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«Ecco la mia Africa, dove curo i bambini più poveri»

21 Giu

Andrea Franchella col Direttore della Clinica Pediatrica “Sao Josè en Bor”

Andrea Franchella, chirurgo pediatrico ferrarese in pensione, da 30 anni gira il mondo per salvare la vita ai bambini nelle zone più povere. Alla “Voce” racconta i suoi ultimi progetti in Uganda e Guinea 

di Andrea Musacci

A fine maggio scorso, Andrea Franchella è tornato dall’ultimo suo viaggio in Africa, per la precisione in Uganda, dov’è stato assieme alla moglie Angela per sei settimane. Non un viaggio di piacere, ma di carità. Franchella, infatti, è un “medico missionario”, un chirurgo pediatra in pensione da 6 anni, che porta la sua “chirurgia solidale” (come lui stesso la chiama) in quei Paesi dove la cura specialistica per i bambini non esiste o è largamente inadeguata. 

Franchella, la prima volta lo abbiamo intervistato nel febbraio 2023 (v. “Voce” del 17 febbraio 2023). Ora lo abbiamo rincontrato per aggiornarci sugli importanti progetti che sta portando avanti in Guinea Bissau e, appunto, in Uganda.

CHI È FRANCHELLA

Ferrarese, parrocchiano di Santa Francesca Romana (ma cresciuto tra San Benedetto e Casa Cini), Franchella ha iniziato nel 1995 le sue missioni professionali in giro per il mondo: le prime vennero realizzate grazie a finanziamenti e collaborazioni con la Fondazione per la Ricerca Pediatrica “Renzo Melotti”, Rotary International e WOPSEC (World Organisation of Pediatric Surgery for Emerging Countries). Dopo alcuni anni comprende la necessità di una maggiore organizzazione per avere strumentazioni, strutture adeguate, per formare il personale medico locale: assieme all’Unità Operativa di Chirurgia Pediatrica di Ferrara, Franchella nel luglio 2003 crea, quindi, una propria Associazione, “Chirurgo & Bambino Onlus”, oggi ODV, da lui stesso diretta, che dal 2011 collabora anche con Emergency. In questi 20 anni ha creato e portato avanti progetti medico-chirurgici solidali in tanti Paesi, fra cui Guatemala, Bangladesh, Yemen, Armenia, Georgia, Haiti, Tanzania.

GUNIEA BISSAU: PROGETTO OTORINO

Per i progetti ancora in corso, iniziamo dalla Guinea Bissau, dove Franchella sta lavorando a un progetto per l’otorinolaringoiatria (ORL) nella Clinica Pediatrica “Sao Josè en Bor” a Bissau: dopo la missione da lui svolta assieme al figlio Sebastiano, otorinolaringoiatra, nel febbraio 2023, il prossimo viaggio quest’ultimo lo compirà il prossimo novembre.

«In Guinea Bissau – ci spiega Andrea – non esiste la specializzazione in ORL e men che meno in ORL pediatrica. Non esistono specialisti e quindi manca il servizio: c’è un vuoto totale in questo ambito». Qui l’ORL pediatrica riguarda soprattutto le sordità: «non vengono fatte né diagnosi né screening e non vi è quindi nessuna possibilità di trattamento, né attenzione specifica nei confronti delle adeno-tonsilliti, che possono essere causate dallo Streptococco, il quale provoca lesioni all’endocardio e danni molto gravi alle valvole cardiache e a livello renale. La missione alla quale parteciperà mio figlio – prosegue – riguarderà, quindi, la cura di questi malati e il tentativo di far nascere una sensibilità sull’ambito dell’ORL, formando tecnici e specialisti locali per la Clinica Pediatrica “Sao Josè en Bor” e per l’Hospital Nacional Simao Mendes». Verrà quindi eseguita un’analisi delle risorse – poche – esistenti, mentre parte della strumentazione verrà portata dall’Italia.

UGANDA: CURA E ISTRUZIONE

In Uganda, invece, Andrea Franchella è responsabile per la parte clinica del “Children’s Surgical Hospital” a Entebbe, attivo dal 2021. Qui Emergency ha costruito quest’ospedale di chirurgia pediatrica, progettato da Renzo Piano e con 74 posti letto, 6 letti di terapia intensiva, 16 di terapia semi-intensiva. Un esempio di medicina d’eccellenza, nel quale Franchella coordina l’ambito chirurgico e forma il personale locale. 

In tre anni di attività, in questa struttura sono stati visitati quasi 10mila bambini, di cui oltre 2mila non chirurgici. Di questi, ne sono stati ricoverati circa 4500 (un decimo dei quali in terapia intensiva) e altrettanti hanno subìto un intervento. Sono pazienti col labbro leporino, con la palatoschisi, patologie congenite del collo o con patologie gastrointestinali, urologiche o ginecologiche. I pazienti provengono quasi tutti dall’Uganda, e i restanti da Burundi e Sud Sudan, Paesi – ci spiega – «coi quali abbiamo accordi di collaborazione grazie ai quali li andiamo a visitare nei loro Paesi e poi loro vengono nel nostro ospedale in Uganda per essere operati».

Un progetto al quale Franchella sta lavorando è quello finalizzato a praticare in ospedale la chirurgia mininvasiva, ad esempio la tecnica della laparoscopia al posto della laparotomia. Entro fine 2024, questo progetto dovrebbe essere portato a termine: è necessario reperire le attrezzatture e formare tutto il personale. Sempre entro fine 2024, dovrebbe andare in porto anche il progetto di endoscopia, soprattutto digestiva.

