Archivio | novembre, 2023

Speranza, «desiderio che ha un rapporto totale con la realtà». I giovani ce l’hanno?

29 Nov

Sabato 25 novembre 180 ragazze e ragazzi si sono ritrovati nella parrocchia di San Benedetto per l’appuntamento annuale con la GMG diocesana: sperare è una «nostalgia del futuro». Intervista a don Paolo Bovina, co-responsabile Pastorale giovanile, sul suo aiuto ai giovani

Quali paure avete nei vostri giorni? E quali speranze alimentano la vostra vita?

Le domande fondamentali che abitano il cuore di ogni persona vanno sempre ascoltate e mai rimosse.A maggior ragione in una fase delicata e decisiva della vita com’è l’adolescenza. E su queste domande, circa 180 ragazze e ragazzi hanno riflettuto assieme il pomeriggio e la sera del 25 novembre scorso.Occasione, la GMG diocesana svoltasi tra il cinema e l’oratorio di San Benedetto a Ferrara, proprio alcune ore prima dell’evacuazione e del disinnesco della bomba nell’ex convento.

Come detto, dopo l’accoglienza a cura di Agesci, è stato il teatro-cinema parrocchiale a ospitare i tanti giovani accompagnati da educatori, sacerdoti e con la presenza anche di alcuni insegnanti di religione.

Nel cinema, dopo i saluti e la presentazione da parte di don Paolo Bovina, co-responsabile diocesano della Pastorale giovanile assieme a don Adrian Gabor, sono state due ragazze della comunitàShalom, Sara e Chiara a intonare e suonare il canto “Invochiamo la tua presenza”, prima della lettura da parte del giovane diacono Vito Milella del brano di Emmaus.

A seguire, è intervenuto fra Francesco Ravaioli, francescano conventuale in servizio nella Diocesi di Parma, impegnato in particolare nella pastorale giovanile e universitaria, che ha riflettuto sul tema della Giornata e lanciato le provocazioni per le riflessioni nei 12 gruppi in cui si sono successivamente divisi i presenti, prima della S. Messa e della cena comunitaria. 

«Voi vi sentite nella speranza?», ha esordito fra Francesco. «Sperare significa sentire che ciò che desideri di bene entri nel reale. È una sorta di nostalgia del futuro, di un bene che si può realizzare».

Dopo un’analisi delle macro-preoccupazioni del nostro presente (economia, migrazioni di massa, crisi ambientale, guerra, violenza contro le donne), fra Francesco ha lanciato questa provocazione: «sembra che vogliano rubarci la speranza, viviamo in un mondo che vampirizza la nostra speranza».

Le emozioni o sentimenti dell’«anti-speranza», per fra Francesco sono tre: la paura, la tristezza e l’angoscia. Queste si possono sconfiggere solo con una speranza vera, quel desiderio, cioè, che «ha un rapporto totale con la realtà, un rapporto vero con la vita».Altrimenti è mera «illusione, e questa porta solo alla delusione». Ma noi non possiamo avere il pieno controllo sulla realtà: «dove non arriviamo noi, arriva sempre Gesù: facciamoci quindi prendere per mano da Lui, nel nostro cammino, come i discepoli di Emmaus».

Alla fine, il relatore ha annunciato le tre domande su cui i giovani hanno riflettuto nei gruppi:«Riguardo al futuro, di cosa parli coi tuoi amici?»; «Quali paure o tristezze ti attraversano più spesso in questa fase della tua vita?»; «Nel tuo presente, c’è qualcuno che ti aiuta a riaccendere la speranza?». Aogni adulto, spetta chiedersi come poterli aiutare nel loro discernimento.

«È forte la domanda di senso dei giovani: che risposta diamo?». Don Paolo Bovina e il suo accompagnamento alle ragazze e ai ragazzi: «mi chiedono colloqui personali o cammini di fede in gruppo. È la mia missione»

«La mera ricerca di una soddisfazione personale non può fondare un’esistenza, lascia insoddisfatti. Per questo è importante dare risposte alla domanda di senso dei giovani».

Le parole di don Paolo Bovina, co-responsabile della Pastorale giovanile diocesana, maturano non solo da una profonda riflessione personale, ma da un’esperienza di anni a contatto con tante ragazze e ragazzi del nostro territorio. Da 10 anni sacerdote della nostra Arcidiocesi, don Bovina è anche co-responsabile della Pastorale Universitaria, Assistente Settore Giovani dell’Azione Cattolica diocesana e Vicario Parrocchiale dell’UP Borgovado. Nel 2017 ha conseguito la licenza in Scienze Bibliche e Archeologia presso lo “Studium Biblicum Franciscanum” di Gerusalemme e prima del cammino religioso ha conseguito la laurea in Astronomia presso l’Università di Bologna. 

Gli chiediamo cosa significhi, nel concreto, la sua vocazione all’accompagnamento dei giovani: «importante – ci spiega – è il ricordarsi che si hanno davanti persone e non una categoria. Partendo da qui, mi metto al loro servizio, di ascoltarli, cercando di capire i loro bisogni e di rispondere alle loro domande». Una «vera missione», la definisce, «non un lavoro». Perché le domande dei giovani, anche quando noi adulti tendiamo a liquidarle come “ingenue” o “pretestuose”, in realtà, in filigrana, ci mostrano molto di più: una profonda domanda di senso. 

«I giovani – ci spiega ancora don Bovina – sono molto attirati dal divertimento, dal sensazionale, da ciò che dà loro piacere, ma spesso manca la consapevolezza di ciò che si fa, del perché e del per chi si agisce in un certo modo». In ultima analisi, quindi, anche al fondo di ogni divertimento «c’è la ricerca di un motivo per cui vivere».

Gli chiediamo, quindi, se i giovani di oggi li percepisce come particolarmente fragili. «Non saprei», ci risponde. «Forse i giovani sono fragili per definizione, ma oggi il problema non sono tanto loro quanto noi adulti che non sempre riusciamo a essere testimoni autentici, a dir loro qualcosa di significativo». A essere veri educatori: «spesso sono gli adulti i primi a essere fragili».

Gli chiediamo, infine, di raccontarci più nello specifico come avviene l’incontro con i giovani che aiuta. «Alcuni di loro non hanno nessun interesse ad avere a che fare con un prete, altri invece mi cercano, e altri ancora vedono la Chiesa come un mero servizio sociale, un luogo dove giocare e basta. Fra quelli che mi cercano, c’è chi mi chiede un colloquio personale, chi di aiutarlo a trovare un gruppo dove poter vivere un cammino di fede, oppure chi mi chiede un aiuto pratico, come ad esempio un appartamento se sono studenti universitari». 

In ogni caso, per don Bovina, «se è vero che il proselitismo non serve a nulla, è vero anche che all’ascolto devono seguire una risposta e una proposta, che per noi non può non essere incentrata sul messaggio di Gesù Cristo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Brilla famelica l’Attesa Novità che la Scienza ci promette

27 Nov

di Andrea Musacci

(Joaquim Mir, “L’abisso”, 1901)

Il tutto fin da principio è un incubo così lucido. Uno spot pubblicitario con protagonisti tre sperduti giovinastri, così, già nelle viscere della nostra amata città. Si ritrovano – pensate un po’ – per raggiungere una cittadina nemmeno troppo vicina.

