Viaggio nella mostra bolognese sull’artista statunitense esposta a Palazzo Fava. Mancano alcune opere famose, ma c’è tanto dell’immaginario dei due ferraresi.
[Qui il mio articolo su la Nuova Ferrara]

“South Carolina Morning” (1955)
Un “realismo metafisico” in dialogo con de Chirico e Antonioni, dove le figure umane sono colte nel loro smarrimento ma anche nella loro intimità. Sono circa una sessantina le opere di Edward Hopper (1882-1967) esposte fino al 26 luglio a Palazzo Fava a Bologna. La mostra – organizzata da Fondazione Carisbo, Genus Bononiae e Arthemisia Group, con Comune di Bologna e Whitney Museum of American Art di New York – presenta l’intero arco temporale della produzione dell’artista. Hopper, nato e cresciuto a Nyack, Stato di New York, ha studiato illustrazione e pittura alla New York School of Art, per poi recarsi a Parigi tre volte (1906-1907, 1909 e 1910), viaggi che influirono fortemente sul suo immaginario, dando forma a quel tratto ancora inconfondibile.
Innanzitutto, rimarrà deluso chi attendeva di ammirare tutte le sue opere più famose, a partire da Nighthawks (1942), la grande assente. Fin dall’inizio del percorso espositivo, in ogni caso, si nota quella che diventerà la sua cifra: l’assenza, a volte fisica, altre volte spirituale, del soggetto umano, un vuoto che traspira, in interni cupi, dai volti atoni. Indicativi di ciò sono Solitary Figure in a Theater (1902-1904 ca.) o Stairway at 48 rue de Lille, Paris (1906). Proprio il periodo parigino vede, poi, una serie di paesaggi ampi e luminosi, anche se la luce appare satura e artificiale. Dal senso di claustrofobia ci si avvia, dunque, verso quegli spazi urbani emblematici dell’alienante società moderna. Prima, però, un accenno a due tele: Soir bleu (1914), inquietante quadretto, con richiami a Degas, pescato dal più torbido immaginario onirico; e Summer Interior (1909), dove affiora quella tensione erotica tipica delle sue opere. Nell’ultima sala la pittura hopperiana raggiunge l’apice. Se in Cape Cod Sunset (1934) il cielo sullo sfondo assume finalmente toni caldi, tanto in questa quanto in altre – Stairway (1949) e Second Story Sunlight (1960) –, spazi boschivi ombrosi sembrano poter inghiottire l’osservatore: neppure gli avvenenti corpi femminili – South Carolina Morning (1955) – riescono a mitigare il senso di perturbante.

Self-Portrait (1903-1906 ca.)
E proprio quest’ultima sensazione richiama, come accennato all’inizio, l’immaginario dechirichiano e quello antonioniano. Per quanto riguarda il pittore, basti pensare alle sue piazze desolate, irreali, abitate da statue e manichini carichi di tensione. E così anche nel caso del regista riaffiorano alla mente fotogrammi di film come L’eclisse (1962), dove le fredde architetture urbane scatenano un profondo senso di spaesamento. Nel pieno della modernità e della cultura di massa, dunque, Hopper predilige l’individuo atomizzato, corroso da un vuoto interiore: ogni forma di collettività, di relazione è bandita. I soggetti umani sono come assenti, la loro posa contemplativa denuncia una stanchezza esistenziale. D’altra parte, però, questo suo insistere sul singolo rivela un profondo approccio intimistico, un monito a cercare, comunque, il volto dell’uomo.
Andrea Musacci
Pubblicato su la Nuova Ferrara il 17 aprile 2016
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