Archivio | marzo, 2024

Ucraini di Ferrara, Pasqua fra tradizione e speranza

29 Mar

La guida degli ucraini cattolici in Diocesi, don Verbitskyy, ci racconta le iniziative per la Pasqua, la raccolta dei farmaci per il Paese in guerra e la prossima accoglienza di 18 bambini ucraini

di Andrea Musacci

Davanti alla nuova iconostasi, che divide il presbiterio dalle navate, sono stati posati alcuni dolci e della cioccolata. Un’offerta che regalerà un sorriso a diversi bambini ucraini, sia in Ucraina sia a Ferrara. Siamo nella chiesa di Santa Maria dei Servi in via Cosmé Tura, a due passi dal Castello. Qui incontriamo la guida dei fedeli cattolici ucraini di rito bizantino, don Vasyl Verbitskyy, per fare il punto sulla sua comunità in vista della Pasqua.

LA GIOIA DELLA PASQUA

Partiamo da come vivranno quest’ultima: la Domenica delle Palme, il Sabato Santo e il giorno di Pasqua «faremo il nostro mercatino pasquale qui sul sagrato della chiesa, con oggetti decorativi fatti a mano dal nostro circolo “Luce da luce”», ci spiega don Vasyl. Il programma della Settimana Santa, invece, prevede lunedì 25 la S. Messa per la Festa dell’Annunciazione del Signore. Dopo la liturgia del Giovedì Santo, il Venerdì Santo vedrà alle ore 14 i Vespri e l’esposizione della Sindone. Per l’occasione, la chiesa sarà aperta giorno e notte fino a sabato sera, quando alle 21.30 inizierà la Veglia di Pasqua, a cui seguirà la Messa e la benedizione dei cestini pasquali. «Questi cestini tradizionali – ci spiega don Vasyl – contengono un pane dolce» (rotondo, simile al nostro panettone), «uova naturali, burro, formaggio, carne, salumi»: vale a dire, tutto ciò che, preparato dalle famiglie, verrà da loro consumato per la colazione del giorno di Pasqua, «perché la notizia della Resurrezione è arrivata la mattina presto». L’agnello, invece, non fa parte della tradizione pasquale ucraina. Il giorno di Pasqua, poi, vi sarà la Messa mattutina alle ore 10 e quella pomeridiana alle ore 14.30 con la benedizione dei cestini.

Sul pane dolce prima citato: si chiama artos, dal greco, ed è un pane santo, benedetto, che viene avvolto in un’icona circolare con l’immagine del Cristo Risorto, come detto nel Vangelo: «Io sono il pane vivo» (Gv 6, 51), «il pane nuovo che ci invita a fare la comunione e che – prosegue don Vasyl – poi viene lasciato esposto in chiesa per una settimana, fino alla prima domenica di Pasqua, quando verrà diviso e dopo la Messa distribuito tra i fedeli presenti come simbolo della Resurrezione del Cristo». Sull’icona che lo avvolge è scritto: «Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita», come recita un canto del rito bizantino.

DOLORE E CARITÀ PER L’UCRAINA

Dal 6 al 12 febbraio scorsi, si è svolta anche a Ferrara e provincia la Giornata di Raccolta del Farmaco a cura del Banco Farmaceutico. Per l’occasione, alla comunità cattolica ucraina ferrarese sono stati donati 293 farmaci per un valore economico di 2.439,85 euro, parte dell’importante donazione di farmaci da parte del Banco Farmaceutico dal febbraio 2022 per i profughi ucraini in Italia. «I farmaci donatici – ci spiega don Vasyl – li abbiamo inviati in un ospedale di Lyman nel Donbass e in parte donati alle cinque mamme ucraine residenti nel Ferrarese che hanno figli al fronte: queste, li han fatti a loro volta recapitare ai loro ragazzi che combattono per difendere la nostra patria». Si tratta di antidolorifici, bende e garze. «Solo Cristo può aiutarci a sopportare questa guerra», ci dice don Vasyl. «Dobbiamo continuare a pregare per la giusta pace». Intanto, i furgoncini da Ferrara continuano a portare regolarmente in Ucraina anche farmaci specifici richiesti, vestiti, prodotti per l’igiene personale e alimentari «a familiari di nostri parrocchiani, persone che vivono in Ucraina e si trovano in difficoltà economica».

PREGHIERA, FUTURO E SPERANZA

Oltre alla carità, al centro della comunità cattolica ucraina vi è la preghiera. Nella Veglia serale dell’Annunciazione del Signore – prosegue don Vasyl – «le “Madri in preghiera” pregheranno per i loro figli in Ucraina. Ringraziamo Dio perché quest’anno festeggiamo i 15 anni del gruppo a Ferrara», gruppo di cui don Vasyl dallo scorso ottobre è coordinatore e guida spirituale a livello nazionale. Inoltre, «la Veglia dell’Annunciazione è una liturgia per noi particolarmente importante perché è stata la prima Messa della comunità cattolica ucraina qui a Ferrara, nel 2001». Dal ricordo all’avvenire, che non può non essere intessuto di speranza e vive anche nella carne dei più giovani: per questo, a fine maggio, per una settimana, «ospiteremo nella nostra comunità 18 bambini ucraini provenienti dall’Oratorio “Gloria” di Drohobych», nell’oblast’ di Leopoli. Il gruppo teatrale di quest’oratorio farà uno spettacolo nella nostra città il prossimo 31 maggio o 1° giugno (mentre il 30 maggio lo spettacolo si terrà nella Diocesi di Adria-Rovigo, la cui comunità cattolica ucraina di rito bizantino è diretta dallo stesso don Vasyl). Questa settimana di ospitalità riguarda bambini orfani o i cui genitori sono al fronte ed è resa possibile grazie al nostro Arcivescovo e alla Fondazione Migrantes, con l’aiuto anche della vicina parrocchia di San Benedetto. 

Proseguendo, domenica 2 giugno, continua don Vasyl, «festeggeremo i primi 5 anni del nostro circolo ricreativo “Luce da luce”». Inoltre, il prossimo 12 maggio, Festa della mamma, «il coro della nostra comunità ferrarese canterà nella Basilica di Santa Sofia a Roma per il raduno degli ucraini cattolici che vivono in Italia». Nel nostro Paese, l’Esarcato Apostolico per i fedeli cattolici ucraini di rito bizantino comprende 150 comunità, fra cui la nostra di Ferrara. Una grande famiglia unita nel Cristo Risorto, sofferente per la guerra nel proprio Paese ma salda nella fede e nella speranza.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cattedrale, racconto di una giornata indimenticabile

27 Mar
Foto Sergio Isler

Circa 1200 persone si sono ritrovate sabato 23 marzo per la storica riapertura. Un grande evento di popolo che vi raccontiamo nei dettagli, con le voci e i volti dei presenti e di alcuni dei protagonisti

Lo scorso 23 marzo, Michele aveva appena 8 giorni di vita. Nato venerdì 15, è di sicuro il più giovane partecipante alla storica riapertura della Cattedrale di Ferrara. I suoi genitori gli racconteranno della sua prima Messa nel Duomo riaperto, nella difficoltà a farsi strada fra quelle persone piene di gioia e curiosità. Michele è il simbolo della nostra Cattedrale, di cui ognuno si prende cura, per cui ognuno ha uno sguardo amorevole, colmo di speranza.

Sabato 23 marzo a Ferrara per lo storico evento erano previste 500 persone oltre ai 192 coristi e ai 50 sacerdoti e diaconi. Invece, di soli fedeli, ne sono arrivati circa 1200, la stragrande maggioranza dei quali in Duomo, gli altri all’esterno a seguire sul maxischermo. Necessari, quindi, sono risultati anche i quattro piccoli schermi all’interno, sulla navata destra, per le persone in fondo e per chi, coperto dai pilastri, non poteva vedere o non vedere bene il presbiterio.

All’apertura dell’edificio alle 17, numerose persone erano già sul sagrato in fremente attesa. Ad accoglierli una Cattedrale luminosa e tirata a lucido, con i pannelli della mostra “Il cantiere della Cattedrale”, precedentemente disposti ai lati della navata centrale, ora tutti tra la navata centrale e quella di sinistra, chiusa quasi integralmente per il cantiere. L’area cantierata sul sagrato, nei giorni precedenti il 23 è stata ricoperta da pannelli dedicati ai “Tesori nella pietra” (il nome del documentario dedicato ai capitelli riscoperti), col rosso della stessa mostra all’interno, a voler indicare una continuità con questa. Di nuovo, sono state riempite le acquasantiere e ricollocati, dai pilastri della navata destra, quasi tutti i confessionali. Impeccabile il servizio d’ordine, con 27 volontari di Comunione e Liberazione e 15 scout di AGESCI (l’intero Consiglio di Zona) e MASCI. Un libretto per seguire la liturgia, e ricco di immagini, è stato realizzato dall’UCS diocesano. Presenti diverse autorità: oltre al Sindaco di Ferrara e ad alcuni della Provincia, il Prefetto Massimo Marchesiello, il Questore Salvatore Calabrese, il presidente della Provincia Gianni Michele Padovani, l’ex Ministro Patrizio Bianchi, l’ex Soprintendente ai Beni Culturali Carla Di Francesco, l’Assessore regionale al Bilancio Paolo Calvano, vari rappresentanti delle Forze dell’ordine.

LA CERIMONIA

La cerimonia – trasmessa anche in diretta sul canale You Tube dell’UCS diocesano, dov’è rimasta la registrazione – è iniziata con la liturgia per la Domenica delle Palme nel cortile dell’Arcivescovado, già animato ben prima delle 17.30, ora di inizio. Tanti i giovani e i giovanissimi con le palme in mano (fra cui 25 provenienti da Comacchio e guidati da don Giuliano Scotton), e tante le persone con i rami di ulivo, la cui distribuzione è stata (anche il giorno successivo) a cura dell’Unitalsi diocesana, presente il 23 con una 50 di volontari fra cui una 15ina di Hospitalier di Lourdes. E allora si parte: ammonizione del Vescovo, Orazione e Benedizione sui rami d’ulivo, ascolto del Vangelo, avvio della Processione. Un corteo, questo, simbolo di ciò che è la Chiesa: corpo vivo e in cammino dentro la città e, al tempo stesso, segno visibile di luce distinto dal mondo.

Giunti in una Cattedrale già gremita (con, sulla porta d’ingresso, due poliziotti in alta uniforme), dopo l’orazione Colletta, la lettura della Passione di Marco (capp. 14 e 15). Lettura a tre voci, questa, con il diacono seminarista Vito Milella a prestare la voce al Cristo, Villi Demaldè come cronista, Cristina Scarletti e Alberto Natali per la folla e i vari personaggi. Le letture, invece, sono state a cura di Rinnovamento nello Spirito, con Patrizia Mazzoni e Alessandro Brandani. Dopo l’omelia dell’Arcivescovo e la Professione di fede con il Simbolo degli Apostoli, alcuni rappresentanti di AC e Scout hanno portato all’altare i doni per il sacrificio eucaristico. Al termine, la processione verso l’Altare della Madonna delle Grazie, patrona dell’Arcidiocesi e della città. Prima, i ringraziamenti da parte dell’Arciprete mons. Massimo Manservigi.

IL RITORNO DEI CAMPANARI

La giornata del 23 marzo ha rappresentato anche una gioia per le orecchie di tutti i ferraresi: le campane del Duomo, infatti, sono tornate a suonare a festa fin dalle ore 16, e lo stesso durante la Domenica delle Palme, e di nuovo il giorno di Pasqua. I Campanari Ferraresi guidati da Giovanni Vecchi e Francesco Buttino hanno dovuto, però, suonare solo a scampanio (non a distesa o doppio), per motivi di sicurezza, visti i lavori ancora in corso sulla struttura. Ci tengono a ringraziare, per questa opportunità, mons. Zanella, a capo dell’Ufficio Tecnico diocesano.

TESTIMONIANZE

Il 23 erano presenti anche diversi fedeli della comunità ucraina di Ferrara. «Poco prima della chiusura del Duomo nel 2019 – ci racconta la loro guida don Vasyl Verbitskyy -, ho festeggiato il Natale del 2018 in Duomo, celebrando assieme a mons. Perego. In questi cinque anni mi è mancato non poter celebrare più qui». Tanti fedeli ucraini, a Ferrara sono arrivati, profughi, dopo l’invasione russa del 2022: per loro, quindi, quella del 23, è stata la prima Messa nella nostra Cattedrale. Lo stesso si può dire per le ragazze della comunità di Shalom di stanza a S.Giorgio fuori le Mura, visibilmente emozionate per lo storico evento.

Angela, invece, di ricordi qui ne ha tanti, come la Giornata annuale per il tesseramento di AC l’8 dicembre, mentre Sergio ha memoria di quando, bambino, qui faceva il chierichetto. Enrichetta, poi, ci racconta degli ingressi dei nuovi Vescovi e dell’indimenticabile visita di papa Giovanni Paolo II. 

E a proposito di memoria, chi non ha un caro ricordo di mons. Andrea Turazzi, Vescovo dimissionario di San Marino-Montefeltro ed ex parroco del Corpus Domini e della Sacra Famiglia, presente e concelebrante in questo storico giorno…; o di padre Giovanni Di Maria, ex parroco francescano di Santo Spirito, che non ha voluto mancare a questo appuntamento così importante.

GUARDIAMO AL FUTURO

Il giorno dopo, il 24 marzo, Domenica delle Palme, alcune migliaia di persone sono entrate in Duomo fin dalle prime ore: alle 8, la prima S. Messa è stata presieduta da mons. Antonio Bentivoglio. Le altre, da mons. Ivano Casaroli (ore 10), don Giovanni Pertile (ore 11.30, in servizio anche nella vicina chiesa del Suffragio), mons. Renzo Benati (ore 17.30), don Marcello Gianoli (ore 19). Così sarà ogni domenica. 

Il futuro, dunque, è iniziato, lo sguardo è rivolto all’avvenire. Come quello dei genitori del piccolo Michele, con cui abbiamo aperto questo articolo. Ora c’è solo il futuro nel Signore, l’attesa e la costruzione, ogni giorno, del bene per il piccolo Michele, per il nostro grande Duomo, per ogni donna e uomo della nostra comunità.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Memoria e Incontro col Dio vivente: riflessione su Emmaus

25 Mar

Lectio divina su Emmaus il 21 marzo a Casa Cini per la Scuola di teologia per laici. Relatrice, Francesca Pratillo

L’Incontro che cambia la vita, la memoria del Dio vivente che vince sulla disperazione del sepolcro. Lo scorso 21 marzo a Casa Cini si è svolta la nuova lezione della Scuola di teologia per laici, “Una lectio divina su Emmaus” (questo il titolo) tenuta da Francesca Pratillo, biblista della comunità paolina di Arezzo.

Questi i prossimi incontri della Scuola (sempre alle ore 18.30): 11 aprile, “Ridire il kerigma attraverso l’arte”, Jean Paul Hernandez SJ (solo on line); 12 aprile, “Qualche parola prima dell’apocalisse, leggere il Vangelo in tempi di crisi”, Adrien Candiard op;2 maggio, “Prendersi cura dell’altro: l’ospite che non diventa ostaggio”, padre Claudio Monge;9 maggio, “Istituire comunità”, Stefano Rigo; data da destinarsi, “Arte del celebrare. Solo ritualismo?”, don Giacomo Granzotto. In via di definizione anche una data per la presentazione dell’ultimo libro di Timothy Radcliffe, “Il Dio delle domande”.

SE LA SPERANZA TORNA NEL CUORE

Il cammino come luogo centrale, «luogo dell’incontro e dell’annuncio» inEmmaus: da qui è partita Pratillo per la sua riflessione. «Anche noi, quindi, «dobbiamo essere camminanti, pellegrini, con poche sicurezze». E nel brano in questione, a una prima «linea discendente» – il cammino dei discepoli dal Calvario alla parte più bassa della Giudea, «simbolo del punto più basso della loro esperienza» – seguirà una «linea ascendente» – col ritorno pieno di gioia a Gerusalemme. Tra la disperazione e il ritorno alla comunità, c’è l’incontro con Gesù, «la Sua massima vicinanza». 

Tutto il brano di Emmaus – secondo Pratillo – si gioca quindi sulla scelta tra «memoria» e «sepolcro», cioè tra «memoria della Parola del Cristo, Parola vivente», e «ricordo triste, pessimista», sepolcrale.Quest’ultimo è per i discepoli di Emmaus il «simbolo del loro fallimento». Per loro, infatti, il Crocifisso non è Risorto, non credono alle parole delle donne dopo esser state al sepolcro. «Tra loro si scambiano parole, non la Parola»; però sono in cammino. SaràGesù,Parola vivente ad avvicinarsi a loro, a farsi compagno di viaggio, chiedendo – come chiede a ognuno di noi – di «fermarsi, di stare in silenzio, ascoltando anche la propria tristezza». Gesù chiede loro «ospitalità», ci invita ad avere «fede nella Parola», a non perdere, come i due discepoli, la speranza. Ma l’invito – «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» – è chiaro, com’è evidente ciò che sentono quando lo riconoscono «nello spezzare il pane». Nel cuore dei discepoli, dunque, è «nata una novità, il gusto per le Sacre Scritture che in Gesù diventano Parola di Dio per svelare il mistero della morte e dell’amore, del dolore e della gioia». Gesù – sono ancora parole della relatrice – «spezza il pane della propria vita, donando amore, spezza la propria vita per ognuno di noi». E Gesù «sparì dalla loro vista», affidando a loro e a ognuno di noi la «responsabilità del Vangelo». Ora i discepoli «hanno ripreso forza, la speranza è tornata nei loro cuori. Possono tornare alla loro comunità perché hanno incontrato Gesù».

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Vi spiego come il nostro Duomo resistette al sisma nel 1570-1574»

22 Mar

Intervista a Marco Stefani, noto geologo e docente di UniFe: il racconto (anche inedito) dei danni

«Nonostante tutto, il Duomo ha retto bene sia agli eventi sismici del 1570 sia a quelli del 2012. Di certo, ci sarà bisogno di altri interventi per mettere maggiormente in sicurezza l’edificio». A dirlo alla “Voce” è Marco Stefani, geologo e Professore Associato del Dipartimento di Architettura di UniFe. Il 22 marzo alle 17 nella sede della CGIL Ferrara (piazza Verdi) interverrà sul tema “Il duomo di Ferrara e i terremoti del 1570 e 2012”, all’interno del ciclo “Riflessioni sull’ambiente” organizzato dall’Istituto Gramsci. Stefani in passato ha lavorato presso la Oxford University (GB), la Johns Hopkins University of Baltimore (USA), il Caribbean Marine Research Center (Bahamas), e l’I.F.P. di Parigi. 

«Quella di Ferrara – ci spiega – è una storia di terremoti, ne sono documentati una ventina che han prodotto danni agli edifici ma nessuno con conseguenze catastrofiche». Il primo risale al 1116-1117, in seguito al quale si decise di iniziare la costruzione dell’attuale Cattedrale. Gli eventi sismici registrati tra il 1570 e il 1574, in particolare tra il 1570 e il 1571, «sono quelli che han provocato più danni e più hanno influito sulla storia della nostra città». La stima è di alcune centinaia di morti, «ma poteva andare molto peggio». Si tratta anche, per Stefani, del «terremoto per l’epoca più e meglio documentato in Italia e nel mondo», grazie a diverse testimonianze, corrispondenze di ambasciatori, resoconti di sopralluoghi, richieste di restauri e successive visite pastorali. Quello che chiamiamo “terremoto del 1570” in realtà è «una lunga serie di fenomeni di debole o media intensità durati quattro anni». Il problema è che – a differenza del terremoto del 2012 – l’epicentro «era sotto la città di Ferrara e gli eventi sono stati tanti e ravvicinati tra loro», ma almeno «sono avvenuti a poche decine di km di profondità».

Per quanto riguarda il nostro Duomo, i danni – da quel che sappiamo – hanno riguardato, esternamente, sul lato settentrionale (via Gorgadello, attuale via Adelardi), un «timpano triangolare che è crollato negli edifici dal lato opposto della strada, per la precisione sopra il postribolo allora presente» (sede attuale della Pizzeria Osteria Adelardi), «provocando una decina di morti»; Mario Equicola negli “Annali della città di Ferrara” della seconda metà del XVI sec. scrive di questi danni «al frontespicio del Duomo verso Gorgadello, con ruina di una casa al’incontro di quello». Danni hanno registrato anche «alcune guglie, gli archi sul lato meridionale dell’edificio e la facciata, che è stata vicina al crollo». All’interno, invece, danneggiamenti si sono registrati nelle «due pareti del transetto», nella «parete dell’Altare del Crocifisso» e alle «torrette campanarie cilindriche» ai lati dell’abside, che sono crollate. Le conseguenze del sisma del 2012 le conosciamo bene. Ferrara non è dunque esente dal rischio sismico: non servono allarmismi ma una chiara consapevolezza di questa realtà.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La passione ci trasforma»: Maura Gancitano a Ferrara

22 Mar

Il 17 marzo il Convegno AGESCI: «vivere un tempo profondo» slegato dagli “obiettivi” e «saper vivere l’attesa» senza avere il controllo di tutto

Saper vivere nel «tempo profondo» per meglio conoscere sé stessi e quindi saper coltivare le proprie autentiche passioni.

Su questo ha riflettuto la mattina dello scorso 17 marzo, Maura Gancitano (foto in alto), saggista, filosofa e co-fondatrice di Tlon, scuola di filosofia. L’occasione è stato il convegno “Passione in Azione. Il senso di educare oggi ad appassionarsi” promosso da AGESCI Ferrara (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) e svoltosi nella Sala convegni CNA di Ferrara. Oltre 120 i presenti che prima dell’intervento di Gancitano hanno ascoltato le testimonianze di Roberto Zaghi (fumettista), Pietro Savio (giovane fotografo), Andrea Zimelli (apicoltore), Antonella Antonellini (attrice e curatrice teatrale).

ATTESA E IGNOTO CONTRO LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE

«Viviamo in una società della performance, che chiede costantemente a ognuno di essere attivo e dà l’illusione di poter avere il controllo su tutto». Così Gancitano ha esordito nel proprio intervento. «Soprattutto riguardo al corpo – ha proseguito -, è costantemente un essere giudicati e giudicarsi. E tutto quel che non raccontiamo di noi» sui social o comunque sul web, «è come  se non esistesse». Bisogna, poi, «sempre dimostrare che tutto va bene, dobbiamo raccontare tutto ciò che funziona nella nostra vita, dimostrare che abbiamo tutto chiaro nella nostra testa». Oggi, insomma, la nostra «società della “vetrinizzazione” richiede tantissimo, soprattutto ai giovani». 

Alternativo aquesto modello performativo, Gancitano propone il concetto di «fioritura», cioè di «una felicità legata al senso di gratitudine e del sentirsi fortunati di ciò che si ha». E legata al concetto di «passione» come di qualcosa che «mette in gioco la nostra diversità», innanzitutto rispetto al sé passato e quindi rispetto agli altri. Passione, quindi, come qualcosa che richiama non solo il talento – cioè «il saper fare qualcosa in base alle nostre caratteristiche» -, ma «la vocazione», la capacità cioè di «vivere il presente e di vivere un tempo più profondo», slegato dal culto degli «”obiettivi” da raggiungere», e opposto a un «tempo superficiale e frammentato» (soprattutto a causa dell’uso sempre più forte dei dispositivi digitali).

In una società «dove spesso è facile sentirsi inadeguati, non al proprio posto», e dove il tempo dell’inattività ci sembra «tempo vuoto», per Gancitano, quindi, è importante riscoprire il senso della «noia» come – citando Benjamin – «possibile spazio dove arrivano le idee, tempo dell’attesa dell’intuizione creativa per poter capire qual è la propria passione».Ma questa conoscenza profonda di sé presuppone una «cura di sé», quindi «una fatica, un impegno». Fatica che spesso oggi viene vista come «qualcosa da evitare», ma che invece è necessaria nella cura di sé stessi, nel coltivare la propria passione e nel percepire l’autentica bellezza, «quella che ci scuote, che non è ordinaria». Coltivare la passione è quindi «un’azione trasformativa di sé, che mette in discussione la falsa idea che abbiamo nel percepirci e immaginarci sempre come qualcosa di statico». Insomma, non sappiamo mai del tutto ciò che saremo:«la passione, dunque, ha a che fare con l’ignoto». È una bella sfida, da vivere appieno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Le donne al sepolcro e l’incontro personale col Risorto: riflessioni

20 Mar

La lezione di Annalisa Guida per la Scuola di teologia per laici diocesana

L’incontro con la Parola è sempre incontro col Risorto. Ce lo ha ricordato lo scorso 14 marzo Annalisa Guida, biblista e Docente incaricata di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione “San Luigi” di Napoli. “«Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore» (Mc 16, 8)” il titolo del suo intervento (tenutosi solo on line) per l’11^ lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. Prossimo appuntamento (sia in presenza sia on line) il 21 marzo con Francesca Pratillo su “Una lectio divina su Emmaus”.

LO SGUARDO E LA SEQUELA

Questo racconto di Marco, secondo Guida, «mette al centro figure fino ad allora marginali: le donne». Donne fin dall’inizio alla sequela di Gesù e «testimoni di eventi importanti»: la sua crocifissione, deposizione e sepoltura, e poi l’annuncio del Risorto. Donne che, lungo il Suo ministero, «Lo servivano nel senso della diaconia: nel Vangelo, la diaconia si riferisce solo alle donne e agli angeli nel deserto. Una presenza, questa delle donne, spesso silenziata nella tradizione della Chiesa». Molte, poi, in Mc 15-16 «le indicazioni di quanto le donne guardino, osservino», ad esempio quando si dice che «videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca» (Mc 16, 5). Qui si richiama anche il giovinetto che subito prima dell’arresto di Gesù era con lui al Getsemani e che quando lo arrestano, fugge via (Mc 14). E anche quel giovinetto aveva una veste bianca: «non si tratta di un angelo e assume una dimensione connotativa molto forte, fuggendo come gli altri discepoli». In Mc 16, invece, il giovinetto «la veste bianca la indossa ed è un’immagine simile a quella del Risorto». Il giovane di Mc 14, quindi, «non riesce a condividere il peso della sindone, del lenzuolo funebre, mentre in Mc 16 condivide la Gloria della Resurrezione». Inoltre, in Mc 16 «l’angelo alle donne annuncia un legame tra ciò che è appena accaduto – l’esistenza terrena di Gesù – e il suo epilogo» – «il crocifisso»: per Marco – ha aggiunto la relatrice, «è nella Croce che si rivela davvero il Figlio di Dio». «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto», dice, poi, l’angelo alle donne: «Cristo, nel suo ministero, le ha sempre precedute. Il Vangelo, quindi, «torna ai luoghi del “primo amore”. È, però, un’esperienza completamente nuova». E poi, l’ultimo versetto, quello centrale (Mc 16, 8). Qui, per Guida, «le donne hanno la percezione di aver vissuto qualcosa al di fuori della loro portata, quindi la loro reazione è assolutamente normale». Non seguono l’indicazione di andare a dire ciò che han visto ai discepoli e Pietro «perché erano impaurite», sono cioè «l’ultima coda di un discepolato che più volte ha avuto dubbi e paure, anche se sicuramente fino ad ora sono state più coraggiose dei discepoli». Ma ora «c’è qualcosa che supera la loro capacità di comprensione: non l’hanno capito prima e non lo capiscono ora. Il sepolcro vuoto dice loro solo assenza. Per capire veramente il Risorto, quindi – è il messaggio per ogni lettore – devo incontrarLo, non basta che me Lo annuncino». Il racconto, quindi, «ci porta oltre l’annuncio: ci invita all’incontro personale col Risorto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La vita in grembo non appartiene né alla madre né allo Stato né alla tecnica», diceva Guardini nel 1949

15 Mar

Le parole profetiche scritte dal teologo: «l’elevatezza di un’istanza assoluta» non può venir meno per un giudizio «di utilità o danno»

di Andrea Musacci

«Quell’essere umano che matura nel grembo della madre è tutt’altro che un’escrescenza qualsiasi la cui estrazione può solo giovare», «non è semplicemente “corpo della madre”, non ne è una parte»: «esso è profondamente unito a tutto l’essere della donna e all’ethos della sua esistenza» senza però «dissolversi in esso». Queste parole pronunciate nel 1949 dal teologo Romano Guardini (pubblicate in “Il diritto alla vita prima della nascita”, Morcelliana, 2005) colpiscono per la loro lucidità e franchezza, oltre che per la ragionevolezza del contenuto che portano. E risuonano con ancora di più in questi giorni nei quali è ancora forte l’eco della «vittoria delle donne» per l’inserimento del diritto di aborto nella Costituzione francese.

«Tutti coloro che cooperano al «divenire di un individuo», prosegue Guardini, «anzitutto i genitori e lo Stato, ne sono responsabili. Non debbono forse, in certe circostanze, rappresentare l’interesse dell’essere non ancora indipendente, anche per ciò che attiene alla sua presenza fisica?». Ciò significa una cura e una tutela maggiore, quella necessaria per l’esistenza quando è più indifesa. Per questo, abortire un essere ai primi stadi del suo sviluppo, rappresenta per Guardini «la distruzione (…) di ciò che dovrebbe venir salvato». Il teologo era sempre impeccabile nell’uso attento delle parole; ma ciò non toglie loro una certa potenza. In questo caso, conseguenza anche dell’incubo nazista da poco conclusosi. «Nella misura in cui l’uomo usciva dalla barbarie – scriveva Guardini -, emerse sempre più chiaramente il principio che afferma: non è lecito toccare la vita dell’uomo finché non ha commesso un delitto per il quale è fissata, secondo il diritto vigente, la pena di morte, oppure finché non attacca un altro uomo che può salvarsi soltanto uccidendo l’aggressore (…). Non è [quindi] lecito distruggere la vita dell’essere umano che matura nel grembo materno, poiché non ha commesso nessun delitto, né ha posto un altro uomo in stato di legittima difesa». «Non appena (…) viene a mancare il principio assoluto» della sacralità della vita («l’elevatezza di un’istanza assoluta», la definisce Guardini), «e al suo posto subentra un giudizio pratico di utilità o danno, tutto va a rotoli»: diventa cioè «impossibile farsi un’idea di quali minacce possano sorgere per la vita e l’anima dell’uomo, se, privo del baluardo di questo rispetto, viene consegnato allo Stato moderno e alla sua tecnica». 

E infine – logica conseguenza -, sul tema dell’obiezione di coscienza all’aborto, Guardini fa una riflessione radicale ma più che mai realistica e attuale: se l’aborto è un diritto assoluto della donna (tanto da inserirlo in una Carta costituzionale, possiamo aggiungere ora), la sua applicazione dev’essere portata avanti a ogni costo. Anche contro la volontà di terzi: «il singolo medico può rifiutarsi, se però si verificasse il caso limite che tutti i medici disponibili si rifiutassero, lo Stato dovrebbe costringerne uno». Parole da non dimenticare.

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Non c’è alternativa alla politica: ben vengano Scuole come la vostra»: Casini a Ferrara

13 Mar

Il sen. Pierferdinando Casini è intervenuto a Casa Cini. Intelligenza artificiale e Ius scholae fra i temi trattati. «La politica è necessaria, servono più luoghi di formazione. Impossibile l’unità dei cattolici»

Un incoraggiamento a proseguire nella creazione di luoghi di formazione politica, sempre più necessari, è venuto dal Sen. Pierferdinando Casini (foto Alessandro Berselli), intervenuto la sera dell’8 marzo scorso a Casa Cini, Ferrara, per la seconda lezione della Scuola diocesana di formazione politica. Casini arriva puntuale in S. Stefano, accompagnato da una leggera pioggia, e con al collo una sciarpa rossoblù del Bologna, sua squadra del cuore. Ad attenderlo una 70ina di persone (30 nel salone di Casa Cini, le restanti collegate on line) per ascoltare uno dei volti più noti della politica italiana, da 41 anni in Parlamento, fino al 2008 spalla centrista del centro-destra, poi alla ricerca di uno spazio autonomo al centro (con scarsi risultati) e infine alleato del centro-sinistra col suo movimento “Centristi per l’Europa”. Europa che è stata la grande assente di un confronto comunque vivace e pieno di spunti di riflessione.

«C’È BISOGNO DI LUOGHI DI FORMAZIONE»

«Più volte ho sollecitato anche il card. Zuppi», ha esordito Casini, interpellato dalle domande di Marcello Musacchi (foto di Alessandro Berselli): «vanno pensati nuovi luoghi per la formazione politica» perché «oggi non esistono più i partiti», quei luoghi «dove un tempo si formavano persone preparate. Proprio oggi parlavo di questo con Dario Franceschini», vecchio “compagno” nella DC. Oggi i partiti sono diventati «partiti personali», da qui i «forti sbalzi elettorali». Oggi dunque bisogna «sollecitare le università» (con master e corsi ad hoc) «e le Diocesi» a proporre iniziative di formazione politica. Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale, del web, «dell’ipermodernizzazione, non si è trovato un sistema alternativo alla politica per far partecipare la collettività», ha detto. Bisogna quindi «ricostruire un tessuto di motivazioni partendo dalla consapevolezza che non c’è alternativa alla politica». E una buona politica è possibile «se riusciamo a innervare in questa attività le migliori energie e i migliori propositi per costruire una società diversa». Bene, quindi, «una scuola di formazione politica come la vostra, scuola che deve giovare all’intera società, non a una parte o all’altra, e non deve avere come fine la nascita di una forza politica cattolica: le idee dei cattolici devono fermentare ovunque», ha aggiunto il senatore. Cattolici che, per loro natura, «devono guardare al futuro, ai più bisognosi», e quindi «sentire una motivazione più forte degli altri per partecipare alla vita politica». 

IL POTERE E IL COMPROMESSO

Nessun cedimento alla nostalgia, quindi. La prima Repubblica appartiene ormai a un altro mondo: «l’unità politica dei cattolici – ha riflettuto – era resa possibile dal timore di finire nell’orbita del comunismo sovietico. La DC rappresentava quindi un baluardo per garantire la libertà. Una storia andata avanti fino al 1989, anche se in realtà ben prima dell’’89 l’unità politica dei cattolici non esisteva più. Oggi – sono ancora sue parole – non è più ipotizzabile un partito che raccolga tutti i cattolici, la loro divisione è un dato acquisito», ma tutti i cattolici, a prescindere dalla collocazione, «dovrebbero sentire maggiormente la spinta a rendere migliore la politica». E dovrebbero farlo «con laicità, sapendo fare i giusti compromessi, come fu nel caso della legge sull’aborto: d’accordo i cosiddetti principi non negoziabili, ma in un’assemblea legislativa devi per forza negoziare». Stando sempre attento a non perderti: «il potere è un’illusione ottica, logora chi ce l’ha» (ha detto, “correggendo” Andreotti), è «una droga, una fuga dalla realtà. Le cose che rimangono sono altre, sono i valori veri, il rapporto coi propri figli. Quando nel 2001 venni eletto Presidente della Camera – ha raccontato -, dopo 30 telefonate da persone potenti (fra cui quella di Gianni Agnelli), decisi di chiamare alcune persone del bolognese che conoscevo, per me importanti, come il postino e alcuni agricoltori».

La politica si deve quindi «nutrire di progetti per il futuro, anche se la memoria non va rimossa, ma conosciuta e preservata». Soprattutto per le nuove generazioni: «oggi i giovani fanno molta più fatica a orizzontarsi, c’è molto smarrimento, e la stessa Intelligenza artificiale (le cui conseguenze non riusciamo ancora a immaginare) rende molto più condizionabile l’opinione pubblica. Anche per questo, anche per regolamentare l’Intelligenza artificiale, oggi serve la politica».

L’ATTUALITÀ: DALLO IUS SCHOLAE AI RISCHI PER LA DEMOCRAZIA

E a proposito di temi specifici, Casini ha risposto a una domanda sullo Ius soli, ricordando come lo difese già nel lontano 2001 per poi invece da alcuni anni preferire la formula dello Ius scholae, «perché con lo Ius soli c’è il rischio che molte donne vengano in Italia per partorire e ottenere la cittadinanza». In ogni caso, dare la cittadinanza a giovani stranieri che studiano nelle nostre scuole è importante soprattutto «per coinvolgerli in un destino comune». E integrazione, per Casini, significa anche avere «il coraggio (ma oggi in Italia è impopolare) di costruire moschee nelle città, spazi controllati da forze dell’ordine che eviterebbero la clandestinità di luoghi di preghiera fai-da-te negli scantinati». Rispondendo poi alle diverse domande e riflessioni provenienti dai presenti, Casini ha trattato vari temi fra cui l’immigrazione («il Mediterraneo oggi è una bomba atomica ma l’Italia nel Mediterraneo non conta più nulla»), la pace («si costruisce con la politica» e «la difesa dell’Ucraina oggi è fondamentale anche per difendere la nostra civiltà»), i rischi per la democrazia occidentale (da Trump alla Cina), l’utero in affitto («a cui sono contrarissimo, anche se il politicamente corretto non prevede il diritto di critica»). Chiusura con i valori fondamentali a cui un cattolico in politica non può rinunciare: «serietà, onesta e coraggio». E il «non deprimersi quando si è in basso e non esaltarsi quando si è in alto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Il sapere come luce e fuoco: Massimo Recalcati a UniFe

11 Mar
Foto Alessandro Berselli

L’intervento dello psicanalista al nuovo Polo Didattico di Cona per l’inaugurazione dell’anno accademico: «la formazione sia spazio di luce, fuoco, valore del nome proprio». I disagi dei giovani

A cura di Andrea Musacci

«Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo»: ha preso le mosse da queste parole di Goethe, Massimo Recalcati, noto psicoanalista e docente universitario, per la sua prolusione lo scorso 6 marzo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 dell’Università degli Studi di Ferrara. «Il movimento dell’eredità è sempre un movimento in avanti, pur nella fedeltà alla tradizione», ha proseguito. «Io adoro gli inizi, i battesimi, i matrimoni, lo sbocciare dei fiori, tutto ciò che prende vita. Ma affinché qualcosa possa cominciare, non deve mai smettere di incominciare», sono state ancora sue parole. Da qui, la citazione di Gentile sull’insegnare come continuo apprendere, «ricominciare ogni volta per evitare il rischio terribile della ripetizione senza sorpresa». 

«NAUFRAGIO DELLA PAROLA» E NOME PROPRIO

Parafrasando, poi, un passo de “La peste” di Camus, Recalcati ha detto: «oggi l’università deve “saper restare”, essere cioè un punto di riferimento in un’epoca di forti crisi». Epoca nella quale assistiamo al «naufragio della parola», dove cioè «la parola non ha più peso». Nell’università, quindi, oltre a una necessaria «anima-dispositivo» fatta di regolamenti, burocrazia, valutazioni, algoritmi e numeri, deve avere cittadinanza il «nome proprio»: «chiamare per nome è un atteggiamento di cura», il nome – con la «singolarità storta» che rappresenta – è «eccentrico» rispetto al numero, lo eccede sempre. I luoghi della formazione così intesi non possono che essere «luoghi della luce, dove si fa esperienza della luce, dove cioè si allarga l’orizzonte del mondo».

DALLA «TOSSICOMANIA» AL RIFIUTO DELLA VITA

L’opulenta e spesso vuota società contemporanea, però, crea nel mondo giovanile due forme di disagio: una, prevalente più nell’era pre covid, che Recalcati definisce «disagio neo-libertino», causato dall’idea che «tutto è possibile», con una «sregolazione pulsionale, del consumo e l’assenza di vincoli e legami». Una «tossicomania» non solo legata al consumo di droghe ma a una vera e propria «idolatria delle cose», una «sacralizzazione degli oggetti che desacralizza la vita». A questa si è aggiunta, dopo il covid, una nuova forma di disagio, un suo «rovescio malinconico»: quello dei giovani che «rifiutano la vita, si ritirano da essa», le cui camere diventano «bunker». Una «pulsione securitaria» che fa vedere «l’altro come una minaccia, l’aperto come fonte di angoscia». D’altra parte, però, oggi assistiamo anche a un «uso inflattivo della psicologia» e a una «medicalizzazione di ogni aspetto della vita», con un «abuso della diagnosi» ad esempio in ambito scolastico, che fa anche «identificare le nuove generazioni come vittime, porgendo così ai giovani alibi per sentirsi sempre giustificati».

C’È BISOGNO DI FUOCO

I giovani, invece, hanno bisogno di «una formazione intesa non tanto come una scala da salire ma come un fuoco»: hanno bisogno, cioè, di «qualcuno o qualcosa» (un insegnante, un libro, ad esempio) «che li scotti, che li accenda», che accenda la loro passione.

Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Fine vita, il dolore estremo chiede compagnia e ci rimanda alla trascendenza

8 Mar

Eutanasia dal Belgio all’Emilia-Romagna: riflessioni sulla falsa pietà e l’autentica cura

di Andrea Musacci

Appena una settimana fa, in Belgio la Commissione federale di controllo e valutazione dell’eutanasia ha pubblicato i dati aggiornati: nel 2023 i casi di eutanasia certificata sono stati 3.423, il 15% in più rispetto al 2022 e il 3,1% di tutti i decessi (rispetto al 2,5% nel 2022). Ci spostiamo di poco geograficamente, e dai dati passiamo a una notizia: l’ex premier olandese (in carica dal 1977 al 1982, all’epoca del Partito cristiano democratico) Dries van Agt e sua moglie Eugenie, hanno chiesto e ottenuto l’eutanasia di coppia. Un fenomeno, quest’ultimo, in crescita nei Paesi Bassi (dove dal 2002 – come in Belgio – esiste una legge sull’eutanasia e il suicidio assistito): la Commissione di vigilanza Rte informa che nel 2022 sono state accolte quasi il doppio delle richieste di coppie. In totale 29: nel 2019 furono 17, nel 2020 13, e 16 nel 2021.

È utile partire dai dati di Paesi vicini dove l’eutanasia è permessa da molto più tempo, per renderci conto di quel che può essere il futuro anche nel nostro Paese se vengono fatte scelte come quella dell’Emilia-Romagna. Terra, questa, «sazia e disperata», come il card. Biffi definì il suo capoluogo Bologna.

Fa tremare le vene ai polsi il constatare, quindi, come nelle nostre società avanzate il morire si stia riducendo a un passaggio medico-burocratico fra i tanti. Una scelta come le altre, una rivendicazione estrema, assurda legata al falso principio del benessere: «Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo», scriveva San Giovanni Paolo II in “Evangelium vitae (EV 64). Perciò, «l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». Così, proseguiva papa Wojtyła, «nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone» (EV 66).

Pur nella sempre estrema pietà verso chi compie il gesto estremo, va ricordato come questo innanzitutto «comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi» (EV 66). Su questo riflette anche il filosofo Fabrice Hadjadj: «l’amore per la propria vita è il fondamento dell’amore per la vita altrui: se non amo me stesso, se detesto la vita, a quale scopo soccorrere il prossimo?» (in “Farcela con la morte”, 2005). Va contro il prossimo, dunque, e contro se stessi. È il non darsi nessun’altra possibilità: «Il suicidio è un assassinio più intimo, senza possibile pentimento, mentre ogni altro omicidio lascia il tempo per un’eventuale conversione (…). Colui che voleva poter fare tutto senza limiti si condanna a non poter fare più nulla. Con il suicidio pretende di liberarsi di tutto, invece si riduce a niente», prosegue Hadjadj.

Ma come scriveva Giovanni Paolo II, «la domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno» (EV 67). E la speranza per sua natura è un salto oltre la logica e il peso del dolore. È sempre speranza di qualcosa che non riusciamo a scrutare. Ancora Hadjadj: «vedere tutto nell’orizzonte della padronanza significa chiudersi all’incontro, all’imprevisto, all’altro». E all’Altro: «La morte rimanda a una trascendenza, e io» col suicidio «cerco di metterla al livello dei miei ragionamenti». Al contrario, «colui che parla dal pulpito dell’agonia lascia un insegnamento indimenticabile, anche se ridotto a un pietoso battito delle palpebre. È più vivo di ogni altro, ricorda agli altri l’imminenza della morte e l’esigenza della speranza (…). In  quell’ultima ora l’uomo giacente è un tabernacolo».

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio