il terremoto cinquecentesco.

San Paolo viene considerata il pantheon della città in quanto ospita le sepolture di illustri personaggi di cultura, tra cui le tombe del poeta Guarino Veronese, il compositore Luzzasco Luzzaschi, di Alberto Lollio e di Giovan Francesco de Grossi (detto Siface). La chiesa – che ha annessi l’ex convento dei Carmelitani e i chiostri rinascimentali – è altresì nota per i tanti artisti che l’hanno impreziosita, tra cui Bastianino, Girolamo da Carpi, Domenico Mona e Scarsellino. A tal proposito, il Ministero dei beni culturali ha assegnato alla Soprintendenza 600mila euro per il restauro delle opere artistiche di grande pregio e degli altari laterali e delle pale per poter ospitare nuovamente i quadri (fin da subito messi in deposito).

La riqualificazione e il restauro dell’edificio ha comportato un doppio stanziamento, per un totale complessivo di 3,8 milioni di euro (3 milioni di finanziamento ministeriale del Ducato Estense e 850 mila di fondi regionali post sisma). In base a una specifica convenzione, per poter realizzare gli interventi, il Comune di Ferrara è stato stazione appaltante. All’imponente edificio di piazzetta Schiatti/corso Porta Reno e al cantiere interno ed esterno terminato il 31 gennaio 2024, l’UCS-Ufficio Comunicazioni Sociali della nostra Arcidiocesi ha dedicato un video dal titolo “L’oro e il mistero” curato da mons. Massimo Manservigi (parroco di san Paolo e Direttore dell’UCS) e Barbara Giordano; l’oro è l’originario colore dominante all’interno della chiesa, riemerso grazie ai lavori di restauro, segno dell’importanza ricoperta nei secoli dalla chiesa. La chiesa è stata ufficialmente riaperta il 27 aprile 2024 con la S. Messa presieduta da mons. Gian Carlo Perego e animata dal “Coro e Orchestra Immacolata”. Ricordiamo che la chiesa di san Paolo era chiusa dal 2006, e la sua stabilità si era aggravata col sisma del 2012. Dal settembre 2023, la parrocchia di San Paolo fa parte, assieme alla parrocchia di Santo Stefano, di un’Unità Pastorale  guidata da mons. Massimo Manservigi.

I TESORI RIEMERSI NEGLI ULTIMI ANNI

Durante i lavori di questi anni (iniziati a gennaio 2022 e realizzati dal raggruppamento temporaneo di imprese composto dalle ditte Leonardo Srl – Direttore cantiere, Andrea Natalucci – e Lolli Raffaele impianti Srl di Bologna), innanzitutto è riemersa la colorazione dorata dei pilastri e delle pareti (ad esempio nella Cappella del Carmine, nella navata di sinistra), ma anche, sotto alcune delle tinte del secolo scorso, alcuni magnifici affreschi rinvenuti nei catini absidali nelle navate laterali, raffigurazioni significative forse databili al XVI secolo, antecedenti al sisma del 1570. La speranza è di far riemergere ancora di più questi straordinari volti e figure, come alcuni rifacimenti ottocenteschi nel catino absidale. Altre scoperte riguardano firme di pittori, soprattutto del XIX secolo, intervenuti soprattutto nelle volte della navata centrale, e in quelle del transetto. Artisti a noi sconosciuti ma che proverebbero come tutta la pittura seicentesca, iniziata dopo il sovracitato terremoto, sia stata molto rimaneggiata nell’Ottocento. E ultimo, ma di certo non meno interessante, nella navata destra, in uno spazio di servizio dov’era stata progettata una scala di accesso al sottotetto, è stata rinvenuta una nicchia sotto l’intonaco: al di là di questa, è stata scoperta una tomba con resti umani, uno stupendo soffitto stellato e sulle pareti laterali un affresco di pregio raffigurante una città – molto probabilmente Gerusalemme -, e un albero della Vita con la crocifissione.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 maggio 2025

Abbònati qui!

Il volto santo di Cristo contro l’abisso della vita

5 Apr

L’artista Giorgio Celiberti dialoga con don Masssimo Manservigi: “Come il primo giorno” è il titolo del documentario-conversazione sull’eterna lotta tra luce e tenebre. Ne emerge un ritratto toccante del 95enne udinese

di Andrea Musacci

Provate a immaginare il primo giorno in cui un bambino inizia con le proprie mani a creare un abbozzo di opera d’arte: immaginatene lo stupore, magari ancora confuso nella potenza dell’emozione, e la primissima consapevolezza di poter “ascoltare” la realtà con gli occhi e darle nuova vita, farla emergere dal sempre incombente abisso del nulla.

Questo «spalancato dolore» – che solo la luce del Volto di Cristo può illuminare e redimere – è quello raccontato magistralmente da don Massimo Manservigi nel suo documentario “Come il primo giorno” dedicato all’artista udinese Giorgio Celiberti, proiettato per la prima volta la sera del 25 marzo scorso nel Cinema Santo Spirito di Ferrara. Si è trattato del primo dei tre incontri del ciclo “Ti ho ascoltato con gli occhi”, dedicato al cinema di don Manservigi. Il 25 marzo è stato proiettato anche un altro mediometraggio, “Nzermu. Accesa è la notte”, dedicato a padre Anselmo Perri sj. Due opere realizzate grazie alla fondamentale collaborazione di Giovanni Dalle Molle. 

«Due documentari uniti da un grande senso religioso che ci aiutano a respirare profondamente», ha commentato il nostro Arcivescovo mons. Perego a fine serata. Gli altri due incontri  (inizio ore 21, ingresso gratuito) sono in programma il 29 aprile con una versione inedita del film “L’unica via” dedicato a don Santo Perin, con scene dal backstage. La sera stessa il Cinema S. Spirito ospiterà due piccole mostre dedicate a don Perin, una delle quali inedita e realizzata dall’Ufficio Comunicazioni Sociali della nostra Arcidiocesi. Don Perin (Trissino – VI 3 settembre 1917 – Bando di Argenta, 29 aprile 1945), muore assieme al giovane Giuseppe Filippi per lo scoppio di una mina nel tentativo di recuperare il corpo di un soldato tedesco, per dargli una degna sepoltura. Infine, il 13 maggio, “Laboratorio di immagini. Come nasce un documentario tra narrazione e realtà”. 

IN GIRO PER IL MONDO. MA IL CUORE SI È FERMATO A TEREZÍN

Celiberti nasce a Udine nel 1929 e comincia giovanissimo a dipingere. Una passione, la sua per il disegno, che ha fin da quando era bambino e gli insegnanti notano questa sua “ossessione” e ne rendono partecipi i genitori. L’iscrizione, poi, al Liceo Artistico di Venezia, dove conoscerà quello che diventerà un suo amico e maestro: Emilio Vedova. A 19 anni partecipa alla Biennale di Venezia del 1948, la prima del dopoguerra. A inizio anni ‘50 si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con i maggiori rappresentanti della cultura figurativa d’oltralpe, e nel ‘56 vince la borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione che gli consente di soggiornare a Bruxelles. Dal 1957 al 1958 è a Londra e poi soggiorna negli USA, in Messico, a Cuba, in Venezuela. Al rientro in Italia si trasferisce a Roma, dove frequenta gli artisti di punta del panorama italiano. Verso la metà degli anni ’70, il ritorno a Udine. «Quando ho lasciato Roma – dice nel documentario -, il mio studio l’ho dato a Guttuso». Nel 1965, un episodio che gli cambia la vita: la visita al lager di Terezín, vicino Praga, dove migliaia di bambini ebrei, prima di essere trucidati dai nazisti hanno lasciato testimonianze della loro tragedia in graffiti, disegni, brevi frasi di diario e in un libretto di poesie: «quando sono tornato, ero un’altra persona», dice ancora a don Manservigi. «Terezín è stato uno dei maestri più grandi della mia vita. Lì ho capito cos’è il dolore».

Nel ‘75 realizza i Muri Antropomorfi e in questo periodo si dedica soprattutto alla scultura, anche se la sua attività creativa si caratterizza sempre più per un’originale simbiosi tra espressione plastica e pittorica. Poi, la scultura abbandonerà l’impostazione di grandiosità monumentale per intessere un colloquio privato con le tracce di un passato ancestrale. Celiberti ha partecipato alle più significative manifestazioni d’arte in Italia e all’estero e ha inanellato oltre un centinaio di mostre personali, molte delle quali in diverse capitali europee, oltre che a Tel Aviv e Gerusalemme. Nel 2000, Anno giubilare, realizza una croce di 3 metri nella chiesa di Fiumesino (Pordenone). Nel 2009 sue grandi mostre sono al Museo Ebraico di Venezia, a Roma, all’Abbazia di Rosazzo e a Monaco di Baviera.

VITA INTERIORE DI UN ARTISTA

«Ha 95 anni ma lavora come se ne avesse 35-40. E dimostra una forte sintonia con l’umano in forza della fede, caratteristica che condivide con padre Anselmo Perri». Così don Manservigi nell’illustrare la personalità di Celiberti. L’opera che gli ha dedicato, ci tiene a specificare che più che un documentario è una «conversazione: volevo che si raccontasse in forma di testamento, lasciando in eredità anche parole che non aveva detto a nessuno». Così è stato. Parole incorniciate dalla mitezza del volto e dalla volizione delle mani, dalla dolcezza dei sorrisi, dalle lacrime, magnifiche nella loro umanissima immediatezza.

Nel documentario, la voce di Celiberti si alterna con letture – da parte di Alberto Rossatti (voce storica di Rai Radio 3) – di alcuni brani tratti dal libro di Massimo Recalcati, “Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti” (Feltrinelli, 2016), in cui lo psicanalista dedica un capitolo proprio a Celiberti. «Gli anziani – ha aggiunto don Manservigi a S. Spirito – sono per noi uno stimolo per guardare al futuro con speranza: quest’Anno Santo ce lo ricorda con forza. E a Celiberti ho chiesto proprio di parlarmi della sua speranza».

«Disegno ancora molto volentieri – racconta l’artista nella “conversazione” -, di fianco al mio letto ho sempre della carta, perché anche di notte faccio qualche schizzo o appunto che poi durante la giornata porto avanti col colore». Una vera e propria febbre, la sua, ulteriormente alimentata dall’insonnia. «Sono molto vitale: dipingo, disegno, faccio sculture. Dalle 10 del mattino alle 6 di sera sono nel mio studio a creare: non ho tempo per annoiarmi. Ho ancora necessità di capire, di imparare. Sono fortunato». E in lui se c’è poco tempo per il sonno e nessuno per la noia, non ce n’è nemmeno per il risentimento: «non ho abbastanza tempo per amare, men che meno ne ho per provare rancore». Una sensibilità per il reale, la sua, che assume anche una piega inaspettata: «per me i gatti sono compagni di viaggio eccezionali», a cui non a caso ha dedicato innumerevoli sculture: nel documentario le prime lacrime sgorgano proprio nel ricordare il suo ultimo felino, morto avvelenato. 

Questa spontaneità che emerge dall’intero suo essere, non ammette ombre: in lui, forte è la «lotta incessante tra la luce e le tenebre», la sua insonnia – scrive Recalcati – è resistenza «alla tentazione dell’annullamento». Ma una farfalla appare in un suo dipinto, è possibile quindi estrarre luce dalle tenebre, recuperare la possibilità della redenzione dalla notte, dall’orrore. In lui, «è solo la poesia che resiste alla morte», «il frutto buono dell’insonnia, dell’alba che viene»1. «La sua pittura – scrive ancora Recalcati – è interamente aspirata dal senso del sacro, intrisa dell’anelito verso l’assoluto; è pittura pura del volto del santo». «Il Cristo è il tema più bello della mia vita», dice Celiberti. «Cristo lo sento sempre vicino quando lavoro». Questa è l’unica alternativa possibile «alla notte senza speranza del grido», all’«abisso senza fondo della vita». Dipingere è rifiutare «il buio senza speranza della notte», farsi luce, divenire strumento, vaso di argilla vivente che accoglie l’unica Luce.

NOTA

1 ilmanifesto.it/linsonnia-creativa

Immagini: Giorgio Celiberti; una sua opera su Cristo (immagini tratte dal documentario di don Massimo Manservigi, “Come il primo giorno”)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 aprile 2025

Abbònati qui!

Figli di Muse Inquietanti: 50 ritratti di artisti nel libro di Turola

22 Gen

Gabriele Turola critico d’arte: in un volume curato da Corrado Pocaterra e Lucio Scardino raccolti i suoi articoli su creativi ferraresi del ‘900 e oltre

di Andrea Musacci

Un’originale antologia degli artisti ferraresi del Novecento è quella curata da Corrado Pocaterra e Lucio Scardino nel volume “Gabriele Turola. I figli delle Muse Inquietanti” (Ferrara, 2025). Il libro verrà presentato nel mese di febbraio nella sede della Camera di Commercio di Ferrara (data ancora da definire) e sarà possibile acquistarlo in alcune librerie in città. Ricordiamo che lo scorso settembre la Galleria del Carbone ha omaggiato Turola – morto improvvisamente nell’agosto del 2019 all’età di 74 anni – con la mostra “Dedicato a Gabriele Turola”, curata dallo stesso Pocaterra.

Nel 1986 il giornalista (e «pittore per diletto») Gian Pietro Testa chiede a Turola di tenere una rubrica su “Ferrara”, rivista mensile del Comune da lui diretta. I due coniano il titolo “I figli delle Muse Inquietanti”, a voler ricordare il capolavoro di De Chirico. Successivamente, Turola continuerà i suoi ritratti sulle colonne de “La Pianura”, rivista edita per oltre un secolo dalla locale Camera di Commercio (e lo fece sino al 2016, anno in cui cessarono le pubblicazioni). «Abbiamo deciso – scrivono Pocaterra e Scardino nel libro – di ristampare i profili monografici di quegli artisti famosi che hanno portato il nome di Ferrara nel mondo, coltivando il proprio DNA di “figli di Muse Inquietanti”, ma declinandolo all’infuori di stretti localismi, di un provincialismo odiosamato». Una 50ina le artiste e gli artisti raccontati negli anni dalla brillante penna di Turola: dai più noti Boldini, De Pisis, Goberti o Zanni (solo per citarne alcuni), a molti poco o per nulla conosciuti. E con un inedito dedicato a Marcello Carrà, artista classe ’76.

IN DIALOGO SUL PROFONDO MARE

La critica – in questo caso artistica – si sa, è mestiere difficile, dove chi scrive rischia di soffocare – col velo pesante delle proprie parole – l’artista e le opere che intende raccontare. Turola – nella sua sensibilità profonda verso le realtà dello spirito – riusciva invece a cogliere il cuore dell’artista che sceglieva di far protagonista della sua narrazione; e solo poi, gli sedeva di fronte, per un “dialogo” schietto, su quella comune zattera che è la ricerca del Bello. Nella delicatezza di questo ondeggiare senza meta, ma pur sempre con la volta celeste a tracciare sentieri di senso nella notte e nell’oscuro dell’esistenza. Così, dei quadri di Alfeo Capra (Filo di Argenta 1902 – S. Maria Maddalena 1997) poteva scrivere che «sono come parole appena sussurrate, che invitano al silenzio, che nascono dal silenzio e nel silenzio vogliono avvolgersi, come bruchi in un bozzolo, forse per dichiararci che dall’ignoto tutte le cose provengono e nell’ignoto tutte le cose ritornano»; e di Gianfranco Goberti (Ferrara 1939-2023), che «mette in discussione la realtà per mezzo della pittura, rappresenta una dimensione concettuale inventiva, fatta di istinto pittorico e di intelligenza».

E ancora, alla ricerca perenne di anime gemelle con cui navigare nel vasto e agitato mare della vita: Gianni Guidi (Bologna 1942) è «un creatore anarchico perché ama rivoluzionare, sconvolgere la geografia normale, consueta, riportandola a caos di frammenti spezzati; eppure in questa farragine si rintracciano le note di un’armonia intima e preziosa». O la trova in Giuseppe Malagodi (Cento 1890 – Roma 1968), che «indulge in zone d’ombra, in malinconie crepuscolari».

Accenni a parte meritano alcune artiste, come Paola Bonora (Ferrara 1945), per la quale «la pittura diventa un diario dell’anima che traduce in immagini e visioni gli impulsi psicologici più intimi, i ricordi, le malinconie più riposte, i sogni più ancestrali dell’inconscio collettivo»; o Adriana Mastellari (Ferrara 1933-2023), la cui scultura «è un atto di amore e di lotta: amore perché permette di creare forme di vita poetica, lotta perché è un impatto con la materia che imprigiona l’idea». E per concludere, la poco nota Luciana Neri (Ancona 1944 – Ferrara 1987) – che «ha sempre vissuto come una donna ed un’artista forte, libera, indipendente, coraggiosa, non vincolata ad alcun rigido schema» – ed Ernesta Tibertelli De Pisis (Ferrara 1895-1970), sorella di Filippo, «donna vittima di una società, non ancora aperta all’emancipazione femminile, che non le permetteva di sviluppare pienamente il suo talento artistico».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 gennaio 2025

Abbònati qui!

S. Maria in Vado, il mistero del Crocifisso: «è più antico»

29 Nov


La tesi di Romeo Pio Cristofori (Musei Arte Antica Ferrara): «potrebbe essere di fine XV secolo»

Chiunque entri nella Basilica di Santa Maria in Vado, che ne sia o no assiduo frequentatore, viene immediatamente rapito dal ricco splendore nell’area del presbiterio e dell’abside (oltre che, naturalmente, del tempietto del Miracolo eucaristico). Ma nella quarta cappella della navata sinistra si trova una scultura del Cristo crocifisso, che attira comunque l’attenzione. Attenzione non solo dei pellegrini o turisti che si recano nella Basilica, ma anche degli studiosi, data l’incerta datazione.La sera dello scorso 20 novembre, proprio a S. Maria in Vado, ne ha parlato Romeo Pio Cristofori, conservatore dei Musei di Arte Antica di Ferrara, in un incontro organizzato dall’Unità Pastorale Borgovado e dal Circolo ANSPI di Santa Maria in Vado. 

L’IPOTESI DELLA DATAZIONE

Cristofori ne parla anche in un articolo dal titolo “Dopo Baroncelli. Crocifissi a Ferrara nell’età di Borso d’Este”, pubblicato sulla rivista semestrale “Schifanoia” (n. 64-65, 2023).

«Alla morte di Borso, nel 1471 – scrive Cristofori -, gli artisti attivi durante il primo Ducato ferrarese si trovarono parzialmente esclusi dalle nuove richieste della committenza e, travolti dall’arrivo delle nuove soluzioni formali e stilistiche richieste dal gusto di Ercole I e della sua consorte, modificarono il proprio stile o abbandonarono la scena artistica locale. Dopo la floridezza della stagione appena conclusa, di cui un ulteriore interessante esempio potrebbe essere lo sconosciuto crocifisso ligneo dell’altare maggiore della chiesa di San Paolo, la realizzazione di crocifissi monumentali sembra subire un rallentamento a favore di composizioni diverse o di rielaborazioni locali». 

Il Cristo crocifisso presente a Santa Maria in Vado – prosegue lo studioso – «potrebbe essere una tarda interpretazione della figura di Cristo che ebbe così tanto successo negli anni borsiani. Testimoniata fin dalla fine del Settecento, la scultura (170 x 100 cm circa) è comunemente ritenuta opera di un ignoto artista ferrarese, cronologicamente collocabile nei primi decenni del Cinquecento. Tuttavia – è l’ipotesi di Cristofori -, un’attenta analisi dell’intaglio potrebbe consentire una datazione più antica, non troppo distante» da opere come il Cristo ligneo della chiesa di San Cristoforo alla Certosa, oggi esposto al Museo Schifanoia, o quello della chiesa di Santo Spirito. Il periodo sarebbe, quindi, all’incirca tra la fine del ducato di Borso d’Este (1452-1471) e l’inizio di quello di Ercole I (1471-1505). Così lo studioso analizza nel dettaglio l’opera:«Nonostante lo stato conservativo non favorevole, le numerose ridipinture e i corposi depositi di polvere (che ne alterano la policromia e offuscano la qualità dell’intaglio), l’opera denuncia una vicinanza a un patetismo delle forme, specie nel volto, nei capelli e nelle solide gambe, vicini alle ricerche formali condotte a partire dalla fine degli anni settanta da Guido Mazzoni. La figura schiacciata e la sproporzione delle lunghe braccia rendono la scultura il frutto di un artista locale di grande interesse sebbene lontano dagli esiti delle opere già presentate. L’intaglio delle gambe, in cui si intravedono le vene sottili, la cassa toracica sporgente e striata, l’attenzione non pienamente riuscita sul particolare anatomico dei pettorali in tensione e delle spalle estroflesse, consentono di ipotizzare una conoscenza non solo del crocifisso bronzeo di Baroncelli ma anche degli emuli che negli anni successivi occuparono gli spazi ecclesiastici cittadini. Un restauro della scultura consentirebbe di riscoprire pienamente un’opera di grande interesse, la cui ipotetica datazione a metà degli anni settanta del Quattrocento, ben si adatta anche con il perizoma all’antica, la cui decorazione orizzontale è assai simile a quella già utilizzata da Vicino da Ferrara nella sua tela parigina».

Questo studio sulla misteriosa opera di S. Maria in Vado, ci tiene a sottolineare Cristofori – «è ancora in corso e passibile di ulteriori sviluppi». Inoltre, «un restauro permetterebbe di comprendere ancora meglio l’opera e collocarla con maggiore chiarezza nel contesto storico-critico». 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 29 novembre 2024

Abbònati qui!

Capatti artista liberty originale

8 Nov

Mostra a Vigarano e catalogo per l’artista che decorò anche il Poggetto

“Bozzetti Liberty a Vigarano” è il titolo della mostra, a cura di Lucio Scardino, esposta dal 30 novembre all’8 dicembre nella “Casa della Musica e delle Arti” di Vigarano Pieve (via Mantova, 111), e realizzata grazie al Comune di Vigarano in collaborazione con il locale Fotoclub. Legato alla mostra, vi è il catalogo “Ildebrando Capatti pittore e decoratore del Novecento ferrarese (Ferrara, 1878-Vigarano Mainarda, 1959)” (foto in alto: l’immagine di copertina)

In parete, scrive Scardino nel volume, «la serie di schizzi e bozzetti ad acquerello» provenienti «da una cartella un tempo conservata dalla figlia Zagomilla» forse degli anni Dieci-Venti: «non a caso un paio di essi sono siglati G. M.», ovvero la firma di Giulio Medini (1872-1954), guida indiscussa per Capatti. «Un altro foglio (monocromo studio decorativo del 1907, con belle figure di pavoni) è invece firmato dal misconosciuto Zaffagnini, classe 1885». Altre due opere sono ascrivibili a Carlo Parmeggiani. «I fiori sono i protagonisti assoluti dei bozzetti in varie declinazioni sia botaniche che stilistiche – prosegue Scardino -, in chiave naturalista o stilizzata libertynamente ma compaiono altresì figure danzanti e giovani pifferai, cariatidi e grifoni, ventagli e strumenti musicali, mentre un’opera forse si riferisce ad un concorso di carattere decorativo, presumibilmente per il Castello di Ferrara: gli ambienti della ex Prefettura in effetti vennero affrescati negli anni ’30 da Augusto Pagliarini». «In genere – scrive il curatore -, lo stile adottato in questi deliziosi bozzetti è lo stile liberty», ma non mancano «richiami alle grottesche cinquecentesche dei Filippi, al Manierismo carraccesco, a Barocco e Rococò (…) e ad un classicismo ottocentesco filtrato da ricordi dell’età umbertina».

Oltre a lavori per committenti privati (ad es. per le decorazioni della chiesa di Pescara vicino Ferrara), Capatti lavorò anche per il pubblico: «per ornati nell’aeroporto “Allasia”, fuori Porta Reno, per l’isolato della vecchia sede delle Poste, sempre in Giovecca (angolo Teatini), per la chiesetta del Poggetto a Sant’Egidio, per la sala d’aspetto della stazione ferroviaria». Riguardo al Poggetto, Capatti tra le due guerre decorò l’area absidale con litanie mariane, decorazioni in parte distrutte dai bombardamenti del ’45 e in parte coperte nel post Concilio. Capatti negli anni ’20-’40 continuò anche ad esporre come pittore nelle mostre sindacali fasciste allestite in Castello e altrove, «anche se quel che è forse il suo capolavoro resta nell’ex palazzo Todeschi, sede dal 1919 (e per pochissimi anni) della Camera del Lavoro di Ferrara: la laboriosa decorazione intitolata “L’Internazionale” e “Il Sol dell’avvenire”, eseguita assieme a Leone Caravita». Alla sua Vigarano, invece, donò un paio di quadri ispirati alle miserie degli abitanti del Delta padano, mentre la figlia allo stesso Comune regalò “Sulla tomba del compagno”, forse del 1919.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2024

Abbònati qui!