Questo mostro sformato, privo di pilota e d’anima, ha larghe e stravaccate postazioni che affondano la terra, fendenti giusto sopra il magma. Ha grandi tavoli accoglienti, longilinei corridoi a dividerli, e connessioni, prese di luce, artifici di rete, virtualità inimmaginate.

È una notte così greve la fuori, lassù insomma, ma questa può essere, per loro tre, per chiunque lo desideri, spazzata via, resa viva dove luce non c’è, dove una cappa di bagliore d’artificio la spezza.

Ah, è così facile scivolare, anche qui, nella tua città, dentro il dolce metrò. Scendi qualche lieve e spazioso gradino, e, come in un sogno, nulla più dell’informe reale puoi vedere: castelli, ciminiere, autostrade, ingorghi, patimenti, nebbiose calure.

In pochi minuti respiri tra le viscere di Milano, o, perché no, di Parigi o New York.

L’inaugurazione, però, di questo nostro bel mondo che ci unisce, restituendocelo, al globo tutto, avviene di giorno, ebbene sì, nella noiosa luminosità. Ma ecco, quale delle sue cento gloriose fermate si è deciso di battezzare? Quella davanti alla storica struttura che in un magnetico e frugale abbraccio, nel suo consumabile, nel nostro consumabile, desiderio, dà forma alle nostre spendibili personalità: il Centro Commerciale Unificato Ferrarese (CCUF).

Lì s’attende, ognuno attende.

Un Assessore infervorato, impettito e stralunato, suda muovendo i piedi mentre li cela, le suole sul volgare suolo, superficie gretta di quell’utero di terra, del buio che fu, ora illuministico vanto dei nostri tecnici dagli sguardi che abbagliano.

“Ma quante transenne, nastri adesivi e divieti!” si lamentano i furiosi, s’indignano nel loro nulla i faziosi. Sono quelli, lo so, che abitano il melmoso rancido acciottolato del centro, che abitano case, chiese e botteghe, insomma le vere fogne, diciamolo! Ma non vedono quel fascio di luce che sprigiona dal cunicolo nostro amato! Oh sì, noi lo vediamo, Assessore, noi sì, loro no, sono ciechi.

Ah, l’Assessore stralunato! La sua stessa valigia quadrata attende al margine della folla l’imbarco ufficiale. E lui in testa ha già il discorso, ricorderà nel vanto suo solito e appiccicoso, “d’aver Innovato, che quelle colonne han sverginato, progressivamente e con l’avvallo della Scienza Nostra Grande, il vetusto suol non più infame che ora accoglie i nostri avi, perché la terra è Innovazione, si è scoperto, la terra profonda è là nel Futuro che ci attende radioso e magnifico. Perché noi teniamo alla nostra storia!, così tanto alle radici che le strappiamo dal loro soffocante lacciuolo. Così ci chiedete voi, così noi vi immergiamo…ehm…vi accontentiamo”.

Persone con enormi buste escono dal CCUF per lenire il triviale insopportabile tarlo del perire affamati, emozionati come bimbi accorrono, impiastrati nel loro appiccicoso innato infastidirsi, diretti verso il Sogno (ah, senza terrore!), s’avvicinano, si tendono, sembra loro di sfiorarlo quando non è, e poi è un attimo, lo ghermiscono o quasi, è un fremito il passo…è nulla.

Tace l’uterino crepaccio, tace l’inutile voragine. Fuori l’infuocata nebbia inghiotte i delusi, li rapisce ingrata.

Così poco s’intravede di quell’infernale vuoto che han sognato. Dove entrare, dove liberarsi, dove scendere, Assessore?

Lo intervisto l’Assessore, nuovamente impettito e sudato, che nega, scuote e zampilla come mai lo vidi scuotersi e zampillare, distratto e impaurito, distaccato e minacciato.

Nega che la valigia quadrata fosse stata in attesa. E allora? È svanito, nulla. Eppure.

Eppure un povero anziano col sorriso furtivo rideva già pensando al fragore dei suoi cari, degli applausi che sarebbero seguiti al suo racconto del metrò, che magico doveva sembrare seppur reale. Si tuffava lui, giovinetto, via il pane, la terra, la polvere e gli sputi, il vino che ama, la carne che consola. Lui si getta lì, nel Grande, nel Nuovo, nel Bello Sempre Atteso. E nulla. Poi nulla.

Risucchiato. Sì, ma dove? Nessuno sa, chiunque tace.

Una bici s’accosta come in una presa insolente, in un’indicibile vacuità, nell’acciottolata via, nel vil rilievo, verticale sì, ma in direzione sbagliata.

Nella vertigine bigotta e antiquata, polverosa di carne, sudore, che meschinità quei corpi mai filtrati, quel sole che bagna come un lago quando c’abbracciamo, noi nudi e fetidi nelle nostre vite cattive.

Persino sui palazzi quella polvere! Nei nostri anfratti sporchi! E quante colpe abbiamo negli occhi, quante preghiere da far affiorare, noi stupidi riluttanti al Libero Potere!

Nel metrò di notte non c’è polvere, né anfratto da scovare, rifugio da lenire, pertugio da godere. Tutto, si dice, scivola brillante e famelico. Ecco perché i nostri tre ragazzi non vogliono riaffiorare, sono ancora laggiù, disperati e mai vergini, alla ricerca di un’anima inodore da poter presto scordare.

(Scritto nel giugno 2015)

«Negli anziani incontro sempre il Signore»

24 Nov

Don Andrea Zerbini da una vita punto di riferimento per gli anziani e i malati

Era ancora bambino, don Andrea Zerbini, quando prese la buona abitudine di andare regolarmente a far visita agli anziani ospiti del “Betlem”. E questa «pastorale del quotidiano» la vive ancora oggi.

Don Zerbini quest’anno ha compiuto 70 anni e proprio 40 anni fa è diventato parroco di Santa Francesca Romana, da 5 anni parte dell’Unità Pastorale Borgovado da lui stesso guidata e che comprende anche Santa Maria in Vado, Madonnina e San Gregorio. Ordinato sacerdote nel 1977, don Andrea è stato prima cappellano a Santa Maria Nuova-San Biagio (per 1 anno), poi tre anni a Roma per concludere la Licenza e il Dottorato, quindi docente in Seminario fino a ottobre 1983. In passato è stato, fra l’altro, Direttore dell’Istituto di Scienze Religiose e dell’Ufficio Missionario e oggi è responsabile del Centro di Documentazione–CEDOC DI Santa Francesca Romana, di cui cura anche i Quaderni consultabili online.

