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“In ogni momento potevi contare su di lui”: esequie e ricordi di don De Ponti

11 Nov

I funerali del sacerdote: il 6 novembre S. Benedetto gremita per l’addio al salesiano. Tanti i ricordi

vlcsnap-2017-07-02-18h57m25s589Entrando nella chiesa di San Benedetto capiterà a molti di buttare l’occhio al secondo confessionale sul lato destro. Lì, per tanti anni, don Gianalfredo Deponti confessava chiunque lo desiderasse. Il giorno delle sue esequie è vuoto e spento, l’unico a essere acceso è quello dal lato opposto, occupato da don Giuseppe. Ma non inganni quest’immagine di assenza e di silenzio: “Donde” era, è e rimarrà sempre presente in quel luogo, col suo calore a scaldare i cuori delle tante persone che ha amato e dalle quali tanto è stato amato. Intere generazioni, nei suoi lunghi 56 anni di permanenza nella comunità ferrarese, che hanno riconosciuto in lui non solo un pezzo fondamentale della storia salesiana nella nostra città, ma soprattutto una guida, un fratello, un amico. Nonostante il giorno e l’orario lavorativi, la chiesa di San Benedetto era colma mercoledì 6 novembre per i suoi funerali: persone non solo di San Benedetto, tanti i confratelli, fra cui l’ex parroco don Luigi Spada e don Enrico Castoldi, vicario ispettoriale dei Salesiani emiliano-lombardi, le Piccole Suore degli Anziani Abbandonati del Barco e le Suore della Carità dell’Istituto San Vincenzo. Sulla bara ai piedi dell’altare, la sua stola, una sciarpa della contrada di San Benedetto e un cartello realizzato dai nipoti con una foto e una scritta, “ciao zio!”. Una cinquantina i presbiteri presenti per la celebrazione presieduta dal nostro Arcivescovo, e, in prima fila, Angelo, uno dei quattro fratelli di don Gianalfredo, che era il primo (gli altri sono Ambrogio, Virginio, Filippo, tutti scomparsi). Dodici i nipoti (di cui sette vivono a Ferrara, gli altri tra la provincia di Como e di Bergamo), e svariati i pronipoti. Uno dei nipoti ha assistito lo zio anche l’ultima notte, culmine di un anno lungo e tormentato, l’ultimo della sua esistenza terrena, costellato da tanti ricoveri in ospedale, ma anche dall’affetto dei famigliari, dei confratelli, della sua comunità. Per dare l’idea di quanto “Donde” fosse amato da tutti, segnaliamo come fossero presenti anche “Eugenio”, signore di origini africane che in molti conoscono perché staziona spesso davanti al Caffè del Corso di via Bersaglieri, angolo corso Giovecca, e persone come Roberto, che, ci spiega, da oltre trent’anni non frequenta la parrocchia, ma qui è cresciuto grazie anche a persone come “Donde”. Dopo il saluto di don Paolo Salmi (“don Gianalfredo ci stimola a fare della nostra vita un grande dono”) e quello di mons. Perego (“la sua vita ha profumato di resurrezione: questa resurrezione è il dono che oggi il Signore fa a lui”), nell’omelia lo stesso parroco ha raccontato: “quando all’una di notte di Ognissanti ti ho visto nel letto”, da poco spirato, “ho avuto un flsahback di quando aprivo la porta della tua camera dove riposavi e sbirciavo per vedere se dormivi tranquillamente. Eri stato tu stesso a dirmi: ‘ogni tanto passa a guardarmi…’: in entrambe le occasioni avevi il viso sereno. L’amore di Dio – ha proseguito – ti ha raccolto e ti depositerà nel posto che ti spetta: di questi posti, ce ne sono per ognuno di noi. Anche se fragili, infatti, Dio ci chiama. Anche tu, Donde, eri fragile, avevi i tuoi difetti, avevi un bel caratterino: non molto tempo fa ti dissi scherzando: ‘fai il furbo…ti stiamo un po’ viziando eh…’, e tu col tuo sorriso un po’ furbetto mi risposi: ‘me lo hanno già detto…’. Don Deponti – sono ancora parole di don Salmi – aveva cercato di farsi ‘tutto a tutti, per poterne salvare in qualche modo alcuni’ (1 Cor 9, 22)”. Tanti i ricordi che emergono: i suoi tanti viaggi a Lourdes – 49, per la precisione – con l’Unitalsi (presente in massa), “viaggi nei quali non smetteva di confessare nemmeno in treno”. E poi le cartoline che mandava ai parrocchiani dalla località francese, o le chiamate dalla montagna, dall’amata Frassenè, “solo per sapere come stai…”, o per gli auguri di compleanno – “se li segnava tutti”, ci ricorda Sandro, un parrocchiano. “Aveva fatto esperienza dell’amore di Dio e voleva comunicarlo a chiunque”, ha proseguito il parroco. “E ci ha insegnato anche la preghiera: aveva sempre il rosario fra le dita, legato al polso, o disperso – ma sempre ritrovato… – fra le lenzuola del suo letto. Ti dico ‘arrivederci’, ma tu ci diresti ‘ciao!’”. Nella parte conclusiva della celebrazione il parroco ha letto il messaggio fatto recapitare dal Vescovo di San Marino, il ferrarese mons. Andrea Turazzi: “carissimo don Gianalfredo, ho tanti motivi di gratitudine nei tuoi confronti. Don Deponti era salesiano al 100% e al 100% presbitero della Chiesa di Ferrara-Comacchio. Di lui mi colpì soprattutto il suo linguaggio nuovo, il suo stile. Prima di lasciare Ferrara, un giorno guardavamo insieme i ragazzi giocare nell’oratorio: ricordo che in lui non vi era mai un sospiro o una nostalgia, ma sempre la stessa passione per la gioventù”. A seguire, i saluti di tre nipoti, Chiara (“Grazie Signore per averci donato zio Donde. Ricordo la sua pazienza e la sua capacità di leggere i cuori, la sua disponibilità e la sua capacità di saper sdrammatizzare”), Giovanni e Stefano. Chiara ci ha consegnato anche questo ricordo: “ ‘Signore aiutami a essere come Tu vuoi che io sia’: quando andavo da lui mi diceva di rivolgere a Dio questa preghiera, di guardare a Lui come un padre misericordioso che mi guida e mi aiuta sempre a scegliere la via giusta. E lo zio DonDe l’aveva fatta, la volontà di Dio: come fratello, come sacerdote, come insegnante, come zio. Uno zio importante DonDe, c’è sempre qualcuno che sa chi è, che lo conosce. Una volta una persona mi chiese: ‘com’è avere uno zio sacerdote?’, io risposi: ‘normale’, ma non è vero: è speciale, è super avere uno zio come DonDe! Sapere che in ogni momento potevi contare su di lui, che sicuramente ‘non’ avrebbe pregato per te! Così diceva scherzando: ‘oggi nella messa non ho pregato per te’. E io so che anche oggi da lassù, con il suo sorriso lui continua a ‘non’ pregare per noi”. Daniela Bonfieni, amministratrice della parrocchia, ha preso a sua volta il microfono: “Ciao Donde, o monello, come ogni tanto ti definivi. Grazie di tutto per quello che hai fatto per la mia famiglia da quasi 50 anni, da quel giorno di marzo che sei entrato nella nostra vita per la perdita dei nostri papà [il padre di don Gianalfredo e quello della signora Daniela – ci spiega – sono morti lo stesso giorno del marzo 1970, ndr]. Grazie per essere stato il papà che a me e a Dario è mancato fin da piccoli e per essere stato il nonno di Sara, come ogni tanto ti chiamava. Sono certa che continuerai la tua missione da lassù, sempre discretamente vicino. Ci mancherai tanto, per le nostre chiacchierate, per le tue sgridate, per le tue telefonate…per tutto. Ciao Donde”. Anche un’altra parrocchiana, Carmela Rotola, ha scelto di rivolgere un saluto: “è stato per me e per tanti un riferimento, un ottimo consigliere”. Alla fine, un canto di gioia, suggello di questo “evento pasquale”: il canto dedicato a don Bosco “Padre, maestro ed amico”, oltre a “Gabriel’s Oboe” del maestro Morricone, seguiti da un commosso applauso. Don Deponti è stato tumulato alla Certosa, in un loculo a parte: per essere sepolto nella cappella dei salesiani dovrà attendere l’anno prossimo, quando verranno riesumate le salme di due confratelli.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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La storia di un antico volume del ‘500 ritrovato, tra Agnadello, Vienna e Ferrara

11 Nov

Nel 2008 in Austria mons. Perego trova un antico volume sulla Battaglia di Agnadello (1509): il Comune cremonese lo acquista. Verrà poi tradotto in italiano ed edito. Furono 18mila i morti in quella battaglia, “grazie” alle micidiali bombarde vendute ai francesi dal Ducato di Ferrara

libro-proloco-800x370Potrebbe essere l’inizio di un giallo storico, ambientato tra la penombra di una biblioteca antiquaria di Vienna e la nebbia della pianura cremonese, con protagonista un prelato italiano e un antico testo del XVI secolo. A differenza di un thriller, però, non vi sono stati trafugamenti o vendite clandestine. E’ la storia del diario franco, o incunabolo (un volume stampato con caratteri mobili) sulla Battaglia di Agnadello, tra gli eserciti francese e veneziano, del 14 maggio 1509, ritrovato nel 2008 dal nostro Arcivescovo mons. Perego in una biblioteca di Vienna. Si tratta di un testo originale scritto in tedesco antico – e in caratteri gotici – stampato a Norimberga e probabilmente tradotto da un testo francese smarrito. Volume che dieci anni fa è diventato parte del patrimonio del piccolo comune, dove mons. Perego è cresciuto prima di entrare nel Seminario di Cremona. Nel suo breve testo introduttivo, il nostro Arcivescovo spiega: “segnalai il ritrovamento al presidente della Cassa Rurale dott. Giorgio Merigo, invitando a considerare con il Consiglio la possibilità di acquistare e donare il prezioso documento al Comune di Agnadello, in occasione dell’approssimarsi del 500° anniversario della Battaglia (2009)”. Così è avvenuto, e il testo è stato successivamente anche tradotto in italiano: “Agnadello e la sua battaglia. Il diario franco-tedesco”, si intitola il volume a cura di Pierina Bolzoni, edito grazie a Pro Loco Agnadello, Comune di Agnadello e BCC Caravaggio Adda e Cremasco, e presentato lo scorso 5 novembre alla presenza dello stesso Arcivescovo ad Agnadello, presso la sala Don Tabaglio della banca BCC. Come ci spiega lo stesso mons. Perego, nel quinto anno delle scuole superiori vinse un concorso nazionale con una ricerca storica dedicata proprio alla Battaglia del 1509. Ma in questa vicenda, la nostra città è legata anche per un altro aspetto, meno nobile: nell’incunabolo, il cronista parla di 17-18mila morti, un numero altissimo per l’epoca (anche maggiore rispetto a quello indicato da altri cronisti): il motivo risiede nell’utilizzo di nuove micidiali armi da fuoco, le bombarde, vendute ai francesi dal Ducato di Ferrara guidato da Alfonso I d’Este.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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Responsabilità e volto dell’altro: il pensiero di Emmanuel Levinas

11 Nov

L’8 novembre l’intervento di Giuliano Sansonetti dedicato al filosofo lituano-francese, a cavallo fra profezia ebraica e filosofia greca, fra infinito e totalità

levinasTotalità o infinito? Uno spazio chiuso, (pre) definito dell’essere o un’apertura sempre possibile tra volti, nella loro irriducibile differenza? L’ambivalenza su cui da sempre si fonda il pensiero occidentale è stata centrale nella ricerca di Emmanuel Levinas (Kaunas, Lituania 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) (foto al centro), filosofo ebreo su cui l’8 novembre ha relazionato Giuliano Sansonetti. L’occasione era, nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri dedicato ai “Maestri”, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO). Sansonetti ha dedicato la prima parte del proprio intervento a Remo Bodei, scomparso il giorno prima, che a Ferrara era intervenuto nel gennaio 2016 invitato proprio dal Gramsci e dall’ISCO, nello stesso luogo, sul tema della democrazia, introdotto, come in questo caso, da Piero Stefani. Tornando a Levinas, Sansonetti ha spiegato come egli ritenesse fondamentale “trovare un punto di incontro tra l’eredità ebraica e il pensiero greco, le due tradizioni fondamentali dell’Occidente, quindi in un certo senso tra profezia e filosofia”. A tal proposito, riferendosi a Monsieur Chouchani (foto in alto a dx), ricordò come egli rese impossibile, per sempre, “un approccio dogmatico e fideistico al Talmud”, convincendosi dunque che “non esisteva uno spartiacque tra pensiero teologico e filosofico”. Ma le basi – o parte di esse – del pensiero occidentale, sono, per Levinas, la causa profonda di una concezione filosofica, quindi anche politica, dogmatica e illiberale: “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” è il titolo di un suo saggio uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit”, edito e tradotto in Italia grazie a Giorgio Agamben. Qui Levinas analizza il pensiero filosofico classico occidentale: il nazismo, secondo il filosofo, “non è qualcosa di accidentale nella storia e nella cultura tedesca, ma le sue radici sono interne alla storia dell’Occidente”. Sua caratteristica precipua è “l’incatenamento dello spirito al corpo”, all’elemento meramente biologico, un “risveglio di sentimenti elementari”, viscerali, violenti. La causa profonda di ciò, ha proseguito Sansonetti, risiede nel fatto che per Levinas “la filosofia occidentale sia una filosofia del neutro, dell’essere, quindi di una dimensione spersonalizzante, in cui ciò che ha valore è appunto l’essere indistinto e non l’ente”, il singolo, la persona con la sua individualità. Secondo Levinas questo porta a una deresponsabilizzazione del soggetto, mentre “ognuno di noi può essere responsabile solo nei confronti dell’altro”, rappresentato simbolicamente dal “volto”. “L’etica, quindi, e non la metafisica, dev’essere considerata la filosofia prima”: la seconda, infatti, nella tradizione greca, è intesa come “pensiero della totalità, del perfettamente definibile”, a cui Levinas contrappone “l’infinito, dato appunto dal volto, concetto assente nel pensiero greco” (“Totalità e infinito” è il titolo della sua opera più celebre, edita nel 1961). “Dal concetto di totalità – sono ancora parole di Sansonetti -, nascono quindi i totalitarismi, vale a dire società organiche dove tutto è definibile, ordinabile e controllabile, società chiuse”. Il rapporto etico autentico, al contrario, in Levinas, “è il rapporto faccia a faccia”, un rapporto tra volti: “prima ancora della conoscenza dell’altro, è necessario un rapporto con lo stesso, col suo volto, per evitare che l’altro diventi una proiezione di noi stessi”, e non, come invece è, una diversità irriducibile, verso la quale è necessario innanzitutto e soprattutto “l’ascolto (l’ebraismo, non a caso, si fonda sull’ascolto della Parola di Dio), e quindi il rispondere”. Infine, il volto, per Levinas, è nella sua essenza, “sguardo”: solo dallo sguardo, che identifica ogni volto, ogni persona, “può nascere il linguaggio, quindi il discorso e la responsabilità”, che, appunto, è sempre nei confronti di un altro.

Il Rav Chouchani: chi era costui?

Nell’incontro dell’8 novembre in Biblioteca Ariostea, Piero Stefani ha brevemente relazionato su uno dei maestri di Levinas, il rabbino e filosofo Monsieur Chouchani, o Shushani (9 gennaio 1895 – Montevideo, 26 gennaio 1968), personaggio la cui vita è in buona parte avvolta in aura di leggenda, a partire dal nome, forse di fantasia. Non avendo nemmeno mai pubblicato, le scarse notizie su di lui si hanno grazie ai suoi allievi, i più importanti dei quali sono lo stesso Levinas ed Elie Wiesel: fatto, questo, che nella storia ha dei precedenti alquanto celebri – Gesù di Nazareth e Socrate su tutti -, ma che è alquanto inusuale nell’Occidente del Novecento. Una leggenda, la sua, probabilmente mischiata a elementi di realtà, e nella quale rientra anche il fatto che avesse una memoria assolutamente straordinaria, tanto da permettergli di imparare l’intero Talmud. “La possibilità di conservare e tramandare la tradizione ebraica dopo la Shoah – secondo Stefani -, il riuscire a far parlare questo patrimonio antico nella modernità, ha sicuramente aiutato il nascere della leggenda” intorno alla sua persona.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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Il web può assicurarci “l’eternità”?

11 Nov

“La morte si fa social” è il titolo del libro di Davide Sisto presentato alla libreria Ibs+Libraccio di Ferrara lo scorso 6 novembre: l’importanza di non impedire l’elaborazione del lutto tramite un’illusoria continuità temporale sulla Rete. La proposta di un “testamento digitale”

sistoQuante tracce di noi lasciamo ogni giorno su Internet? Partendo da questo interrogativo, che forse non si pongono ancora in molti, ha iniziato a riflettere Davide Sisto (foto), filosofo, docente e saggista torinese, intervenuto il 6 novembre scorso all’Ibs+Libraccio di Ferrara per presentare il suo ultimo libro, “La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale” (Bollati Boringhieri, 2018). L’incontro è il terzo dei cinque del ciclo intitolato “Uno sguardo al cielo. Percorsi di avvicinamento all’elaborazione del lutto”, organizzato da Università degli Studi di Ferrara, Comune di Ferrara, Onoranze funebri AMSEF e Pazzi. Dopo la presentazione dell’ideatrice Paola Bastianoni, docente di UniFe e il saluto di Michela Pazzi, Stefano Ravaioli ha dialogato con l’autore, il quale ha spiegato: “il problema riguarda principalmente il fatto che sui social e in generale nel mondo della Rete lasciamo molte tracce di noi – audio, video, scritti, fotografie ecc. -, una sorta di ’eredità digitale’ importante, e che sarà sempre più rilevante da gestire”. Tant’è che negli Stati Uniti esiste già la figura del “Digital Death Manager”. Ogni persona, dopo la propria dipartita terrena, nel web diventerà uno “spettro digitale”: la nostra vita “digitale”, infatti, proseguirà dopo quella biologica. Purtroppo, ha proseguito Sisto, “il diritto all’oblio, nonostante si possa fare di più, è impossibile da raggiungere totalmente. Così, chi rimane in vita deve fare sempre più i conti col fatto che l’assenza della persona deceduta è sostituita da tutta questa mole di tracce digitali, che da una parte assomigliano – negativamente – a simulacri, dall’altra possiedono una propria identità specifica, sembrando vive, reali, dando una sorta di illusione che la persona in questione sia ancora viva”. Questo ha un risvolto particolarmente negativo: “impedisce o limita fortemente la necessaria elaborazione del lutto, incentivando il sentimento della rimozione della morte e della non accettazione della stessa. La mancata elaborazione del lutto rende anche in un certo senso “inutile” lo stesso rito funebre “nel suo senso di momento di passaggio, di rottura, di accettazione dell’assenza, di spartiacque tra un prima e un poi”, creando una sorta di “continuità temporale in cui passato, presente e futuro sembrano annullarsi”. Un’altra problematica particolarmente seria, anche dal punto di vista legale, riguarda chi potrà avere diritto all’“eredità digitale” della persona scomparsa (i famigliari? Lo stesso social network? ecc.), “con anche il rischio molto concreto di sciaccallaggio e di furti di dati e di immagini”, come nel caso di “Cambridge Analytica”. Secondo Sisto, sarebbe dunque più che mai necessario poter redigere una sorta di “testamento digitale”. Tanti gli esempi portati dall’autore sul legame tra “mondo dei morti” e “mondo della Rete”: sul social Facebook, ad esempio, si stima che su un totale di circa 2 miliardi di utenti, 50 milioni siano persone decedute. Oppure, è interessante e particolarmente inquietante il fatto che esista un social, “Eter9”, nato in Portogallo, nel quale, una volta iscritti, si possono lasciare informazioni e abitudini personali di ogni tipo: in questo modo, rielaborando in maniera molto complessa tutti questi dati, “Eter9” “continuerà” l’esistenza dell’utente una volta deceduto. Infine, il fatto che molte persone scelgano di assistere a concerti dal vivo nei quali, al posto di cantanti più o meno recentemente deceduti, vi siano ologrammi. La domanda quindi è: qual è il confine tra, da una parte, una giusta, compassionevole e anche necessaria consolazione nei confronti della morte di una persona cara, e, dall’altra, un’illusione che, a lungo termine, può nuocere chi vive il lutto, non elaborandolo adeguatamente?

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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