di Andrea Musacci

In queste settimane di emergenza per il coronavirus abbiamo avuto modo di constatare come la “quarantena” derivata da cause sanitarie abbia coinciso con la Quaresima in vista della Pasqua. Quaranta giorni (simbolici o non) nei quali l’isolamento più o meno coatto rispetto a specifici luoghi del consorzio umano si è sovrapposto al periodo di preghiera e raccoglimento. E nel quale – sempre in un’irreale atmosfera buñueliana – gli inutili assalti ai supermercati per riempire quanto più possibile i nostri “granai” hanno coinciso col periodo per antonomasia dedicato al digiuno. Quaresima e quarantena richiamano due modi di intendere il rapporto col tempo e lo spazio tra loro correlati: da una parte, l’insostituibile calore della dimora, del perimetro familiare, del proprio universo valoriale – non soggetto alle mode e alle opinioni -, della casa come luogo d’identità; dall’altra, il calore della parola poetica (in senso lato), la bellezza del dialogo inteso come ricerca, comune e sofferta, di una verità da abitare. Due dimensioni purtroppo sempre meno di moda, nell’epoca delle violenze verbali sempre più diffuse sui social, spesso pseudo luoghi di verà “socialità”.
Chi si ferma è perduto!
Nell’ultimo saggio di un giovane filosofo francese, François-Xavier Bellamy, dal titolo “Dimora” (Itaca, 2019 – che avrebbe dovuto presentare a Ferrara il 27 febbraio), modernità e contemporaneità sono criticate in quanto epoche del culto del movimento fine a se stesso, quindi di ciò che più è antitetico all’idea di “casa” e di bellezza della parola. Una deriva, questa, che pare inarrestabile, dove prudenza e discernimento sono viste come inutili resistenze al dominio della dromocrazia, di cui parlava già Paul Virilio nel 1977. Pare di sentire, ancora oggi, infatti, pur in forme diverse, le grida di oltre un secolo fa dei futuristi: “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno” (…). Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente” (“Manifesto del Futurismo”, F. Marinetti, 1909).
La casa come compimento di sé
“Comprendere” qualcosa, senza lasciarsi travolgere da quel “movimento aggressivo”, richiama il “contenere in sé”, l’abbraccio. Rimanda, quindi, inevitabilmente, alla casa, simbolo concreto di solidità, di consistenza e di permanenza, il contrario dell’“alloggio”. “Abbiamo bisogno di una dimora – sono parole di Bellamy nel libro sopracitato -, di un luogo dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi. La casa è il centro costruito dalla libertà, da una memoria, da un’esperienza e intorno al quale si organizza la consapevolezza dell’universo intero”. Trasmettere ed ereditare un universo affettivo e valoriale è ciò che di più essenziale una persona può raggiungere nella propria vita. Obiettivo difficile se i territori dove viviamo sono sempre più invasi da quello che l’antropologo Marc Augé quasi trent’anni fa in un suo celebre libro definiva “nonluoghi”, qualcosa per definizione dove non può formarsi identità, quindi né relazioni reciproche né una storia comune. Torna alla mente un romanzo di Milan Kunder, “L’identità”, nel quale il tormentato rapporto tra due coniugi, Jean-Marc e Chantal, si gioca in buona parte sull’incapacità di lei di definirsi: all’inizio, cercando lo sguardo degli estranei (“gli uomini non si voltano più a guardarmi”, corsivo mio, ndr); nel finale, nell’alcova matrimoniale, dove Chantal da (non) osservata diventa osservatrice, ma di Jean-Marc (“non staccherò più gli occhi da te” – corsivo mio, ndr). Questo, però, solo dopo aver compiuto un lungo, faticoso e coinvolgente peregrinare, che la farà diventare una persona diversa e ri-comprendere davvero come lo sguardo del marito su di lei sia quello che maggiormente può aiutarla a definirsi: lo sguardo che può farla sentire a casa.