VOCAZIONE DI UNA VITA

«Da bambino abitavo di fianco al Santuario del SS. Crocifisso di San Luca, quindi di fronte al Betlem, e andavo spesso a trovare gli anziani lì ospitati», ci racconta. A S. Francesca Romana, grazie allo storico parroco don Carlo Borgatti (1945-1989) i giovani, negli anni Settanta, iniziarono a interessarsi dei problemi degli anziani non solo in parrocchia ma nell’intera città. Questa loro ricerca confluì in un Bollettino, “L’anziano protagonista”, oggetto di attenzione da parte dell’Amministrazione comunale e di studio per il Consiglio pastorale diocesano. «Quando nel 1983 fui mandato a Santa Francesca come amministratore parrocchiale – prosegue don Andrea -, in aiuto a don Carlo, Giordano Banzi, un parrocchiano, mi portò subito a conoscere tutti i malati della parrocchia e, successivamente, mi accompagnò all’Ospedale Sant’Anna, dove andammo spesso insieme. Al sabato invece andavamo a celebrare la Messa nella cappella del Nosocomio di via Ghiara. Fu per me quell’inizio – sono ancora sue parole -, una benedizione e il dono di una bussola, per inserirmi in un cammino di pastorale e di evangelizzazione già tracciato da don Carlo».

Tracciato dall’ex parroco don Carlo e che ha due testimoni importanti fra i santi: la prima è proprio Santa Francesca Romana (1384-1440) – fondatrice della comunità delle Oblate di Tor de’ Specchi -, che i malati andava a cercare nei tuguri, negli ospedali, ovunque si trovassero, non solo per far loro visita, ma per fasciare le loro ferite, lavare, cucire e profumare i loro panni sudici. L’altro è San Camillo de Lellis (1550-1614), che due secoli dopo, sempre a Roma, replicò questo servizio integrale ai malati. Con la devoluzione di Ferrara al papato (1598-1796), la chiesa della Madonnina passò proprio ai religiosi dell’Ordine di San Camillo de Lellis, i Camilliani, detti Ministri degli Infermi, che da sempre si occupano dell’assistenza ai malati negli ospedali.

PROSSIMITÀ FISICA E SPIRITUALE

Oggi più che mai quella di S. Francesca Romana, e l’intera UP Borgovado, è come tante una parrocchia con sempre più anziani, per cui il bisogno di una presenza è sempre fondamentale. «Spesso – ci racconta ancora don Andrea – sono i famigliari a contattarmi se un anziano è ricoverato in ospedale o infermo in casa. Con il covid si erano dovute interrompere le mie visite a domicilio e nelle case di riposo: in quel periodo rimanevo in contatto con loro tramite telefonate e messaggi WhatsApp: ogni giorno inviavo loro il saluto mattutino, un saluto semplice accompagnato da un incoraggiamento, una foto e il commento al Vangelo del giorno. Poi le mie visite sono riprese, anche se più lentamente. Quando vado a trovarli, li ascolto, sto un po’ lì con loro, è importante anche solo che sentano la presenza di qualcuno. Dopo 40 anni che sono parroco di Santa Francesca Romana, li conosco tutti o quasi, a volte li visito anche solo per sapere come stanno».

La prossimità spirituale di don Andrea agli anziani e ai malati non si interrompe mai: «Nelle mie preghiere quotidiane prego sempre per coloro che sono ricoverati in ospedale, nelle case di riposo e nei centri ADO della città e della provincia. E ogni giovedì celebriamo la S. Messa per i malati. Per me andare a trovarli è come incontrare il Signore», scandisce don Andrea. «Loro, senza dirlo, ti comunicano il senso del vivere, del vivere la malattia, la sofferenza e la loro fede. Non incontro, quindi, solo la persona anziana ma in quella persona incontro anche il Signore».

ANZIANI IN PRIMA LINEA

Nella parrocchia di Santa Francesca Romana, però, alcuni anziani sono ancora fondamentali per la vita della comunità: alcuni di loro sono attivi nel Centro di Ascolto dell’Unità Pastorale, altri nel doposcuola, nella scuola di taglio e cucito, altri sono Ministri Straordinari dell’Eucarestia. E assieme ad altri parrocchiani organizzano varie iniziative, fra cui il pranzo comunitario dell’UP una domenica al mese, partecipano ai concerti di musica sacra, spendendosi anche nell’organizzazione di incontri. Un esempio, unico ma emblematico, è quello di Raffaele Lucci, 101 anni, che regolarmente tiene incontri di storia dell’arte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Discepoli, ovvero il ripartire grazie a Lui

22 Nov

La quarta lezione della Scuola diocesana di teologia per laici: don Paolo Mascilongo ha relazionato sul tema “Immagini di sequela dal Vangelo di Marco”. Come essere Suoi discepoli anche oggi?

Proseguono le lezioni del nuovo anno della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”.

Lo scorso 16 novembre a Casa Cini, Ferrara, don Paolo Mascilongo (Referente per l’Apostolato Biblico della Diocesi di Piacenza-Bobbio) ha riflettuto sul tema “Immagini di sequela dal Vangelo di Marco”.

«A metà del Vangelo, prima dell’annuncio della morte  a Gerusalemme (Mc 10) – ha spiegato il relatore dopo una breve introduzione del testo – c’è un episodio spartiacque»: «”Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”» (Mc 8, 27-29).

Il Vangelo secondo Marco, secondo don Mascilongo, «narra non solo di Gesù ma anche dei suoi discepoli: leggerlo, quindi, in questo modo può aiutarci nella nostra aspirazione a essere, oggi, suoi discepoli». Fra i discepoli, ha sottolineato più volte il relatore, c’erano anche delle donne;un fatto anomalo, questo, che in quel periodo storico delle donne non fossero relegate all’ambito domestico ma addirittura seguissero in questo modo un maestro come Gesù. 

Ma come si fa a riconoscerLo? E perché Pietro Lo riconosce? Fra i discepoli, naturalmente ci sono i 12 apostoli, scelti dallo stesso Gesù (Mc 3,14-15):«Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni».Questa apparente contraddizione tra lo “stare” e l'”andare” si può spiegare o considerando che «nella missione di Gesù i due aspetti coincidono», oppure come fosse (e sia) necessario «una prima fase a contatto con Lui (con la sua Parola, con la Sua presenza) per poi andare missionari», in una lontananza fisica ma non spirituale.

La passione e morte di Gesù (capitoli 14 e 15) rappresentano «il  culmine» di questo rapporto coi Suoi discepoli: dalla «comunione fortissima» durante l’ultima cena al dramma subito dopo vissuto nel Getsemani con l’arresto e la fuga dei 12, il loro «abbandono». L’antitesi, quindi, di quello “stare” con Lui sopracitato, «il fallimento» della loro missione. Cristo apparentemente morirà solo: sarà solo prima un centurione (un estraneo) a riconoscerlo, poi «alcune delle donne» e Giuseppe d’Arimatea, mai citati prima da Marco. Non i 12, lontani da Lui e ora non solo fisicamente.

«Ma egli [il giovane vestito di bianco] disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ “» (Mc 16, 6-7). «L’ultima Sua parola per i discepoli è quindi, per don Mascilongo, «non di fallimento ma per una nuova chiamata, al di là dei loro meriti. Essere un bravo discepolo non significa non fallire mai, perché si può sempre ripartire: e solo Gesù può farci davvero riniziare ogni volta».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Paolo Giaccone vittima della mafia: l’omertà di tanti, la speranza nei giovani

22 Nov

La sera del 14 novembre dalle Clarisse è intervenuto Giacomo De Leo

«Giaccone è stato dimenticato».Si gela il sangue a sentire queste parole. La scelta etica di un uomo, per non soccombere all’arroganza mafia, scelta che gli è costata la vita, da tanti non è ancora oggi conosciuta.

Giacomo De Leo, ex Preside della Facoltà di Medicina di Palermo e tra i fondatori del Centro Studi Paolo Giaccone (nato nel 2012), la sera del 14 novembre è intervenuto nel Monastero ferrarese del Corpus Domini per raccontare la storia di Paolo Giaccone (classe ’29), suo collega, luminare di medicina legale ed ematologia forense, ucciso dalla mafia l’11 agosto 1982. Invitato da Dario Poppi (curatore di un ciclo di incontri sul tema della legalità), De Leo davanti a una 50ina di persone ha raccontato il clima che si respirava nella Sicilia di allora: un misto di ignoranza dei fatti, di indifferenza e omertà, fino alla collusione vera e propria. E ha raccontato la vita e la morte di questo “gigante buono” com’era Giaccone, che un giorno scoprì, da una perizia che stava svolgendo, che il responsabile della “strage di Bagheria” (giorno di Natale dell’ ’81) nella quale persero la vita tre mafiosi e un pensionato innocente, era Giuseppe Marchese, nipote di Filippo capo della cosca mafiosa di corso dei Mille. Il rifiuto di Giaccone di falsificare quella perizia, nonostante le minacce ricevute, gli costò la vita: 7 colpi di pistola, di cui 5 letali, lo colpirono davanti al  Policlinico dove lavorava, successivamente intitolato a lui.

Un uomo robusto, era Giaccone, «riservato, anche timido, ma eclettico e sempre disponibile».E con un vocazione profonda: di porsi al servizio degli altri nella professione medica, oltre che nel volontariato, essendo stato tra i fondatori del Centro trasfusionale AVIS di Palermo. Una vocazione ereditata in famiglia e che emerge  in modo struggente anche da un suo manoscritto che scrisse poco prima di essere ucciso, una sorta di «testamento» l’ha definito De Leo nel quale la sua professione è correlata ai concetti di «interesse pubblico», «serietà e umiltà», «dovere».

I primi anni ’80 in Sicilia erano gli anni degli omicidi “eccellenti” (Piersanti Mattarella, Mario Francese, Pio La Torre, solo per citarne alcuni), dei 500 morti nella guerra di mafia. Camilla, una dei quatto figli di Giaccone, descriverà quel periodo attraverso la sensazione di un «dolore freddo, avvolgente».E spettava a suo padre indagare sui corpi di quei morti, cercare tracce, dare risposte. Fino al prelievo di un’impronta digitale sul volante di una 500 legata a quella maledetta “strage di Natale” a Bagheria. L’impronta di Giuseppe Marchese.E poi le telefonate di minacce, i colleghi che gli dicono «lascia perdere…», e la sua tristezza per queste parole, per sentirsi isolato in una battaglia che non aveva scelto. «Agli stessi funerali di Giaccone – ha raccontato con immutata amarezza De Leo – vi erano pochi colleghi di Giaccone. E non c’erano politici».

Anche da questa crudele indifferenza,De Leo assieme ad altri decise di dar vita al Centro Studi intitolato a Giaccone e di girare l’Italia per raccontare  questo modello di coerenza, di virtù, la storia di quest’uomo affamato di giustizia. Un lavoro che sta portando i suoi frutti: ogni 11 agosto le commemorazioni sono sempre più partecipate, anche da tanti giovani, «che possono essere uno stimolo, un “inciampo”, come le pietre d’inciampo, per far prendere coscienza a molti che un futuro più libero è possibile».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Com’è nato lo Stato di Israele (e chi davvero non vuole quello palestinese)

20 Nov

Lo storico Claudio Vercelli lo scorso 15 novembre al MEIS: un intervento lucido su temi più che mai attuali

di Andrea Musacci

Quello del 7 ottobre scorso è stato un vero e proprio «pogrom antisemita» e la strutturazione politico-statale di Israele «nasce dal 1948 mentre quella palestinese non c’è mai realmente stata, perché non c’è mai stata questa volontà».

Sono parole chiare e ben argomentate quelle scandite dallo storico Claudio Vercelli lo scorso 15 novembre al MEIS di Ferrara per il primo dei quattro incontri in programma per approfondire temi legati alla guerra in Medio Oriente:per l’occasione, Vercelli ha presentato il suo ultimo libro “Israele. Una storia in 10 quadri” (Laterza, 2022), dialogando col Direttore MEIS Amedeo Spagnoletto. 

La rassegna – realizzata in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – vedrà come prossimi appuntamenti il 29 novembre alle 18 Milena Santerini (Università Cattolica di Milano, Memoriale della Shoah di Milano) presentare il suo libro “L’antisemitismo e le sue metamorfosi. Distorsione della Shoah, odio online e complottismi” (Giuntina, 2023); il 3 dicembre alle 16 lo scrittore e già deputato Emanuele Fiano presenterà il suo “Sempre con me. Le lezioni della Shoah” (Piemme, 2023), mentre il 13 dicembre alle 18 lo storico Arturo Marzano parlerà del suo “Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente” (Viella, 2022).

FINE ‘800-INIZIO ‘900: SIONISMO EBREO E NON-NAZIONALISMO PALESTINESE

Vercelli ha iniziato la propria riflessione dal XIX secolo e dalle persecuzioni antisemite subite dagli ebrei ashkenaziti nell’est Europa. Anche da qui nasce il sionismo come «idea di emancipazione, di rigenerazione degli ebrei prendendo in mano le redini della propria esistenza». 

In particolare dal 1880 molti ebrei iniziano a emigrare dalla Russia verso l’Europa, gli Stati Uniti e la Palestina allora ottomana, cioè come intendevano già allora, «verso quella terra che ci appartiene moralmente e spiritualmente». 

Nella Palestina di fine ‘800 – ha proseguito – «non solo non esisteva uno Stato palestinese ma nemmeno un’identità palestinese».E la terra – divisa in distretti – era una provincia della Siria ottomana. 

Nel successivo mandato britannico (1922-1947), anticipato dalla Dichiarazione Balfour («His Majesty’s Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people»), la popolazione ebraica aumenterà di quasi 8 volte (da 83mila a 630mila), mentre quella araba “solo” del doppio (da 660mila a 1milione e 323mila), e gli ebrei svilupperanno anche il commercio e l’artigianato in una società come quella palestinese prevalentemente agricola e povera. 

ANNI ’30-’40:  L’ALLEANZA ARABO-NAZIONALSOCIALISTA

Negli anni ’20 del secolo scorso «inizia a svilupparsi un pensiero nazionalista arabo, ma non palestinese». L’attenzione da parte dei leader arabi della zona si rivolge al nazionalsocialismo e al fascismo, in chiave antisemita e anticolonialista, e con una fascinazione «per l’idea di totalità politica» soprattutto nazista, da applicare al mondo arabo. Secondo questa visione, «gli ebrei rappresentavano il veicolo del colonialismo occidentale in Palestina» (un pregiudizio presente ancora oggi). Basti pensare a Mohammed Amin al-Husseiniī, dal ’21 al ’37 Gran Muftì di Gerusalemme, feroce propugnatore di un regime islamico esteso dall’Egitto all’Iran.