Riguardo alla formazione del personale locale, un importante accordo col governo ugandese – prosegue Franchella – «permette di riconoscere il nostro ospedale come centro di formazione, accordo che ci consente di avere anche una collaborazione con la Makerere University di Kampala e col COSECSA (The College of Surgeons of East, Central and Southern Africa)». Attualmente con Franchella lavorano sei chirurghi (1 eritreo, 1 sudanese, 4 ugandesi) e si stanno formando, oltre a tecnici e infermieri, alcuni specializzandi italiani provenienti soprattutto dall’Ospedale dei bambini “Buzzi” di Milano. 

In Uganda lo accompagna sempre la moglie Angela, insegnante di matematica in pensione, che nel 2022 ha dato vita a un progetto di scuola in ospedale simile a quello esistente a Ferrara: «in circa 1 anno costruiremo anche un’area giochi nel giardino dell’ospedale, un progetto che dovrebbe essere finanziato dal Rotary, con capofila il club di Copparo». In Uganda, Franchella e la mia moglie ci torneranno in autunno.

JIMMY CHE SOGNA DI DIVENTARE MEDICO

La missione di Andrea, come della moglie Angela e del figlio Sebastiano, non è solo una questione di numeri, ma di persone. Per questo, ve ne raccontiamo una, quella di Jimmy.

Jimmy Kawesi, 17 anni, è uno dei tanti – troppi – bambini o ragazzi che necessitano di cure particolari se non di veri e propri interventi. La sua è una storia che accomuna tanti bambini ugandesi, con un’infanzia e un presente nella più totale povertà, abbandonato dalla madre. Due anni fa viene ricoverato nell’ospedale di Franchella a Entebbe, dove frequenta anche la scuola interna dimostrando un particolare interesse per lo studio.

Jimmy ha da tempo ripreso ad andare a scuola a Kiboga nel centro dell’Uganda e grazie all’Associazione “Chirurgo & Bambino odv” viene sostenuto nei suoi studi attraverso il pagamento delle rette, nelle spese per i libri e per tutto il materiale necessario. «Monitoriamo sempre il suo percorso: Jimmy sta avendo ottimi risultati. Il suo sogno è di diventare medico». Proprio come Andrea. E chissà quanto bene potrà fare, dopo averne ricevuto tanto.

Pubblicato sulla “Voce” del 21 giugno 2024

Abbònati qui!

Medico dei bimbi nel mondo: storia di Andrea Franchella 

15 Feb

Noto chirurgo pediatrico di Ferrara, dal 1995 gira i continenti per curare i bambini che nessuno vuole curare. Lo abbiamo incontrato di ritorno dall’Uganda e prima della partenza per la Guinea

di Andrea Musacci

Andrea Franchella riusciamo a incontrarlo nei pochi giorni di pausa a Ferrara, tra un periodo in Uganda, dov’è stato, e uno in Guinea Bissau, dove si è recato per dieci giorni fino al 19 febbraio.

Franchella, “medico missionario”, chirurgo pediatra in pensione da 5 anni, porta la sua “chirurgia solidale” (come lui la chiama) in giro per il mondo, in quei Paesi dove la sua specializzazione nemmeno esiste, o le strutture sono inadeguate oppure i servizi inaccessibili per i poveri.

Una grande passione

Ferrarese, parrocchiano di Santa Francesca Romana (ma cresciuto tra San Benedetto e Casa Cini), Franchella ha iniziato nel 1995 a portare la propria umanità e la propria professionalità in angoli del pianeta dove la miseria la fa da padrona. Le prime missioni sono state eseguite con finanziamenti e collaborazioni con la Fondazione per la Ricerca Pediatrica “Renzo Melotti”, Rotary International e WOPSEC (World Organisation of Pediatric Surgery for Emerging Countries).

«Fino al 2018 usavo le mie ferie di Natale o estive per andare all’estero in missione. Ora invece che sono in pensione, mediamente ci vado per 6 mesi non continuativi all’anno». Gli chiediamo come sono nate la sua passione per la medicina e il suo desiderio di portare la propria esperienza in realtà così drammatiche in giro per il mondo. «Mio padre era medico – racconta a “La Voce” – e mi ha trasmesso la passione». In particolare, l’ambito della chirurgia pediatrica è un ambito che ho sempre amato e che mi permette di aiutare molte persone. La mia professione mi ha sempre appassionato, non ho mai avuto dubbi al riguardo». A un certo punto, però, Franchella vive un momento di inquietudine: «ho iniziato a interrogarmi sul perché anche per i bambini l’avere cure adeguate deve dipendere da quale parte del mondo nascono». Siamo negli anni ’90, Franchella ha già raggiunto una buona maturità professionale. È dunque un forte spirito solidale a spingerlo a provare questo tipo di esperienza come medico nel terzo e quarto mondo. Ma questo non bastava: bisognava organizzarsi per avere strumentazioni, strutture adeguate, per formare il personale locale. È così che l’Unità Operativa di Chirurgia Pediatrica ha voluto concretizzare e rafforzare i progetti di aiuto sanitario creando, nel luglio 2003, una propria Associazione, “Chirurgo & Bambino Onlus” oggi ODV, diretta dallo stesso Franchella.

Esperienze di una vita

Nel 1995 iniziano le prime esperienze di Franchella all’estero, per la precisione ad Antigua in  Guatemala, dove si recherà fino al 2002 presso la onlus “Obras Sociales Hermano Pedro”. «Da colleghi – ci spiega – venni a sapere che l’WOPSEC voleva far partire un progetto in questa località dove esiste una missione francescana, in un ospedale dove c’era anche bisogno di un supporto chirurgico. Io, altri chirurghi e anestetisti partimmo, e creammo un Centro specializzato nella cura delle malformazioni facciali dei bambini. Nel progetto fu coinvolto anche il Comune di Ferrara che finanziò la degenza post operatoria». 

Dopo un anno in Ecuador nel 2002, Franchella si reca per 5 anni nella regione di Tharaka in Kenya, per un progetto rivolto soprattutto a bambini ustionati, un problema molto diffuso in quel Paese, che quando non porta alla morte, può lasciare comunque danni funzionali enormi. Tra il 2005 e 2006 sarà anche in Armenia e Georgia, dove collabora con “Operation Smile” per progetti legati a pazienti con cheiloschisi (il labbro leporino) e palatoschisi. «Nei Paesi poveri, queste sono operazioni che normalmente vengono eseguite tramite compenso economico», ci spiega. Dal 2007 al 2011, collaborerà con un’altra organizzazione, “Smile Train” in Bangladesh, Yemen, Etiopia, Costa d’Avorio, Benin ed Irak, mentre dal 2007 al 2009 con la ONG “Adid” in Mauritania, per un progetto per il trattamento dei bambini ustionati. «Qui come in tanti Paesi poveri – ci spiega -, i bambini vengono operati da chirurghi normali perché non esiste la chirurgia pediatrica. Un bambino, però, non può essere considerato un “piccolo adulto” ma un essere in sviluppo». Subire un’operazione senza accortezze fondamentali, «può portare a conseguenze sulla sua crescita». 

Arriviamo al 2010, quando ad Haiti inizia a collaborare con la Fondazione “Francesca Rava NPH Italia” per un progetto di formazione in chirurgia pediatrica all’Ospedale S. Damien di Haiti, diretto da padre Rick Frechette, sacerdote passionista e medico americano. Un luogo dove manca il rispetto per la vita umana: «durante una Messa in ospedale vidi portare una decina di “pacchi” davanti all’altare: ci misi un po’ a capire che erano corpi di bambini morti, fasciati, che da giorni attendevano le esequie». Nel 2011, poi sarà in Tanzania presso l’ospedale di Mbweni dove collaborerà con l’associazione “Ruvuma Onlus”, e per la costruzione di una struttura ambulatoriale di primo soccorso presso la scuola orfanotrofio ”Pietro Marcellino Corradini“ di Morogoro. 

Il presente in Africa

Attualmente Franchella è responsabile per la parte clinica del “Children’s Surgical Hospital” di Emergency a Entebbe in Uganda (nella foto, con un ragazzo operato). «È un progetto molto importante che mi ha visto coinvolto fin dall’inizio. Qui, rispetto alle mie precedenti esperienze, Emergency. ha costruito un ospedale d’eccellenza di chirurgia pediatrica, progettato da Renzo Piano e con 74 posti letto, 6 letti di terapia intensiva, 16 di terapia semi-intensiva. Un esempio di medicina d’eccellenza, dove coordino l’ambito chirurgico e formo anche il personale locale: attualmente, ad esempio, seguo tre ugandesi e un eritreo». In Uganda lo accompagna sempre la moglie Angela, insegnante di matematica in pensione, che ha dato vita a un progetto di scuola in ospedale come quello esistente a Ferrara.

Ma ora vi è anche un progetto futuro per la Clinica Pediatrica “Sao Josè en Bor” a Bissau in Guinea-Bissau. L’attuale Ministro della Salute del Paese africano, Dionisio Cumbà, professionalmente è cresciuto in Veneto: nel 1991, grazie alla borsa di studio di alcune parrocchie e alla guida del missionario padre Ermanno Battisti, ha iniziato a studiare Medicina a Padova, per poi, dopo la laurea, specializzarsi in Chirurgia pediatrica. Sposato con un’italiana, e con due figli, Cumbà per un anno ha anche lavorato con Franchella all’Ospedale di Ferrara, ma poi ha deciso, cosa rara per i medici, di tornare nel suo Paese e di mettere in piedi un servizio di chirurgia pediatrica, che non esisteva. «Per questo mi ha chiesto aiuto e sono stato lì già tre volte, facendo formazione e portando strumentazione». Venerdì 10 febbraio Franchella è partito per la Guinea-Bissau assieme al figlio Sebastiano, otorinolaringoiatra, in vista della creazione del servizio di otorinolaringoiatria, anch’esso mancante.

Le mani di Shamira

La nostra chiacchierata con Franchella scegliamo di concluderla attraverso una storia che sembra poter avere un lieto fine. È quella di Shamira, bimba ugandese di 8 anni, che ha avuto ustioni devastanti a entrambe le mani, ustioni che le impedivano di aprirle. «Ora sta meglio, l’ho operata, riesce anche a prendere due mie dita. «Dal punto di vista chirurgico era stata abbandonata», ci spiega. «E molti bimbi in questo e in altri Paesi poveri spesso sono abbandonati, prima o in seguito all’incidente per cui necessitano di cure. La povertà può gettare tante madri nella disperazione».

Il servizio che Andrea compie è dunque importante perché aiuta anche – per quel che può – a curare, oltre alle ferite del corpo, quelle non visibili dell’anima di tanti bambini.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Strolghe tra magia, fede e medicina

8 Nov
Louis Welden Hawkins, “Woman with the blue curtain”

“La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno” è il libro di Daniela Fratti dedicato ai riti praticati da queste donne ancora attive nel nostro territorio. Ecco chi sono e come la loro arte affonda le proprie radici nella notte dei tempi

I confini tra fede e superstizione si confondono in un sincretismo che mischia cattolicesimo e riti precristiani, magia e fede popolare. È la cosiddetta “Medicina del Segno”, antica pratica, ancora presente, delle strolghe, nella quale l’uso di erbe, spighe e spirali convive con preghiere rivolte alla Vergine Maria.

Ne parla Daniela Fratti nel suo libro “La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno” (Scaranari Editore, Ferrara, aprile 2021), interessante studio su quest’arte trasmessa oralmente nel nostro Paese dalla notte dei tempi e ancora praticata nel territorio ferrarese. 