La Parola da riscoprire e abitare
“Ricordo con profonda commozione il tempo in cui camminavo con la folla / verso la casa di Dio, / tra i canti di gioia e di lode / d’una moltitudine in festa” (Salmo 42)
E allora la comprensione di sé e dell’altro-da-sé dovrebbe trovare, oggi, terreni più fertili dove potersi sviluppare – in modo libero, non predeterminato, creativo e non dato – ma il più possibile pieno. Una dromomania violenta tipica dei nostri tempi – come accennavamo all’inizio – è quella riguardante la comunicazione, sempre più fagocitante e spersonalizzante: “in un mondo invaso dall’onnipresenza del digitale e dalla liquefazione della parola – scrive Bellamy sempre in “Dimora” -, mi sembra che la massima emergenza politica sia quella della risurrezione del linguaggio”. Riaffiorano alla mente parole di Heidegger: “nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora” (“Lettera sull’umanismo”, 1946). “Più lento, più profondo, più dolce”, suggeriva invece Alexander Langer come nuovo modo di abitare non solo le nostre case, ma il nostro mondo, compreso quello comunicativo. La parola – poetica, letteraria o della preghiera – evoca il mistero, lo invoca, richiama la bellezza, facendola ogni volta riaffiorare dall’oblio sempre incombente. Il dominio della tecnica moderna, diceva già nel ’63 Augusto Del Noce, porta, invece, “alla perdita della nozione tradizionale di otium; (…) abolisce il tempo sacro; (…) sostituisce la preoccupazione del fare a quella di essere” (“Appunti sull’irreligione occidentale”). Andrebbe quindi – a rischio di passare per folli – ridimensionata questa bulimia comunicativa, questa invasione di informazioni e immagini; e andrebbe, invece, rivalutata la ricerca personale e collettiva, lo studio, il discernimento, la contemplazione immersiva nel bello. Dovremmo tentare di far rifiorire il linguaggio come espressione dell’anima e dei suoi abissi, e il dialogo e l’ascolto della parola (scritta e non) come luogo reale d’accoglienza dell’altro: in questo, infatti, potremmo scorgere quel punto d’incontro fra il bisogno mai sopito di una dimora nella quale trovare pace e identità, e quel desiderio di mettersi in cammino per cercare, mai sazi, l’altro e noi stessi (come nel sopracitato romanzo di Kundera), ben diverso da certo errare evanescente ed eteroindotto. Seguiamo quindi, in questa Quaresima, l’invito del Papa a riscoprire l’importanza del Vangelo: “Quanto più ci lasceremo coinvolgere dalla sua Parola, tanto più riusciremo a sperimentare la sua misericordia gratuita per noi” (Messaggio per la Quaresima 2020, 2). Coinvolgimento che può diventare parte irrinunciabile del nostro cammino di comprensione, un cammino continuo e incerto che compiamo coscienti di essere diretti verso la “casa del Padre” (Gv 14, 2).
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 marzo 2020
E’ normale avere paura della paura? Su un tema spesso banalizzato mediaticamente ma che richiama l’essenza dell’essere umano, ha riflettuto a Ferrara il filosofo Salvatore Natoli. Lo scorso 31 gennaio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara è stato invitato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara per aprire il ciclo di undici incontri sul tema “Sfidare le paure”. Il prossimo appuntamento è in programma alle ore 17 del 28 febbraio con Marco Bertozzi che relazionerà sul tema del ciclo, analizzando diversi pensatori, da Hobbes a Canetti. La lectio magistralis di Natoli è stata preceduta dal saluto dell’Assessore Alessandro Balboni (al posto del Sindaco Fabbri, invitato ma non presente), dall’introduzione di Anna Quarzi, alla guida dell’Istituto di Storia Contemporanea cittadino, che ha moderato l’incontro, e dal breve intervento di Fiorenzo Baratelli, Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara: “la paura non va intesa solo in senso negativo – ha spiegato quest’ultimo -, ma come parte sostanziale della condizione umana, di per sé precaria: non bisogna, quindi, vergognarsi di aver paura, anche perché può essere stimolo per l’azione e per la creatività”. E’ vero, però, che la paura può anche