Vercelli ha poi smentito l’idea diffusa secondo cui «la Shoah abbia avuto un peso decisivo nella nascita dello Stato di Israele»: quest’ultimo, secondo lo storico, deriverebbe appunto dall’impegno nell’elaborazione politica e ideale, e nella concretezza politico-economica dei sionisti in Palestina fin dal XIX secolo, nonché dalla fine del mandato britannico; nel 47-’48, invece, «non si aveva reale cognizione (nemmeno da parte degli ebrei in Palestina) di cosa fosse stata davvero la Shoah».

STATO PALESTINESE: CHIMERA O PRETESTO?

Dall’altra parte, in quegli anni, ha proseguito Vercelli, «il mondo arabo rifiuterà in modo netto tanto la nascita dello Stato di Israele quanto la sola idea di uno Stato palestinese: di quest’ultimo non ne coglieva né la necessità né il senso». Fin dal ’46 si avrà, inoltre, una «progressiva disgregazione delle comunità arabe in Palestina, a partire dall’abbandono di quelle terre da parte dei suoi leader». Molti arabi lasciarono le proprie terre invitati a farlo da questi stessi dirigenti. «Ci furono anche espulsioni di arabi da parte di ebrei, ma non pianificate». In generale, per Vercelli, in questi anni si registra ancora una «sostanziale acefalia nel gruppo dirigente palestinese e un nazionalismo irrisolto». Al contrario, gli ebrei «struttureranno la loro presenza, coordinando meglio tra loro le proprie comunità».

«Fino alla Guerra dei sei giorni (1967) – ha ribadito con chiarezza Vercelli -, nessun leader o soggetto nel mondo arabo pensava alla creazione di uno Stato palestinese. Solo in questi anni inizierà a nascere una sorta di leadership palestinese», con la nascita di Al-Fatah dietro la spinta dell’URSS, sempre in chiave antiamericana e antioccidentale. E naturalmente, antisionista e antisemita. Citiamo solo alcune dichiarazioni al riguardo: nel 1957, Akhmed Shukairi, ambasciatore saudita alle Nazioni Unite dichiara che «è conoscenza comune che la Palestina non è altro che la Siria del sud». Concetto ribadito da Hafez-al-Assad, ex presidente siriano, nel 1974: «la Palestina non solo è parte della nostra nazione araba ma è una parte fondamentale del sud della Siria». Nel ’77, Zahir Mushe’in, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) dirà in un’intervista al quotidiano olandese Trouw: «il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele in nome dell’unità araba. In realtà oggi non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. (…) Gli interessi nazionali arabi richiedono la messa in campo dell’esistenza di un popolo palestinese per opporci al sionismo».

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Come AC sappiamo leggere le grandi sfide che abitano i cuori delle persone?»: il Convegno diocesano di Ferrara-Comacchio

17 Nov
Foto Pino Cosentino

L’intervento di Notarstefano (Presidente nazionale Azione Cattolica) per il Convegno diocesano a Vigarano Pieve

Se ascoltate con lo spirito giusto, le parole dette la mattina del 12 novembre in occasione del Convegno diocesano di AC, sono “pesanti”. Sono cioè parole che richiamano con forza la necessità di non adagiarsi in formali e “borghesi” abitudini, ma di riscoprire la potenza e l’audacia dell’essere cristiani.

“Azione Cattolica: una storia lunga un sì!” era il titolo scelto per la giornata svoltasi nella parrocchia di Vigarano Pieve, tappa del cammino assembleare di AC che ha visto la presenza di 120 persone con, oltre il Convegno nel quale è intervenuto il Presidente Nazionale Giuseppe Notarstefano (nella foto, assieme a mons.Perego e da alcuni dirigenti AC diocesana), la S. Messa presieduta dal nostro Arcivescovo, il pranzo comunitario e i laboratori pomeridiani.

Ricordiamo che fino all’8 dicembre le AC parrocchiali svolgeranno la propria assemblea per eleggere i referenti parrocchiali. Questi si ritroveranno l’11 febbraio per l’Assemblea diocesana, nella quale si eleggerà il nuovo Consiglio diocesano che, a sua volta, eleggerà i responsabili diocesani di settore e concorderà la terna di candidati da presentare al Vescovo per la nomina del nuovo Presidente.

MARTUCCI:«CUSTODIRE E INNOVARSI»

Dopo il saluto dell’Assistente ecclesiastico don Michele Zecchin e l’introduzione di Chiara Fantinato (vicepresidente Adulti AC diocesana), è intervenuto il Presidente diocesano Nicola Martucci. L’analisi del presente svolta da Martucci è stata impietosa: «un certo modo di vita pastorale e cristiana è ormai inconsistente», in una società «liquida e frammentata» l’appartenenza alla Chiesa è in forte crisi, molti «giovani hanno eliminato il futuro dal loro orizzonte». In questo «viaggio in mare aperto», la fede e la Chiesa sono «tesori che vanno custoditi» prendendo però più sul serio «il tema della responsabilità» e col bisogno di «pensarsi, strutturarsi e muoversi al passo coi tempi».

NOTARSTEFANO: «EUCARESTIA E COMUNITÀ»

Un intervento che in un certo senso ha anticipato quello del Presidente Nazionale Giuseppe Notarstefano: «L’AC non ha bisogno tanto di aggiornamenti formali, tecnologici, ma di saper affrontare le grandi sfide che abitano i cuori delle persone, che sono poi le grandi domande di sempre». L’intervento di Notarstefano è stato preceduto dalla proiezione di un video nel quale sono stati intervistati tesserati e non dell’AC diocesana, dalle quali sono emerse gioie e difficoltà nel vivere questo tipo di vita associativa oggi.

Nel nostro tempo di cambiamenti, ha riflettuto quindi Notarstefano, «dobbiamo essere in grado di leggere i “segni dei tempi”».Dobbiamo quindi «sintonizzarci col tempo in cui viviamo, senza viverlo né da spettatori né con uno sguardo neutrale». C’è dunque bisogno di una «conversione personale», di essere «segni di vita evangelica», di «tornare a parlare di salvezza, oggi sostituita da surrogati quali il “benessere”, la “tranquillità”, la “qualità della vita”». Questa nuova «missionarietà» consiste quindi nell’avere «il coraggio, l’audacia di andare alla ricerca di tutto ciò di meraviglioso che il Signore già costruisce nelle vite delle persone, nei loro cuori». Solo ripartendo «dall’autenticità della nostra esperienza e delle nostre relazioni« saremmo capaci di fare ciò, «rigenerando le nostre comunità così piene – soprattutto dopo il Covid – di paura e abitudini che non riescono a superare». Nell’epoca dell’individualismo, della frammentazione, del darwinismo sociale, dobbiamo ricordarci – ha proseguito Notarstefano – che «nessuno si salva da solo», che la salvezza «non è un bene di consumo ma è per tutti e va sperimentata nella comunità». «L’Eucarestia nella città, da portare dentro la città è lo “strumento” per tenere assieme le diversità, per riscoprire la gioia dello stare insieme, senza ridurci – com’è successo spesso anche in AC – a sportelli burocratici». Solo questo stile di vita rinnovato, questo impegno all’insegna della corresponsabilità può riaprire le porte al futuro.

MONS. PEREGO: «AC, LUOGO IN CUI SI TROVA DIO»

Il nostro Arcivescovo mons.Perego nell’omelia ha riflettuto: «lo specifico dell’AC sta nel servire la Chiesa locale, dove servizio è il “sì” dell’AC Italiana, che non è supina obbedienza ai Pastori, cadendo nel clericalismo, ma passione per una Chiesa con cui si cammina». «La Chiesa e il mondo oggi hanno bisogno di “servi” – ha detto poi -, di chi fa della carità, sia in politica che nella vita consacrata ed ecclesiale, la cifra del suo agire». L’AC è dunque, per mons. Perego, «un luogo in cui si trova Dio, perché si impara a pregare, si educa all’ascolto della Parola, s’impara la sapienza, non si resta nell’ignoranza su nessuna cosa».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 17 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Come essere «satolli di Dio»? Riflessioni sulle Beatitudini

17 Nov

Scuola di teologia per laici: il 9 novembre la comunità dei beati al centro della relazione di Valeria Poletti

“Maestro cosa devo fare per essere felice?” è il titolo della terza lezione della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”, svoltasi a Casa Cini lo scorso 9 novembre. Relatrice, la docente e teologa Valeria Poletti. Le rimanenti lezioni di novembre sono in programma (ore 18.30, Casa Cini o in streaming) il 16 con don Paolo Mascilongo che relazionerà su “Immagini di sequela dal vangelo di Marco”; il 23 con Simona Segoloni su “Fratelli tutti! La comunità espressione di gioia”; il 30 con don Ruggero Nuvoli su “Immaginazione sacramentale”.

Nella sua lezione, Poletti ha analizzato nel dettaglio le Beatitudini (Mt 5,1-12 e Lc 6,20-23), ponendo innanzitutto l’accento sul fatto che Gesù «è venuto a parlare a tutti, a dar vita a una comunità completamente nuova», annunciando che «il Regno di Dio è già ora, si può sperimentare già nel presente». Ma com’è possibile ciò, in questa “valle di lacrime” che è l’esistenza umana?

Gesù quando ci chiede di essere poveri, «non ci chiede tanto di spogliarci, ma di vestire gli altri, di prenderci cura di chi è nel bisogno. “Signore”, quindi, è chi dà agli altri, e lo fa ora, perché il dare mi rende felice, beato già ora», ha spiegato Poletti.

Questo donarsi agli altri è anche il consolare chi è nel pianto, cioè «chi ha un dolore talmente grande da non poterlo tenere dentro. Costui è beato perché mostrandolo può essere consolato, aiutato dalla sua comunità. E la consolazione è già in sé un’azione liberante». È questa la chiave di tutto: il comprendere che «si è felici, beati solo quando si dà, la comunità di persone felici è tale quando non volta la testa dall’altra parte» davanti ai bisogni dei fratelli e delle sorelle.

Allo stesso modo – e proseguendo nell’analisi delle Beatitudini -, «i giusti sono coloro che hanno fame e sete di giustizia». Ma per giustizia non si intende tanto l’osservanza delle norme, ma «è qualcosa che va oltre la legge, e porta anche a subire la persecuzione». La beatitudine sta dunque «nell’essere sazi, satolli di giustizia, quindi di Dio: si sazia la propria fame saziando quella degli altri».

Questa misericordia, questo «chinarsi sull’altro sofferente per rialzarlo», non è dunque un mero sentimento ma «un’azione» concreta. Ed è una purezza del cuore, quindi non solo esteriore ma «interiore, completa, tipica di chi possiede quell’inquietudine che lo porta a giocarsi la propria pace per gli altri, per la pace della propria comunità». Una pace dunque in fieri, un Regno da costruire, vivendo così la propria figliolanza e somiglianza al Padre.

Da qui, solo da qui, può nascere quella «comunità dei felici, dei beati nel Signore», dei «satolli di Dio». 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 17 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Santo Spirito, da 75 anni al servizio della città 

11 Nov
Enrichetta Maregatti, Giorgio Mazzoni ed Elvio Bonifazi

Nel novembre del 1948 l’allora parroco padre Francesco Righetti aprì la sala cinematografica in via Resistenza. Un pezzo di storia di Ferrara che ancora guarda al futuro (di tutti)

di Andrea Musacci

Nell’atrio il primo proiettore a carbone – un Victoria 4r del 1934 – accoglie giovani, famiglie, coppie, anziani e bambini che per gioco vorrebbero tirarne ogni parte sporgente…Utilizzata fino agli anni ’80 (a parte un’eccezione nel ’98 per “Gatto nero, gatto bianco” di Emil Kusturica), è l’immagine plastica di un piccolo ma storico luogo che definire cinema è riduttivo. Non è fra i più “antichi” (ad esempio l’Apollo è del ‘21), ma fu, ad esempio, il primo a proiettare capolavori del neorealismo e a organizzare Cineforum. Siamo in via della Resistenza a Ferrara, nel complesso parrocchiale di Santo Spirito, dove l’omonimo cinema da 75 anni è il punto di riferimento per cinefili e amanti della cultura in senso largo.

Nel ’48 fu l’allora parroco, il francescano padre Francesco Righetti, a dar vita al “Piccolo Cinema”, inaugurato a fine novembre dello stesso anno e con la prima proiezione organizzata a inizio dicembre. Fra i primi “padroni” della cabina di proiezione ci furono i proiezionisti Mario Stabellini, morto nel 2020, e Giordano Galesini, padre di frate Mauro, francescano del Santuario di Chiampo (VI). Ai tempi, per motivi di sicurezza e di gestione meccanica dei proiettori, era infatti normale la presenza contemporanea di due operatori. 

Nel libretto parrocchiale “S. Spirito…e le sue opere” del 1958 Antonio Cavalieri scrive: «Tutti sanno o almeno ammettono che l’essere umano ha necessità di ricreazione (…). Ricreazione è distensione, è rinnovamento di energie intellettuali, spirituali, fisiche (…), sollievo dal normale lavoro manuale o intellettuale (…). Ma perché questo si avveri (…) si rende indispensabile creare l’ambiente, dare i mezzi affinché ciascuno possa veramente “ricrearsi” nel vero senso, santo della parola (…). Tutto questo l’ha ben capito il nostro amatissimo Parroco, Padre Francesco, fin dai tempi dei tempi. Era un pallino che aveva nella Sua mente, un assillo che gli tormentava l’anima e il cuore (…). Ungiorno non ne poteva più; sentì il cuore gonfio, e nel cuore una Voce di sicura speranza, di fiduciosa sicurezza…e si mosse! Ed ecco la sala del cinema (eh già, come si fa oggi giorno a pensare ad opere ricreative senza cinema!…), la più bella fra le sale parrocchiali ferraresi; poi vennero i locali nuovi: le sale dei giochi per tutti – grandi e piccoli – le sale di lettura, la sala (magnifica) della televisione, delle adunanze (…)».

La Chiesa, anche a Ferrara, capì dunque che l’educazione e lo sviluppo della cultura, necessitava di luoghi moderni. Il proiezionista Galesini venne poi affiancato da Giorgio Mazzoni, che inizia a lavorare come operatore a S. Spirito 50 anni fa, nel 1973, proseguendo fino al 1984 e poi riprendendo da metà anni ’90 fino al 1998. Per un periodo, Mazzoni si alternava assieme ad Armando Maregatti tra qui e il Cinema Boldini. Armando, morto nel 2010, è il papà di Enrichetta Maregatti, che da lui ha ereditato la gestione della sala dopo l’esordio, assieme al marito Elvio Bonifazi, a fine anni ‘80. Enrichetta ed Elvio ancora oggi gestiscono con grande passione il loro amato cinema.

DAI BIGLIETTI A 40 LIRE ALL’AVVENTO DEL DIGITALE

I primi tempi le proiezioni erano quasi giornaliere, e i biglietti costavano tra le 40-60 lire nei giorni feriali (ridotti e interi) alle 50-70 per i festivi. Da inizio anni ’80, per un periodo, le proiezioni furono solo la domenica, dalle 14.30 fino a tarda serata, mentre con l’austerity (tra il ’73 e il ’74) la chiusura venne imposta alle 23. Ma con la gestione Maregatti ripresero anche nelle serate di venerdì e sabato, fino ad arrivare nel 2007 all’inizio delle rassegne (la prossima è prevista per gennaio 2024) e degli eventi speciali e, ora, a quattro serate di proiezioni, da venerdì a lunedì (oltre ai festivi e prefestivi). Un’altra svolta S. Spirito l’ha vissuta nell’estate 2013 con l’avvento del proiettore digitale (il canadese Christie Solaria One) che ha mandato in pensione i vecchi proiettori (l’ultimo fu un Victoria 8r, ai tempi considerato “la Rolls Royce” dei proiettori), grazie al contributo della Regione per la digitalizzazione dei cinema locali. S. Spirito fu il primo cinema non multisala a Ferrara ad adottare il digitale. Il Boldini ci arrivò per secondo solo il febbraio successivo. In pensione il digitale mandò anche la macchina “girafilm”, per riavvolgere la piccola o per fare montaggio, che Enrichetta conserva ancora gelosamente nella stanzetta attigua alla cabina di proiezione.

Ma torniamo agli albori: padre Francesco – che guidò S. Spirito fino al 1967 – come detto, non immaginò la sala cinematografica come luogo alieno dalla parrocchia e dal quartiere, ma una sala della comunità nella quale poter unire svago, educazione e condivisione. Un posto pensato soprattutto per famiglie, con proiezioni pomeridiane domenicali per i bambini e la sera il “filmone”. Sempre nel ’48 fu allestito anche un bar, col bancone a sinistra dell’ingresso principale e dietro la sala con i tavolini. Tra il 1982 e l’83 fu buttata giù la parete in modo da accedere direttamente alla sala. Di fronte all’ingresso, l’immancabile “stracciabiglietti”/maschera, ruolo ricoperto da metà degli anni ’50 fino al 2008 da Leonello Lugli, e il “segnatempi” sulla parete ai piedi della scala che porta alla galleria e alla cabina di proiezione. “Segnatempi” con i numeri romani I, II, III e con la A a indicare “Attualità”, vale a dire la pubblicità o i cinegiornali. «Ma non si fanno più intervalli – ci spiega Enrichetta – perché i film vanno visti senza pause».

Santo Spirito, quindi, come cinema della città ma senza dimenticare il suo legame con la Chiesa: come ci ricorda Giorgio Mazzoni, se richiesto, prestava le “pizze” con le pellicole, come ad esempio a metà degli anni ’70 quando don Sergio Vincenzi (ai tempi giovane seminarista e dallo scorso maggio in servizio proprio a S. Spirito) veniva a ritirarle per le proiezioni – sempre con una cinemeccanica Victoria 4r – nel Seminario di via G. Fabbri.

A fine anni ‘50 fu uno dei francescani di S. Spirito, padre Geminiano Venturelli, a far costruire la galleria al primo piano del cinema di via Resistenza, assieme alla cabina di proiezione (che prima era al piano terra), in questi ambienti direttamente collegati a quelli parrocchiali dove ancora oggi i bambini fanno catechismo e dove una volta erano adibiti ad aule per la Scuola elementare. E nella saletta di “passaggio” tra il cinema e le sale per i bambini, viene conservata un’altra macchina, una Victoria 5r, la stessa che nel film di Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” sostituisce il vecchio proiettore dopo l’incendio che rende cieco il proiezionista Alfredo.

Luoghi magici, più o meno nascosti, che dopo tanti anni trasmettono ancora quel calore antico di spazi vissuti e fatti crescere con invincibile passione.

Proseguendo nel nostro giro negli ambienti, scopriamo come per diversi anni in sala il palcoscenico – di legno – fosse davanti lo schermo, mentre quello nuovo, dietro lo stesso, venne fatto costruire a metà degli anni ’80 da padre Flavio Medaglia. Una volta, lo schermo quando non serviva veniva alzato e posto orizzontalmente a sfiorare, parallelo, il soffitto. Diverse foto che possiamo ammirare grazie a Enrichetta Maregatti e al parroco don Francesco Viali, testimoniano dell’iniziativa “Microfono d’oro” che si teneva proprio su questo palco negli anni ’70-’80, ispirata allo Zecchino d’oro del Coro Antoniano di Bologna. E un capitolo a parte meriterebbero le poltroncine blu della sala, fatte installare (assieme al pavimento) un quarto di secolo fa da padre Antonio Atanasio Drudi, in sostituzione di quelle di legno che a loro volta presero il posto di quelle in ferro. Prima delle poltroncine blu, i posti erano di più – oltre 200, rispetto alle 173 attuali – e in passato la sala era riscaldata con stufe di carbone. Un altro aneddoto riguarda le poltroncine in legno, che nei periodi estivi venivano trasferite nel campetto dell’oratorio per il “cinema all’aperto”.

I PRIMI CINEFORUM CITTADINI E “LASCIA O RADDOPPIA?”

Come accennato all’inizio, proprio nel Cinema Santo Spirito nacque, grazie a don Franco Patruno e Luciano Chiappini, il primo Cineforum ferrarese: la terza serie – a cura del “Club Ferrarese Cineforum” – ci risulta essere della stagione 1952-1953, col titolo “Panorama della cinematografia mondiale del dopoguerra. Charlie Chaplin – Il cinema francese”, con film anche di Renè Clair (“Il silenzio è d’oro”, 1947) e Henri Georges Clouzot, mentre di Chaplin venne proiettato “Monsieur Verdoux” (1946). Nella quinta serie, invece, anni ’53-54, protagonisti furono Jean Renoir (“La grande illusione”), Frank Capra (“L’eterna illusione”), G. W. Pabst (“La voce del silenzio”) e Billy Wilder (“Viale del tramonto” e “L’asso nella manica”). 

Don Patruno e Chiappini li ritroviamo quasi mezzo secolo dopo, il 4 dicembre 1998, per un incontro pubblico organizzato in occasione del 50° anniversario, con gli interventi, oltre che dei due, di Enrichetta Maregatti, del parroco padre Giovanni Di Maria (a S.Spirito dal ’97 al 2009) e di Antonio Azzalli. Proprio in occasione dei primi 50 anni del cinema, sull’edizione ferrarese del “Resto del Carlino” Gianfranco Rossi ricordava quando nel 1957 Michelangelo Antonioni con la sua troupe de “Il grido” (tra cui Alida Valli e Dorian Gray), si fermò al Cinema S. Spirito per annunciare la prossima uscita del film. 