Tocco taumaturgico tra sacro e profano

Attraverso una precisa ricerca di documenti storici, presenti anche nell’Archivio Diocesano di Ferrara e nella Biblioteca del nostro Seminario, l’autrice ripercorre le origini e le trasformazioni delle strolghe, termine del dialetto ferrarese difficile da tradurre ma che significa “astrologa”, “indovina”. Non a caso, in italiano “strologare” significa almanaccare, perdersi in ragionamenti astrusi, emettere responsi talora assurdi. Una figura –  simile alla pranoterapeuta – con tratti materni e domestici, che “segnava” diversi tipi di malanni e malattie – dai porri sul viso al mal di schiena – fino ai mali dell’animo, alle angosce e alle paure. «Curava nella penombra della cucina di casa – scrive Fratti -, interrompendo la preparazione delle tagliatelle, o nei campi coltivati e perfino nelle stalle, bisbigliando cantilene incomprensibili, tracciando segni sulla parte dolente e scrutando nell’acqua unta per individuare le fonti della malattia». Il suo era considerato un tocco taumaturgico, una «benedizione» se applicata sulla parte malata del corpo. Il rito inizia col segno della croce, si conclude col Pater, l’Ave Maria e un altro segno della croce. La strolga segna tre volte il malato, per tre volte durante il giorno – all’alba, a mezzogiorno, al tramonto. Il segno è «praticato con la mano a taglio, con la punta dell’indice o del pollice oppure con la punta di indice e medio uniti».


Le strolghe ferraresi

Limitatamente alla nostra provincia, l’autrice – soprattutto da racconti orali – ha scoperto come «la strolga era una figura di donna che svolgeva un ruolo fondamentale nella società contadina» fino a metà del secolo scorso. Per questo libro, fra agosto e ottobre 2020, Fratti ha incontrato e intervistato sette strolghe residenti nella nostra provincia, ancora attive come guaritrici, oltre ad essere venuta a conoscenza di altre sei (fra cui un uomo) di cui le hanno parlato ma che non è riuscita a contattare, o già defunte. Un numero alto per una provincia come la nostra.

Le sette strolghe ferraresi sono: Gigliola T., 89 anni, S. Bartolomeo in Bosco, contadina; Giliola P., 79 anni, San Bartolomeo in Bosco, proprietaria terriera e lavoratrice nei propri frutteti; Lia M., 89 anni, S. Martino, contadina; Rosanna M., 82 anni, Ferrara, ex operaia in un vivaio; Daniela C., 61 anni, Scortichino di Bondeno, casalinga; Maria S., 87 anni, Poggio Renatico, contadina; Marta M., 84 anni, Berra. Dall’eczema al colpo della strega, dall’orzaiolo all’herpes, sono tanti i malanni che dicono di riuscire a curare, compresa la paura: il “segnare la paura” sembra essere una specificità proprio delle strolghe ferraresi. Non a caso, nel libro l’autrice racconta come da piccola i coetanei più “temerari” le dicessero: «Àt devi andàr da la strolga, a fàrat sgnàr la paura».


Origini storiche

Né sciamana né fattucchiera, la strolga – viene spiegato nel libro – è «una vera Medichessa che operava attraverso strumenti di tipo sacerdotale». Sembrava che agisse «per ricostituire una qualche armonia perduta dalla persona che si affidava ai suoi segni, e che usasse mezzi e strumenti che forse era più indicato interpretare utilizzando il linguaggio dei simboli». Un’azione, la sua, a differenza delle streghe, almeno nelle intenzioni a fin di bene. Un’armonia del “sacro dentro di sé” da ricostruire, contro forze esterne avverse. Una figura che ama tenersi «in disparte», discreta, «riservata, raccolta nel silenzio del rito consumato nell’interiorità». E che «sopravvive grazie alla stima e all’amore popolare» nei suoi confronti. Le origini di questa “medichessa” sembrano risalire alle società primitive, all’epoca del matriarcato primigenio, e tracce di culti naturalistici nel ferrarese – nel territorio deltizio, in quello di Ostellato, Voghenza e Cassana, in tutta la valle del Basso Po e nel bondenese – rimandano al culto della Signora degli Animali (Reithia Potnia Theron), simbolo dell’eterno femminino, praticato soprattutto dalle donne a protezione di messi, erbe e animali domestici. Nello stesso libro V dell’Iliade, Afrodite è guarita da una carezza della madre Dione. Ma pare addirittura che questa pratica del segno risalga a 5300 anni fa: grazie allo studio del 2015 si è scoperto come l’Uomo dei ghiacci rinvenuto nel 1991 sulle Alpi italiane rechi incisi 59 segni con probabili finalità taumaturgiche.

Com’è naturale, nella cristianità anche le strolghe, considerate “incantatrici”, non potevano essere sempre tollerate. Nel libro, ad esempio, l’autrice cita alcuni casi segnalati al Vescovo Francesco Dal Legname a Ferrara, Villanova di Denore, Quartesana, Tresigallo, Corlo e Correggio, durante la sua visita pastorale fra il 1447 e il 1450. E il Sinodo diocesano del 1751 si pronunciò su coloro che «esercitano Magie, Sortilegi e Incantesimi», e così i Sinodi precedenti, dal 1592, dove si cita anche chi si applica nel “segnare” o “incantare”. La prima segnatrice ferrarese viene citata nel Liber querela rum quartus del 1606: è “Madonna Antonia”, residente in città, «guaritrice herbaria», una delle dementes mulierculae (“donnicciola di poco cervello”), come venivano con disprezzo chiamate le strolghe. Oppure, i documenti citano il caso nel 1605 della bondenese Giacoma la Mantilara, veggente che – a suo dire – riusciva a vaticinare solo fissando un’icona mariana posta sopra il letto. In generale, era proprio questo che la Chiesa perseguiva: «l’uso di elementi sacramentali [acqua benedetta, crisma, ad esempio] fuori dal contesto ecclesiastico, da parte di persone non autorizzate e con intendimenti puramente pagani». Tollerava, invece, a volte le pratiche di maghi, stregoni, cartomanti e quant’altro se non avvenivano con l’uso di materia sacramentale.

Credenze appartenenti a un passato ormai lontano? Non del tutto. Come si è visto, nel nostro territorio c’è chi ancora si rivolge a queste figure, la cui fama poggia anche sulla sopravvivenza di assurde superstizioni. Come spiega la stessa autrice, ad esempio «a Ferrara è ancora diffusa la credenza che la visita di una donna con il ciclo arresti l’allattamento di una giovane madre, a meno che la visitatrice non dichiari apertamente di essere mestruata».


Lo strolghino, salame suino “veggente”

Lo “Strolghino” è un salume tipico del parmense. Le fonti più accreditate fanno risalire il suo nome proprio a strolga. La tradizione, infatti, sostiene che, un tempo, la produzione dello Strolghino servisse per prevedere l’andamento della stagionatura dei salumi di taglia maggiore. Non a caso, perché fra i tanti insaccati suini, lo Strolghino è il primo pronto per il taglio. Una versione meno diffusa vorrebbe, invece, che lo Strolghino fosse un salume difficile da realizzare a regola d’arte, tanto da rendere necessario il consulto della strolga.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 novembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

“Essere prossimi a chi soffre: questa la sfida”: testimonianza dal “COVID 1” di Cona

27 Apr

Giacomo Forini, giovane medico nel “COVID 1” di Cona: “mi colpisce lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti, ma anche l’umanità di tanti miei colleghi verso malati e famigliari”

giacomo forini(Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° maggio: leggi l’intero speciale con le testimonianze di medici e infermieri del “COVID 3″ di Cona, di Cecilia Turrini, Sara Frignani, protagonisti dell’emergenza COVID-19 su http://www.lavocediferrara.it )

A cura di Andrea Musacci

“Il vero dramma di questo periodo? Il non poter permettere al paziente e ai suoi parenti di portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia”. Dietro quella “strana armatura” – con la quale deve lavorare, come la chiama lui – si nasconde una riserva inesauribile di umanità. Giacomo Forini, 35 anni, è un medico di servizio nell’Unità Operativa di Pneumologia dell’Ospedale di Cona, dove ora il reparto infetti si chiama “Pneumologia di coorte – COVID 1”. Specializzatosi nel 2018 in malattie dell’apparato respiratorio, ha frequentato Cona anche da specializzando, e dallo scorso agosto è stato assunto a tempo indeterminato. Ma il suo impegno travalica i confini del servizio ospedaliero: è, infatti, stato vicepresidente diocesano del Settore giovani di Azione Cattolica dal 2008 al 2014, mentre dal 2014 al 2020 è stato consigliere diocesano e presidente parrocchiale dell’AC di Porotto, frazione dove vive con la moglie e i due loro figli di 6 e 3 anni (e a giugno arriverà una sorellina…).

Forini, cosa del suo lavoro ordinario è cambiato, se non stravolto, in questo periodo?

Fino alla fine di febbraio l’attività a Cona era assolutamente regolare; guardavamo con molta attenzione e preoccupazione quello che stava accadendo a Codogno e a Vo’ Euganeo, ma eravamo ancora ignari delle dimensioni che avrebbe assunto l’epidemia. C’era in cuor nostro la speranza o l’illusione che il contagio potesse rimanere confinato, senza mai arrivare a Ferrara. Ai primi di marzo però la situazione è via via peggiorata e anche la sanità ferrarese si è preparata rapidamente all’arrivo del virus: sono stati predisposti reparti dedicati esclusivamente ai pazienti sospetti per COVID19 ed altri ai pazienti con malattia accertata. Il mio reparto, la Pneumologia, è stato coinvolto da subito nell’emergenza: dal 10 marzo scorso abbiamo preso in gestione 24 posti letto per pazienti COVID+ con insufficienza respiratoria grave e necessità di effettuare ossigenoterapia ad alti flussi o ventilazione non invasiva, ma abbiamo mantenuto anche la gestione di 16 posti letto per pazienti con patologie respiratorie, ma non affetti dall’infezione virale. Tutti i nostri sforzi si sono quindi concentrati nella gestione di queste degenze, sospendendo completamente l’attività ambulatoriale non urgente e annullando tutte le ferie e i congressi programmati. Ci siamo trovati improvvisamente faccia a faccia con una malattia nuova e sconosciuta, dotata di elevatissima contagiosità e dal comportamento subdolo: pazienti, anche giovani, capaci di diventare instabili nell’arco di poche ore, tanto da necessitare il trasferimento in terapia intensiva. Abbiamo dovuto abituarci a lavorare per tutto il turno coperti da una ‘strana armatura’ fatta di tuta, cuffia, calzari, doppi guanti, visiera e mascherina. Abbiamo imparato le delicate operazioni di vestizione e svestizione e abbiamo preso confidenza con l’uso di nuovi farmaci, utilizzati off label o in via sperimentale per la cura dell’infezione. Ci siamo confrontati, soprattutto i primi giorni, con la paura del contagio e con l’ansia di portare l’infezione nelle nostre famiglie.

Come si sono modificati i rapporti con i colleghi? E come quelli con i pazienti?

Questa esperienza sta riuscendo davvero a tirare fuori il meglio da ciascuno di noi: vedo grande impegno e dedizione da parte di tutti, siano essi medici, infermieri od operatori sanitari. Stiamo riuscendo a lavorare con affiatamento, in squadra, superando le tensioni che inevitabilmente ogni tanto possono crearsi. Ciascuno sta mettendo in campo la propria professionalità, ma anche la propria umanità: ho visto colleghi ed infermieri incoraggiare e consolare pazienti in lacrime, fermarsi ben oltre il proprio turno per dare una mano, comprare a proprie spese giornali o tessere per la tv da donare ai pazienti, portare ottime torte per risollevare il morale della truppa, scrivere per fare gi auguri di Pasqua ad un paziente dimesso con cui si è restati in contatto. Il COVID19 è una malattia terribile perché alla gravità dei quadri clinici che a volte provoca, associa anche un corollario di conseguenze logistiche che portano il paziente ad essere improvvisamente isolato dai propri parenti ed amici, ricoverato in una stanza con le porte chiuse ed in cui il personale entra completamente protetto, tanto che i diversi operatori sono riconoscibili solo dagli occhi e dalla voce. I primi giorni mi aveva infatti colpito moltissimo lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti COVID appena arrivati in reparto o di quelli a cui, per il peggiorare del quadro clinico, eravamo costretti a posizionarli dentro l’ormai tristemente famoso casco per supportare la respirazione.

A livello umano, dunque, che cosa vive come maggiormente drammatico? E come ciò la sta facendo riflettere sulla scelta della propria “missione” di medico?

La malattia, la sofferenza e la morte sono sempre un momento difficile e spesso tragico nella vita delle persone. Come detto, il vero dramma di questa nuova situazione sta nell’associare sofferenza e solitudine, nel non permettere al paziente e ai suoi parenti di poter portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia, nell’impedire la possibilità di accompagnare ed essere accompagnati dai propri cari nelle ultime ore di vita. Ciò che in questi giorni mi ha messo più alla prova è stato proprio questo trovarsi a dover “mediare” tra i pazienti e i loro parenti: gli aggiornamenti da dare al telefono ai parenti sulle condizioni di un malato, il dover comunicare il decesso di una persona cara, l’andare a dare una carezza o un saluto o un pensiero affettuoso a un paziente su esplicita richiesta dei suoi cari. E’ proprio in queste situazioni, però, che credo venga messa a nudo la grande sfida che il coronavirus ci ha messo davanti: saper essere accanto, prossimi, a chi è nella sofferenza e nella difficoltà. E’ ciò che viene chiesto in modo forte ed esplicito in questi giorni a chi, come me, ha scelto il lavoro di medico od infermiere, ma è una richiesta che interpella in modo forte ciascuno, indipendentemente dal proprio lavoro: dobbiamo riuscire a tenerci stretti, anche se il virus spinge per allontanarci e dobbiamo essere attenti a non perdere i più fragili e deboli. La solidarietà e la fratellanza dimostrate dalle persone in questi giorni in tanti piccoli gesti mi fa però guardare al domani con grande speranza.

 

Vivere nel dolore degli altri ascoltandone le voci

2 Set

Si può comunicare l’Alzheimer? L’ASP di Ferrara ha ospitato il progetto “Dieback*/Fioriture” dell’artista riminese Isabella Bordoni, che ha abitato per due settimane nella Casa Residenza di via Ripagrande: “tanta la tenerezza e l’empatia provate nel vivere con i malati. Rendendo pubbliche le loro voci spero di aver fatto emergere nei visitatori una commozione profonda”

alzheimerStorie di vita, sofferenze passate e presenti, paure senza volto, solitudini sommerse nel silenzio. Fantasmi della mente che nidificano corpi ed esistenze rischiando di inghiottirle, disancorandole dalla realtà.

Sono oltre 600mila nel nostro Paese i malati di Alzheimer, persone impossibilitate a tenere il filo dei propri giorni, per il graduale logoramento della memoria, soprattutto e innanzitutto di quella a breve termine. Esistenze quasi mai prese in considerazione, se non nella nicchia privata, satura di scoramento e solitudine, nella quale spesso i famigliari sono costretti a vivere.

Isabella Bordoni, artista visiva e sonora riminese, che nella sua trentennale attività ha spesso affrontato i temi dell’ “abitare”, si è a lungo interrogata se e come sia possibile comunicare la sfuggente sofferenza di questi malati. Per questo ha deciso di vivere, giorno e notte, nelle prime due settimane di giugno 2018, a contatto con quelli ospitati nella Casa Residenza del Nucleo Speciale Temporaneo Demenza dell’ASP in via Ripagrande a Ferrara, periodo nel quale ha registrato suoni, voci, rumori. Da qui è nato il progetto denominato “Dieback*/Fioriture. Archivio sonoro delle voci, per ricucire il rapporto tra linguaggio, demenza e poesia”, voluto e promosso da ASP – Centro Servizi alla Persona di Ferrara, con il patrocinio del Comune. Nel settembre 2018 si è svolta la prima parte, attraverso varie iniziative (alle quali hanno partecipato una 60ina di persone), fra cui un’installazione sonora per restituire alla comunità questo “Archivio di Voci e Suoni”. Nella settimana del Buskers Festival, per la precisione dal 24 agosto al 1° settembre scorsi, è stato allestito invece il secondo percorso sonoro (foto in basso di Greta Fuzzi), nel giardino interno della sede ASP di via Ripagrande, attraverso la possibilità di ascoltare con le cuffie, tramite due tablet, le voci dei malati e degli OSS che li assistono.

Un approccio difficile, indiretto, che denota dunque coraggio da parte dell’artista, e che, a nostro parere, “obbliga” il visitatore a prendersi del tempo per ascoltare, per concentrarsi pazientemente su dialoghi, esternazioni, suoni vivi. Insomma, una maniera per approcciarsi non distrattamente ma con cura a queste persone sofferenti, ascoltandole, venendo a conoscenza delle loro storie, penetrando quei muri che spesso sembrano – o per colpe nostre, diventano – invalicabili. Così da lasciar fiorire, come recita il nome del progetto, corpi nascosti nella città, parole seppellite negli antri della mente, dell’anima, dietro quel deperimento, quella marcescenza (questo significa l’altra parola del titolo, “dieback”) così sorda e inarrestabile.

A “la Voce” Bordoni spiega come “mostrando la dimensione ‘poetica’ che vi è nella vita, dunque anche nella malattia, ho provato a ‘stanare’ in chiunque si approcci a quelle voci una commozione profonda. Non ho avuto esperienze dirette di famigliari con l’Alzheimer – prosegue –, ma l’idea è nata nel tempo, in me è aumentata la sensibilità nei confronti delle questioni legate agli anziani e alla malattia. Questo spazio altro della demenza l’ho trovato estremamente interessante, anche se di solito molto ignorato, perché se è vero che tutte le malattie fanno paura, questa forse ne fa di più”. In un’artista, l’empatia sfocia inevitabilmente nella ricerca di mezzi espressivi creativi e originali: “esplorare questo mondo attraverso una chiave artistica mi sembrava un impegno che ero in grado di prendermi”, sono ancora parole della Bordoni. La malattia, dunque, può essere approcciata e comunicata, “senza dover essere eroi. Prima di vivere nella Casa – ci spiega ancora – mi sono preparata molto, immaginando come potesse essere”. La paura non mancava, “ci ho lavorato un anno. Ma una volta dentro non era affatto difficile, gli ostacoli previsti non li ho trovati, ma ho provato solo tanta empatia nei confronti di queste persone malate, e scoperto spazi in realtà meno inabitabili di quel che si può pensare. Alla fine, per me – ci confessa – è stato difficile andare via, perché in luoghi come questo riconosci profondamente qualcosa di te”. Che cosa ha riconosciuto?, le chiediamo. “Semplicemente che il corso umano prevede anche questa resa del controllo sulla vita, cioè che con il corpo e la mente non si controlla più il proprio destino”, anche se spesso è facile dimenticarsene. Una casa di cura come quella abitata dalla Bordoni, “contiene un potenziale così alto di umanità, per cui mi interessava starci dentro”, cercando di comprenderne anche “il rapporto delle persone con l’architettura, con gli spazi, come cioè si possa vivere comunitariamente in uno spazio chiuso come quello”. E a proposito di spazi, l’artista di notte riposava in un letto allestito in una grande stanza, isolata da un semplice pannello, normalmente adibita per la cosiddetta “Terapia della bambola”, importante alternativa farmacologica, nata per risvegliare nei malati le reazioni e promuovere il contatto, oltre che utilizzata per i bambini.

A proposito di infanzia, e riprendendo uno dei tre concetti fondamentali del progetto – quello della parola, del linguaggio -, Bordoni ci spiega come nella casa di cura “c’è molto dell’infanzia”, in quanto il linguaggio, se all’inizio della vita non è ancora appreso, in casi come questi, nella fase conclusiva, è dimenticato: “una balbuzie comune vi è – prosegue – tra infanzia e vecchiaia, e ciò mi pare, in un certo senso, sinonimo di ‘saggezza’, in quanto cadono certe strutture predeterminate dell’interpretazione, facendo così riaffiorare l’essenza delle cose, facendo tornare essenziali affetti elementari, non costruiti”, non codificati.

Un’indagine, quella messa in atto quindi da Isabella Bordoni, estremamente realistica, minuziosa, sfociata in una sorta di “catalogazione” di voci e suoni spontanei; indagine che però – caso rarissimo – non ha i tratti della fredda analisi laboratoriale ma fa dell’ascolto il suo punto di forza. Significa farsi prossimi all’altro – innanzitutto a chi più soffre – ascoltandone patemi e ricordi, assaporandone asprezze e dolcezze, senza intenti giudicanti, ma anzi dando voce a queste persone, restituendo loro soggettività, dando nome e carne ai loro dolori, ai loro rimpianti, ai tarli di una vita. Scrive lei stessa in uno dei pannelli del progetto: “VITA è la parola alla quale non sottrarsi, qui. Stanare tra le pieghe della malattia e del dolore, la vita che spinge e preme e che chiede, nel morire delle proprie forme, la possibilità di fiorire in altre”. Una proposta di verità che non possiamo non fare nostra.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 settembre 2019

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Al Mammuth prosegue il corso di bioetica

10 Nov

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Vincent Van Gogh, “Il buon samaritano”, 1890

Avrà luogo oggi alle 14.30 nell’Aula 7D del Polo Chimico-Biomedico (Mammuth) in via Borsari, 46, il secondo dei cinque incontri del corso di Bioetica “Malattia e bellezza della vita” organizzato da Fondazione Zanotti, Student Office, e Centro L’Umana Avventura. Relatore sarà Vittorio Canepa, pediatra di Chiavari (GE). La partecipazione è libera e aperta a tutti. Prossimo incontro giovedì 17 con “La bellezza della medicina. Il metodo clinico”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 10 novembre 2016

“Bioetica: un ponte sul futuro”, oggi l’ultimo appuntamento

10 Dic

12219584_1211367165547222_7135847211583065816_nOggi alle 15 è in programma l’ultimo appuntamento del corso “Bioetica: un ponte sul futuro”, coordinato dal prof. F. M. Avato e organizzato dalla Scuola di Medicina – Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università degli Studi di Ferrara insieme alla Fondazione Zanotti. “Vite da medici: storie di persone, con e per persone” è il titolo dell’incontro con Luigi Grassi e Rosario Cutrera, dell’Università di Ferrara. Moderatori dell’incontro saranno gli specializzandi e laureandi in Medicina dell’Ateneo. In conclusione, intervento del prof. Avato per il decennale dei seminari di bioetica. L’incontro si svolge nell’Aula Canani in via Fossato di Mortara, 64.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 10 dicembre 2015