rendere passivi, “può paralizzare”. Di sicuro – ha proseguito -, le paure peggiori sono quelle vissute nella solitudine”. La soluzione ad esse, citando anche Spinoza, può risiedere nel cercare il più possibile di usare la ragione “per comprenderne le cause, affrontandola razionalmente” e in maniera consapevole. “E’ vero – ha esordito Salvatore Natoli -, la paura è qualcosa che la natura ha predisposto per l’autoconservazione, ed è quindi un dispositivo in sé positivo”. Dopo aver brevemente riflettuto su alcune delle forme della paura – il timore, l’ansia -, Natoli si è soffermato sull’angoscia, “causata dal sentimento della nostra precarietà esistenziale, dal fatto che siamo esseri mortali, per natura esposti al nulla”. Per questo la paura “non va sottovalutata” e nemmeno, dall’altra parte, “strumentalizzata” per fini di soggezione. Riguardo a quest’ultimo aspetto, il relatore ha analizzato come il potere, nei secoli, si sia sempre servito della paura per asservire i propri sudditi: il modello hobbesiano, in particolare, è fondato sullo scambio fra la protezione che il potere sovrano concedeva ai propri cittadini (per la propria sicurezza, per la propria sopravvivenza), e l’obbedienza che questi li dovevano. Analizzando il controllo del consenso, anche in epoche più recenti, Natoli ha riflettuto su come il potere “non possa agire solo sulla paura, ma anche sulla speranza, facendo promesse: una volta, però, che le promesse si rivelano illusioni, allora il potere si autogiustifica e parallelamente ritorna a far leva sui timori delle masse”. Questo è “facilitato” anche dal fatto che i governati, vivendo lo spaesamento – non sapendo, cioè, a un certo punto chi “incolpare” delle mancate promesse non realizzate -, tendono sempre ad affidarsi all’“uomo forte”. Analizzando, poi, più nello specifico, la società contemporanea, Natoli ha accennato ai lati positivi della globalizzazione, ad esempio nel progressivo superamento delle differenze tra centro e periferie. Affrontando quindi il delicato tema delle migrazioni (e delle mistificazioni propagandistiche ad esso legate), le paure – più o meno indotte – nate in conseguenza di questa ridefinizione centro-periferia, “vanno affrontate non creando ghetti, ma attraverso l’accostamento e l’ascolto dello straniero”: la conoscenza dell’altro unita alla presenza viva e attiva degli abitanti negli spazi pubblici, con anche la trasformazione delle città sempre più in senso policentrico e a politiche neo-welfariste, sono tutti fattori che, secondo Natoli, aiutano a prevenire o comunque ad affrontare le paure legate alla convivenza col “diverso”: il concetto paradigmatico delle società del futuro, infatti, secondo il filosofo, sarà quello di “ibrido”. In conclusione, dunque, “solo un approccio razionale, scientifico collettivo” può presentarsi come l’antidoto migliore alle paure, e dar vita, unito a una “generosità” sempre più rara, a una politica che torni a essere degna di questo nome.
Gli spostamenti consistenti, improvvisi e sempre più frequenti di consensi elettorali da uno schieramento all’altro, ai quali ormai da diversi anni siamo abituati (anche nelle ultime Regionali), dovrebbero farci essere più cauti nel gioirne o rammaricarcene (a seconda della propria appartenenza politica). Il discorso, infatti, è serio (con tratti di gravità) e chiama in causa le forme e le modalità stesse della creazione di comunità politiche (in senso largo) sempre meno stabili. L’aleatorietà del consenso ricorda l’immagine evangelica della casa costruita “sulla sabbia”. Interrogarsi, quindi, sul cosa possa significare oggi – in una società “liquida”, se non “gassosa” come la nostra – costruire “sulla roccia”, è più che mai necessario. Innanzitutto – senza nessuna nostalgia per organizzazioni partitiche spesso ultraverticistiche e rigide (anche se non sono state solamente questo) – si potrebbe ragionare su quali possano essere nuove forme organizzative non fondate sull’inconsistenza del volto del proprio leader (o presunto tale): volto, nella sua specificità politica, il più delle volte più virtuale che reale.
Totalità o infinito? Uno spazio chiuso, (pre) definito dell’essere o un’apertura sempre possibile tra volti, nella loro irriducibile differenza? L’ambivalenza su cui da sempre si fonda il pensiero occidentale è stata centrale nella ricerca di Emmanuel Levinas (Kaunas, Lituania 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) (foto al centro), filosofo ebreo su cui l’8 novembre ha relazionato Giuliano Sansonetti. L’occasione era, nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri dedicato ai “Maestri”, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO). Sansonetti ha dedicato la prima parte del proprio intervento a Remo Bodei, scomparso il giorno prima, che a Ferrara era intervenuto nel gennaio 2016 invitato proprio dal Gramsci e dall’ISCO, nello stesso luogo, sul tema della democrazia, introdotto, come in questo caso, da Piero Stefani. Tornando a Levinas, Sansonetti ha spiegato come egli ritenesse fondamentale “trovare un punto di incontro tra l’eredità ebraica e il pensiero greco, le due tradizioni fondamentali dell’Occidente, quindi in un certo senso tra profezia e filosofia”. A tal proposito, riferendosi a Monsieur Chouchani (foto in alto a dx), ricordò come egli rese impossibile, per sempre, “un approccio dogmatico e fideistico al Talmud”, convincendosi dunque che “non esisteva uno spartiacque tra pensiero teologico e filosofico”. Ma le basi – o parte di esse – del pensiero occidentale, sono, per Levinas, la causa profonda di una concezione filosofica, quindi anche politica, dogmatica e illiberale: “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” è il titolo di un suo saggio uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit”, edito e tradotto in Italia grazie a Giorgio Agamben. Qui Levinas analizza il pensiero filosofico classico occidentale: il nazismo, secondo il filosofo, “non è qualcosa di accidentale nella storia e nella cultura tedesca, ma le sue radici sono interne alla storia dell’Occidente”. Sua caratteristica precipua è “l’incatenamento dello spirito al corpo”, all’elemento meramente biologico, un “risveglio di sentimenti elementari”, viscerali, violenti. La causa profonda di ciò, ha proseguito Sansonetti, risiede nel fatto che per Levinas “la filosofia occidentale sia una filosofia del neutro, dell’essere, quindi di una dimensione spersonalizzante, in cui ciò che ha valore è appunto l’essere indistinto e non l’ente”, il singolo, la persona con la sua individualità. Secondo Levinas questo porta a una deresponsabilizzazione del soggetto, mentre “ognuno di noi può essere responsabile solo nei confronti dell’altro”, rappresentato simbolicamente dal “volto”. “L’etica, quindi, e non la metafisica, dev’essere considerata la filosofia prima”: la seconda, infatti, nella tradizione greca, è intesa come “pensiero della totalità, del perfettamente definibile”, a cui Levinas contrappone “l’infinito, dato appunto dal volto, concetto assente nel pensiero greco” (“Totalità e infinito” è il titolo della sua opera più celebre, edita nel 1961). “Dal concetto di totalità – sono ancora parole di Sansonetti -, nascono quindi i totalitarismi, vale a dire società organiche dove tutto è definibile, ordinabile e controllabile, società chiuse”. Il rapporto etico autentico, al contrario, in Levinas, “è il rapporto faccia a faccia”, un rapporto tra volti: “prima ancora della conoscenza dell’altro, è necessario un rapporto con lo stesso, col suo volto, per evitare che l’altro diventi una proiezione di noi stessi”, e non, come invece è, una diversità irriducibile, verso la quale è necessario innanzitutto e soprattutto “l’ascolto (l’ebraismo, non a caso, si fonda sull’ascolto della Parola di Dio), e quindi il rispondere”. Infine, il volto, per Levinas, è nella sua essenza, “sguardo”: solo dallo sguardo, che identifica ogni volto, ogni persona, “può nascere il linguaggio, quindi il discorso e la responsabilità”, che, appunto, è sempre nei confronti di un altro.
“La noia è dominante nelle nuove generazioni, e le rende inermi e impaurite”: non ha cercato giri di parole Siobhan Nash Marshall, presidente del Dipartimento di Filosofia del college Manhattanville College di New York, nel suo intervento tenuto al Polo degli Adelardi dell’Ateneo ferrarese. Oltre un centinaio di giovani ha partecipato all’incontro dal titolo “La noia e la possibilità del bene”, organizzato dalla Fondazione Enrico Zanotti in collaborazione con Gioventù Studentesca, Centro Culturale L’Umana Avventura, Student Office e Uniservice. L’evento ha visto l’introduzione di Teresa Negri di Student Office, il saluto di Anita Gramigna, Docente del corso di Scienze Filosofiche e dell’educazione, mentre le conclusioni sono toccate a Maria Tiozzo Bon. “Il messaggio trasmesso da questo enorme apparato educativo in Occidente è negativo, è il ‘modello salsiccia’ ”, ha spiegato la Nash Marshall: “come per fare la salsiccia si butta tutto insieme nel macinatore, così a livello educativo non si aiutano i giovani a discernere, a comprendere, ma si ‘buttano’ solo nozioni. La conoscenza, invece, per essere possibile deve sia partire dal centro dell’uomo, dalla sua mente, sia essere condivisibile con gli altri: nella sua essenza, infatti, è relazione di una persona con la realtà, e quindi non può non essere una domanda di senso”. La noia, come detto, provoca paura, “anzi terrore” nei giovani, “lontani dal reale”, creando, inoltre, un vero e proprio circolo vizioso, per cui l’allontanarsi dalla realtà rende gli individui sempre più spaesati nei confronti della stessa. A questi giovani “confusi” viene somministrata “un’unica formula, spacciata per realtà: sono quindi abituati a credere a ‘s****zate’, disinteressandosi di cos’è vero e di cos’è falso, di cos’è bene e di cos’è male, senza avere gli strumenti per formarsi una propria opinione”. “La vostra generazione – ha proseguito rivolta ai tanti giovani presenti – ha dunque un compito bruttissimo: in un mondo come questo, senza tempo, nel quale si vive di attimi (come Kierkegaard ha focalizzato nella figura dell’uomo estetico), in cui non si vuole più ascoltare, nel quale perciò l’individuo ha paura di poter smascherare se stesso, avete il compito di tornare a guardare la realtà senza filtri o schemi, riacquistando fiducia in voi stessi, per poter vivere una vita più consona alla nostra natura”. Questo è, d’altronde, “il vero senso della cultura”. “Il mondo è bello, è positivo, la realtà, in ultima analisi, è positiva: sta a voi guardarla in faccia senza paura”.
Giovedì 28 marzo nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara ha avuto luogo la conferenza di Giuliano Sansonetti (docente di Unife), parte del ciclo di incontri dal titolo “I colori della conoscenza. La lingua e i linguaggi”, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Introdotto da Daniela Cappagli, il relatore ha cercato di spiegare, soprattutto attraverso alcuni grandi filosofi del Novecento, perché il linguaggio sia uno degli aspetti fondamentali che distingue l’essere umano dagli animali. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, diceva Ludwig Wittgenstein, o, per dirla con Martin Heidegger, siamo da sempre “immersi” nel linguaggio. “Linguaggio che – ha spiegato Sansonetti – deve dire ciò che è, tenta cioè il più possibile di dire la cosa, cercando i termini più ’adatti’, che meglio si adattino a ciò che si intende esprimere”. In un certo senso si può dire che “il linguaggio istituisce il mio mondo, la realtà: se il mondo non riusciamo a dirlo, è come se non ci fosse. E’ quindi il nostro parlare che fa essere il mondo, è il linguaggio che porta significato alle cose, tenta di significare una determinata realtà”. Per questo motivo, come accennato sopra, solo l’essere umano ha propriamente un linguaggio, e non una mera emissione di suoni, “solo dell’uomo è il parlare, il bisogno di comunicare ciò che si è concepito. Questa capacità di articolazione di significati è propriamente il linguaggio”. Scrive Heidegger in “La poesia di Hölderlin”: “Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l’un l’altro. […] Ma l’unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell’uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci”. Il filosofo austriaco arriverà ad affermare che “è il linguaggio stesso a parlare, in noi”. Per dar vita un colloquio, dunque, c’è bisogno di qualcosa che tenga unita i dialoganti. Così lo spiegava Hans-Georg Gadamer: “ciò che viene in luce nella sua verità è il Lógos stesso, che non è mio, né tuo, e che perciò sta al di là di ogni opinare soggettivo degli interlocutori, al punto che anche colui che guida il dialogo rimane sempre uno che non sa”. “Come nel gioco – ha proseguito Sansonetti -, dove, seppur l’obiettivo dei singoli giocatori può essere la vittoria, ciò che lo rende possibile sono le regole, cioè una base comune senza la quale il gioco non può esistere”. Questo ragionamento è fondamentale perché permette di comprendere come il partecipare a un dialogo autentico significa prendere consapevolezza che “chi dialoga non può non uscirne trasformato lui stesso, al di là che cambi o meno opinione”, per il fatto, come detto sopra, che il linguaggio istituisce, quindi trasforma il reale, quindi anche il soggetto, lo fonda, permettendoci così di “considerare seriamente le ragioni del nostro interlocutore”. È nel colloquio, dunque, nel dia-logos, nel “parlare-tra” che consiste l’autentico essere dell’uomo. Mai dimenticando, per concludere, che il linguaggio non può esprimere tutto (l’essenziale non è esprimibile), ma tutto ciò che può essere espresso, lo è attraverso il linguaggio.
Il diario di una sofferenza, potremmo definirlo, di un’anima misticamente irrequieta, ben lontana dall’immagine costruitagli addosso nei decenni. Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 – Cambridge 1951), logico e filosofo del linguaggio (oltre che ingegnere), considerato fra i geni del Novecento (e forse non solo) ha subito, e forse subisce in parte ancora, le conseguenze dell’enorme fraintendimento riguardante soprattutto il celebre aforisma “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Uno dei suoi grandi meriti, infatti, è stato il tentativo di non ridurre l’etica, il discorso sul senso dell’esistenza e la fede a mere dispute teologiche, a svilenti scontri fra asserzioni, se non addirittura a semplici analisi scientifiche. Un approccio radicalmente antipositivistico, con forti echi kierkegaardiani, il suo, che emerge in particolare nei suoi diari degli anni ’30, in Italia raccolti in “Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937” (Edizioni Quodlibet).
Come distinguere i miti buoni da quelli cattivi? Ma soprattutto, ha ancora senso parlare di “mito” in una società desacralizzata come la nostra? A partire da queste domande, nel pomeriggio del 23 febbraio scorso Paolo Pasini ha sviluppato la propria riflessione sul tema“Raccontare il mito. Come orientarsi tra miti che ingannano e miti che fanno crescere”. Si è trattato del primo dei quattro incontri del ciclo dal titolo “Il mito. Una chiave per entrare in noi stessi. Riflessioni, analisi, stimoli”, in programma nella sede de “I Ricostruttori”, Cascina Santa Caterina, sullo stradone del Gallo, 2. Una 50ina di presenti ha assistito alla relazione di Pasini partecipando anche con diversi interrogativi e spunti di riflessione. Il relatore ha avviato la propria relazione partendo da decine di migliaia di anni fa, nel Paleolitico, e da alcune pitture rupestri pervenuteci che dimostrano come già l’homo neanderthalensis e l’homo sapiens “riuscissero a pensare simbolicamente, dunque a creare miti”. Per Pasini si può dire che “il primo pensiero avuto da un essere umano è stato simbolico, è un pensiero magico, che nasce dalla paura e dalla meraviglia, dal terrore e dallo stupore”. Nel suo excursus storico è poi passato al periodo della filosofia greca, presocratica e postsocratica: già da Anassimandro “il pensiero filosofico – ha spiegato – inizia a prendere le distanze dal mito, a metterlo in discussione, privilegiando sempre più il logos rispetto al mythos, quindi preferendo un concatenamento di ragionamenti, un’argomentazione razionale rispetto a un tentativo di comprensione simbolica”. Il logos filosofico, rafforzatosi con Platone e Aristotele, considera il mito “ciò di cui non si può trovare qualcosa di più vero”, qualcosa di “non preciso”, al massimo di “quasi esatto”. L’assimilazione del mito al falso, al non vero, si è invece intensificata con la rivoluzione scientifica e soprattutto nel periodo illuministico, quando la ragione e la scienza venivano viste – con le dovute sfumature interne alle varie correnti di pensiero – come “mezzi per liberare l’uomo dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, quindi anche dal mito”. Kant, pensatore illuminista, sceglierà una posizione già maggiormente critica rispetto a una mentalità razionalista, ammettendo che esiste tutta una sfera di conoscenza – sull’anima, su Dio, sull’universo – “che la ragione non può comprendere”, e sulle quali, perciò, esiste un margine di soggettività maggiore rispetto al campo delle cosiddette scienze empiriche. In questo solco creato dal kantismo si inserirà successivamente il romanticismo, rivalutando “come fondamentali per il pensiero e per cercare le ragioni del vivere, l’amore e i sentimenti, la fede e la religione, l’arte e lo stesso mito”. Passando al XX secolo, sarà Ernst Cassirer a ridare ulteriore importanza al pensiero mitico come “basilare per lo sviluppo successivo del metodo scientifico e delle varie forme di conoscenza”. Ma è il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer e il suo pensiero ermeneutico, per Pasini, ad avere nel Novecento un ruolo fondamentale contro ogni forma di positivismo o dogmatismo. L’ermeneutica – scrive in “Verità e metodo” (1960) – non riguarda la “costruzione di una conoscenza certa, che soddisfi all’ideale metodico della scienza; e tuttavia anche qui si tratta di conoscenza e di verità. Nella comprensione di ciò che è trasmesso non si comprendono solo dei testi, ma si acquistano delle idee e si conoscono delle verità”. “Tutto nella realtà va quindi interpretato – ha spiegato Pasini -, necessita continuamente di essere interpretato”, disvelato nel suo senso. Il rapporto della persona col reale è dunque “una ricerca continua”, un muoversi perennemente in “un universo ermeneutico, per sua natura perciò aperto”. In questa continua apertura, inoltre – e ciò è fondamentale nel pensiero gadameriano – non cambia solo il reale e la nostra coscienza dello stesso, ma “noi stessi, lo stesso soggetto che vive un’esperienza di verità”. Quest’idea di ricerca e apertura è un ottimo antidoto “contro ogni forma di chiusura e di narcisismo, usando sempre il senso critico e nella consapevolezza dei propri limiti di essere umano – anche, possiamo dire, nei confronti di Dio”. Un rischio e una scoperta continui per smascherare – ha concluso Pasini – anche i falsi miti. E qui il richiamo finale è a un passo del Vangelo (Mt 7, 15-17): “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi”. Gli altri tre incontri del ciclo sono in programma, sempre alle ore 17, sabato 2 marzo (“Dal mito di sè al contatto con sè. Come superare blocchi e timori per una piena realizzazione di sè”, con Silvia Donati), sabato 9 marzo (“Alla ricerca dell’immortalità. Il mito della salute”, con Silvia Braghini) e sabato 16 marzo (“Parzival. Attraverso la riscoperta del mito medievale del Graal, un percorso verso l’unificazione interiore e la libertà di spirito”, con Simone Sacchier).
Nell’ambito del ciclo di incontri “Cultura e Carità”, a cura del Centro Sant’Andrea, ieri sera, giovedì 1 dicembre, Marco Guzzi è intevenuto nella conferenza dal titolo “Crisi ideale dell’Occidente, critica e proposta di Papa Francesco”. L’incontro si è svolto nella Sala delle Capriate, in piazza Leon Battista Alberti, a Mantova.
