Archivio | ottobre, 2025

Anelito alla solidarietà: il grido della ragione etica in Horkheimer

31 Ott

Proseguono nella Camera del Lavoro (CGIL) di Ferrara gli incontri dedicati al marxismo occidentale, o meglio ai marxismi occidentali, per loro natura eterodossi.

Lo scorso 20 ottobre Davide Ruggieri (Università di Padova) ha relazionato sul tema “Max Horkheimer: la teoria critica tra marxismo e pessimismo”. Il relatore è stato introdotto dalla giovane studentessa dell’Università di Padova, Lucia Run Hui Li (i due nella foto), per l’iniziativa promossa da Istituto Gramsci Ferrara in collaborazione con CGIL Ferrara, SPI CGIL Ferrara, ISCO Ferrara e il Laboratorio per la Pace dell’Università degli Studi di Ferrara, con il patrocinio del Comune di Ferrara.

Parlare di Horkheimer vuol dire parlare innanzitutto della Scuola di Francoforte di cui lo studioso faceva parte, cioè di quel luogo prediletto del pensiero critico dove si era «con Marx e oltre Marx», e dove alla critica del totalitarismo nazista si affiancava la critica al totalitarismo sovietico, al neopositivismo e alle forme di dominio del capitalismo, in un’unione feconda tra politica, filosofia, sociologia, cultura e psicanalisi.

Due sono gli amori di una vita di Horkheimer: uno del pensiero, Schopenhauer; l’altro del cuore, totale, la moglie Rosa Riekher, che «lo apre al senso di solidarietà tra le persone», che non nasce dalla miseria materiale ma «dalla comune condizione umana segnata dal limite e dalla morte».

Nello specifico della critica alle fondamente della visione capitalista, Horkheimer vede con chiarezza come «nella società borghese tutto – anche la libertà – è mercificato», e quindi sia in atto una vera e propria «catastrofe, conseguente al fallimento della ragione nel suo senso etico, universale, contrapposta alla ragione tecnicistica e strumentale e individualistica del neopositivismo», che ha dato vita ad una «società totalmente amministrata e fondata sullo sfruttamento della maggioranza delle persone». Marx va quindi «superato» in diversi punti, ma per questo non può essere messo da parte e non può venir meno la critica radicale all’illuminismo inteso come «movimento culturale che produce un impulso alla distruzione», da noi conosciuto in particolare nei conflitti mondiali. Il «sistema dell’amministrazione totale» occidentale è quindi una forma di «totalitarismo», che si può combattere – oltre che con la teoria critica – rivalutando «elementi irrazionali» e riscoprendo «temi legati alla religione e alla trascendenza, che il mondo totalmente amministrato sta tentando di eliminare». Fra questi, Horkheimer individua la «compassione», la «gioia compassionevole», lo «spirito del Vangelo». Per far rinascere – prima nel cuore di ognuno, poi a livello collettivo – un «forte anelito alla solidarietà».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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Francesco e quel suo Cantico tanto materiale quanto divino

30 Ott


La relazione di Stefani il 22 ottobre in Ariostea: «molte le ambivalenze»

Il Cantico delle creature è testo arcinoto ma forse proprio per questo “sottovalutato” nelle sue mille e una ambivalenze e originalità. Un’analisi in questo senso è stata compiuta lo scorso 22 ottobre nella Biblioteca Ariostea di Ferrara dal biblista Piero Stefani per la conferenza sul tema “Il sole, la terra e la tribolazione. A 800 anni dal Cantico delle creature di Francesco di Assisi”. A cura dell’Istituto Gramsci Ferrara in collaborazione con ISCO Ferrara e Biblia, la conferenza ha visto l’introduzione di Nicola Alessandrini – alla guida dell’Istituto Gramsci Ferrara – che ha citato alcuni passaggi delle Lettere e dei Quaderni del carcere di Gramsci in cui il politico e filoosfo cita il Poverello di Assisi.

Francesco scrive il Cantico nel 1225 mentre si trova presso il Monastero di San Damiano e quando ormai è quasi del tutto cieco: «Francesco – ha spiegato Stefani – era in una condizione di tribolazione, profondamente malato soprattutto negli occhi, residuo del suo viaggio in Oriente. Era quindi bendato anche di notte, perché non sopportava nemmeno la luce delle lampade». Stefani ha voluto iniziare con una necessaria precisazione: «Francesco non vedeva la natura ma il creato, cioè un’azione diretta di Dio, mentre “natura” richiama un’autonomia delle cose; quindi tutti gli usi “ecologisti” del Cantico sono strumentali». 

Una delle fonti più accreditate su Francesco è la cosiddetta “Leggenda perugina”, secondo cui il Cantico è composto in tre blocchi: il primo, di lode; il secondo, sul perdono; il terzo, sulla morte. Il primo è «visivo e scritto nella tribolazione di chi non poteva vedere: quindi in esso egli loda ciò che ricorda, ciò che non può più vedere». Ma anche il perdono richiama una sua «tribolazione», quella di venire a conoscenza dello «scontro violento tra il Vescovo e il Podestà di Assisi: la tribolazione stava non solo nel litigio, nella mancanza di perdono ma anche nel fatto che nessuno interveniva per riconciliarli. Questa seconda parte aiuterà la riconciliazione tra i due potenti». E poi vi è la lassa della sorella morte: «Francesco si identifica a tal punto col Cantico da metterci anche la propria morte», ha spiegato il relatore. Francesco – ha proseguito Stefani – conosceva i Salmi non perché possedesse una Bibbia (ai tempi era molto difficile averla) ma perché aveva un breviario, oltre ai Vangeli: «il suo Cantico ricorda il Salmo 148 nell’invito alle creature a lodare il Signore». La lode è quindi «linguaggio umano che non esprime solo sé stesso ma si allarga a tutte le creature». Ma rispetto al modello biblico, il Cantico ha anche differenze, quattro in particolare: «in esso non sono presenti gli angeli, perché vuole radicarsi nella materialità, forse per rispondere ai grandi avversari di questo Cantico, cioè i catari»; «vi è l’espressione “mio”»; «le creature sono indicate come “fratello” e “sorella”: l’universo è quindi un grande convento, un “convenire”. Siamo tutti fratelli e sorelle perché siamo tutti creature, abbiamo lo stesso Padre».Infine, «nel Cantico Francesco non nomina gli animali».

Ma sul “fratello” e “sorella” vi sono «due complicazioni»: una celeste, per cui nel Cantico «il sole è mio fratello ma anche “mio signore”, cioè simbolo di Dio. Il sole è luce, testimonianza dell’azione diretta del Signore». E poi c’è una complicazione riguardante la terra, «che è a un tempo madre e sorella» e vi è l’anomala presenza «dei fiori – oltre che dei frutti -, quindi anche della bellezza, della gratuità».

Infine, la lassa finale, quella dedicata alla morte, anzi alle “morti”: quella corporale, «che è sorella quindi creatura»; e la «seconda morte», che invece «si può evitare facendo la volontà di Dio». «Questo Cantico – quindi – che ha così tanto di materiale, finisce con l’invisibile, con una realtà oltre la morte».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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«IA e robot non potranno mai comprendere la complessità e imprevedibilità dell’umano»

29 Ott

Federico Manzi (UniCatt) è intervenuto alla Scuola diocesana di teologia su linguaggio umano e non

Lo scorso 23 ottobre a Casa Cini si è tenuta la terza lezione del nuovo anno pastorale della Scuola diocesana di teologia per laici. Federico Manzi ha relazionato su “Linguaggio e linguaggi (Gen 11,1)”. Manzi è Ricercatore in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione alla Cattolica di Milano e Co-direttore dell’Unità di Ricerca in Psicologia e Robotica nel Ciclo di Vita.

«Agenti conversazionali come Chat GPT – ha riflettuto – sono sempre più utilizzati: a volte le risposte di queste “macchine” ci sembrano simil umane, ma è un’illusione, queste macchine non possono davvero comprendere ciò che abbiamo loro domandato». Non di rado la macchina «ci dà la risposta giusta ma essa è già stata addestrata attraverso i dati che contiene, già raccolti. Quindi in realtà non può davvero comprendere cosa c’è dietro la domanda che le poniamo».

Allora – si è chiesto il relatore – perché dovremmo fidarci di questi strumenti? In base a che cosa dovremmo riporre fiducia in essi? Innanzitutto, «la familiarità con questi strumenti può evitarci un approccio catastrofistico, pur conservando il senso critico nei loro confronti».

Manzi ha poi brevemente illustrato gli sviluppi della robotica nella storia, nella tecnica e nell’arte: sono diversi i tipi di robot, sempre più sofisticati e antropomorfizzati, fino ad arrivare agli androidi, ideati dall’uomo. A dominare è stato, nella storia, perlopiù, «una visione distopica, negativa». Ma il nostro approccio è mutato all’incirca intorno all’anno 2010».

Oggi strumenti come Chat GPT pur potenti «sono incapaci di entrare nella complessità dell’umano e delle relazioni umane: l’umano è estremamente imprevedibile e complicato nelle sue capacità relazionali, speculative e comunicative».

Riguardo all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nelle scuole e nell’ambito educativo, Manzi ha poi spiegato come innanzitutto «bisognerebbe coinvolgere gli insegnanti in eventuali scelte di questo tipo, ragionando con loro su come si trasformerebbe il ruolo dell’educatore». Poi vi è l’ambito dell’applicazione della robotica per gli anziani, che può essere utile «per la loro riabilitazione sociale e cognitiva».

Insomma, il rapporto tra l’uomo e robot e tra uomo e intelligenza artificiale «deve mettere al centro l’umano. per fare ciò, vi è la necessità di una formazione profonda al riguardo, anche se siamo ben lontani dal dominio dei robot e dell’intelligenza artificiale».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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«La passione per Cristo sempre lo accompagnava»

25 Ott

Padre Silvio Turazzi: pomeriggio di riflessioni e testimonianze su questo «grande uomo di Dio», che nella gioia ha riscoperto «il crudo del Vangelo»

Emozionante pomeriggio quello dello scorso18 ottobre a Casa Cini, Ferrara, per la presentazione del volume “Missionis Gaudium. La gioia del Vangelo” (Quaderni CEDOC SFR, 55), raccolta di scritti di padre Silvio Turazzi, missionario saveriano, deceduto nel 2022. La relazione centrale è spettata a don Andrea Zerbini (Direttore CEDOC SFR ed ex Direttore Ufficio Missionario Diocesano), che ha raccolto e ordinato in vari capitoli la maggior parte degli scritti di padre Silvio in questo libro. L’incontro è stato introdotto e moderato da Roberto Alberti, Direttore del nostro Centro Missionario diocesano.

Padre Armando Coletto, Rettore deiSaveriani di Parma ed ex missionario ha spiegato come «Ferrara dev’essere grata per aver avuto una figura come padre Silvio Turazzi. Ricordo i suoi occhi profondi, il suo sguardo bello: era una persona sempre accogliente, capace di donarti qualcosa che ti rimaneva nel cuore». A seguire, mons. Massimo Manservigi ha introdotto la visione del video dedicato a padre Turazzi, con anche scene di un documentario girato nel ’98 dallo stesso mons.Manservigi a Vicomero, con stralci di intervista allo stesso padre Silvio, a sua sorella Gianna, ai suoi fratelli don Andrea e Armando, a Pierre Kabeza, attivista congolese residente a Milano, che aveva conosciuto bene padre Silvio. Quest’ultimo ha spiegato come padre Silvio abbia «veramente amato l’Africa e soprattutto il Congo.Era un congolese di fatto». Le parole di padre Silvio spiegano bene la sua spiritualità: «la Croce ci permette di scoprire le radici più profonde della nostra esistenza» e «Il Dio che io seguo è quel Dio crocifisso, che cammina con noi». «Sono stato – spiega in un altro passaggio – toccato dal Vangelo di Gesù. Il Risorto mi ha toccato e quindi ho pensato di condividere quest’incontro, non certo di fare proselitismo».

Don Andrea Zerbini ha iniziato la propria relazione riflettendo sul lato «profetico» della figura di padre Turazzi nel «mettere al centro del suo servizio i poveri», e sulla «mistica della missione»: la sua è stata «una fede ostinata e sorridente, una fedeltà innamorata», grazie alla quale è evidente «il passaggio dall’etica alla mistica, cioè dal fare-per all’essere-con». E padre Silvio «sapeva farsi compagno di strada a coloro che cercano una risposta, grazie a un forte senso della pietà e della giustizia sociale, nata – questa – proprio dal suo misticismo». Per comprendere Cristo e sapere dove trovarlo, «per lui sono sempre stati centrali il Padre Nostro e le Beatitudini».Da qui «la speranza e la gioia» in lui così accese, «la semplicità del saper essere amico, l’apertura fraterna e l’imprevedibile libertà». Il suo era – richiamando Battisti – i«l canto di un cristiano libero». Ma questa gioia – lo sappiamo – non poteva non essere sempre «imperfetta e minacciata»: «Io non so, ma Tu sai», scriveva padre Silvio, allora «la gioia è nascosta nel gemito, la vera gioia non è a buon mercato ma a caro prezzo». Nella gioia, dunque, si riscopre «il crudo del Vangelo», diceva ancora padre Silvio, che proseguiva: «il ministero di chi accompagna nel dolore più di tutti manifesta il Mistero pasquale». 

A seguire è intervenuto un altro missionario saveriano che ben aveva conosciuto padre Turazzi, padre Paolo Tovo: «con lui ho collaborato dal ’94 al 2001.Non era un navigatore solitario ma ha vissuto quel che la Chiesa viveva. Anche di fronte ad eventi dolorosi mai perdeva la mansuetudine, la sua fede profonda, la passione per la missione.Amava Teilhard de Chardin e la montagna e la sua passione per Cristo lo accompagnava sempre. Ed era un figlio del Concilio Vaticano II, grazie al quale aveva compreso che la missione è Dio, quindi che la Chiesa esiste per la missione, non il contrario», contro ogni tentazione colonialista o di porsi da parte della Chiesa come «società perfetta contro gli infedeli». Insomma, la missione «è come una mietitura, si tratta di mietere qualcosa che c’è già», non di portarlo dall’esterno:l’altro non è un ricettore passivo ma «un interlocutore, in lui la Grazia di Dio è già presente». Al tempo stesso, «si porta Cristo e Lo si scopre fra le genti».

In conclusione del pomeriggio – molto partecipato – è intervenuta Edda Colla, storica collaboratrice di padre Silvio: «sapeva farsi amare – ha detto – perché amava tanto le persone che incontrava. L’ho conosciuto nel ’66, insieme abbiamo vissuto a Roma fra i baraccati, e lavoravamo per mantenerci.Ricordo, ad esempio, quando nelle baracche di notte c’era un uomo con problemi mentali che a volte urlava: padre Silvio allora si alzava e con pazienza andava a calmarlo». A Roma era stato anche Cappellano al Centro handicappati, in servizio fra i detenuti, coi bimbi  di strada e aveva fatto campagne per la pace e contro le tasse inique. E ancora: «al Centro di riabilitazione in seguito al grave incidente da lui subito, ha potuto conoscere meglio il mondo operaio e i suoi problemi, essendo lì ricoverati anche diversi infortunati sul lavoro. Era un grande uomo di Dio, al tempo stesso con una dolcezza infinita e una grande forza e determinazione». 

L’incontro si è concluso con un breve saluto del fratello mons. Andrea Turazzi, Vescovo emerito di San Marino-Montefeltro e con la testimonianza di Luisa Flisi, missionaria fidei donum per la Diocesi di Parma, da quasi 40 anni a Goma, in Congo, dove ha conosciuto padre Silvio che – ha detto – «ha sempre amato gli ultimi, era in comunione col Padre e sempre al servizio di tutti, portando la Croce con serenità».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

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Una «pattuglia ecclesiale» per portare Dio a chi oggi Lo cerca

23 Ott


L’intervento di don Goccini alla Scuola diocesana di teologia: «come Gesù torniamo sulla strada per cercare gli ultimi e invitarli al nostro ballo collettivo»

Sembra paradossale ma le riflessioni intraecclesiali sull’annuncio e l’evangelizzazione, cioè su nuovi modi di comunicare la fede sono…vecchi. È un tema, infatti, che dal Vaticano II ha attraversato tutte le generazioni di educatori, laici e religiosi. Oggi, però, andrebbe affrontato con uno stile differente.

Su questo ha riflettuto a Ferrara don Giordano Goccini – parroco di Novellara (RE) e componente del Comitato scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo -, relatore della seconda lezione del nuovo anno della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”.

Tema, “La tradizione” (Ger 1,6): «fra le nuove e le vecchie generazioni la comunicazione si è interrotta, noi adulti non siamo più capaci di trasmettere la fede», ha esordito. Insomma, assistiamo al «grande divorzio tra da una parte una forte richiesta di fede da parte delle nuove generazioni, una loro ricerca spirituale; e, dall’altra, un sostanziale disinteresse nei confronti di ciò che la Chiesa dice e fa». Molti giovani oggi non hanno più «un pregiudizio ideologico contro la religione» ma al tempo stesso «non gli interessa sentire annunciare un Dio della verità».

Inoltre, come Chiesa continuiamo a essere strutturati sulla triade parrocchia-campanile-tempo della festa.Ma «questi luoghi e la divisione tra tempo feriale e tempo festivo è ormai estranea alle nuove generazioni». Questa forza ancora presente della «mediazione ecclesiale (e sacramentale) – e di quella della Vergine Maria» – contrasta col bisogno di tanti di «un incontro diretto con Dio». Disintermediazione, questa – potremmo aggiungere – in un certo qual modo sorella del rifiuto di ogni mediazione politico-partitico-istituzionale. Questa disintermediazione ecclesiale si accompagna a una “disintermediazione” temporale: «se un tempo la salvezza era la vita eterna (per la quale valeva la pena fare sacrifici nel presente), oggi invece si pensa a un Dio che salva qui e ora, perché la sua promessa di felicità è per il presente». L’incontro con Dio è, quindi, per molti giovani, con un Dio «che chiama per nome», che mi conosce e riconosce. La Chiesa – dunque – dovrebbe «tornare a cercare i giovani uno a uno, mettendo in dubbio la propria pastorale ordinaria». Ciò non significa «buttare via integralmente la tradizione ma tornare a Gesù». Proprio Gesù che non può che essere il nostroModello: Lui, infatti, «si era smarcato tanto dall’esperienza religiosa del suo tempo quanto da coloro che rifuggivano la “città” per andare a vivere in una comunità di puri». Gesù, invece, «va lungo la strada per incontrare gli ultimi, i peccatori, avendo ben presente la Causa di Dio: Egli, il Regno – insomma – illumina di luce nuova la storia, ogni aspetto e momento, relativizzandolo».

Oggi – dunque – abbiamo bisogno di «una pattuglia ecclesiale» che sappia andare dai giovani e dai giovanissimi coinvolgendolo in una sorta di «ballo collettivo nel quale ognuno mantiene la propria individualità e tutti concorrono all’armonia generale». Una «comunità che danza» dev’essere quindi la nostra Chiesa: una comunità attrattiva dove non si perde la bellezza unica del «contatto fisico».

La sfida è enorme ma, in fondo, è la sfida di ogni tempo: portare Cristo alle donne e agli uomini affamati di Eterno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

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Kafka e quella vergogna che apre alla solidarietà

21 Ott


A Ferrara la tesi di Ernesto C. Sferrazza Papa: «niente assurdo, lo scrittore è un iperrealista»

“Le promesse della vergogna. Esperimenti su Kafka” (Rosenberg & Sellier, Torino 2025) è il nome del saggio dello studioso Ernesto C. Sferrazza Papa (Università di Roma “La Sapienza”), da lui presentato lo scorso 16 ottobre in Biblioteca Ariostea a Ferrara.La conferenza organizzata da Istituto Gramsci e Isco Ferrara ha visto la presentazione a cura di Micaela Latini (Università di Ferrara) e l’introduzione di Filippo Domenicali (Istituto Gramsci Ferrara).

Proprio quest’ultimo ha riflettuto su come dal libro di Sferrazza Papa emerga un Kafka «illuministico – nel senso di Adorno e Horkheimer – e demistificator»e.Insomma, il suo non è pessimismo ma «teoria critica», e quindi la vergogna nei suoi scritti è «progressista, apre a una speranza possibile».

«Kafka è uno dei pochi autori a poter “vantare” il fatto di esser diventato un aggettivo, “kafkiano” – ha detto l’autore -, che richiama un’oppressione assurda operata da un potere contro il quale è difficile ribellarsi». Un aggettivazione, quindi, che richiama «un’assenza di speranza, una resa al mondo così com’è». Ma quest’aspetto, pur presente, per Sferrazza Papa «non esaurisce l’opera di Kafka»: vi è in lui, infatti, «un moto di rivalsa nei confronti del potere, un’istanza critica», soprattutto ne Il processo. È, infatti, «attraverso la vergogna che Kafka attacca il potere». Quella vergogna che, nella nota Lettera al padre (mai recapitata al destinatario) è «effetto di una strutturale incapacità del figlio a rispondere alle aspettative del padre, quest’ultimo simbolo della legge e del potere come struttura colpevolizzante». Ne Il processo è «come se la vita non potesse non essere di per sé colpevole». Il tribunale segreto che giudica il protagonista, per l’autore «ricorda la Santa Vehme», tribunale nato nella Germania medievale, parallelo a quello ordinario e che «si autoattribuiva la facoltà di condannare a morte persone sfuggite al sistema giudiziario ordinario».

Insomma, «Kafka non è come normalmente si pensa un narratore dell’assurdo ma anzi un iperrealista: egli sa, infatti, che esiste una razionalità nascosta, occulta».

Ed è proprio nella scena finale del Processo che si accenna a questa vergogna che sembra dover «sopravvivere» al protagonista Josef K., poco prima che questi venga giustiziato. In Kafka, dunque, la vergogna «ha un valore dialettico»: da una parte, c’è la vergogna «passiva, che chiude in sé stessi», cioè quella «davanti agli altri, causata dal loro sguardo giudicante»; dall’altra, esiste la vergogna «attiva, che trasforma il mondo», quella «per gli altri», cioè il vergognarsi di ciò che gli altri dicono o compiono. Quella di cui si accenna nel finale del romanzo è questo secondo tipo di vergogna, forse da attribuire a quella misteriosa figura umana che si sporge dalla finestra di fronte. La finestra, certo, già di per sé «simbolo di un oltre, di un’apertura verso qualcun altro, apertura che squarcia il reale inteso come mera manifestazione,  apertura a un altrove». Finestra, quindi, come simbolo di «un interessarsi al mondo, di un affacciarsi al mondo per partecipare alla realtà, senza isolarsi». Simbolo, insomma, «di emancipazione, di solidarietà», richiamo all’esistenza di un testimone che può testimoniare. Testimone attivo «che è – che può essere – ogni persona che legge il romanzo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

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Corresponsabilità, stile essenziale dell’essere cristiani oggi

18 Ott


Prolusione del nostro Vescovo per l’inizio del nuovo anno della Scuola diocesana di teologia per laici

di Andrea Musacci 

Lo scorso 7 ottobre a Casa Cini, Ferrara, ha preso avvio il nuovo anno della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Come da tradizione, è stato il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego il protagonista della prima lezione, intervenendo sul tema della corresponsabilità.

Circa 230 i partecipanti tra i presenti in sala (una 50ina) e i collegati on line.

«La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva» (At 4, 32-35): mons. Perego ha preso le mosse da questo passo degli Atti degli Apostoli per introdurre il tema della corresponsabilità che – ha esordito – «deve avere sempre al centro la missione», non essendo «una mera dinamica organizzativa». E ciò che contano, oltre all’amicizia nel Signore, «sono i processi decisionali e la costruzione condivisa dell’intero processo decisionale». Partendo dalla Lumen gentium e poi in particolare con Evangelii gaudium, da sempre nella Chiesa è centrale questo rapporto tra missione e corresponsabilità: «ognuno di noi in quanto battezzato è chiamato a evangelizzare, ma anche a farsi evangelizzare dagli altri». L’idea dev’essere sempre quella di «Chiesa-comunione, non di una Chiesa gerarchica». Da qui, l’idea del ministero al suo interno da intendere come «servizio» e non come privilegio e l’Eucarestia come «ciò che fa la Chiesa», quindi «la Celebrazione eucaristica come comunione». La corresponsabilità, poi – ha proseguito -, «non significa livellamento ma anzi valorizzazione delle diversità all’interno delle comunità ecclesiali», e «non può essere ridotta alla sola ministerialità».

Proseguendo, l’Arcivescovo ha riflettuto su come un primo ambito dove esercitare la corresponsabilità sia la liturgia, «rimettendo al centro il protagonismo di tutti, la partecipazione attiva di ogni fedele nell’assemblea celebrante». Un altro ambito è quello della catechesi, essenziale affinché «i cammini spirituali siano intrecciati alla vita umana e ai suoi aspetti più importanti». I laici possono svolgere un ruolo significativo «nell’evitare che la catechesi si riduca alla preparazione ai sacramenti, e invece sia permanente, per ogni fascia d’età». Il fine è sempre lo stesso: «che ognuno riscopra la fede, una fede viva, sempre rincominciando». La corresponsabilità è possibile viverla anche nella carità – ha proseguito il Vescovo -, che «non dev’essere schiacciata sull’assistenzialismo ma fondata sulla relazione e legata alla giustizia, perché esca dallo stagno dell’abitudine e abbia sempre più uno sguardo glocal» (sia – cioè – rivolta tanto ai vicini quanto ai lontani). Corresponsabili, poi, è importante esserlo anche nei Consigli pastorali e in quelli per gli affari economici delle nostre parrocchie e Unità pastorali. È importante che si arrivi a «una maturazione del consenso ecclesiale attraverso anche un rinnovamento delle forme partecipative e degli organismi decisionali». Ed è decisivo comprendere come «tutte le responsabilità non debbano essere a carico del parroco» e che, ad esempio, «alcune parrocchie o UP- quelle più grandi – possono dotarsi di un economo laico, come avviene a livello diocesano». E magari coinvolgendo in questo ruolo «persone finora escluse da altri incarichi o ministeri».

Continuando a riflettere sulle forme e le implicazioni della corresponsabilità, mons. Perego ha spiegato come sia uno stile che riguardi in maniera particolare le donne, «che già sono in maggioranza tra i fedeli che partecipano alla Messa, fra i catechisti e i volontari nell’ambito della carità». È dunque sempre più importante «dar loro maggiori responsabilità negli ambiti decisionali, a livello di leadership, ad esempio in determinati incarichi amministrativi (la maggior parte degli economi nelle Diocesi italiane sono già donne) o nella sfera della pastorale familiare-genitoriale». «Non si tratta di rivendicare potere per le donne, ma di creare una Chiesa giusta, evangelica, corresponsabile». Corresponsabilità che, inoltre, i laici sono chiamati a vivere anche al di fuori dell’ambito ecclesiale, impegnandosi in modi differenti in politica, «per la costruzione del bene comune». In conclusione, per il Vescovo «essere corresponsabili non significa spartirsi il potere ma mettere al centro «il servizio all’unica missione, quella dell’annuncio del Vangelo, per il presente e il futuro delle nostre comunità».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025

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Sari Bashi e l’amore possibile tra un’israeliana e un palestinese

16 Ott


La scrittrice il 12 ottobre ha presentato il suo romanzo al MEIS di Ferrara

Mentre scriviamo questo articolo, è da poco avvenuta la liberazione degli ostaggi israeliani da due anni nelle mani di Hamas. L’annuale rassegna letteraria “Il Libro Ebraico”, svoltasi dal 9 al 12 ottobre al MEIS di Ferrara sul tema “Un futuro da scrivere 2025” è stata quindi vissuta in un clima di speranza per la possibile fine del conflitto tra Israele e Hamas. 

Rassegna che si è conclusa domenica 12 con la presentazione del libro “Maqluba. Amore capovolto” di Sari Bashi (tradotto in italiano nel marzo 2025, e uscito per Voland ed.). Con l’autrice han dialogato Emanuele Ottolenghi (politologo e saggista), Maria Chiara Rioli (UniMoRe) e Claudio Vercelli (storico), moderati dal Direttore MEIS Amedeo Spagnoletto.

Sari Bashi è un’avvocata per i diritti umani israeliana, in passato dirigente di Human Rights Watch in Palestina e nel 2005 ha fondato Ghishà, organizzazione per i diritti umani e la libertà di movimento che fornisce assistenza legale a persone palestinesi, soprattutto di Gaza. È anche un’atleta e detiene il record israeliano femminile di ultramaratona (216 km). “Maqluba. Amore capovolto”, suo primo romanzo, ha vinto nel 2021 il premio del Ministero israeliano della Cultura come miglior esordio. Oggi Bashi vive in Cisgiordania con Osama, il suo compagno, palestinese di Gaza, e i loro due figli. Il libro – scritto prima del 7 ottobre 2023 – racconta proprio la storia d’amore di Sari e del suo compagno, professore universitario originario di Gaza.

«Nel libro c’è un gioco di identificazione ma anche di separazione, un’ambivalenza – questa – tipica delle storie d’amore ma qui ancora più forte vista la difficoltà di trovare un’identità non cristalizzata in rigidi convincimenti», è stato il commento di Vercelli al testo.

«Là fuori, oltre ciò che è giusto e sbagliato esiste un campo immenso: ci incontreremo lì»: questo, un passaggio del romanzo. Un oltre come immagine della suprema libertà, quella così agognata tanto da Sari quanto da Osama, «entrambi innamorati del mare e della corsa. Correre che è per me – ha spiegato Bashi – un modo di cimentarmi con diverse identità, oltrepassando diversi confini». Il 7 ottobre – ha proseguito l’autrice «è stato un crimine contro l’umanità e la guerra che ne è seguita qualcosa che si avvicina al genocidio». Ma «dopo due anni terribili, oggi sono animata da grandissima speranza.Spero che anche i miei suoceri palestinesi possano tornare a casa, come gli ostaggi israeliani. Per me il conflitto tra israeliani e palestinesi non è – come per alcuni commentatori – qualcosa presente da sempre, ma è causato principalmente dal sistema di oppressione (israeliano, ndr) che occupa uno spazio non suo e tratta alcune persone in maniera differente. Sistema, questo, causato dalla colonizzazione europea iniziata nel 1948».

In particolare dal 7 ottobre 2023 – sono ancora parole di Bashi a Ferrara – le parole vengono troppo spesso usate in modo polarizzante». Ma è possibile un modo diverso di approcciarsi: l’esempio che fa è innanzitutto quello di suo padre, «originario di una comunità ebraica in Iraq lì presente per secoli». O «dei miei figli che possono iniziare una frase in arabo, continuarla in inglese e finirla in ebraico». Insomma, le identità possono essere trasformate, l’incontro è possibile. «Spero che il mio libro possa permettere agli israeliani di  conoscere meglio il mondo di Osama e – se e quando sarà tradotto in arabo – di far conoscere meglio agli arabi il mondo ebraico. Vedo – ha poi concluso – una leadership dal basso sia tra i giovani israeliani sia tra i giovani palestinesi.Sono ottimista».

Meno lo è Ottolenghi: «nel libro le identità si incontrano ma nella realtà sono molto forti e antiche e davvero quasi impossibile modificarle. Nel mondo musulmano mediorientale le minoranze sono sempre state sottomesse alla maggioranza: il nazionalismo arabo non ha mai considerato, e non considera, gli ebrei come parte della loro società. È l’effetto di un antisemitismo moderno che si ispirava e si ispira a quello europeo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025

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Casa, diritto negato: se i ricchi si mangiano tutto

9 Ott


Sarah Gainsforth a Ferrara per Internazionale ha presentato il suo libro “L’Italia senza casa”

Un sistema di dominio e di estrazione di valore che rende sempre più le nostre città spazi di passaggio per i più ricchi, espellendo le famiglie e i residenti storici. È questa la lucida analisi proposta da Sarah Gainsforth, giornalista e ricercatrice, che lo scorso 3 ottobre a Ferrara (Aula Magna Facoltà di Economia) ha presentato il suo ultimo libro, “L’Italia senza casa” (Ed. Laterza, 2025). L’autrice ha dialogato con Romeo Farinella (Urbanista di UniFe) e Diego Carrara, fino ad alcune settimane fa Direttore di ACER Ferrara.

«L’Italia è piena di case, ma molte di queste sono vuote, non sono abitabili», ha detto Farinella. «Gran parte degli italiani non hanno, quindi, diritto alla casa». «Sono stimati fra i 70mila e i 100mila gli alloggi vuoti nel nostro Paese», ha aggiunto poi Carrara. Alloggi che dovrebbero essere riqualificati, ma che vengono lasciati a se stessi, perché «mancano investimenti pubblici» (tradotto: perché il pubblico decide di non investire in questo ambito). In Emilia-Romagna gli alloggi pubblici sono 56mila, di cui 5mila vuoti (quelli vuoti sono il doppio nella sola Milano). Ma nella nostra Regione sono ben 30mila i nuclei familiari presenti nelle graduatorie pubbliche in attesa di un alloggio (a livello nazionale sono 350-450mila le famiglie che attendono).

Nel capitalismo contemporaneo «il valore non viene nemmeno più prodotto ma estratto», ha spiegato Gainsforth . Estrazione del valore dal suolo – per speculare a livello immobiliare – che è «un atto di violenza», e «così è sempre stato, dall’impero coloniale britannico fino a oggi, come avverrà a Gaza quale conseguenza della guerra in corso». In Italia, nel secondo dopoguerra vi era stato un periodo di politiche pubbliche atte a regolare la rendita.Politiche pubbliche presenti ancora, ma che «oggi favoriscono processi di privatizzazione dell’ambito immobiliare», iniziati negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Tutto ciò per favorire quella produzione di valore di cui si è accennato, attraverso l’attività edilizia e grazie ai cambi di destinazione d’uso (da agricolo ad abitativo, perlopiù). Forma di speculazione immobiliare dominante negli ultimi anni è quella legata al turismo, divenuto nel tempo «lo strumento principale di estrazione di valore d’uso dal suolo», affittando sempre più alloggi a turisti (quindi per periodi brevi) e non a singoli o famiglie che vogliono risiedere. Questo rent gap porta alla cosiddetta gentrification, vale a dire alla trasformazione delle città con la sostituzione dei ceti medi e popolari con ceti con redditi più alti.

«Soprattutto negli ultimi 5 anni – ha proseguito Gainsforth -, anche in Italia abbiamo assistito a questo fenomeno – in crescita -, che vede un target sempre più ristretto: prima gli studenti, poi i turisti, ora i ricchi stranieri». Dagli affitti brevi a quelli medi. Gainsforth nell’ultimo numero della rivista Jacobin Italia (n. 28 – autunno 2025) spiega quindi come «gli affitti medi [alcuni mesi o un anno, ndr], intermediati da piattaforme digitali, sono in crescita e stanno monopolizzando il mercato delle locazioni». E scrive ancora: «Le case diventano più care, sempre più quartieri un tempo popolari diventano inaccessibili a residenti stabili, mentre coworking, caffè e palestre boutique sostituiscono negozi, asili e altri servizi tradizionali. La nuova offerta di abitare di medio periodo si intreccia con una domanda, anch’essa in crescita, composta da profili come nomadi digitali o expat temporanei, spesso con alto potere d’acquisto».

Così, la città diventa «una macchina di accrescimento della ricchezza privata, e naturalmente per pochi. Oggi – soprattutto in Italia – col dogma della proprietà privata è impensabile immaginare che il pubblico sia il proprietario del suolo (fenomeno che invece avviene ad esempio in Austria e in Olanda) ed è quindi impensabile proporre una riforma del catasto». Ma l’assolutizzazione della proprietà privata così intesa «non difende dalla povertà, non difende il diritto al lavoro né quello alla casa», ha aggiunto l’autrice. «Nelle città vediamo una sempre maggiore polarizzazione: i ricchi/molto ricchi e i poveri (i senzatetto)», dato che la gentrification sposta sempre più le fasce medio-basse fuori dalla città.

C’è quindi bisogno – ha detto Gainsforth – di «ripoliticizzare il tema della casa», di difenderlo come «diritto non privato ma di tutti». E una possibile soluzione – ha concluso – potrebbe essere quella di «rivalutare la forma cooperativa di proprietà».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 ottobre 2025

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Foto: SevenStorm Juhaszimrus (Pexels)

Edith Bruck a Ferrara: «Il mio cuore è una porta santa: non odio nessuno»

7 Ott

La scrittrice ebrea ungherese, 94 anni, sopravvissuta ad Auschwitz e ad altri campi di sterminio nazisti, si è collegata con Ferrara dalla sua casa a Roma per il festival “MENS-A”. «Uccidere è anche sempre un suicidio e l’odio non ha limite: anche per questo fino all’ultimo andrò nelle scuole a raccontare ai giovani cos’è stata la Shoah». E poi: «laPalestina deve avere uno Stato ma oggi odiare Israele è diventato una moda»

di Andrea Musacci

Il dolore sempre vivo per l’orrore visto e vissuto nei campi di concentramento nazisti.Il dolore e l’amarezza per il conflitto Israele-Hamas. E la commozione nel ricordo del marito Nelo Risi. È stata una mezz’ora particolarmente intensa quella vissuta nel pomeriggio dello scorso 2 ottobre nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara in compagnia di Edith Bruck, scrittrice, poetessa, regista e testimone della Shoah, collegatasi in video dalla sua casa di Roma. Occasione, l’incontro “Visione e ricordo del mondo”, parte del festival di arte, filosofia e letteratura “MENS-A 2025” che si svolge in diverse città. L’incontro ha visto i saluti di Chiara Scaramagli (Assessora Comune di Ferrara) e di Marco Bresadola (Direttore Dipartimento Scienze Umane, UniFe). A seguire, l’interessante riflessione di Antonino Falduto (docente di Filosofia Morale, UniFe) sul tema dell’incontro.E quindi il video collegamento con Edith Bruck, intervistata dalla Direttrice scientifica Beatrice Balsamo.

PRIMA DELL’ITALIA

Edith Steinschreiber (poi Bruck dal cognome acquisito in Israele dal secondo marito sposato per evitare il servizio militare obbligatorio), nasce nel 1931 a Tiszabercel, e cresce a Tiszakarád, piccolo villaggio ungherese ai confini con la Slovacchia. È l’ultima dei sei figli di una povera famiglia ebraica. Conosce, fin dall’infanzia, l’ostilità e le discriminazioni che nel suo Paese, come nel resto d’Europa, investono gli ebrei. Nella primavera del ’44 dal ghetto di Sátoraljaújhely viene deportata ad Auschwitz e poi in altri campi tedeschi: Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt e, infine, Bergen-Belsen, dove verrà liberata, insieme alla sorella, nell’aprile del 1945. Non faranno ritorno invece  la madre, il padre, un fratello e altri familiari. Dopo la liberazione da parte degli anglo-americani tenta il rientro in Ungheria, nella sua casa.Ma le difficoltà non sono finite con la guerra. Nel 1946 raggiunge quindi in Cecoslovacchia una delle sue sorelle maggiori, salvate da Perlasca a Budapest, ma il tentativo di ricongiungimento fallisce. Nel settembre del 1948 si reca in Israele ma nel 1954 – impossibilitata ad inserirsi e a riconoscersi nella situazione segnata da conflitti e tensioni – giunge in Italia  stabilendosi a Roma, dove ancora oggi risiede.

UNA POZZANGHERA DI BENE

«La memoria non è mai solamente storia autobiografica, privata ma anche storia della propria epoca»: così ha esordito Bruck nel suo intervento a Ferrara. «Dopo la liberazione del campo di Auschwitz – ha raccontato – sono tornata ma nessuno voleva ascoltare ciò che avevo da raccontare.Io però ero gonfia di parole.Ho iniziato quindi a dirmi: “allora userò la carta per esprimermi…”.Così ho iniziato a scrivere. Il primo libro l’ho scritto in Ungheria ma poi sono venuta a vivere in Italia e qui l’ho concluso. È stato pubblicato nel 1959. Da allora non ho mai smesso di scrivere. E Bruck ha annunciato come a breve (il 14 ottobre, per la precisione) uscirà per La nave di Teseo il suo nuovo romanzo L’amica tedesca.

«Non sono nemmeno in grado di dire tutto il male che ho visto e ho vissuto sulla mia pelle», ha proseguito. «Da oltre 60 anni vado nelle scuole per raccontare. Sono sempre grata ai tanti ragazzi che mi ascoltano. Bisogna raccontare loro queste cose, per il loro bene, per il loro futuro, per cercare minimamente di migliorare il mondo». Papa Francesco mi disse: “è importante anche solo una goccia di bene in questo mare nero…”. Beh, io penso di aver fatto una pozzanghera!». E citando il Giubileo ha aggiunto: «il mio cuore è una porta santa, che non odia nessuno. L’odio, infatti, è sempre un boomerang: se odi sei sempre teso, arrabbiato.Io invece sono sempre serena, ma non indifferente». Purtroppo – è la sua amara riflessione – «la xenofobia ci sarà sempre, cioè ci sarà sempre qualcuno che non riconosce l’altro come altro da sé, nella sua diversità. Ma non esistono vite di serie A e vite di serie B. Possiamo imparare molto da chi è diverso da noi, possiamo sempre uscirne arricchiti dall’incontro con l’altro».

IL DRAMMA DI GAZA

Le domande di Balsamo sono poi andate sul conflitto in corso a Gaza: «sono molto triste, preoccupata, desolata», è stato il commento di Bruck. «Provo molto dolore e non so come si possa uscirne.Non ci sarà pace finché accanto alloStato di Israele non ci sarà lo Stato di Palestina. Purtroppo l’odio cresce e non sappiamo bene come curare questa malattia. Ma ognuno di noi può fare qualcosa, anche se poco». Riguardo al piano di pace proposto da Trump ha aggiunto: «magari venisse concretizzato, ma non ci credo molto, dato che c’è sempre qualcuno contrario…». In questo caso, i terroristi di Hamas. Rispondendo a una domanda dal pubblico, ha poi così commentato l’azione della Global Sumud Flotilla: «Spero non ci siano danni e che riescano a consegnare il cibo ma – ha aggiunto – oggi purtroppo va molto di moda odiare Israele.Israele, invece, ha tutto il diritto di esistere, come lo ha la Palestina.Non so come e quando ci si arriverà, ma spero si arrivi a “due popoli e due Stati”». «Nel mondo, però – ha proseguito – sono in corso oltre 50 guerre ma noi pensiamo solo a quelle vicine a noi. L’uomo non riesce a far altro che a suicidarsi, perché più si uccide più si muore dentro. L’uomo è nemico di sé stesso. Sembra che la vita non abbia il grande valore che invece ha».

«AMARE È CURARE CHI SI AMA, SEMPRE»

Un’altra domanda a Bruck proveniente dal numeroso pubblico presente è stata quella rivolta da un ragazzo, Lamberto, di 19 anni: «ci dia un consiglio su come oggi poter ricordare e raccontare la tragedia della Shoah». «Non saprei ma spesso nelle scuole viene insegnata male e in generale se ne parla troppo poco. Io la racconto per difendere i giovani, perché non capiti più. E – come disse Primo Levi – la possiamo raccontare mille volte ma non potrà mai essere del tutto compresa. Ho paura non per me ma per il domani: l’odio non ha limite». Infine, una domanda sul tema dei femminicidi e dell’amore di coppia: «l’amore – ha commentato Bruck – è la migliore medicina che ci può essere.Significa stare vicini a una persona con tutto sé stesso. Per dieci anni – ha raccontato con commozione – ho assistito mio marito (Nelo Risi, poeta e regista, morto nel 2015, ndr) malato di Alzheimer: sono stati gli anni più belli della mia vita, perché non mi sono mai sentita così indispensabile. In quei lunghi anni, è come se lo avessi messo al mondo ogni giorno.Questo è amare: prendersi cura della persona che si ama, fino all’ultimo respiro». Qui la sua voce si spezza, ma riprende subito: «è importante assistere i vecchi, ed è importante soprattutto assisterli a casa, non in una struttura. E forse ho questa attenzione verso gli anziani anche perché i  miei genitori non li ho potuti vedere invecchiare, essendo morti a 48 anni ad Auschwitz».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 ottobre 2025

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