“Lovers”, ovvero relazioni d’amore ispirate agli Este

23 Mag

Rebecca Russo ecc.A Marfisa d’Este, protettrice di Torquato Tasso, è dedicata la palazzina in c.so Giovecca, 170 che da mercoledì ospita la mostra di videoarte “Lovers”, visitabile fino al 15 giugno. La Fondazione Videoinsight ha presentato ventuno opere di artisti da tutto il mondo sul tema della Relazione d’Amore, ispirandosi proprio alla vita di Marfisa d’Este. Otto sale con altrettante tematiche – Eros, Thanatos, Dipendenza, Circolarità, Salvezza, Rinascita, Emozione, Relazione – tra Arte Contemporanea e Psicologia. Rebecca Russo, Presidente della Fondazione ha dapprima presentato le attività della Fondazione, il cui compito è di integrare l’arte contemporanea con la scienza, con la salute, con la ricerca del benessere psico-fisico. Per questo, diversi sono gli ospedali che ospitano le attività della Fondazione, tra i quali il Rizzoli di Bologna. Il termine Videoinsight significa “avere una visione interiore attraverso una visione esteriore, un’intuizione, un cambiamento grazie alla potenza delle immagini” artistiche. Da qui l’idea dell’arte come qualcosa di fondamentale per la nostra vita, “per la nostra evoluzione, per la nostra salvezza”. Opere come le ventuno presentate a Marfisa, ha continuato la Russo, “per anni sono state presentate a persone con le più svariate problematiche” – ansia, depressione, problemi relazionali ecc. – e molte di esse ne hanno ricavato benefici.

Nello specifico, la scelta di “Lovers” si basa sul partire da un ”tema eterno, irrisolto” e irrisolvibile,”universale e con molteplici sfaccettature” come quello dell’amore. Insomma, “Lovers” è un labirinto di sensazioni lungo le antiche stanze di Marfisa.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 maggio 2014

Arte e scienza nella mostra “Lovers”

21 Mag

10277640_481817478613680_6582289013203116897_nLa Fondazione Videoinsight, nel contesto del Progetto Art for Care, oggi alle 18.30 alla Palazzina Marfisa d’Este, in Corso Giovecca, 170, presenta ”Lovers”, la nuova mostra di Videoarte con ventuno opere sul tema della Relazione d’Amore, traendo ispirazione dalla vita di Marfisa d’Este. Le otto sale della Palazzina Marfisa ospiteranno i video caratterizzati da otto differenti tematiche: Eros, Thanatos, Dipendenza, Circolarità, Salvezza, Rinascita, Emozione, Relazione, Comunicazione. L’evento, che integra Arte Contemporanea e Psicologia, è finalizzato alla Promozione della Crescita della Persona e della Collettività, alla Prevenzione e alla Promozione del Benessere Psicofisico dello Spettatore. Tutte le Opere affrontano il tema della Relazione Affettiva stimolando libere associazioni mentali, interpretazioni, narrazioni.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 21 maggio 2014

La lunga tradizione dei medici ebrei nella nostra città

1 Mag

P1000121Ieri in un’affollatissima Sala della Musica del Chiostro di S. Paolo ha avuto luogo la tavola rotonda “I medici ebrei e la cultura ebraica a Ferrara”, libro appena uscito per Faust edizioni. Ha moderato l’incontro Massimo Masotti (Presidente Associazione de Humanitate Sanctae Annae, Ferrara) e sono intervenuti Stefano Arieti (Università di Bologna), Fausto Braccioni (Azienda USL Ospedale del Delta – Lagosanto, Ferrara), Mauro Martini (Università di Ferrara), Riccardo Modestino (Azienda Ospedaliera Universitaria Sant’Anna, Ferrara), Andrea Finzi (Past Presidente Associazione Medica Ebraica – AME, Milano), Carlo Magri (Dirigente delle Professioni Sanitarie dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Ferrara), Andrea Nascimbeni (Giornalista freelance, Ferrara) e Germano Salvatorelli (Università di Ferrara). Nascimbeni ha evidenziato il “profondo legame tra la visione integrale dell’uomo tipica dell’ebraismo e i medici ebrei”. Da non dimenticare, ha aggiunto, che nell’ebraismo il medico cura ma – com’è scritto nell’Esodo – solo Dio è “colui che ti guarisce”. Mentre Arieti ha parlato della figura del medico Amato Lusitano e Salvatorelli di quella di Isacco Lampronti e di alcuni suoi discendenti, Modestino ha posto l’accento sull’importanza della comunità ebraica “nella costruzione dell’identità culturale ferrarese”. Ciò è stato possibile grazie alla “strettissima e peculiare interdipendenza tra gli ebrei e altre culture”. La figura del medico Elia Rossi Bey, morto nel 1891, è stata invece al centro della relazione di Martini, mentre la seconda relazione di Modestino ha riguardato Alberto Michelangelo Luzzato, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento. Infine, negli ultimi due interventi, Braccioni e Magri hanno rispettivamente affrontato la straordinaria figura del medico Fernando Rietti – uomo di profonda “onestà intellettuale, di grande cultura e con un forte senso religioso”, scomparso sessant’anni fa – e quella di Maria Zamorani, una delle poche donne mediche a Ferrara dopo la Grande Guerra e tra queste forse l’unica ebrea.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 1 maggio 2014