L’incontro con i musulmani nella nostra città passa anche dalla ONG “Islamic Relief”: 50 i giovani attivi a Ferrara dal 2015. Abbiamo incontrato tre di loro (Khadija Lahmidi, Nadia Ziani e Malek Fatoum) per parlare di dialogo e identità
di Andrea Musacci
I loro hijab (i veli), uno bianco e uno nero, circondano volti al tempo stesso vivaci e posati, abituati al confronto e “pazienti” nel sopportare le troppe domande di chi, come il sottoscritto, le interroga su questioni riguardanti la loro identità. Identità, quella di Khadija Lahmidi e Nadia Ziani, chiara ma non esclusiva, e che le due ragazze vivono prevalentemente, dal 2018, nel gruppo ferrarese della ONG “Islamic Relief” (IR), organizzazione benefica nata nel 1984 nel Regno Unito e oggi operante in 40 Paesi in tutto il mondo per fornire acqua, cibo, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione, nonché per portare aiuto in caso di catastrofi (ad esempio, in Australia nei recenti casi di incendi o in Italia nel 2009 durante il terremoto in Abruzzo). Nadia, marocchina ma nata in Italia, originaria del vicentino, frequenta il IV° anno di Medicina a Ferrara, mentre Khadija, nata in Marocco e trasferitasi in Italia quando aveva 6 anni, è impegnata in una cooperativa sociale di Sermide, località dove vive, ed è iscritta a Giurisprudenza nella nostra città.
Una delle fondatrici del gruppo di IR a Ferrara è invece Malek Fatoum, nata e cresciuta nella nostra città da genitori di origine tunisina, iscritta alla Facoltà di Ingegneria e impegnata anche nell’associazione “Occhio ai media”: “sei anni fa – ci racconta – io e mia sorella Amira veniamo in contatto con una volontaria del gruppo di Bologna che ci racconta di questa realtà di cui fa parte e noi, affascinate dall’idea, decidiamo di fondare un gruppo anche nella nostra città facendo passaparola tra amici e conoscenti”. A Ferrara IR attualmente conta una cinquantina di giovani aderenti che si ritrovano solitamente, ci spiega ancora Malek, “una volta mese (in sale della parrocchia di Sant’Agostino o in altre messe a disposizione dal Comune) per programmare e organizzare eventi di raccolta fondi umanitari e per gestire attività utili all’intera comunità, come per esempio il doposcuola per i bambini che hanno bisogno di supporto nella preparazione dei compiti”. Riguardo agli eventi pubblici, “l’ultimo da noi organizzato – ci raccontano Khadija e Nadia – si è svolto lo scorso novembre, una cena solidale alla quale hanno partecipato non solo islamici”. Sì, perché IR, nonostante la sua ispirazione ben precisa, è aperta a chiunque ne condivida i valori di fratellanza e solidarietà. Tanti, però, “sono i pregiudizi nei confronti dell’islam, dettati perlopiù dalla paura, lo sperimento anche nella mia Facoltà”, ci spiega Khadija. Ma si può vedere il bicchiere mezzo pieno: “dallo scorso dicembre noi studenti musulmani possiamo pregare in un’aula interna alla biblioteca del Dipartimento, grazie all’interessamento del Direttore Negri”. Il confronto con i “non musulmani” per loro sarebbe impensabile senza il continuo dialogo interno a IR: “tra volontari – sono ancora parole di Khadija – ci ritroviamo liberamente per ragionare e dialogare su tematiche riguardanti la nostra appartenenza di fede. Non vogliamo, infatti, ripetere meccanicamente le cose che abbiamo imparato, come alcuni musulmani fanno”. Limite, quest’ultimo – le spiego -, purtroppo anche di non pochi cattolici. “Ognuno è libero di usare il proprio intelletto, il proprio senso critico – interviene Nadia -, non bisogna accettare le cose passivamente. Ad esempio, io porto il velo dal 2016, ma prima ho voluto approfondire perché molte donne musulmane fanno questa scelta. Per me indossarlo è un semplice atto di modestia e di pudore, simile a quello di Maria di Nazareth, e serve a fare in modo che l’attenzione di chi mi guarda non cada sulle mie forme fisiche ma sulle mie virtù. Sapendo, comunque – prosegue -, che l’abito non fa il monaco, e che quindi non basta indossare il velo per essere virtuose”. “E’ vero, non ha senso indossarlo solo per tradizione – ci spiega Khadija -, io lo porto dall’età di 17 anni: per me è una forma di testimonianza”.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2020
http://lavoce.epaper.digital/it/news
Giovane, maschio e lavoratore: è questo l’identitkit della maggioranza dei musulmani che settimanalmente frequentano la moschea di via Traversagno a Ferrara, zona Mizzana. Con un aumento, negli ultimi anni, di richiedenti asilo subsahariani. A spiegarcelo è Hassan Samid, 33 anni, nato in Marocco e trasferitosi in Italia coi genitori quando aveva sei anni, dal 2017 (e appena rinconfermato per un altro biennio) presidente dell’Associazione “Centro di cultura islamica di Ferrara e provincia” che dirige la comunità. L’Associazione nasce nel ’98 ma i primi gruppi di musulmani nella nostra città risalgono a circa 40 anni fa, ritrovandosi prima in una sede in via Scandiana, poi in un’altra in Foro Boario, e infine nel 2011 con il trasferimento nell’ex capannone industriale di via Traversagno, acquistato e trasformato grazie anche al finanziamento di 100mila euro da parte della Qatar Charity, e con la mediazione dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia). Ricordiamo che altre comunità musulmane nel nostro territorio sono in via Oroboni (un Centro guidato dall’Associazione Pakistani ferraresi), in zona Barco, a Portomaggiore, Argenta, Bondeno, Copparo e Cento. “Normalmente – ci spiega Samid – circa 150/180 persone frequentano la preghiera del venerdì, e oltre 200 nei venerdì festivi o durante il mese del ramadan. Generalmente sono nordafricani, albanesi, subsahariani e mediorientali. L’età media è inferiore ai 40 anni, con una prevalenza di uomini rispetto alle donne”, prosegue. “Principalmente sono lavoratori, ma non pochi sono studenti e studentesse”. Gli chiediamo se negli anni ha visto cambiare il tipo di persone che frequentano la moschea: “sì, c’è stato un aumento notevole di ragazzi subsahariani richiedenti asilo. Anche se da un anno circa ne vediamo umeno, forse per certe politiche che hanno messo in crisi i sistemi di accoglienza. Sono in aumento anche gli studenti universitari nordafricani”. Nella sede, oltre alle cinque preghiere quotidiane e alla preghiera e sermone del venerdì, viene insegnata ai bambini la lingua araba (“attualmente abbiamo tre classi con circa 20 studenti ciascuna”), oltre a lezioni religiose rivolte a uomini e donne. Inoltre, ci spiega ancora Samid, “si rivolgono spesso a noi persone bisognose: cerchiamo di aiutarle con le pochissime risorse a disposizione, dando la priorità a famiglie con figli piccoli o malati”. Per quanto riguarda i rapporti con la città, sono buoni da diversi anni, e ottime sono le relazioni con la parrocchia di Mizzana e con quella di Sant’Agostino. “Tanto piacere – commenta ancora Samid – ci ha fatto l’anno scorso il messaggio che mons. Perego ha rivolto ai musulmani di Ferrara in occasione del ramadan. L’incontro tra cattolici e musulmani del 4 febbraio a Casa Cini è importante – conclude – perché oggi più che mai c’è bisogno di momenti come questo. Il documento di Abu Dhabi (siglato un anno fa dal Papa e dal Grande Imam, ndr) contiene riflessioni importanti, che tocca a noi sviluppare e rendere vive. Se poi guardiamo la cronaca e la dialettica politica nel nostro Paese, ci rendiamo conto che eventi come questo assumono un’importanza ulteriore, anche se le comunità religiose devono riuscire nel difficile intento di rendere queste occasioni patrimonio di tutta la cittadinanza”.
E’ stata la la Chiesa Battista di via Carlo Mayr – guidata dal pastore Emanuele Casalino – a ospitare il primo dei quattro momenti di preghiera della Settimana di unità dei cristiani nella nostra Diocesi, sul tema “Forza: spezzare il pane per il viaggio”. Padre Oleg Vascautan (alla guida della locale comunità Ortodossa moldava), ha tenuto la meditazione: come emerge dal Vangelo del giorno (la moltiplicazione dei pani e dei pesci), “a Gesù interessa la persona nella sua interezza, corpo, anima e spirito, nulla di noi andrà peso”, e Lui stesso “ci indica l’importanza dell’impegno personale, del sporcarsi le mani” (“Voi stessi date loro da mangiare”): insomma, “ci chiede il dono totale di noi stessi”. In conclusione, “il pane rappresenta l’essenziale, il nutrimento vitale, e perciò ha la precedenza rispetto a ogni ragionamento sulla libertà”.
Quale modo migliore per concludere la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che quello di leggere insieme il Vangelo? Il 26 gennaio si è svolta per la prima volta in tutta Italia la Domenica della Parola, indetta per volontà del Santo Padre Francesco. A Ferrara la sera del 26 le varie confessioni cristiane si sono ritrovate nella chiesa di Santo Stefano per la lettura a più voci del Vangelo secondo Matteo. Questi i lettori che si sono alternati: rappresentanti dell’Ufficio famiglia diocesano, alcuni giovani studenti universitari, Gianni Cucinelli (Chiesa Battista), Padre Ioan Batea (Patriarcato Ortodosso di Bucarest), Padre Vasyl Verbitzskyy (Chiesa Greco-Cattolica Ucraina), Anna De Rose (Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII), Cristina Ferrari (Azione Cattolica), Rosanna Ansani, Beppe Graldi (Focolarini), coniugi Miglioli, Leonardo Gallotta (Alleanza Cattolica), Francesca Ferretti (AGESCI), un rappresentante MASCI, Nicola Martucci (Azione Cattolica), un rappresentante del Movimento Rinascita Cristiana e Chiara Ferraresi (Azione Cattolica). Infine, ricordiamo che mons. Perego ha celebrato la S. Messa delle ore 18 nella Basilica di S. Francesco: al termine della liturgia, ha consegnato una copia della Bibbia ad alcune persone, in rappresentanza delle espressioni della nostra Diocesi: due coniugi catechisti, una bisnonna di Azione Cattolica, una famiglia originaria del Camerun, un giovane scout, una religiosa, due insegnanti, una coppia di fidanzati e un diacono.

La fragilità, il suo riconoscimento e il conseguente senso di gratitudine: una triade che, se applicata anche nelle piccole cose del quotidiano, può cambiare il mondo, perché a beneficiarne sarebbero, innanzitutto, il rapporto di ognuno con se stesso e quindi i rapporti interpersonali. E’ stato un pomeriggio fruttuoso quello svoltosi nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara lo scorso 18 gennaio. Il primo appuntamento della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ha visto il biblista Carmine Di Sante intervenire su un tema a lui caro, a cui ha dedicato anche quello che è forse il suo libro più celebre: “Lo straniero nella Bibbia”. Dopo l’introduzione di Marcello Panzanini, alla guida dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – che ha ricordato anche Maria Vingiani, fondatrice del SAE e pioniera dell’ecumenismo, morta il 17 gennaio a 98 anni -, ha preso la parola Di Sante. Nella sua sfaccettata e affascinante riflessione ha preso le mosse principalmente dal Pentateuco, e dal rapporto fra Dio e gli israeliti, “popolo straniero” (perché a lungo ha vissuto fuori dalla propria patria) e “oppresso”. Da qui, l’analisi della cosiddetta “stranieritudine” da intendere in senso ampio come possibilità di ogni rapporto con l’altro, di ogni relazione interpersonale. Nella stessa Bibbia, l’altro da me dev’essere accolto, e questa è un’idea che ricorre molto spesso nelle Scritture (per fare un esempio: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» – Lv 19,34). “Straniero che – ha affermato il biblista – ci permette di dischiudere un diverso rapporto con la verità”. Quest’accoglienza, inoltre, di per sé esclude ogni tentazione di inglobare, possedere l’altro. L’alterità di quest’ultimo, perciò, riguarda “la fragilità costitutiva di ogni essere umano”, il suo connaturato “essere nel bisogno”, la condizione del mortale in quanto tale, “di chi vive la solitudine, la tristezza, la fame e la disperazione. Tutto ciò richiede dunque non un mero riconoscimento della sua condizione ma che si vada incontro a lui a piene mani, con affetto e prossimità”. Di Sante ha dunque analizzato la “stranieritudine” anche un livello ulteriore, quello più strettamente teologico: “se la terra è di Dio – sono sue parole -, ogni essere umano può abitarci sia come straniero sia come inquilino, sia come sedentario sia come viandante”: insomma, se la terra appartiene a Dio, “allora ne siamo tutti ospiti”. In un senso ‘passivo’, sentirsi ospitati significa sentirsi “accolti, custoditi” – quindi il riferimento è a un bisogno primario di ognuno, che porta a “un senso di stupore e meraviglia, di gratitudine nei confronti di chi ci ospita”. Questa gratitudine, però, se sincera, non può farci diventare passivi approfittatori dell’altrui ospitalità ma “attivi nel desiderio di restituire, ri-donare quel che abbiamo ricevuto”. E’ questo, secondo Di Sante, il significato della giustizia: “l’ospitalità attiva è dunque, nel senso più profondo, giustizia”, è un’azione attiva e concreta che trasforma i rapporti interpersonali, e “dà significato”, più in generale, “al diritto e alla politica”. Inoltre, se si assume questa concezione di ospitalità, non si può non riflettere anche sulla questione ecologica in modo differente. Diverse le riflessioni e gli interrogativi sollecitati dal pubblico (erano una cinquantina i presenti), che hanno permesso al relatore di declinare il tema dell’incontro, ad esempio, anche in riferimento alle questioni delle radici e della paura nei confronti dello straniero.
La tenacia e l’intelligenza unite a una vivacità e a un immutato spirito combattivo: è questo Furio Colombo, ex deputato e senatore (PDS, DS, Ulivo), nonché giornalista (per tanti anni inviato negli States, ma anche Direttore de “l’Unità”). Nonostante gli 89 anni appena compiuti (il 1° gennaio), anche nel suo intervento lo scorso 15 gennaio al Ridotto del Comunale di Ferrara, ha dimostrato una lucidità e una passione civile che speriamo possano essere d’esempio per molti giovani. L’occasione è stata l’incontro, uno dei primi in programma, in vista della Giornata della Memoria del 27 gennaio, proprio nel 75esimo anniversario dalla liberazione del campo di Auschwitz, e nel ventennale dall’istituzione della Giorno della Memoria con la legge n. 211 del 2000, di cui Colombo fu promotore. L’incontro, presieduto e coordinato da Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS (che ha organizzato l’evento in collaborazione con l’ISCO), ha visto i saluti del Prefetto Michele Campanaro (“fare memoria significa schierarsi contro ogni razzismo e contro l’indifferenza”), dell’Assessore Gulinelli (presente al posto del Sindaco Fabbri, che avrebbe dovuto presenziare) e del Presidente del MEIS Dario Disegni. Furio Colombo ha esordito con una punta di amarezza nel ricordare quei mesi del 2000: “non fui sostenuto, nella mia proposta di legge, né dalla destra ma nemmeno da tutta la sinistra”. Componenti non minoritarie di quest’ultima, infatti, “affrontano il problema palestinese con un atteggiamento ’liberazionista’, invece di proporre la soluzione dei ’due popoli e due stati’. Ricordo anche come, quand’ero Direttore de “l’Unità” (tra il 2001 e il 2005, ndr), parlando con alcuni giovani di sinistra, fui osteggiato per la mia posizione sulla questione israelo-palestinese”. I ricordi sono andati poi a ritroso: la corsa sotto i portici della sua Torino il giorno della Liberazione (“la mattina eravamo in un regime, la sera eravamo liberi”), o il ricordo, questo invece molto doloroso, dell’ottobre del ’38, quando il preside della sua scuola fece radunare gli alunni nella palestra, per nominare e far uscire tutti quelli ebrei, da espellere in seguito alle leggi razziali. Ricordi atroci, l’immagine degli insegnanti presenti, nessuno dei quali ha aperto bocca, ma nemmeno si è voltato per salutare gli studenti cacciati. Oppure, “quell’ ‘ispettore della razza’ che vidi coi miei occhi misurare con un compasso il cranio di un’alunna per appurare se fosse o meno ebrea”. Ma anche dopo il ’45 il cammino di consapevolezza e di lavorìo su quel periodo orribile, non è stato facile né immediato: “ricordo come al Liceo D’Azeglio di Torino – mio compagno di banco era il futuro poeta Edoardo Sanguineti – nonostante tutti i professori fossero antifascisti, quando chiedemmo loro di parlare delle leggi razziali ci risposero: ‘la Resistenza ha lavato quest’onta, non c’è ragione di ritornarci su’ ”. Delle responsabilità dei fascisti nella Shoah, Colombo ha parlato approfonditamente nella seconda parte del proprio intervento. Prendendo le mosse dalla sua proposta iniziale, 20 anni fa, di far cadere il Giorno della Memoria il 16 ottobre, in ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma del ’43 – quel giorno 1.023 ebrei furono rastellati dalla Gestapo e poi deportati al campo di Auschwitz, e solo 16 di loro sopravvissero -, l’ex senatore ha ricordato “il fondamentale aiuto dei fascisti nel fornire ai tedeschi gli elenchi precisi degli ebrei da rastrellare” (anche quelli di sangue misto o stranieri, poi rilasciati) e “il silenzio dell’intera città davanti a un orrore del genere, compreso quello dell’allora pontefice Pio XII. “Proposi questa data – ha proseguito – per far comprendere come il Giorno della Memoria non sia per gli ebrei – che non han certo problemi a ricordarsi dell’Olocausto – ma degli italiani, perché possano rendersi conto che la Shoah è un delitto italiano. Basta – ha denunciato – con l’immagine del nazista come il solo cattivo mentre l’italiano era buono: se non ci fosse stato l’alleato fascista, e il grande alleato del silenzio (dell’omertà e dell’indifferenza, ndr) la Shoah forse si sarebbe potuta evitare o comunque sarebbe stata diversa. Ad esempio, la fascistissima Spagna franchista, senza nulla togliere a tutti i suoi orrori, non promulgò leggi razziali contro gli ebrei, e per questo non subì ripercussioni dal regime nazista”. Insomma, la legge del 2000 per Colombo “era ineluttabile, e serviva anche a ricordarci come non sia esistito un ‘fascismo buono’, che ‘ha fatto anche delle cose buone’ ”, come ancora dice qualcuno: “il fascismo non è un’idea politica, ma un crimine, e per i crimini non si può avere rispetto. La pace si può fare solo con chi si è pentito”. L’ultima parte dell’incontro ha visto due storici – Walter Barberis, presidente della Giulio Einaudi Editore e Anna Quarzi, presidente ISCO – e due studenti del Liceo Roiti (accompagnati dai docenti Silvia Sansonetti e Giorgio Rizzoni), Margherita Alberti e Riccardo Bergami, interloquire con Colombo. “Le malattie, se non si prevengono e curano, ritornano e possono essere mortali: il fascismo è come una malattia potenzialmente mortale”, ha riflettuto Barberis, mentre i due studenti hanno posto a Colombo alcune questioni riguardante l’utilità della politica e della cultura nel contrastare il ritorno di razzismo e antisemitismo. Colombo, nel non voler dare risposte nette, né troppo ottimistiche né troppo pessimistiche riguardo a se e quando riusciremo a uscire da questo periodo di revisionismo e odio, ha riflettuto su come a volte la storia ci sorprenda in positivo, altre in negativo, sul riuscire a dare una risposta a fasi difficili. Certo, ha proseguito, “non avrei mai pensato, ad un ritorno oggi della violenza contro i rom e i migranti”. Eppure è accaduto, e continua ad accadere: “il razzismo che oggi c’è in Italia è vergognoso e umiliante”.
“Il mio papà, il ragazzo di Buchenwald, ci ha lasciato. Lo immaginiamo camminare sereno con Alisa e Wolfgang Amadeus. A noi resta la sua intelligenza, la sua grande ironia, il suo cuore immenso. Buon viaggio papà. Baruch Dayan Emeth. Che il tuo ricordo sia di benedizione”. Gadi Schönheit, assessore alla Cultura della comunità ebraica milanese, ha scelto di annunciare con queste parole la morte avvenuta il 14 gennaio di Franco Schönheit, 92 anni, ferrarese, uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah e all’inferno di Buchenwald. Le esequie si sono svolte due giorni dopo, il 16, al cimitero ebraico di Ferrara. Tutta la famiglia viveva da diversi decenni a Milano ma la tragica vicenda della sua famiglia è legata a Ferrara. La “lunga notte” del ’43, dopo il ritrovamento del dirigente fascista Ghisellini, iniziano i rastrellamenti: a farne le spese è anche Carlo, padre di Franco, arrestato e imprigionato nel carcere di via Piangipane (oggi sede del MEIS), il giorno dopo liberato grazie allo stesso Franco, alla moglie Gina Finzi e all’aiuto dell’Arcivescovo mons. Bovelli. La famiglia risiede in via Vignatagliata, 79 sopra la scuola dove lei insegna e il giovane Franco studia. Il 25 febbraio 1944 la famiglia Schönheit viene rinchiusa nella vecchia sinagoga di via Mazzini saccheggiata dai fascisti nel 1941, e il giorno dopo è costretta a salire su un treno diretto al campo di concentramento di Fossoli. Il 5 aprile Franco vede partire gli zii, due cugini e i genitori dello zio, direzione Auschwitz, mentre lui e i genitori vengono deportati il 2 agosto. A Norimberga, la famiglia viene separata: la madre Gina verso Ravensbrük, Carlo e Franco verso Buchenwald. Gli Schönheit riescono a tornare a Ferrara nel ’45, i due maschi il 20 giugno, Gina il 30 agosto, riprendendo la loro vita di prima.