Archivio | 15:51

«Vogliamo vivere da donne libere»: storie di iraniane contro il regime

3 Ott
Kimia Ghorbani

Kimia Ghorbani, giornalista, cantante e musicista, racconta a “La Voce” la sua storia di oppositrice della Repubblica Islamica: «mi hanno arrestato quattro volte e frustrato perché suonavo per strada. Ma andiamo avanti senza paura»

di Andrea Musacci

Durante il sit-in a sostegno delle donne iraniane svoltosi lo scorso 28 settembre sul Listone a Ferrara, ho avuto modo di conoscere Kimia Ghorbani, giornalista, musicista e cantante 38enne originaria di Teheran. Kimia collabora con “Farda English – Radio Free Europe / Radio Liberty” e “Iran International tv”, tv indipendente con sede a Londra con cui si è collegata in diretta durante il sit-in in piazza Trento e Trieste, prima di cantare in persiano una versione di “Bella ciao” che parla del diritto di tutti a “pane, lavoro e libertà”.

Musiche proibite

Arrivata in Italia nel 2013, Kimia, dopo un periodo a Bologna, da 4 anni vive a Ferrara col marito Samuele e le loro due figlie, di 4 e 6 anni. Dall’Iran è uscita con un visto per motivi di studio, dopo aver frequentato la scuola di italiano a Teheran. «Amo l’Italia da quand’ero bambina, da quando in tv guardavo il cartone animato “Libro del cuore”. E poi mi sono innamorata della musica di Ennio Morricone». Proprio la musica è la ragione della sua vita: «a Teheran ho fatto il Conservatorio, e dal 2009 al 2013 sono stata musicista di strada, suonavo la melodica e il daf (un tipo di tamburo, ndr). Penso di essere stata la prima donna musicista di strada nel mio Paese. Per questo, alcuni uomini musulmani mi disturbavano, mi urlavano dietro, a volte mi sputavano addosso. Per loro, vedere una donna cantare e suonare per strada era come vedere una prostituta. Altre persone, invece, ci ascoltavano e ballavano». Kimia è stata arrestata e trattenuta alcuni giorni in prigione per ben tre volte, dove è stata anche frustrata: 70-80 frustrate, «la maggior parte, perlomeno – mi dice – controllate. Per non infierire, facevano mettere un libro sotto l’ascella di chi colpiva, in modo che non gli venisse la tentazione di dare forza…».

Ma la prima volta che Kimia è stata arrestata aveva 16 anni: «scrissi un articolo in difesa degli scrittori uccisi dal regime quell’anno, ne stampai alcune copie e lo distribuii ai miei compagni a scuola. Un insegnante chiamò la polizia, che mi arrestò appena tornata a casa: mi bendarono e portarono via, nell’indifferenza dei vicini. In macchina i poliziotti mi minacciarono: “ti stupriamo e poi ti ammazziamo”, mi dissero. Ebbi molta paura. Dopo questo arresto, mi hanno impedito di concludere gli studi. Mi sono dovuta diplomare alle scuole serali». Successivamente ha lavorato in una libreria della capitale.

La questione del velo

Mentre suonava per strada, Kimia indossava sempre il velo, anche se non le piaceva. «Ora, col senno di poi, dico che è stato un errore indossarlo. Dicevamo: “è un aspetto secondario, l’importante è lottare per la democrazia, per la difesa delle scrittrici arrestate…”. I giovani di oggi, invece, sono diversi, anche più coraggiosi di noi». A scuola le bambine sono obbligate a portare il velo nero fin dall’età di 7 anni, in modo che lasci scoperto solo l’ovale del viso. Per strada, invece, almeno la scelta del colore del velo è libera. 

 «Chiedevo ad altre donne di unirsi a noi musicisti, ma avevano paura. Ho sofferto tanto di depressione, mi sentivo soffocare, non mi sentivo libera: per questo ho deciso di lasciare il Paese. Negli ultimi anni, invece, è più facile vedere donne suonare per strada». Kimia ha trovato un riscatto in Italia anche esibendosi nel 2016 nel noto talent RAI “The Voice of Italy”.

La prigionia del padre

«Mia madre era un insegnante, mio padre operaio, entrambi iscritti al partito comunista, sempre stato partito clandestino (il partito del Tudeh, ndr)». Kimia aveva 4 anni quando arrestarono suo padre. Era il 1988, anno in cui il regime guidato dall’ayatollah Khomeini, imprigionò oltre 5mila iscritti a quel partito. «Quel giorno tornata a casa vidi mio padre già bendato per essere portato via. Aveva la maglietta sporca di sangue. In casa avevano messo tutto sottosopra, strappato anche i cuscini per trovare volantini o libri proibiti. A me e a mia sorella, nostro padre disse: “sono miei amici, è solo un gioco, non preoccupatevi. Poi andremo in montagna”». Lo tennero in carcere per 1 anno: «per tutto il tempo non sapemmo niente di lui, non potevamo vederlo. Eravamo sicure l’avessero impiccato come han fatto con tanti altri oppositori. Dopo 1 anno ci hanno permesso di portargli i vestiti e l’hanno fatto uscire. Ma i suoi amici, per paura, smisero di rivolgergli la parola». 

Uno Stato terrorista

Kimia riesce a rimanere ancora in contatto con alcuni suoi familiari in Iran, facendo molta attenzione a ciò che dice. Per comunicare con loro usa la VPN (Virtual Private Network), un sistema difficilmente rintracciabile. Le chiedo, quindi, di spiegarmi meglio qual è la situazione nel suo Paese: «la grave crisi economica in Iran è perlopiù colpa del regime, e poi, in minima parte, delle sanzioni americane. In ogni caso, il regime islamico invece di aiutare la popolazione finanzia gruppi terroristici in Medio Oriente, come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, coi soldi che perlopiù ricava dalla vendita di gas e petrolio». Lo scorso 20 settembre – se n’è parlato poco sui media – l’Ucraina ha tagliato i rapporti diplomatici con l’Iran perché fornisce droni anche al regime di Putin. 

«Voglio che sia chiaro – conclude Kimia – che noi iraniani non stiamo lottando solo per la nostra libertà, ma per libertà del mondo intero. Il regime iraniano è un pericolo per tutti, un tumore: per lo sviluppo del nucleare, per il finanziamento di gruppi terroristici anche in Europa e altre parti del mondo, per il caos che provoca in Medio Oriente».

Iran, Afghanistan e Ferrara

Proprio nei giorni in cui redigo questo servizio dedicato al movimento di protesta in Iran, due notizie giungono dall’Afghanistan, a rafforzare l’importanza di ciò che avviene nel Paese da oltre 40 anni soggiogato dal regime islamico.

Sit-in di solidarietà alle donne iraniane (Ferrara – foto Francesca Brancaleoni)

A Kabul il 29 settembre un gruppo di coraggiose donne afghane ha manifestato con slogan e cartelli  davanti all’ambasciata iraniana a sostegno delle proteste in Iran. Le forze talebane sono intervenute duramente, sparando mitragliate in aria, spingendo e minacciando percosse per disperdere la manifestazione. L’altra notizia riguarda l’ennesimo terribile attentato nella capitale afghana: lo scorso 30 settembre all’interno del Centro formativo Kaaj, nel distretto di Dasht-e-Barchi, a Kabul ovest, un attentatore, munito di cintura esplosiva è entrato nell’istituto uccidendo la guardia all’entrata e dirigendosi in una classe dove avrebbe fatto detonare l’ordigno. 30 i morti e più di 40 feriti, tutti tra i 18 e i 25 anni. Ben 18 ragazze sono decedute.

Due episodi drammatici che raccontano del desiderio di libertà e autonomia di tante donne in Afghanistan e in tutti quei paesi dove regimi islamici, o comunque dittatoriali, fondano parte del loro potere oppressivo sul controllo dei corpi e delle menti delle donne.

Donne – perlopiù giovani – che da settimane scendono in piazza a Teheran e in tante altre città iraniane per manifestare contro l’obbligo dello hijab, in particolare dopo l’omicidio da parte della polizia della giovane curdo-iraniana Mahsa Amini. Secondo la ong Iran Human Rights almeno 92 persone sono state uccise durante la repressione delle proteste. Ma sempre più forte è il sostegno in molti altri Paesi, con manifestazioni in varie capitali europee, e in Italia in tante città.

Come detto, anche a Ferrara lo scorso 28 settembre si è svolto un sit-in di protesta e solidarietà che ha visto la partecipazione di oltre 100 persone, di cui una buona parte iraniane (quasi tutte giovani) e molti italiani.

Durante il sit-in i presenti hanno intonato un canto di protesta, “Yare dabestanie man” di Fereydoon Foroughi, un invito a scendere in piazza e a lottare insieme. Una donna, Leily, ha raccontato: «ho lasciato l’Iran perché non volevo che mia figlia crescesse senza libertà». Ora lei, il marito Amir e la  figlia vivono a Ferrara.

A margine della manifestazione, ho chiesto ad alcune iraniane di raccontarci la loro storia. Una di queste, N. M. – ci chiede di scrivere solo le iniziali del suo nome – vive a Ferrara da 5 anni dov’è iscritta al corso di Lingue e letterature moderne dell’Università. «Quand’ero bambina sono scappata dall’Iran e ho vissuto nel Tagikistan. Fino a quando avevo 15 anni tornavo ogni tanto in Iran, e lì mi mettevo lo hijab, perché avevo paura. In Italia ho imparato di quanto è bello essere liberi, ma ora dai miei coetanei in Iran sto imparando che lì è ancora più bello lottare per la libertà. Vogliamo rovesciare il regime. Se anche stavolta non ci riusciremo, dovremmo mettere in eterno hashtag sui social per i tanti giovani che verranno ancora imprigionati e uccisi. Non lo vogliamo».

Arezoo Tahmoaresi, invece, ha 28 anni, è originaria di Karaj, e vive a Ferrara, dove attualmente lavora al McDonald di piazza Trento e Trieste. È arrivata in Italia con la madre e le due sorelle, e da un anno è sposata, ma suo marito vive a Vienna. «Da dieci giorni – prosegue – non sento mio padre, nessuno in Iran, perché hanno bloccato l’accesso a internet».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 ottobre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Solo la Chiesa salva dai mali moderni: i taccuini di Bruno Paparella

3 Ott

Il libro sul dirigente di Azione Cattolica: incontro l’8 ottobre a Casa Cini

di Andrea Musacci

La lucidità di un uomo capace di cogliere anche l’essenza negativa della modernità ma senza tentazioni di fuga per rifugiarsi in facili spiritualismi.

Leggendo gli appunti dai taccuini di Bruno Paparella emerge, tra l’altro, questo aspetto di un intellettuale cattolico coraggioso nel dire, e cercare sempre, la verità. Appunti che sono contenuti nel libro “Un cristiano senza aggettivi. Bruno Paparella, testimonianze di amici” appena edito dalla nostra Arcidiocesi (Ufficio Comunicazioni sociali) nella collana “Con occhi nuovi – Profili”.

Tanto abbiamo scritto sulla “Voce” a proposito dell’intensa e appassionata vita di Paparella, classe 1922, giovane educatore dell’Azione Cattolica nella parrocchia ferrarese di San Paolo, poi antifascista e partigiano, quindi dirigente dell’Azione Cattolica, prima diocesana poi nazionale, fino alla morte che lo ha colto nel ’77.

Sulla modernità

Una personalità la cui unicità emerge in maniera ancora più dirompente proprio nei suoi scritti più privati, nei quali  è chiaro lo sguardo di un uomo che ha attraversato il cuore – turbolento e affascinante – del Novecento. Dell’Occidente che si avvia verso il benessere economico, Paparella è capace di cogliere sottotraccia gli aspetti più degradanti. «Le civiltà degne di questo nome – scriveva il 6 novembre 1963 -, assecondando la natura, avevano (…) reso pregevole e gradita anche la vecchiaia dell’uomo che l’inciviltà moderna – tesa solo alla giovinezza ed al successo – considera il male peggiore». Quel mito della giovinezza è l’illusione di una visione del reale ristretta, schiacciata sul presente, senza ampiezza né profondità. «Per raggelare di colpo l’entusiasmo della gente per un’idea, una moda od una qualsiasi opera od attività, basta dire: “È superata!” (…)», scrive nel dicembre ’76. «Il modo di ragionare contemporaneo ha, infatti, sostituito le categorie “bene o male”, “giusto o ingiusto” ecc., con “nuovo o vecchio”, “moderno o antico”, ecc.». Il nuovismo, dunque, regna. Il passato va abolito, anche quello recente perde subito di senso spazzato via dal continuo bisogno di stimoli sempre differenti. 

Paparella temeva che questo spezzarsi del legame con le proprie radici potesse avvenire anche per l’AC e la Chiesa. «La separazione (di un popolo, di un’associazione) dalla propria storia, con la recisione di quel legame vivente con l’opera di ieri che sola può dar senso all’opera di oggi e indirizzare un avvenire che abbia significato, porta a conseguenze gravissime», scrive nell’agosto ‘74. «Un paese idealmente separato dal proprio passato, è infatti, un paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori».

È un Paese che subisce quel processo che non va «verso la pienezza, ma verso il nichilismo», come scriveva Augusto Del Noce (L’idea di modernità, 1982). Nichilismo logica conseguenza di quel razionalismo assoluto che nega la possibilità del soprannaturale e quindi di verità sovrastoriche. 

«Quanto “terrenismo” – scrive nel febbraio ’65 Paparella – c’è anche oggi negli ideali messianici di tanti “innovatori” del mondo». E riferito all’ACI, dieci anni dopo rifletterà: da un apostolato universale «che aveva come radici e fine il piano di Dio per la salvezza di tutti gli uomini, si è via via passati a problemi sempre più interni, prima della Chiesa ed infine, quasi esclusivamente della stessa associazione». Una regressione dalla quale metterà in guardia fino all’ultimo, come anche ammonirà riguardo al rischio di riduzionismo sociologico ed economicistico della fede cristiana (si pensi a ciò che oggi Papa Francesco dice sul rischio che la Chiesa si trasformi in una ong).

Tutto ciò ha ricadute gravi sullo sguardo della Chiesa sulle persone: ciò che l’ateismo spaccia per libertà e per umanesimo, in realtà è una mortificazione dell’uomo. «L’uomo non vive di solo pane – scrive nel febbraio ’65 – e (…) dando oggi ai poveri la loro bistecca, ma non curandoci dei loro godimenti spirituali ed intellettuali, noi li consideriamo “bestie” oggi, o siamo diventati noi stessi più “bestie” di ieri». 

Spesso ricorre anche l’associazione tra relativismo e solitudine. Siamo nel ’69, la tensione tra comunità e individuo si fa sempre più forte. Paparella scrive: «Fin tanto che c’è una Chiesa, od un partito, o una nazione, che dicono che questo è bene e questo è male, che dicono che il male va combattuto (…), l’uomo comune si sente confortato – unito ad una comunità che soffre con lui e che resiste con lui (…). In questa nostra Italia e persino nella nostra Chiesa (…) – scrive sempre nel ’69 – male e bene, giusto e ingiusto, vero e falso sono la stessa cosa. E l’uomo comune rimane veramente solo (…), senza nessuno che gli dia più speranza». Parole dure, certo, ma di un figlio della Chiesa che la ama e che non dimenticherà mai la sua missione di salvezza per ogni donna e ogni uomo.

«Le sole parole che ci possono salvare»

Nell’ottobre del ’65 scrive: «Pare impossibile (…) che nel nostro mondo (e nella nostra vita quotidiana) ci sia d’ora in poi – e per sempre in questa vita – un’assenza, un buco vuoto che nessuno al mondo può più riempire. Lo “spirito” di una persona è veramente qualcosa di unico e di insostituibile e non si può – in questi casi – non pensare ad un altro mondo, dove tutte queste lacune drammatiche possano colmarsi e ci si possa sentire nuovamente “completi” (Ecco, ora ci siamo tutti, ora possiamo davvero cominciare a giocare, spensieratamente)». Dolci parole di fede che seguono, sempre, a parole di denuncia. «È strano come questa nostra civiltà impazzita ci spinga ogni giorno – dicendo di voler farci più felici – verso l’infelicità», scrive nell’aprile ‘66. «La Rivelazione dicendoci di amare gli altri, di dimenticare noi stessi (…) ci dà la ricetta della nostra felicità (…). E lo strano è che nessuno sembra accorgersene, nessuno pensa a dirlo, e quelli stessi che dovrebbero dirlo per “missione”, temono di apparire ridicoli o superati se annunciano le sole parole che ci possono salvare».

Commovente è la visione che scrive il 3 ottobre ’64, per dare l’immagine di ciò che, anche nella società moderna, possa e debba rappresentare la Chiesa: «Questa sera, a Ferrara, nel buio umido delle strade che la circondano, la chiesa di S. Girolamo sembrava un porto caldo di luce e consolazione, illuminata ed addobbata per la festa di S. Teresa del Bambino Gesù (…). E pensavo che una Chiesa così bella, calda, consolatrice, unico punto di riferimento e di appoggio nel buio nel mondo, bisognava pur guardarla».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 ottobre 2022