Cinema d’autore, dunque, ma anche la neonata televisione fece capolino dal grande schermo di via della Resistenza con, dal ‘56, la proiezione di “Lascia o raddoppia?” e di altre trasmissioni televisive che raccoglievano una volta alla settimana tante famiglie della parrocchia ancora sprovviste in casa del televisore.

LE CRISI, IL PRESENTE E IL FUTURO DI UNA COMUNITÀ

Il Cinema S. Spirito è iscritto all’ACEC-SdC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema – Sale della Comunità) e oggi ospita 173 posti, di cui 153 in platea e 20 in galleria.

Come ci spiega Enrichetta Maregatti, «cerchiamo di proiettare film d’essai o comunque di qualità. Facciamo anche proiezioni per le scuole, per l’Università degli Studi di Ferrara, oltre a conferenze e spettacoli teatrali benefici di compagnie amatoriali locali».

Negli anni, prosegue, «abbiamo vissuto momenti di crisi, ad esempio dopo l’apertura del Multisala in Darsena e con le chiusure causa Covid. Ma dallo scorso gennaio è ripreso il regolare flusso di spettatori, che anzi è aumentato rispetto al periodo pre-Covid. Da noi vengono persone non solo dalla città ma anche dalla provincia (Ostellato, Massa Fiscaglia, Poggio Renatico ad esempio) o dal rodigino, e ci sono tanti affezionati, un vero e proprio “zoccolo duro”».

La missione per il futuro è sempre chiara: «siamo una sala polivalente che cerca innanzitutto di aggregare le persone, di farle ritrovare, incontrare, socializzare. Il nostro è un servizio alla comunità, e anche per questo cerchiamo di mantenere prezzi bassi. I film vanno visti in sala, sul grande schermo e soprattutto assieme agli altri». 

Per questi motivi, i cinema come S.Spirito vanno tutelati e sostenuti come patrimonio dell’intera comunità.

***

SERATA SPECIALE IL 18 NOVEMBRE

“Cinema Santo Spirito. 75 anni di film che parlano al cuore” è il nome dell’incontro in programma sabato 18 novembre al Cinema Santo Spirito di via Resistenza, 7 a Ferrara.

Questo il programma della serata:

* ore 18:45 – 20:45, atrio del cinema:Annullo filatelico di Poste Italiane per la ricorrenza.

* 19:00, Sala del cinema:Tavola rotonda “Cinema Santo Spirito tra ricordi e prospettive”. Modera mons. Massimo Manservigi, Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio.

*20:00, cortile dell’oratorio:aperitivo con buffet.

* 21:00, Sala del cinema:speciale proiezione a sorpresa  di un film restaurato.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 10 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Relazione, trascendenza, generatività: i volti della vocazione

6 Nov

Don Grossi e Bruzzone i relatori della seconda lezione della Scuola diocesana di teologia per laici

Sulla natura della vocazione e l’essenza relazionale della persona hanno riflettuto lo scorso 26 ottobre a Casa Cini, Ferrara, don Alessio Grossi (Referente del Servizio Diocesano Tutela Minori e persone vulnerabili della diocesi di Ferrara-Comacchio, nonché sacerdote dell’UP Arginone-Mizzana-Cassana) e Daniele Bruzzone Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente di Alæf (Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana) (foto in basso). L’occasione è stato il secondo incontro dell’anno in corso della Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, avviata lo scorso 5 ottobre con la lezione introduttiva del nostro Arcivescovo.

“Parliamo di vocazione: Una via per ciascuno?” il titolo, invece, della lezione del 26 ottobre che ha visto la partecipazione (in presenza o on-line) di oltre 120 persone.

«La vocazione – ha esordito don Grossi – è chiamata, appello, è qualcosa che parte da Dio ma che non mi arriva dall’esterno, come qualcosa che possa non andare d’accordo col mio cuore, come qualcosa che io non conosco di me». Da una concezione errata di vocazione (intesa anche come «privilegio» e come qualcosa di esclusivo), si arriva a «forme negative di rinuncia e mortificazione» e si può arrivare anche «all’abuso spirituale e di coscienza». Nessuno può dire che cosa un altro deve fare, «può accompagnarlo nella sua scelta ma alla fine è quest’ultimo che deve decidere».

Nella “Gaudium et spes” – ha proseguito il sacerdote – è scritto che la dignità deriva dalla «vocazione alla comunione con Dio», dal dialogo tra uomo e Dio. Il Catechismo, poi, a proposito di vocazione parla di «vita nello Spirito», quindi di «un’espressione creativa, una dinamica e una concretezza». Qui, secondo don Grossi, risulta fondamentale il testo di Wojtyla “Persona e atto” (1969): secondo il futuro pontefice, «l’atto, il manifestarsi costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela». Per l’uomo, infatti, «a differenza degli animali non è indifferente come vive la propria chiamata all’esistenza». «Partecipazione» (l’esplicarsi nella relazione) e «trascendenza» (apertura, eccedenza) sono i due concetti cardine che definiscono la persona umana. Ma questo oltrepassamento avviene anche al proprio interno, in quanto «il nucleo della persona risiede dentro di sé, è quella parte aperta al mondo ma che, ascoltandosi e decidendosi, vive la dimensione trascendentale partendo dal cuore». E – si badi bene – «l’interiorità non è riducibile allo psicologico, ma è molto di più, è lo spirituale, la fonte dell’uomo che può sempre decidere come orientarsi nella vita».

Ma se l’uomo è apertura, partecipazione e trascendenza, per un cristiano ciò che lo distingue è l’amore (si veda ad esempio Gv 13, 34), «il dare la vita, il generare: la stessa morte di Cristo e quella del nostro ego non significano mortificazione ma qualcosa di generativo, quindi la vocazione, ogni vocazione non può non essere qualcosa di generativo, che genera vita per me e per gli altri. La vocazione è tale se è generativa, se è una vivificazione reciproca», ha spiegato il sacerdote.

Alla base della sopracitata “teologia della persona” di Wojtyla e non solo, ha invece riflettuto Bruzzone, troviamo la filosofia del tedesco Max Scheler (1874-1928), che ha influenzato anche il pensiero di Viktor Frankl (1905-1997), neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, tra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia a cui si ispira l’Alæf presieduta da Bruzzone.

«Per Frankl – ha spiegato quest’ultimo – l’uomo è sempre orientato alla ricerca dell’altro e dell’Altro – che per chi crede è Dio -, quindi vi è sempre una tensione a un’alterità, un’apertura, un’eccentricità: per realizzarci abbiamo bisogno di dedicarci ad altro e ad altri. Il cuore dell’uomo ha una struttura dialogica – ha proseguito – la nostra coscienza è sempre interpellata e sempre risponde». Riguardo alla vocazione, dunque, vediamo come la vita sia «qualcosa che ci interroga, e dalle nostre risposte dipende la direzione della nostra esistenza». Senza dimenticarci, appunto, che «il concentrarci troppo su noi stessi ci fa ammalare: senza scopo, senza altro e senza altri, l’uomo inizia a preoccuparsi, a star male». Se rinnega la propria essenziale apertura, muore.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 3 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio