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Chiesa e mondo ebraico, rapporto complesso

19 Nov

Le parole di Piero Stefani il 15 novembre dalle Clarisse

Il tema dei complessi rapporti fra la Chiesa Cattolica e il mondo ebraico sono stati al centro della relazione di Piero Stefani, intervenuto lo scorso  15 novembre nella Sala del coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara per l’incontro dal titolo “La Chiesa e gli Ebrei dal Vaticano II a Gaza”. Organizzato da SAE Ferrara, Istituto Gramsci Ferrara e ISCO Ferrara nel 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, e parte delle Giornate in memoria di Piergiorgio Cattani, l’incontro è stato introdotto da Francesco Lavezzi che ha riflettuto su come «il Concilio Vaticano II è stato tutt’altro che una passeggiata, ma l’inizio di una fase di svolte, che portò a non pochi contrasti». EdalConcilio emerse l’idea del dialogo da intendersi «non come tattica o strumento» ma come «conversione del cuore che riguarda tutti». 

SHOAH E COLONIALISMO

Stefani ha preso le mosse dalla Shoah e  dal suo legame col colonialismo, entrambi «ombre dell’Occidente».Il sionismo – ha riflettuto – «nasce prima della Shoah e non può quindi essere spiegato solo con questa» e dall’altra parte «il colonialismo ha riguardato anche il Medio Oriente, a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917, e dalla Nakba conseguente alla nascita dello Stato di Israele». Fino ad arrivare al «neoconialismo di oggi portato avanti dal Governo Netanyahu, che arriva addirittura ad assegnare la responsabilità decisiva della Shoah al mondo islamico (al Gran Muftì di Gerusalemme)», posizione «senza fondamento» speculare a quella secondo cui «oggi gli ebrei coi palestinesi si stanno comportando come i nazisti 80 anni fa».

In tutto ciò, la Nostra Aetate rappresenta «una svolta nella posizione della Chiesa nei confronti degli ebrei, non più «perfidi» (da intendersi comunque non come malvagi ma come «coloro che non hanno fede in Gesù Cristo»), ma con cui bisogna «dialogare». Alcune particolarità della Nostra Aetate riguardano il fatto che in essa «non si citi mai in modo esplicito la Shoah, e in nessun modo il termine “Israele”».

ANTISEMITISMO E ANTISIONISMO

Il relatore si è poi concentrato su un altro termine discusso, “antisemitismo”, in particolare oggi, quando «i suoi confini sono diventati così vaghi». Al riguardo, due sono le espressioni storicamente rilevanti usate da Pio XI nei confronti degli ebrei: la prima, nel 1928, in riferimento all’Associazione Amici Israël (che verrà sciolta per altri motivi): «…la Santa Sede – scrisse -, condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di antisemitismo»;la seconda, 10 anni dopo, a Castelgandolfo in occasione di un incontro coi cattolici belgi: «L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi che sono espresse in questo testo. È un movimento antipatico, al quale non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte… Per Cristo e in Cristo, noi siamo discendenza di Abramo. No, non è possibile ai cristiani partecipare all’antisemitismo. Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di utilizzare i mezzi per proteggersi contro tutto quanto minaccia i propri interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti». Da qui, fino ad arrivare ad esempio alle importanti parole di Giovanni Paolo II nel ’97 contro «le radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano». Antigiudaismo che per Stefani ha «fiaccato le coscienze agevolando l’antisemitismo o l’indifferenza» nei suoi confronti. La Nostra Aetate ha il merito invece di non considerare l’ebraismo come «mera religione non cristiana», ma di «sottolineare il legame particolare che esiste tra la Chiesa e il popolo ebraico».

Legame che si esplicherà anche nel 1993 con l’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, nel quale si sottolinea la «natura unica delle relazioni tra la chiesa cattolica e il popolo ebraico». Dall’altra parte, la Chiesa negli anni ha fatto importanti passi avanti anche nel riconoscimento della Palestina,  dall’accordo con l’OLP nel 2000 a quello con lo Stato di Palestina nel 2015. Da 10 anni, quindi, «per la Santa Sede esistono due popoli e due stati». Ma ciò ha peggiorato i rapporti della Santa Sede con l’attuale governo israeliano, che nel febbraio 2024 ha ricevuto un ampio consenso dalla Knesset (99 voti su 120) per  una dichiarazione simbolica contro il “riconoscimento unilaterale” dello Stato palestinese da parte della comunità internazionale.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Olive, gomme e tè: ecco gli ingredienti della pace

18 Nov

Lo scorso 10 novembre a Ferrara è intervenuto Jeremy Milgrom, rabbino di Gerusalemme e da 40 anni uomo di pace e maestro di nonviolenza: ecco cos’ha detto

di Andrea Musacci

“La pace è una pratica, non una speranza”: un titolo forse “populista” a una prima lettura, per un incontro pubblico. E invece no, se presenta e racchiude i racconti e le riflessioni di una vita di un uomo come Jeremy Milgrom, rabbino di Gerusalemme di origini statunitensi e cofondatore nel 1988 dell’Associazione Rabbis for Human Rights (Rabbini per i Diritti Umani). Impegnato soprattutto per i diritti dei palestinesi e delle fasce più deboli della società israeliana, nonché pioniere nel dialogo interreligioso (col reverendo anglicano palestinese Shehadeh Shehadeh ha fondato l’associazione Clergy for Peace (Religiosi per la pace, che unisce ebrei, cristiani e musulmani), Milgrom è intervenuto nel tardo pomeriggio dello scorso 10 novembre nella Sala della Musica di Ferrara (via Boccaleone) invitato dalla Rete per la Pace (in collaborazione con i Gruppi Consiliari La Comune di Ferrara e Civica Anselmo). Milgrom è stato introdotto e intervistato da Alessandra Mambelli.

LE BELLE BANDIERE

La pratica, la concretezza, si diceva; quella che Milgrom conosce bene, lui veterano dell’esercito israeliano che ottenne l’esonero dagli obblighi di riservista dopo 8 anni di battaglie legali. Una pratica non violenta che non gli ha fatto perdere il legame col suo popolo: «in questa sala non è presente la bandiera israeliana», ma una della pace tra due palestinesi, ha esordito. «Secondo me invece dovrebbero essere esposte entrambe le bandiere. Ricordo che nel 1988 mia figlia voleva esporre la bandiera di Israele, in occasione dell’anniversario della nascita del nostro Stato. Le dissi di mettere, a fianco, anche quella palestinese. Spesso però in Israele se le persone vedono esposta quest’ultima si arrabbiano e dicono: “dopo 2mila anni finalmente questa terra è nostra, mentre gli arabi vivono già in tante altre terre!”».

SOLLIEVO E PAURA

Ora in Israele – ha proseguito – «vi è sollievo per gli ostaggi liberati e i corpi degli stessi uccisi restituiti. Ma non vi è pieno sollievo perché Netanyahu continua a smantellare il nostro sistema democratico. Le elezioni dovrebbero tenersi fra un anno ma non siamo sicuri che ci saranno». E «il governo israeliano teme che i suoi cittadini vengano a sapere cos’è successo a Gaza e cosa sta succedendo in Cisgiordania, e quindi cerca di tenerlo nascosto». Dall’altra parte, «molti israeliani hanno paura a venire in Europa quando nei cortei sentono slogan come “From the river to the sea Palestina will be free”, a maggior ragione ora che c’è la tregua». Sono in aumento, infatti, anche in Italia i casi di aggressione – anche fisica – a danno di ebrei: proprio il giorno dopo, il 12, una famiglia ebrea statunitense è stata aggredita alla Stazione Centrale di Milano da un giovane pakistano.

LE OLIVE DELLA DISCORDIA

Dopo la dura analisi del presente, la seconda parte dell’intervento di Milgrom è stata invece ricca anche di aneddoti e racconti positivi, per una convivenza possibile. «I mesi di ottobre e novembre – ha detto – sono quelli dedicati alla raccolta delle olive: ciò rappresenta un’importante fonte di guadagno per i palestinesi, ma per loro è diventato molto difficile farla a causa dei continui attacchi dei coloni, che così facendo cercano di spingerli ad abbandonare le loro terre. Per fortuna vi sono anche israeliani che li aiutano nella raccolta, in quanto la loro presenza spesso li difende da questi attacchi».

GOMME NEL DESERTO

L’ong  Vento di terra ets, nata nel 2006 e con sede a Milano, fra i vari progetti portati a termine ha Impronte di Pace, promosso nel 2009 per realizzare la Scuola di Gomme, realizzata nel deserto di Gerico con pneumatici usati. La Scuola ospita un centinaio di alunne e alunni beduini, prima esclusi dal diritto allo studio. «Il governo israeliano – ha spiegato Milgrom – voleva distruggere la scuola ma l’associazione ha denunciato questo tentativo al governo italiano e all’Unione Europea, a dimostrazione dell’importanza dell’impegno diretto dei cittadini». «Sono molto felice per quello che stanno facendo» a Gaza e in Cisgiordania, ha commentato. «Quando vengo in Italia collaboro con loro, facciamo molte attività assieme». «A volte dai beduini – ha aggiunto Milgrom – porto anche mia madre, che ha 97 anni, e lei con loro si trova molto bene…». Ma ancora oggi i beduini devono difendersi non solo dall’esercito ma anche dai coloni israeliani, come ben documentato da Avvenire lo scorso 11 novembre riguardo al villaggio di Al-Hatrura. 

LA PACE NEL TÈ

Sono frequenti e ben radicati i legami di Milgrom con tanti palestinesi: «spesso – ha raccontato a mo’ di esempio – sono ospite di un signore che mi offre sempre il tè. Una volta ho ricambiato la sua ospitalità invitando lui e la sua famiglia a pranzo: in quest’occasione ho raccontato la storia del popolo ebraico, quindi anche il periodo della schiavitù in Egitto e la successiva liberazione. Per il figlio di questo signore sembrava assurdo che gli ebrei potessero essere stati schiavi perché ora vede Israele come padrone, e loro palestinesi come schiavi…».

GIOVANI IN CARCERE

E a proposito di giovani generazioni, Milgrom ha raccontato anche di suo nipote, 16 anni di età: «non voglio che si arruoli nell’esercito, e proprio per questo ora con la famiglia vive nel Regno Unito. Anche sua madre da giovane si è rifiutata di fare il servizio militare. Chi si rifiuta di arruolarsi per me è un eroe». Persone che rischiano il carcere, lo stesso dove sono rinchiusi molti palestinesi: «la loro non è una causa popolare in Israele in quanto il governo – che è il più estremista nella storia dello Stato di Israele – non vuole che se ne parli. Come israeliano sono imbarazzato per come il governo tratta queste persone, giustificando questi metodi come deterrenti».

L’UNICA SOLUZIONE

«Dal 1948 Israele opprime i palestinesi», ha aggiunto Milgrom: «molti sono stati cacciati dalla loro terra, sono diventati profughi». E ancora oggi «molti israeliani sono d’accordo col Piano Trump e non vogliono il ritorno dei profughi palestinesi. Ma finché questi non torneranno nella loro terra, vi sarà ingiustizia e violenza». Dall’alta parte – ha aggiunto – «fra i palestinesi e i loro sostenitori ci sono molte persone che desiderano che tutti gli ebrei lascino la propria terra». Il finale è amaro, ma non del tutto: «con molta tristezza credo che non abbiamo fatto abbastanza: mai come oggi c’è stata brutalità e violenza, e mai Israele ha acquistato e prodotto così tante armi. L’unica soluzione è di vivere insieme in un unico Stato e di cooperare». L’unica risposta – insomma – è nella pratica di pace, l’unica che può dare speranza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

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Sari Bashi e l’amore possibile tra un’israeliana e un palestinese

16 Ott


La scrittrice il 12 ottobre ha presentato il suo romanzo al MEIS di Ferrara

Mentre scriviamo questo articolo, è da poco avvenuta la liberazione degli ostaggi israeliani da due anni nelle mani di Hamas. L’annuale rassegna letteraria “Il Libro Ebraico”, svoltasi dal 9 al 12 ottobre al MEIS di Ferrara sul tema “Un futuro da scrivere 2025” è stata quindi vissuta in un clima di speranza per la possibile fine del conflitto tra Israele e Hamas. 

Rassegna che si è conclusa domenica 12 con la presentazione del libro “Maqluba. Amore capovolto” di Sari Bashi (tradotto in italiano nel marzo 2025, e uscito per Voland ed.). Con l’autrice han dialogato Emanuele Ottolenghi (politologo e saggista), Maria Chiara Rioli (UniMoRe) e Claudio Vercelli (storico), moderati dal Direttore MEIS Amedeo Spagnoletto.

Sari Bashi è un’avvocata per i diritti umani israeliana, in passato dirigente di Human Rights Watch in Palestina e nel 2005 ha fondato Ghishà, organizzazione per i diritti umani e la libertà di movimento che fornisce assistenza legale a persone palestinesi, soprattutto di Gaza. È anche un’atleta e detiene il record israeliano femminile di ultramaratona (216 km). “Maqluba. Amore capovolto”, suo primo romanzo, ha vinto nel 2021 il premio del Ministero israeliano della Cultura come miglior esordio. Oggi Bashi vive in Cisgiordania con Osama, il suo compagno, palestinese di Gaza, e i loro due figli. Il libro – scritto prima del 7 ottobre 2023 – racconta proprio la storia d’amore di Sari e del suo compagno, professore universitario originario di Gaza.

«Nel libro c’è un gioco di identificazione ma anche di separazione, un’ambivalenza – questa – tipica delle storie d’amore ma qui ancora più forte vista la difficoltà di trovare un’identità non cristalizzata in rigidi convincimenti», è stato il commento di Vercelli al testo.

«Là fuori, oltre ciò che è giusto e sbagliato esiste un campo immenso: ci incontreremo lì»: questo, un passaggio del romanzo. Un oltre come immagine della suprema libertà, quella così agognata tanto da Sari quanto da Osama, «entrambi innamorati del mare e della corsa. Correre che è per me – ha spiegato Bashi – un modo di cimentarmi con diverse identità, oltrepassando diversi confini». Il 7 ottobre – ha proseguito l’autrice «è stato un crimine contro l’umanità e la guerra che ne è seguita qualcosa che si avvicina al genocidio». Ma «dopo due anni terribili, oggi sono animata da grandissima speranza.Spero che anche i miei suoceri palestinesi possano tornare a casa, come gli ostaggi israeliani. Per me il conflitto tra israeliani e palestinesi non è – come per alcuni commentatori – qualcosa presente da sempre, ma è causato principalmente dal sistema di oppressione (israeliano, ndr) che occupa uno spazio non suo e tratta alcune persone in maniera differente. Sistema, questo, causato dalla colonizzazione europea iniziata nel 1948».

In particolare dal 7 ottobre 2023 – sono ancora parole di Bashi a Ferrara – le parole vengono troppo spesso usate in modo polarizzante». Ma è possibile un modo diverso di approcciarsi: l’esempio che fa è innanzitutto quello di suo padre, «originario di una comunità ebraica in Iraq lì presente per secoli». O «dei miei figli che possono iniziare una frase in arabo, continuarla in inglese e finirla in ebraico». Insomma, le identità possono essere trasformate, l’incontro è possibile. «Spero che il mio libro possa permettere agli israeliani di  conoscere meglio il mondo di Osama e – se e quando sarà tradotto in arabo – di far conoscere meglio agli arabi il mondo ebraico. Vedo – ha poi concluso – una leadership dal basso sia tra i giovani israeliani sia tra i giovani palestinesi.Sono ottimista».

Meno lo è Ottolenghi: «nel libro le identità si incontrano ma nella realtà sono molto forti e antiche e davvero quasi impossibile modificarle. Nel mondo musulmano mediorientale le minoranze sono sempre state sottomesse alla maggioranza: il nazionalismo arabo non ha mai considerato, e non considera, gli ebrei come parte della loro società. È l’effetto di un antisemitismo moderno che si ispirava e si ispira a quello europeo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025

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La pace è un’amicizia: gruppi e progetti con uniti israeliani e palestinesi

21 Giu


Dal villaggio cooperativo all’associazione di genitori, dal gruppo delle donne a quello degli artisti…: sono tanti i luoghi concreti in Terra Santa dove israeliani e palestinesi convivono in armonia, costruendo giorno dopo giorno un futuro differente

Vi presentiamo alcuni esempi molto quotidiani e dal basso, di come, al di là dei conflitti, la pace fra le persone si stia già costruendo. Esempi da far conoscere e moltiplicare.

NEVE SHALOM – WAHAT AL-SALAM

Neve Shalom Wahat al-Salam (NSWAS) è un villaggio cooperativo nel quale vivono insieme ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana. 

Equidistante da Gerusalemme e da Tel Aviv, il villaggio fu fondato nel 1972, dal padre domenicano Bruno Hussar, ebreo divenuto cristiano, e Anne Le Meignen. Il nome, che significa “Oasi di pace”, deriva da uno dei libri di Isaia (32,18): “Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace”. 

Nel 1977 vi si insediò la prima famiglia. Nel 1999 le famiglie residenti erano 30; oggi sono circa 80 e altre nuove famiglie vi stanno costruendo le loro case. 

I membri di Nevé Shalom – Wahat al-Salam dimostrano in modo tangibile che ebrei e palestinesi possono coesistere. Gestito in modo democratico, il villaggio è di proprietà dei suoi stessi abitanti e non è affiliato ad alcun partito o movimento politico.

(www.oasidipace.org)

PARENTS CIRCLE

Il Parents Circle – Families Forum (PCFF) è un’organizzazione congiunta israelo-palestinese di cui fanno parte oltre 600 famiglie che hanno perso un familiare stretto a causa del conflitto tra Israele e Palestina. L’organizzazione fu creata nel 1995 da Yitzhak Frankenthal, il cui figlio Arik era stato rapito e ucciso nel 1994 da Hamas, insieme ad altre famiglie israeliane in lutto. 

Nel 1998 il gruppo ha tenuto i suoi primi incontri con le famiglie palestinesi a Gaza; tuttavia, questa connessione fu interrotta a seguito della Seconda Intifada. Nel 2000, il PCFF è riuscito a ristabilire il suo legame con le famiglie palestinesi, incorporando famiglie della Cisgiordania.

(www.theparentscircle.org)

THE ROAD TO RECOVERY

Road to Recovery è un’organizzazione di volontari che ogni giorno aiutano le persone palestinesi a spostarsi in auto per raggiungere gli ospedali in Israele. Nel 1993 alcuni militari di Hamas uccisero un soldato israeliano, Udi, mentre stava tornando a casa dopo il servizio di riserva nella striscia di Gaza. In seguito a questa perdita, il fratello di Udi, Yuval Roth, iniziò a frequentare il Parents Circle, dove conobbe Muhammed Kabeh, arabo originario di una cittadina vicino Jenin, che un giorno gli chiese un favore: dare un passaggio a suo fratello malato di cancro dal check point fino all’ospedale. Yuval rispose di sì. L’esigenza di questo tipo di attività fu subito evidente. 

Le persone palestinesi malate o con figli che avevano bisogno di cure potevano accedere agli ospedali in Israele ma non avevano modo di raggiungerli dai check point. Nacque così Road to Recovery, l’associazione di volontariato che oggi compie circa 10mila viaggi ogni anno.

(www.theroadtorecovery.org)

ALLIANCE FOR MIDDLE EAST PEACE

L’Alleanza per la Pace in Medio Oriente (ALLMEP) guida una rete in crescita di oltre 170 organizzazioni della società civile, con centinaia di migliaia di palestinesi e israeliani che vivono e lavorano nella regione. 

L’Alleanza promuove la cooperazione, la fiducia, la giustizia, l’uguaglianza, la comprensione reciproca e la pace all’interno e tra queste comunità. 

Fondata nel 2006 e con sede a Washington, ALLMEP immagina un Medio Oriente in cui la sua comunità di costruttori di pace palestinesi e israeliani guidi le proprie società verso e oltre una pace sostenibile. ALLMEP è convinta che i programmi di peacebuilding interrompono e invertono molti atteggiamenti e convinzioni che alimentano il conflitto. Dentro ALLMEP esiste anche un gruppo specifico formato da sole donne, Women’s Leadership Network.

(http://www.allmep.org)

COMBATANTS FOR PEACE 

Lo scorso autunno, una donna palestinese, Rana Salman e una israeliana, Eszter Koranyi hanno percorso l’Italia per presentare il gruppo da loro fondato, “Combatants for Peace” (“Combattenti per la pace”), associazione nata durante la Seconda intifada da una serie di incontri segreti a Betlemme tra miliziani palestinesi e soldati israeliani decisi a costruire un presente e un futuro possibili nell’unico modo realistico: insieme. Nel tempo, l’organizzazione si è aperta anche a chi non ha un “passato armato” ma vuole unirsi al combattimento per la pace.

(www.cfpeace.org)

CARTOONING FOR PEACE

Cartooning for Peace è una rete internazionale di vignettisti impegnati nella stampa che usano l’umorismo per lottare per il rispetto delle culture e delle libertà. 

Si tratta di 344 fumettisti in 78 Paesi, fra cui due vignettisti di fama internazionale: il palestinese figlio di rifugiati Fadi Abou Hassan “Fadi Toon” e l’israeliano figlio di un sopravvissuto alla Shoah Michel Kichka, entrambi esponenti di punta della rete.

(www.cartooningforpeace.org)

RABBIS FOR HUMAN RIGHTS (RHR)

Fondata nel 1988, si dedica alla promozione e alla tutela dei diritti umani in Israele e nei Territori Palestinesi. Composta da rabbini e studenti di rabbinica provenienti da diverse tradizioni ebraiche, tra cui riformata, ortodossa, conservatrice e ricostruzionista, RHR è animata dai profondi valori ebraici di giustizia, dignità e uguaglianza.

(www.rhr.org.il)

WOMEN WAGE PEACE

Fondata all’indomani della guerra di Gaza/Operazione Margine Protettivo del 2014, Women Wage Peace (WWP) conta oggi 50.000 membri israeliani ed è oggi il più grande movimento pacifista popolare in Israele. La teoria del cambiamento di WWP riflette il conflitto israelo-palestinese e la sua risoluzione attraverso una lente di genere.

(www.womenwagepeace.org)

WOMEN OF THE SUN

Le donne palestinesi costituiscono più della metà della società palestinese, ma occupano meno del 12,5% delle posizioni di leadership in Palestina. 

Per questo, nasce il movimento femminile “Women of the sun”. «Siamo le donne che si trovano di fronte al muro di ostacoli e difficoltà che, come donne palestinesi, affrontiamo per un futuro migliore», spiegano nel loro sito. «Pertanto, è necessario aumentare la partecipazione politica e il processo decisionale delle donne, far sentire la loro voce e chiedere il riconoscimento della legge, per ottenere l’indipendenza delle donne (socialmente, politicamente ed economicamente)».

(www.womensun.org)

IL LIBRO “ISRAELE E PALESTINA: LA PACE POSSIBILE” 

Il volume è uscito alcuni mesi fa ed è a cura del caporedattore del mensile “Confronti”, Michele Lipori. Un volume scaturito dagli appuntamenti del pluridecennale progetto “Semi di pace” promosso dalla rivista e Centro studi interreligioso “Confronti” con i contributi dell’8xmille della Chiesa valdese. 

Fra i testi presenti, le interviste a Rana Salman di Combatants for Peace, della suora egiziana Nabila Saleh della congregazione delle missionarie di Nostra Signora del Rosario da 13 anni a Gaza, della scrittrice Orna Akad, degli attivisti Mossi Raz di Peace Now e Yael Admi di Women Wage Peace.

(Un articolo di presentazione si trova qui: http://www.terrasanta.net/2025/01/voci-dal-fronte-pacifista-costruire-dal-basso-qui-e-ora/)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 giugno 2025

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(Foto: bimbi della comunità Neve Shalom Wahat al-Salam – da Facebook)

Palestinesi contro Hamas: i racconti dei dissidenti che (quasi) nessuno ascolta

20 Giu

di Andrea Musacci

Da fine marzo a fine maggio 2025 Amnesty International ha raccolto documentazione su – è scritto sul loro sito – «un preoccupante ripetersi di minacce, intimidazioni e persecuzioni – inclusi interrogatori e pestaggi da parte delle forze di sicurezza di Hamas – ai danni di persone palestinesi della Striscia di Gaza che stavano esercitando il loro diritto di protesta pacifica». Tra le persone intervistate da Amnesty, un abitante del quartiere al-Alatra di Beit Lahia, città nel nord di Gaza: «Abbiamo il diritto di vivere con dignità. Abbiamo iniziato a manifestare perché vogliamo una soluzione alla nostra sofferenza. Nessuno ci ha incitato a protestare o ci ha detto di farlo. Le persone protestano perché non riescono più a vivere, vogliono che le cose cambino. Le forze di sicurezza [di Hamas] ci hanno minacciato e picchiato, ci hanno accusati di essere traditori solo perché abbiamo preso la parola. Continueremo a protestare, non importa a quale rischio». Il 16 aprile questa persona e altre sono state portate in un edificio trasformato dalle forze di sicurezza di Hamas in un improvvisato centro di detenzione: «Erano una 50ina di persone. Mi hanno colpito coi bastoni di legno sul collo e sulla schiena. Mi urlavano che ero un traditore, un collaborazionista del Mossad». Un altro uomo è stato convocato più volte per interrogatori ma ha sempre rifiutato, fino a quando, lo scorso 17 aprile, i servizi di sicurezza di Hamas sono venuti a prenderlo a casa. Ecco il suo racconto: «Mi hanno preso a bastonate e a pugni in faccia. Le botte non erano così dure, penso più che altro fossero una minaccia. In precedenza, dopo una protesta, una persona affiliata ai servizi si era avvicinata, avvisandomi che mi avrebbe sparato ai piedi se avessi continuato a manifestare».

Proseguendo, come riporta moked.it, lo scorso aprile due dissidenti palestinesi sono intervenuti nel corso di un incontro organizzato a Palazzo Carpegna (Senato della Repubblica Italiana) dal sen. Ivan Scalfarotto. Muhammad ha 25 anni, è originario del nord della Striscia, ma è sfollato al sud. Muhammad è un nome di fantasia. Solo così ha potuto testimoniare, in diretta da Gaza, intervenendo insieme a un altro dissidente, Hamza Howidy, lui fisicamente presente, all’incontro “Voci da Gaza”. A intervistarli la giornalista Sharon Nizza. Queste le parole di Muhammad: «I gazawi protestano contro Hamas per non aver accettato la mediazione egiziana, che poneva come condizione il disarmo del gruppo. Il popolo palestinese si è reso conto che Hamas sta negoziando esclusivamente per i propri interessi, per rimanere al potere, anche a scapito di migliaia di vittime. Oggi Hamas ha ucciso un giovane, facendo irruzione nella stanza di un ospedale nonostante le proteste dei medici; Hamas non è interessato alle sofferenze del popolo di Gaza». Secondo Muhammad, i gazawi «sono consapevoli del fatto le loro privazioni sono causate da Hamas e non ne possono più: vogliono che esca dalla scena politica». «A Gaza serve un nuovo governo che metta al primo posto gli interessi del popolo. Sarà quello il primo passo per diventare uno Stato sovrano», ha dichiarato poi Howidy.

Bet Magazine Mosaico (mosaico-cem.it) riporta le parole di Ahmed Fouad Alkhatib, dissidente palestinese: «Radere al suolo un territorio con oltre 2 milioni di persone per colpire circa 15.000 terroristi, al fine di raggiungere 23 ostaggi vivi e 35 corpi — che prego Dio vengano salvati e liberati al più presto — sembra qualcosa di ampiamente sproporzionato, incredibilmente irresponsabile», scrive l’attivista palestinese, aggiungendo: «Ma — e non fatevi ingannare — Hamas ha preso decisioni che ci hanno portati fin qui; Hamas è un partner malvagio nella distruzione dei sogni e delle aspirazioni del popolo palestinese». Le violazioni della libertà di stampa da parte di Hamas sono state documentate dal Committee to Protect Journalists (CPJ). Giornalisti come Tawfiq Abu Jarad e Ibrahim Muhareb hanno subito minacce, pestaggi e intimidazioni da parte di Hamas per aver tentato di documentare proteste e condizioni di vita nella Striscia.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 giugno 2025

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(Foto: un momento della prima manifestazione, a Beit Lahia – Vatican News)

«Siamo contro il regime islamico e contro la guerra»

19 Giu
Rayhane Tabrizi (foto Lorenzo Ceva Valla)

La nostra intervista a Rayhane Tabrizi, dissidente iraniana a Milano: «in Iran i miei amici tra gioia e paura. La caduta del regime degli ayatollah avrà effetti positivi anche in Ucraina e Gaza»

di Andrea Musacci

«Noi iraniani non vogliamo la guerra ma desideriamo che cada l’oppressivo regime degli ayatollah in Iran». Come “Voce” abbiamo contattato telefonicamente Rayhane Tabrizi (foto Lorenzo Ceva Valla), nata a Teheran nel 1979, residente in Italia, a Milano, dal 2008. Rayhane è tra le fondatrici dell’Associazione Maanà, attiva proprio a Milano e nata dalle manifestazioni di sostegno ai dissidenti in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini, giovane donna curdo-iraniana di 22 anni arrestata e uccisa dalla polizia morale il 14 settembre 2022 per aver indossato l’hijab in modo “improprio”.

Rayhane, mi parli un po’ di lei, dal periodo in Iran alla scelta dell’Italia…

«Sono nata in Iran nel 1979, proprio l’anno della rivoluzione islamica. Ho vissuto a Teheran fino all’età di 29 anni, e lì, dopo gli studi, ho anche lavorato per 8 anni come assistente di volo per la compagnia di aereo nazionale. Poi mi sono trasferita in Italia per motivi familiari e da allora, dal 2008, vivo a Milano, dove dal 2013 lavoro nell’ambito dell’informatica».

Proprio nella capitale lombarda ha fondato l’Associazione Maanà: da chi è composta e di cosa si occupa?

«Sì, sono la Presidente di Maanà, che ho fondato nell’aprile 2023 assieme ad altre attiviste e attivisti iraniani – atei, musulmani, o buddisti come me – conosciuti all’inizio del movimento “Donna Vita Libertà” a Milano. L’Associazione è nata per avere un’identità ufficiale e per poter collaborare con istituzioni, raccogliere firme, organizzare eventi e progetti per promuovere la cultura iraniana, con un forte messaggio politico: quello di “Donna Vita Libertà”».

Israele nei giorni scorsi ha nuovamente attacco l’Iran: può essere una speranza per il rovesciamento del regime iraniano o l’inizio di una guerra molto più ampia in Medio Oriente?

«Viviamo un momento molto complicato: da una parte, vi è la gioia per il possibile crollo della struttura islamica che domina in Iran. Dall’altra parte, il dolore di vedere anche civili fra le vittime dei missili israeliani, le cui operazioni, infatti, non sono del tutto “chirurgiche”…E siamo preoccupati in particolare per i nostri familiari che vivono in Iran, soprattutto a Teheran. Io – e molti di noi – abbiamo già vissuto la guerra Iran-Iraq: quando avevo da 1 anno a 9 anni, ho vissuto sotto le bombe e so cosa significa. Certo, l’obiettivo finale è di liberarci dal regime islamico ma non vogliamo la guerra». 

Il movimento in Iran contro il regime di Khamenei in che condizioni è?

«Il movimento contro il regime nacque subito, nel 1979, dopo la rivoluzione islamica, ma purtroppo la guerra contro l’Iraq ha convinto molti iraniani che innanzitutto bisognava combattere contro il comune nemico esterno. E così temo accadrà anche con l’attuale guerra contro Israele, soprattutto se ad essere uccisi dai missili israeliani saranno anche civili. In ogni caso, oggi non si può prevedere cosa accadrà».

Rayhane, immagino sia in contatto con amici, parenti in Iran. Qual è il loro parere sul regime degli ayatollah e cosa sperano dall’attuale attacco israeliano?

«Sì, sono in contatto con loro via telefono, dato che il regime ha bloccato internet. Tutti i miei amici e parenti che vivono in Iran vogliono evitare la guerra, hanno tanta paura, alcuni dormono fuori casa o al centro della propria stanza, lontani dalle finestre. Vivono nella paura, nonostante la gioia nel vedere il regime che crolla».

Come dissidenti iraniani non vi sentite dimenticati da parte dell’opinione pubblica italiana e occidentale, molto concentrata sui palestinesi?

«Mio marito – italiano – è un attivista per i diritti, fra cui quello del popolo ucraino, che io stessa sostengo nei cortei e con aiuti concreti. L’appoggio al popolo ucraino è quindi più che legittimo ma in Italia spesso si dimentica che è il regime iraniano a sostenere il regime di Putin, finanziandolo e dandogli i droni che colpiscono il territorio ucraino. Allo stesso modo condanno ciò che Netanyahu sta facendo a Gaza, per tutti i civili che sta uccidendo, ma il problema è l’esistenza di Hamas, la cui radice è legata al regime iraniano degli ayatollah. Israele non avrebbe dovuto distruggere Gaza ma lavorare per indebolire la fonte di Hamas, cioè il regime di Khamenei. Insomma, la testa di Hamas è a Teheran. 

Aiutateci – è il mio appello – a liberarci da questo regime ed effetti positivi li vedremo anche in Ucraina, a Gaza e in Israele. Hamas – come il regime degli ayatollah – non riconosce né lo Stato di Israele né l’Olocausto, mentre noi auspichiamo la soluzione “Due popoli due Stati”. Tanti italiani la pensano come me, ma tanti altri, purtroppo, no, come i cosiddetti “propal”, che mai condannano Hamas e il regime islamico iraniano».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 giugno 2025 

«Sentire il dolore dell’altro»: il card. Pizzaballa a Ferrara

6 Mar

L’intervento del Patriarca Latino di Gerusalemme nel Monastero del Corpus Domini: «a Gaza la situazione è indescrivibile e in Israele e Palestina servono nuove leadership. La Chiesa non si fa strumentalizzare da nessuno. Le mie comunità mi danno gioia» 

Un silenzio colmo di rispetto e attenzione ha dominato l’ora abbondante nella quale il card.Pierbattista Pizzaballa,Patriarca Latino di Gerusalemme, ha risposto alle domande di Cristiano Bendin (Caposervizio “Il Resto del Carlino” di Ferrara). L’occasione è stato il primo incontro dell’Ottavario di S.Caterina: la sera del 1° marzo oltre cento persone si sono ritrovate nel coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara, ospiti delle Sorelle Clarisse.

VIVERE NELLA MISERIA

Il card. Pizzaballa è punto di riferimento dei cattolici nei territori palestinesi:«circa un migliaio sono i cristiani, compresi gli ortodossi, nella striscia di Gaza, mentre alcuni abitano a Rafah», ha spiegato. La situazione a Gaza è «indescrivibile», ha aggiunto:«tutti i cristiani hanno perso la propria casa e ora la difficoltà principale è avere viveri e acqua. Come cristiani siamo fortunati perché abbiamo un pozzo, anche se scarseggia il gasolio per farlo funzionare, ma l’acqua inquinata sta iniziando a portare malattie». E non molto tempo fa «1 kg di pomodori era arrivato a costare l’equivalente di 150 euro, ora si fa fatica a trovare». E mancano medicinali. «Molte persone vivono nelle tende, ma tante altre vivono proprio per strada. E non esiste più un ordine pubblico». Questa la realtà nella Striscia di Gaza.

IL DOLORE DELL’ALTRO

Se il cristianesimo è «uno stile di vita prima che una religione», ha poi aggiunto, la fede cristiana deve «parlare alla vita, deve far comprendere come la pace non significa vittoria sull’altro, sconfiggerlo, farlo tacere o sparire», ma «inclusione dell’altro, suo coinvolgimento, sentirlo parte di sé, sentire anche il suo dolore. Come cristiani abbiamo nel cuore tanto gli israeliani quanto i palestinesi. L’altro, invece – sono ancora parole del cardinale -, qui è percepito come causa del proprio dolore:ciò rende impossibile ogni dialogo.Parlare con l’altro è interpretato come tradimento». Invece, a noi cristiani, la Croce «continua ad insegnarci che il male si vince amando gratuitamente: non è utopia, incontro persone che lo vivono». Qui, invece, «stiamo affogando nell’odio veicolato anche da un linguaggio che deumanizza l’altro».

QUALE FUTURO PER I DUE POPOLI?

Riguardo al futuro dei due popoli, in Israele – ha detto il card.Pizzaballa – «esiste una procedura democratica che porterà a nuove elezioni, mentre in Palestina non è così»: di certo, «Abu Mazen non è il futuro della Palestina, e dentro la stessa popolazione palestinese  c’è il desiderio di un forte cambiamento di leadership. L’ANP dev’essere ricostruita e di certo il Governo israeliano ha grosse responsabilità nel tenerla divisa». 

Non si può tornare alla situazione pre 7 ottobre, di questo il card.Pizzaballa ne è certo: «ciò che è accaduto non si può ripetere». 

Per quanto riguarda poi i possibili attori internazionali, gli Stati Uniti come i Paesi arabi «sicuramente avranno un ruolo importante, mentre l’Europa no. Molti palestinesi continuano a dirmi: “vogliamo ricostruire con chi si è dimostrato vicino a noi in questi tempi”. E una cosa simile la dicono anche gli israeliani».

ANTISEMITISMO, DIALOGO ED EQUIDISTANZA

Alla domanda sull’aumento dell’antisemitismo, soprattutto in Europa, il cardinale l’ha definito «una forma di deumanizzazione, un problema serio. Non tutti gli ebrei sono responsabili delle scelte di Netanyahu». Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra le confessioni cristiane, «sono ottimi, c’è più vicinanza rispetto al passato:è quindi uno stereotipo che in Terra Santa  le Chiese si facciano la guerra». E così, lo stesso dialogo interreligioso in questa zona, «deve partire dai rispettivi rappresentanti e dalla situazione concreta». Una situazione non sempre facile anche per chi, come il cardinale, si trova a svolgere un ruolo spesso di mediazione fra le parti.E non di rado viene strumentalizzato. Un recente episodio di questo tipo è stato lui stesso a raccontarlo: riguarda l’aver indossato la kefiah (simbolo del nazionalismo palestinese) in occasione della S.Messa di Natale a Betlemme lo scorso 25 dicembre: «me l’hanno fatta indossare i palestinesi per polemizzare contro la mia scelta di incontrare, il giorno precedente, il Presidente israeliano» Herzog. Un’immagine, quella di Pizzaballa con la kefiah, che a sua volta ha scatenato le critiche dell’Assemblea Rabbinica e di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei).

«La Chiesa, però, non può entrare dentro l’agone, non può sposare nessuna delle due parti: è solo sposa di Cristo. Rifiuto, quindi, letture parziali da una parte e dall’altra». Dopo gli oltre 100 morti a Gaza City nella calca durante l’assalto a camion con aiuti umanitari, di sicuro «il dialogo è venuto meno» ma, in generale – ha aggiunto -, «non credo si arriverà a uno scontro di civiltà. Le civiltà, invece, devono venir fuori in tutta la loro forza e bellezza». Sicuramente – ha proseguito -, «in Palestina c’è stato un aumento della radicalizzazione, Hamas viene vista come la miglior espressione di resistenza e del desiderio di autodeterminazione, ma ci vuole una leadership diversa in grado di neutralizzare queste derive radicali».

«LA MIA ESPERIENZA DI PASTORE»

Infine, le parole del card.Pizzaballa sul proprio servizio in Terra Santa, dove si trova da 34 anni:«nel tempo – ha spiegato – ho acquisito uno sguardo più carico di misericordia, più capace di perdono e di pazienza per gli errori degli altri, anche a causa degli errori che io stesso compio». I momenti più belli «del mio servizio sono le visite pastorali che svolgo tutti i fine settimana, a volte anche a metà settimana: è commovente vedere come la gente vive la propria fede e la vicinanza agli altri». Una nota di speranza nell’inferno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Com’è nato lo Stato di Israele (e chi davvero non vuole quello palestinese)

20 Nov

Lo storico Claudio Vercelli lo scorso 15 novembre al MEIS: un intervento lucido su temi più che mai attuali

di Andrea Musacci

Quello del 7 ottobre scorso è stato un vero e proprio «pogrom antisemita» e la strutturazione politico-statale di Israele «nasce dal 1948 mentre quella palestinese non c’è mai realmente stata, perché non c’è mai stata questa volontà».

Sono parole chiare e ben argomentate quelle scandite dallo storico Claudio Vercelli lo scorso 15 novembre al MEIS di Ferrara per il primo dei quattro incontri in programma per approfondire temi legati alla guerra in Medio Oriente:per l’occasione, Vercelli ha presentato il suo ultimo libro “Israele. Una storia in 10 quadri” (Laterza, 2022), dialogando col Direttore MEIS Amedeo Spagnoletto. 

La rassegna – realizzata in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – vedrà come prossimi appuntamenti il 29 novembre alle 18 Milena Santerini (Università Cattolica di Milano, Memoriale della Shoah di Milano) presentare il suo libro “L’antisemitismo e le sue metamorfosi. Distorsione della Shoah, odio online e complottismi” (Giuntina, 2023); il 3 dicembre alle 16 lo scrittore e già deputato Emanuele Fiano presenterà il suo “Sempre con me. Le lezioni della Shoah” (Piemme, 2023), mentre il 13 dicembre alle 18 lo storico Arturo Marzano parlerà del suo “Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente” (Viella, 2022).

FINE ‘800-INIZIO ‘900: SIONISMO EBREO E NON-NAZIONALISMO PALESTINESE

Vercelli ha iniziato la propria riflessione dal XIX secolo e dalle persecuzioni antisemite subite dagli ebrei ashkenaziti nell’est Europa. Anche da qui nasce il sionismo come «idea di emancipazione, di rigenerazione degli ebrei prendendo in mano le redini della propria esistenza». 

In particolare dal 1880 molti ebrei iniziano a emigrare dalla Russia verso l’Europa, gli Stati Uniti e la Palestina allora ottomana, cioè come intendevano già allora, «verso quella terra che ci appartiene moralmente e spiritualmente». 

Nella Palestina di fine ‘800 – ha proseguito – «non solo non esisteva uno Stato palestinese ma nemmeno un’identità palestinese».E la terra – divisa in distretti – era una provincia della Siria ottomana. 

Nel successivo mandato britannico (1922-1947), anticipato dalla Dichiarazione Balfour («His Majesty’s Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people»), la popolazione ebraica aumenterà di quasi 8 volte (da 83mila a 630mila), mentre quella araba “solo” del doppio (da 660mila a 1milione e 323mila), e gli ebrei svilupperanno anche il commercio e l’artigianato in una società come quella palestinese prevalentemente agricola e povera. 

ANNI ’30-’40:  L’ALLEANZA ARABO-NAZIONALSOCIALISTA

Negli anni ’20 del secolo scorso «inizia a svilupparsi un pensiero nazionalista arabo, ma non palestinese». L’attenzione da parte dei leader arabi della zona si rivolge al nazionalsocialismo e al fascismo, in chiave antisemita e anticolonialista, e con una fascinazione «per l’idea di totalità politica» soprattutto nazista, da applicare al mondo arabo. Secondo questa visione, «gli ebrei rappresentavano il veicolo del colonialismo occidentale in Palestina» (un pregiudizio presente ancora oggi). Basti pensare a Mohammed Amin al-Husseiniī, dal ’21 al ’37 Gran Muftì di Gerusalemme, feroce propugnatore di un regime islamico esteso dall’Egitto all’Iran.

Vercelli ha poi smentito l’idea diffusa secondo cui «la Shoah abbia avuto un peso decisivo nella nascita dello Stato di Israele»: quest’ultimo, secondo lo storico, deriverebbe appunto dall’impegno nell’elaborazione politica e ideale, e nella concretezza politico-economica dei sionisti in Palestina fin dal XIX secolo, nonché dalla fine del mandato britannico; nel 47-’48, invece, «non si aveva reale cognizione (nemmeno da parte degli ebrei in Palestina) di cosa fosse stata davvero la Shoah».

STATO PALESTINESE: CHIMERA O PRETESTO?

Dall’altra parte, in quegli anni, ha proseguito Vercelli, «il mondo arabo rifiuterà in modo netto tanto la nascita dello Stato di Israele quanto la sola idea di uno Stato palestinese: di quest’ultimo non ne coglieva né la necessità né il senso». Fin dal ’46 si avrà, inoltre, una «progressiva disgregazione delle comunità arabe in Palestina, a partire dall’abbandono di quelle terre da parte dei suoi leader». Molti arabi lasciarono le proprie terre invitati a farlo da questi stessi dirigenti. «Ci furono anche espulsioni di arabi da parte di ebrei, ma non pianificate». In generale, per Vercelli, in questi anni si registra ancora una «sostanziale acefalia nel gruppo dirigente palestinese e un nazionalismo irrisolto». Al contrario, gli ebrei «struttureranno la loro presenza, coordinando meglio tra loro le proprie comunità».

«Fino alla Guerra dei sei giorni (1967) – ha ribadito con chiarezza Vercelli -, nessun leader o soggetto nel mondo arabo pensava alla creazione di uno Stato palestinese. Solo in questi anni inizierà a nascere una sorta di leadership palestinese», con la nascita di Al-Fatah dietro la spinta dell’URSS, sempre in chiave antiamericana e antioccidentale. E naturalmente, antisionista e antisemita. Citiamo solo alcune dichiarazioni al riguardo: nel 1957, Akhmed Shukairi, ambasciatore saudita alle Nazioni Unite dichiara che «è conoscenza comune che la Palestina non è altro che la Siria del sud». Concetto ribadito da Hafez-al-Assad, ex presidente siriano, nel 1974: «la Palestina non solo è parte della nostra nazione araba ma è una parte fondamentale del sud della Siria». Nel ’77, Zahir Mushe’in, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) dirà in un’intervista al quotidiano olandese Trouw: «il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele in nome dell’unità araba. In realtà oggi non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. (…) Gli interessi nazionali arabi richiedono la messa in campo dell’esistenza di un popolo palestinese per opporci al sionismo».

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Terra d’Israele, terra nostra, stuprata da chi vuole distruggerla

10 Ott

700 morti, 2500 feriti, 150 rapiti: sono i terribili dati dell’attacco senza precedenti del fondamentalismo islamico a Israele. Lo scenario, le storie delle vittime, alcune riflessioni

di Andrea Musacci

Lo scorso 1° settembre in Israele si sono riaperte le scuole. In totale, circa 2,5 milioni gli studenti rientrati in classe. Cosa c’entra, direte voi, con quello che sta succedendo?  C’entra perché ad essere stata violentata e rapita dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica è la realtà quotidiana di uno Stato che dal 1948 cerca di vivere in pace, di progredire e di tutelare ogni libertà e diritto personale e collettivo, come avviene in qualsiasi comunità democratica e costituzionale.

E invece l’inferno si è scatenato nella terra di Davide e Salomone: le vittime dei raid di Hamas, comprese le 260 del terribile massacro del rave party israeliano (il Nova Music Festival) alla frontiera con Gaza per celebrare la festa di Sukkot, mentre scriviamo (lunedì 9) sono arrivate ad oltre 700. Dei circa 2.500 feriti, molti sono gravi. E all’appello mancano ancora in centinaia, molti dei quali rapiti (si pensa 750) e portati nel gorgo di Gaza e spartiti, come merce, tra Hamas, Jihad islamica e Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Tel Aviv e Gerusalemme appaiano città fantasma, con la popolazione barricata in casa. Sull’altro versante, quello di Gaza, i morti sotto gli attacchi necessari dell’aviazione israeliana sono arrivati ad oltre 436 tra civili e miliziani, con 2.270 feriti. Prima di qualsiasi azione di terra, l’esercito israeliano deve infatti liquidare le sacche di resistenza al confine con la Striscia, dove sono ancora in corso scontri tra miliziani di Hamas e soldati. A inizio settimana una colonna di tank israeliani è diretta verso Gaza: secondo il Washington Post gli USA si attendono un’ampia operazione via terra contro Hamas a Gaza entro questo mercoledì. E ancora sei località nel sud di Israele vicino alla frontiera sono teatro di combattimenti con i miliziani di Hamas, ha dichiarato Daniel Hagari, portavoce delle Forze di difesa israeliane, nominando le località di Beeri, Kfar Aza, Nirim e Alumim. «I miliziani – ha aggiunto – hanno varcato la linea di confine non solo la sera dell’attacco ma anche negli ultimi due giorni». 

STORIE DI VITE RAPITE

«Una voce si ode da Rama,

lamento e pianto amaro:

Rachele piange i suoi figli,

rifiuta d’essere consolata perché non sono più».

Dice il Signore:

«Trattieni la voce dal pianto,

i tuoi occhi dal versare lacrime,

perché c’è un compenso per le tue pene;

essi torneranno dal paese nemico» 

(Geremia 31, 15)

Tanti i video, le foto, i racconti di giovani, bambini, anziani, famiglie intere sterminate dalla furia islamista di tagliagole senza scrupoli, sostenuti in ogni modo (non solo economicamente) dall’Iran e dalla libanese Hezbollah, oltre che da parte dell’universo islamico a livello globale e da una fetta dell’opinione pubblica occidentale.

C’è la storia di Yoni Asher che ha denunciato l’irruzione di Hamas sabato sera mentre sua moglie, insieme alle due figlie Aviv e Raz, di 3 e 5 anni, erano in casa della suocera, nel Kibbutz Nir Oz. Grazie al servizio di geolocalizzazione del telefono della donna, Yoni è riuscito a rintracciare lo smartphone a Khan Younis, città a sud di Gaza, avendo così conferma della condizione della donna. Tra le denunce relative ai tanti rapiti dal rave sopracitato, tenutosi al Kibbutz Reim, vicino al confine con Gaza, c’è quella relativa a Noa Argamani, 25enne apparsa in un filmato in cui viene portata via su una moto dai miliziani di Hamas durante l’evento. La si vede mentre implora per la sua vita: «Non uccidermi! No, no, no», grida spaventata; a due passi il suo fidanzato tenuto stretto da due terroristi. Dalla medesima festa risulta disperso anche un cittadino britannico di 26 anni, Jake Marlowe, mentre il suo connazionale, il londinese Nathanel Young, 20 anni, è stato ucciso mentre, militare, era addetto alla sicurezza del rave. 

C’è poi una giovane israelo-tedesca, Shani Louk, la cui madre ha chiesto la liberazione in un disperato video apparso sui social. E proprio un orribile video ha fatto conoscere la sua vicenda: un gruppo di sudici criminali di Hamas tengono il suo corpo sotto le gambe nel retro di un pick up. La giovane è distesa a faccia in giù, incosciente, seminuda, le gambe orribilmente spezzate. Un uomo la tiene per i capelli, come una bestia appena cacciata, un giovane le sputa addosso. Tutti urlano “Allah Akbar”.

Poi c’è la storia di un’intera famiglia, le cui sorti sono apparse in un video condiviso dalla giornalista di Ynetnews Emily Schrader, composta da marito, moglie e due bambini che si vede seduta a terra in casa, tenuta in ostaggio dai miliziani palestinesi. La figlia più grande è stata uccisa nell’irruzione di Hamas. «Volevo che vivesse, c’è la possibilità che torni?», ha domandato il fratellino piccolo alla mamma. E c’è Yaffa Adar, 85 anni, fondatrice di un kibbutz, ribattezzata la “nonna della coperta rosa” perché in un video la vediamo così mentre palestinesi la portano via su un veicolo dopo averla rapita. Ma il suo sguardo è quello del suo popolo: fermo, fiero, dignitoso.

In un altro video, un bimbo israeliano rapito (di nemmeno 10 anni) viene messo in mezzo a tre suoi coetanei palestinesi che lo bullizzano, spingendolo, prendendolo in giro, agitandogli un bastone vicino al viso. Un bullismo infantile frutto di una cultura radicalmente antisemita: secondo un rapporto commissionato dall’Unione Europea nel 2019, i libri di testo dell’Autorità Palestinese incoraggiano la violenza contro gli israeliani, il popolo ebraico e includono messaggi antisemiti.

NAZISTI ISLAMICI, NON “VITTIME DEL SIONISMO”

«Le violenze degli islamisti si sono esercitate essenzialmente contro i civili», scrive lo storico Claudio Vercelli su http://www.mosaico-cem.it, sito della Comunità ebraica milanese. «Non i militari (…) e neanche i “sionisti” o gli “israeliani” (…), bensì contro gli “ebrei”. Nella dottrina di Hamas, e nelle liturgie di comportamento che ne derivano, sono infatti questi ultimi ad essere odiati. Pochi giri di parole, al riguardo. Israele, di per sé, è inteso solo come un recente prodotto “ebraico” e non in quanto altro», prosegue. «Pertanto, quel che conta, è estirpare la “cattiva pianta” dell’ebraismo come tale. Soprattutto da Dar-al-Islam, la terra benedetta in quanto integralmente musulmana. Poiché da tutto ciò non potrà quindi derivare altro che non sia un’armonia universale, altrimenti inquinata – ed interrotta – dalla persistente presenza dei “giudei”. In tutta sincerità, è assai difficile non pensare che una tale impostazione mentale, prima ancora che ideologica, sia molto lontana da quella terrificante esperienza che, in Europa, e non solo, abbiamo conosciuto con il nome di “nazismo” (…). Non di meno, tuttavia, non esimiamoci dal bisogno di trovare un qualche precedente. Pertanto, il terrorismo islamista, in quanto movimento anche di massa, trova parte delle sue ispirazioni nel lascito, al medesimo tempo catacombale, demoniaco nonché messianico, del nazionalsocialismo. (…) Se le premesse sono queste – sono ancora parole di Vercelli -, Hamas non esercita una “resistenza palestinese all’occupante sionista” (così come altrimenti recita ad uso e consumo del pubblico non musulmano) bensì un Jihad, apertamente dichiarato nei confronti del resto del mondo: ovvero, un atto di purificazione, non troppo diverso, nella logica degli attuali protagonisti, da quello che animava coloro che intendevano, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, mettere mano definitiva alla «soluzione della questione ebraica».

«DIFENDERE ISRAELE È DIFENDERE OGNI DEMOCRAZIA»

«Ribadiamo con forza il diritto dello Stato di Israele di difendere il proprio territorio – definito sulla base di storici accordi internazionali e di pace – e la legittimazione ad attivarsi a tutti i livelli per sradicare questa minaccia che riguarda tutta la regione mediorientale e le democrazie di tutto il mondo». Così Noemi Di Segni, presidente UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in un comunicato uscito l’8 ottobre. «I palestinesi hanno ricevuto tutta la Striscia di Gaza, così come altri territori, nella speranza che possano divenire luoghi di crescita e sviluppo per vivere a fianco al popolo di Israele ma a quanto vediamo accade esattamente il contrario: i leader palestinesi invece di coltivare frutti di pace per le future generazioni seminano odio e generano terrore con il sostegno di molti Paesi non solo arabi», prosegue Di Segni. «Questo è il risultato di chi mette fin dalla nascita un fucile in mano ai propri neonati anziché nutrirli di valori e amore per la vita propria e altrui. Di chi trasforma moschee, scuole, e aree residenziali in arsenali e centro di comando dell’odio. L’Ucei – sono ancora parole di Di Segni – chiede con forza che si sostenga il diritto di Israele ad esistere e a difendersi, arginando ogni tentativo di distorsione così tante volte subito anche nelle sedi europee e internazionali più rappresentative e dinanzi a qualsiasi foro internazionale. Non si tratta solo di un attacco terroristico, non è solo guerra sferrata contro inermi civili sotto migliaia di missili e fatti anche ostaggio, è un attacco alla civiltà».

Dalla Germania alla Francia e dagli Stati Uniti all’Italia, intanto, la polizia intensifica la protezione delle istituzioni ebraiche e israeliane. Il timore, oltre alla possibilità che il conflitto possa trasferirsi oltre i confini israeliani, è che possa scatenare una nuova ondata di antisemitismo a livello globale. Nel frattempo, gruppi filo-palestinesi negli Stati Uniti esultano e applaudono l’attacco terroristico di Hamas, pianificando manifestazioni di sostegno. In Germania, a Berlino-Neukölln, simpatizzanti di Hamas hanno distribuito baklava sulla Sonnenallee per festeggiare l’attacco a Israele. Sostegno, sui social, anche da simpatizzanti italiani.

«L’attacco contro Israele e la reazione che ne sta seguendo, con un’escalation inimmaginabile, destano dolore e grande preoccupazione. Esprimiamo vicinanza e solidarietà a tutti coloro che, ancora una volta, soffrono a causa della violenza e vivono nel terrore e nell’angoscia». Lo scrive in una nota la Presidenza della CEI, che chiede «il pronto rilascio degli ostaggi» e si appella «alla comunità internazionale perché compia ogni sforzo per placare gli animi e avviare finalmente un percorso di stabilità per l’intera regione, nel rispetto dei diritti umani fondamentali».

La Comunità Ebraica di Ferrara ha aperto il Tempio di via Mazzini la sera del 9 ottobre ai cittadini ebrei e ferraresi per pregare insieme per la pace, per la solidarietà al popolo di Israele e per la salvezza degli ostaggi.

Pubblicato sulla “Voce” del 13 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio