Tag Archives: Missionari

Ferrara terra di missione: i giovani brasiliani in Diocesi si raccontano

5 Nov

Abbiamo incontrato i quattro missionari provenienti da Parauapebas, per tre mesi presenti tra il bondenese e Ferrara grazie a don Roberto Sibani: ecco come svolgono il loro servizio, tra visite alle famiglie e Mercatino solidale a San Paolo

di Andrea Musacci

Sabato 8 novembre alle ore 18 nel centro di Ferrara avrà luogo una Celebrazione Eucaristica particolare: nel Chiostro grande di San Paolo (con, per l’occasione, ingresso da via Boccaleone, 13), vi sarà infatti una Santa Messa interamente in lingua portoghese. Questa Messa verrà celebrata nell’area del “Mercatino della Fantasia” (giunto alla 26esima edizione), presente fino al 17 novembre per finanziare il 72° Progetto per Parauapebas, in Brasile: per la precisione, si tratta di aiutare il finanziamento del Centro Comunitario Parrocchiale “Lorena Lima”, un Centro educativo per la nonviolenza. Promotore della Messa, del Mercatino e del progetto solidale “Cammino di Fraternità” (che compie 30 anni) è don Roberto Sibani, parroco di Pilastri e Burana. Il Mercatino è aperto tutti i giorni dalle ore 9 alle 18 (domenica e festivi dalle 14.30 alle 18). Al Mercatino don Sibani è aiutato da diversi volontari, fra cui i quattro nuovi giovani missionari, arrivati a Pilastri da Parauapebas lo scorso 10 settembre e che rimarranno nella nostra Diocesi fino al 6 dicembre: Renan Furtado de Sousa, 33 anni; Milena Silva Souza, 21 anni; Viviane de Sousa, 32 anni; Dhayllana Alícia, 22 anni. Prima di presentarveli e di raccontarvi la chiacchierata che abbiamo avuto con loro, vi ricordiamo che anche quest’estate don Sibani è stato a Parauapebas per il suo annuale periodo missionario. Un momento particolarmente significativo si è svolto il 7 agosto nel Plenarinho della Camera Municipale di Parauapebas, con la cerimonia solenne per consegnare a don Sibani il titolo di Cittadino Onorario di Parauapebas.

CHI SONO I NUOVI MISSIONARI 

Renan Furtado de Sousa ha 33 anni, è nato a Osasco – San Paolo, e all’età di 11 anni si è trasferito con la famiglia a Parauapebas, dove vive ancora oggi con la madre e la sorella. Ha anche un fratello, Diego. «Ho iniziato a servire nella Chiesa a 8 anni come chierichetto – ci spiega -, ruolo che ho svolto fino al raggiungimento della maggiore età. In seguito sono stato catechista per i gruppi della Prima Comunione e della Cresima, coordinatore dei chierichetti, e ho fatto parte del coordinamento dei gruppi giovanili Segue-me (Seguimi, per 20-30enni) e Escalada (Scalata, per età 12-16 anni). Attualmente faccio parte della parrocchia di San Sebastiano, dove sono coordinatore della Pastorale della Comunicazione e canto durante la  Messa. Infatti, a un certo punto del mio percorso, ho scoperto di avere il dono di poter lodare Dio anche attraverso il canto. E canto anche professionalmente in cerimonie religiose come matrimoni, battesimi. Prima di venire in missione in Italia – prosegue -, ho lavorato come assistente in un centro che si prende cura di persone con disabilità, e sto concludendo il corso di Educazione Fisica e presto sarò insegnante nell’area. Ho già partecipato a questa missione nella vostra Diocesi nel 2016, insieme a Fabiana, Jordânia e Andreia».

Milena Silva Souza, 21 anni, nata a Goianésia do Pará, vive a Parauapebas e frequenta la parrocchia di San Francesco d’Assisi, nella Diocesi di Marabá. «Sono aspirante alla vita religiosa nella congregazione delle Figlie della Divina Carità», ci racconta: «è un periodo che dura due anni, ho iniziato nel febbraio 2024; e nella mia comunità religiosa viviamo in quattro: suor Joseana, suor Ana Maria, suor Salete e io. Le ho conosciute tramite un incontro vocazionale alla quale ero stata invitata e che per me è stato decisivo. Mia madre è cattolica, mentre mio padre è evangelico, e ho due sorelle. In parrocchia canto, suono la chitarra, faccio parte del coordinamento parrocchiale della pastorale giovanile e frequento anche il corso di teologia pastorale. Ho iniziato a fare la catechista all’età di 15 anni. Durante la settimana partecipo agli studi interni di formazione religiosa e seguo le lezioni di musica: ho imparato a suonare la chitarra durante il lockdown nella pandemia da Covid, tramite alcuni corsi su You Tube». Altro momento per lei importante nel suo cammino è stato, nel 2024, «la partecipazione a una settimana missionaria di giovani (eravamo circa 250) in Amazzonia, andando in diverse parrocchie e a trovare le persone e le famiglie nelle loro case».

Viviane de Sousa, 33 anni, originaria di Breu Branco, nello stato del Pará, vive a Parauapebas col fratello la sorella la nipote e suo figlio adottivo Zac Manuel. «Vengo da una famiglia cattolica, ma sono cresciuta in un’altra famiglia che mi fece frequentare la Chiesa avventista del settimo giorno. Poi a 11 anni sono tornata nella Chiesa Cattolica, ma frequentando raramente e con poca convinzione: solo all’età di 25 anni ho fatto la prima comunione e la cresima, e ho seguito il corso vocazionale col gruppo Seguimi (v. sopra, ndr), di cui faccio ancora parte. Il mio cammino di fede – ci spiega – continua e cresce ogni giorno e anche questa missione è una tappa importante di questo percorso e al tempo stesso una conferma del fatto che ho intrapreso la giusta strada. So che questa missione sarà un tempo di grande apprendimento, rafforzamento della fede e crescita spirituale. Con gioia, metto la mia vita al servizio del Vangelo, confidando che Dio continuerà a guidare ogni passo di questo cammino».

Dhayllana Alícia, 22 anni, originaria della città di São Pedro da Água Branca (MA), vive a Parauapebas con la madre e il fratello. «Faccio parte della Comunità San Benedetto, della Parrocchia di Cristo Re, dove svolgo diversi servizi pastorali: sono Coordinatrice della Pastorale Giovanile e dei chierichetti; membro dell’équipe liturgica, soprattutto come lettrice; membro della Pastorale della Comunicazione, con attività nella radio parrocchiale; vice-coordinatrice del Consiglio della Comunità. Per me, servire nella Chiesa è una missione di vita, un gesto profondo di amore verso Dio e il prossimo. Sono molto felice di partecipare a questa missione in Italia, dove sto conoscendo da vicino la realtà delle parrocchie e del popolo che cammina insieme a don Roberto».

LA MISSIONE NEL BONDENESE

A Pilastri e Burana, infatti, i quattro missionari fanno animazione nelle Messe, hanno guidato le serate spirituali in occasione della festa di San Matteo Apostolo, patrono di Pilastri (15-19 settembre): «in queste cinque serate – dividendo Pilastri in cinque zone, ci spiega don Sibani – è stata fatta l’esposizione Eucaristica, i quattro missionari sono andati casa per casa per  annunciare l’arrivo di Gesù e invitare all’Adorazione eucaristica e alla preghiera la sera, ogni volta accolti in un luogo diverso. «Questi stessi incontri preliminari di invito – ci spiegano i quattro brasiliani -, ci han permesso di entrare nelle case di molte persone, e quindi di poter conoscere famiglie, anziani, persone malate». A Vigarano Mainarda, Vigarano Pieve e Salvatonica i missionari hanno incontrato i bimbi del catechismo. Le domeniche 9 e 16 novembre saranno, invece, nella zona di Bondeno, mentre la scorsa Giornata Missionaria Mondiale (19 ottobre) sono stati a Gavello e Scortichino e lo scorso 14 ottobre hanno animato la Veglia missionaria nella chiesa di Pilastri per le quattro parrocchie dell’UP “Madonna Pellegrina”. E ancora, sono in programma “I giorni della fraternità” con le famiglie di origine marocchina a Burana e a Pilastri: don Roberto, accompagnato dai quattro missionari, farà visita a ognuna di queste famiglie nei seguenti giorni: 27, 28, 29 novembre; 1, 2, 3 dicembre.

RIFLESSIONI SU FEDE E CHIESA

«Qui nel Ferrarese e più in generale in Italia a livello di fede la realtà è molto diversa rispetto al Brasile», riflette con “la Voce” Renan: «mi dà tristezza vedere che tanti giovani non vanno in chiesa e non partecipano alla vita delle comunità ecclesiali». Non è certo da oggi – infatti – che siamo diventati terra di missione… «In Brasile, però – prosegue – la Chiesa evangelica è in continua crescita: se dovessimo interrompere la missione fra la nostra gente, fra qualche anno ci ritroveremmo in Brasile con le chiese vuote…». «Io però – ci spiega Viviane – ho conosciuto alcuni giovani che dopo un cammino personale e comunitario, da evangelici sono diventati cattolici». «La forma di predicazione degli evangelici è più attraente, organizzano più iniziative in particolare per i giovani, come la discoteca», riprende Renan. «Noi cattolici non dovremmo fare questo ma organizzare più ritiri e più incontri spirituali per attirare i giovani, momenti nei quali poter unire la predicazione, la preghiera e la formazione sulle fondamenta della nostra fede e della nostra Chiesa». Una sfida enorme, che interpella anche noi qui in Italia.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 novembre 2025

Abbònati qui!

«La passione per Cristo sempre lo accompagnava»

25 Ott

Padre Silvio Turazzi: pomeriggio di riflessioni e testimonianze su questo «grande uomo di Dio», che nella gioia ha riscoperto «il crudo del Vangelo»

Emozionante pomeriggio quello dello scorso18 ottobre a Casa Cini, Ferrara, per la presentazione del volume “Missionis Gaudium. La gioia del Vangelo” (Quaderni CEDOC SFR, 55), raccolta di scritti di padre Silvio Turazzi, missionario saveriano, deceduto nel 2022. La relazione centrale è spettata a don Andrea Zerbini (Direttore CEDOC SFR ed ex Direttore Ufficio Missionario Diocesano), che ha raccolto e ordinato in vari capitoli la maggior parte degli scritti di padre Silvio in questo libro. L’incontro è stato introdotto e moderato da Roberto Alberti, Direttore del nostro Centro Missionario diocesano.

Padre Armando Coletto, Rettore deiSaveriani di Parma ed ex missionario ha spiegato come «Ferrara dev’essere grata per aver avuto una figura come padre Silvio Turazzi. Ricordo i suoi occhi profondi, il suo sguardo bello: era una persona sempre accogliente, capace di donarti qualcosa che ti rimaneva nel cuore». A seguire, mons. Massimo Manservigi ha introdotto la visione del video dedicato a padre Turazzi, con anche scene di un documentario girato nel ’98 dallo stesso mons.Manservigi a Vicomero, con stralci di intervista allo stesso padre Silvio, a sua sorella Gianna, ai suoi fratelli don Andrea e Armando, a Pierre Kabeza, attivista congolese residente a Milano, che aveva conosciuto bene padre Silvio. Quest’ultimo ha spiegato come padre Silvio abbia «veramente amato l’Africa e soprattutto il Congo.Era un congolese di fatto». Le parole di padre Silvio spiegano bene la sua spiritualità: «la Croce ci permette di scoprire le radici più profonde della nostra esistenza» e «Il Dio che io seguo è quel Dio crocifisso, che cammina con noi». «Sono stato – spiega in un altro passaggio – toccato dal Vangelo di Gesù. Il Risorto mi ha toccato e quindi ho pensato di condividere quest’incontro, non certo di fare proselitismo».

Don Andrea Zerbini ha iniziato la propria relazione riflettendo sul lato «profetico» della figura di padre Turazzi nel «mettere al centro del suo servizio i poveri», e sulla «mistica della missione»: la sua è stata «una fede ostinata e sorridente, una fedeltà innamorata», grazie alla quale è evidente «il passaggio dall’etica alla mistica, cioè dal fare-per all’essere-con». E padre Silvio «sapeva farsi compagno di strada a coloro che cercano una risposta, grazie a un forte senso della pietà e della giustizia sociale, nata – questa – proprio dal suo misticismo». Per comprendere Cristo e sapere dove trovarlo, «per lui sono sempre stati centrali il Padre Nostro e le Beatitudini».Da qui «la speranza e la gioia» in lui così accese, «la semplicità del saper essere amico, l’apertura fraterna e l’imprevedibile libertà». Il suo era – richiamando Battisti – i«l canto di un cristiano libero». Ma questa gioia – lo sappiamo – non poteva non essere sempre «imperfetta e minacciata»: «Io non so, ma Tu sai», scriveva padre Silvio, allora «la gioia è nascosta nel gemito, la vera gioia non è a buon mercato ma a caro prezzo». Nella gioia, dunque, si riscopre «il crudo del Vangelo», diceva ancora padre Silvio, che proseguiva: «il ministero di chi accompagna nel dolore più di tutti manifesta il Mistero pasquale». 

A seguire è intervenuto un altro missionario saveriano che ben aveva conosciuto padre Turazzi, padre Paolo Tovo: «con lui ho collaborato dal ’94 al 2001.Non era un navigatore solitario ma ha vissuto quel che la Chiesa viveva. Anche di fronte ad eventi dolorosi mai perdeva la mansuetudine, la sua fede profonda, la passione per la missione.Amava Teilhard de Chardin e la montagna e la sua passione per Cristo lo accompagnava sempre. Ed era un figlio del Concilio Vaticano II, grazie al quale aveva compreso che la missione è Dio, quindi che la Chiesa esiste per la missione, non il contrario», contro ogni tentazione colonialista o di porsi da parte della Chiesa come «società perfetta contro gli infedeli». Insomma, la missione «è come una mietitura, si tratta di mietere qualcosa che c’è già», non di portarlo dall’esterno:l’altro non è un ricettore passivo ma «un interlocutore, in lui la Grazia di Dio è già presente». Al tempo stesso, «si porta Cristo e Lo si scopre fra le genti».

In conclusione del pomeriggio – molto partecipato – è intervenuta Edda Colla, storica collaboratrice di padre Silvio: «sapeva farsi amare – ha detto – perché amava tanto le persone che incontrava. L’ho conosciuto nel ’66, insieme abbiamo vissuto a Roma fra i baraccati, e lavoravamo per mantenerci.Ricordo, ad esempio, quando nelle baracche di notte c’era un uomo con problemi mentali che a volte urlava: padre Silvio allora si alzava e con pazienza andava a calmarlo». A Roma era stato anche Cappellano al Centro handicappati, in servizio fra i detenuti, coi bimbi  di strada e aveva fatto campagne per la pace e contro le tasse inique. E ancora: «al Centro di riabilitazione in seguito al grave incidente da lui subito, ha potuto conoscere meglio il mondo operaio e i suoi problemi, essendo lì ricoverati anche diversi infortunati sul lavoro. Era un grande uomo di Dio, al tempo stesso con una dolcezza infinita e una grande forza e determinazione». 

L’incontro si è concluso con un breve saluto del fratello mons. Andrea Turazzi, Vescovo emerito di San Marino-Montefeltro e con la testimonianza di Luisa Flisi, missionaria fidei donum per la Diocesi di Parma, da quasi 40 anni a Goma, in Congo, dove ha conosciuto padre Silvio che – ha detto – «ha sempre amato gli ultimi, era in comunione col Padre e sempre al servizio di tutti, portando la Croce con serenità».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

Abbònati qui!

«Fra 1 anno torno in servizio a Ferrara-Comacchio»: l’annuncio di don Emanuele Zappaterra

24 Giu

Abbiamo intervistato il nostro missionario: «il 27 giugno celebrerò la Messa con Papa Leone XIV. La missione mi ha fatto uscire dalle mie sicurezze»

Quando è iniziato e quando terminerà il tuo periodo a Ferrara?

«Sono arrivato la notte del 28 maggio e ripartirò nella mattina del 2 luglio. Questa volta la mia permanenza si è prolungata per più di un mese. Un buon tempo».

Quali incontri hai fatto e farai in queste settimane in Diocesi?

«I primi sono stati con la mia famiglia, poi con i sacerdoti alla Tre giorni del clero e con l’Arcivescovo, con il quale ho avuto anche un colloquio personale. Dopodiché con le comunità parrocchiali del Gesù, del Perpetuo Soccorso che festeggia i suoi 100 anni di fondazione, con l’Unità pastorale Sant’Agostino-Corpus Domini, con Masi San Giacomo e Malborghetto di Boara. E ancora mancano le parrocchie di Rero e Tresigallo dove sarò la mattina della domenica 29 di giugno; lo stesso giorno nel pomeriggio celebreremo la Messa con la comunità latino-americana nel Santuario del Poggetto. Mentre le comunità religiose finora visitate sono quelle delle Suore della Carità e delle Carmelitane Scalze; mancano ancora le Benedettine e le Clarisse. Mi sono riservato poi il pellegrinaggio a San Pietro in Roma, in occasione del Giubileo dei sacerdoti, il giorno del Sacro Cuore, nel quale concelebrerò la Messa con il Papa Leone XIV».

Come le persone che stai incontrando qui nella nostra Diocesi percepiscono i tuoi racconti della missione? 

«Prima di tutto con stupore, soprattutto riguardo le dimensioni del territorio a me affidato e i tanti chilometri da percorrere. Poi con interesse soprattutto riguardo l’impegno missionario dei laici, che reggono le comunità delle cappelle sia dal punto di vista pastorale che amministrativo senza la presenza costante del sacerdote. Sorprende anche il continuo uscire per le strade, passare per le porte delle case con l’immagine di Maria e animare cenacoli domestici di preghiera; questo lo fanno persone adulte, giovani, adolescenti e bambini, che fin da piccoli imparano che la Chiesa è missionaria per sua natura: trovarsi in parrocchia o in comunità e uscire a evangelizzare sono le due facce della stessa medaglia».

E come invece le persone che hai conosciuto in Argentina hanno accolto la tua presenza come missionario?

«Devo dire che gli adulti erano già abituati al missionario anche perché nella parrocchia più grande, Villa Paranacito, c’erano stati missionari italiani della Consolata per molti anni e questo ha reso più facili le cose. Piccola curiosità, è un missionario della Consolata, Padre Giovanni Dutto che mi ha accompagnato nel discernimento vocazionale missionario fin dai tempi del Seminario. Poi certo, non è mancato da parte loro l’abituarsi ai miei modi da straniero, il superare gli ostacoli delle differenze culturali. Però la loro indole aperta all’accoglienza e l’eredità della storia di queste terre, con l’arrivo nei secoli passati di tanti immigrati – che, pur provenienti da diverse nazioni, hanno saputo costruire insieme una nuova società – ha fatto sì che i loro cuori mi accogliessero tanto da sentirmi uno di loro. Questo ha mosso in me un interrogativo: siamo altrettanto aperti nelle nostre comunità parrocchiali all’accoglienza di un sacerdote non italiano? Che esperienza vivono nel loro cuore i sacerdoti stranieri in servizio nella nostra Diocesi? Io devo dire che mi sento un privilegiato».

(Intervista a cura di Andrea Musacci)

(28^ testimonianza – Rubrica mensile “Un ferrarese in Argentina”)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 27 giugno 2025

Abbònati qui!

(Foto: 10 giugno 2025: Messa concelebrata a Sant’Agostino con don Zecchin in occasione del suo 30° di sacerdozio e del 30° di diaconato di don Zappaterra)

Gesuiti missionari in Paraguay: evangelizzare senza violenza

6 Dic

Il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri (con prefazione di don Andrea Zerbini) indaga, tra il 1609 e il 1768, l’opera educativa e spirituale in Sud America

Si intitola “Gesuiti e missioni in Paraguay (1609-1768). Evangelizzazione ed educazione dei guaraní” il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri, con prefazione di don Andrea Zerbini, Moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado ed ex Direttore del nostro Centro Missionario diocesano. Il libro è stato presentato lo scorso 21 novembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara e Maestri ne ha inviato copia al Santo Padre Francesco il quale, tramite la Segreteria di Stato, le ha risposto in tempi brevi con un ringraziamento e la Benedizione Apostolica. 

L’autrice è stata Cultrice della materia a UniFe, docente alle Superiori e oggi fa parte della Redazione della rivista letteraria “L’Ippogrifo”, del Direttivo del Gruppo Scrittori Ferraresi, ed è Presidente dell’Associazione di promozione sociale “Baffo John Potter”. 

AUTONOMIA E OBBEDIENZA

L’elezione a Pontefice del gesuita Jorge Mario Bergoglio – scrive nel libro – ha «incentivato ancor più il mio desiderio di rivedere e pubblicare uno studio affrontato negli anni ‘93/’94 in occasione della mia tesi di laurea in Pedagogia», relatore il prof. Carlo Pancera. Ricca la bibliografia utilizzata, con testi conservati in archivi, biblioteche e presso la Casa Madre dei Gesuiti per consultare la Litterae Annuae, lettere che i missionari da oltreoceano inviavano a Roma per la rendicontazione ai loro superiori. Di particolare importanza e utilità nel suo studio, un manoscritto spagnolo del XVIII secolo custodito presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’Exacta relación de las missiones del Paraguay, «scritta da chi ha vissuto direttamente l’esperienza e, una volta espulso dal Paraguay, è stato mandato nello Stato pontificio». Da questo studio – spiega – «è emersa una pedagogia gesuitica nella quale convivono il rigore delle regole e dell’obbedienza, l’autonomia e la flessibilità degli esercizi spirituali, voluti dal fondatore della Compagnia di Gesù Sant’Ignazio di Loyola nel 1534. Un umanesimo ignaziano in cui il missionario sa aprirsi alla popolazione indigena guaranì».

MISSIONARI, UNO STILE DIVERSO

Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo la Spagna e il Portogallo dettero avvio alla conquista e alla colonizzazione del continente americano recentemente scoperto: «da un lato – scrive Maestri – l’Europa esporta in Sud America i propri strumenti e modelli culturali, mentre dall’altro lato il contatto con il nuovo continente si traduce in occasione di sperimentazione di nuove forme di governo e di rinnovamento dell’Europa stessa». Questo processo riguarda soprattutto il Paraguay. «Alla conquista delle armi succede la conquista spirituale che, oltre al ruolo evangelizzatore, assume il compito di formulare nuovi strumenti di comunicazione e di omogeneizzazione della società indigena». I gesuiti avranno il monopolio sul Paraguay, dove daranno vita a collegi urbani, riduzioni (i nuovi villaggi creati dai missionari in cui gli indigeni vivevano in pace assieme ad altri gruppi), Università e centri di cultura, «assumendosi la tutela e la difesa degli indios dagli effetti devastanti della colonizzazione». Nelle riduzioni paraguiane «è certamente la Compagnia di Gesù che conduce il dialogo, ma il modello che esporta si coniuga con una pluralità di modelli (…). In pratica, accanto al disegno progettuale dirigisticamente perseguito, si instaura anche una sorta di processo osmotico, una dialettica tra le due culture». «Le riduzioni gesuitiche si proponevano per la trasformazione della società indigena e lavoravano per dare stabilità e continuità a questo processo», commenta don Zerbini nella Prefazione. «L’ambizione era di ricondurre un popolo bambino e indigente a una collettività urbana, strutturata come città educante capace di generare una cittadinanza laboriosa. Un nuovo modello sociale aperto all’autonomia e fondato sui diritti dell’altro (…). Ne risultò un modello poliedrico i cui elementi costitutivi erano radicati nell’umanesimo cristiano e recepivano, integrandoli, gli aspetti comunitari-collettivi mutuati dalla cultura incaica dei nativi».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024

Abbònati qui!

«Guardare con gli occhi di Dio»: padre Puccini dal Libano a Ferrara

6 Nov

Scuola, mensa e centro sanitario per aiutare i poveri a 15 km dalle bombe: il racconto del missionario nella nostra città

L’indimenticato Fabrizio De Andrè nella sua canzone “Khorakhanè (A forza di essere vento)”, dedicato al popolo Rom, parlava dell’importanza di «raccogliere in bocca il punto di vista di Dio». La necessità, dunque, di uno sguardo altro, alto, difficilissimo da assumere ma decisivo per non soccombere al male.Ed è questo che ha provato anche a trasmettere padre Damiano Puccini, missionario a Damour in Libano, dove ha fondato e dirige l’Associazione “Oui Pour La Vie – OPV “. Padre Puccini è intervenuto la sera del 30 ottobre scorso – alla fine quindi, del Mese missionario – nella chiesa diS. Maria della Consolazione, invitato da don Francesco Viali, parroco di Santo Spirito (la Consolazione fa parte della stessa Zona pastorale) e in collaborazione con la vicina parrocchia del Perpetuo Soccorso, guidata da don Roberto Solera e dal vicario don Nicola Gottardi.

CONVIVERE OLTRE I CONFLITTI

Giovanni Paolo II nel 1989 nel suo Messaggio al Libano, lo definì «un esempio di coesistenza pacifica dei suoi cittadini, sia cristiani che musulmani, sul fondamento dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto dei principi di una convivenza democratica». E ancora, riguardo invece allo specifico della posizione di grave conflitto come quello che continua a perpetuarsi in Medio Oriente, padre Puccini ha più volte citato il Patriarca di Gerusalemme, card. Pizzaballa, e la sua premura nel sottolineare più volte come «il cristiano non si schiera con l’una o l’altra parte», non per pavidità o indifferenza ma perché «se lo facesse si metterebbe automaticamente contro qualcun altro».

«Dobbiamo imparare ad ascoltare la sofferenza», ha proseguito padre Puccini sempr56e citando il card.Pizzaballa. «Un bambino che muore è sempre una cosa ingiusta, al di là della sua nazionalità. Questo è il primo grande insegnamento, da non dimenticare mai», concetto espresso dal Patriarca anche nell’intervento in diretta dalle Clarisse di Ferrara lo scorso 1° marzo. 

Come cristiani, quindi, «dobbiamo stare nel mezzo e comprendere che per Israele il pogrom del 7 ottobre 2023 è il loro 11 settembre negli USA; dall’altra parte, quella palestinese, la nakba, il grande esodo è una ferita sempre aperta. Purtroppo, israeliani e palestinesi non riescono a intendersi nemmeno sul dolore». Per padre Puccini è dunque compito non solo dei cristiani ma «dell’Occidente non schierarsi con una parte o l’altra: l’Occidente, anzi, dovrebbe reinsegnarci a stare assieme». 

Il Libano, come detto in apertura citando San Giovanni Paolo II, può essere «un modello positivo: basti pensare al suo Parlamento, alle sue alte cariche dello Stato e ruoli nella pubblica amministrazione, assegnati equamente a cristiani, sciiti e sunniti».

FRATELLI E SORELLE NELLA SOFFERENZA E NELLA GIOIA

La missione di padre Damiano – come accennato – si trova a Damour, a metà strada tra Beirut e Sidone; una città a maggioranza cristiana e tristemente famosa per una strage nel ’76 causata dal  Movimento Nazionale Libanese con la collaborazione dell’OLP. «Qui – a 15 km dai bombardamenti – siamo l’ultima comunità cristiana rimasta», ha proseguito il missionario.«Ma la maggior parte dei media parla solo dei conflitti in corso, mentre vi sono anche tante relazioni positive, un equilibrio, una convivenza tra cristiani maroniti (che sono cattolici, ndr), ortodossi, drusi, musulmani sciiti e sunniti. Ogni morto ammazzato, fosse anche un capo di Hezbollah, è una ferita nel cuore di ogni libanese». Bisogna dunque «guardare sempre le cose col cuore, cioè con gli occhi di Dio. Noi cristiani, quindi, preghiamo il Signore che ci aiuti a non rispondere mai alla violenza con la violenza». Si tratta, quindi, per padre Damiano, oltre che di stare in mezzo, anche «di stare al di sopra» delle faide. «La nostra missione di “Oui Pour La Vie” ha realizzato a Damour una scuola, una cucina, un centro sanitario e una casa per malati di AIDS nella periferia di Beirut».Servizi più che mai necessari, soprattutto dall’inizio – 5 anni fa – della gravissima crisi economica nel Paese.

«Scopo ultimo della nostra missione – che continua ancora ora, nonostante tutto – è di far sentire che Dio c’è. Oltre a bimbi libanesi, ne ospitiamo anche di siriani e palestinesi e cerchiamo di usare con loro – e di insegnare loro – parole di amore, non di aggressione: così, cerchiamo di mostrare che Dio non li abbandona. Non è scontato – ha proseguito padre Damiano – che palestinesi e siriani, ora siano accomunati a noi come vittime, che soffrano assieme a noi: a volte, infatti, in alcuni libanesi vi è ancora la tentazione di vendicarsi dei torti passati». Ma in un mondo di forti contrapposizioni, «dobbiamo cercare di guardare come Gesù guarda ognuno dei suoi figli dalla Croce». La fede è questo, «vivere i rapporti col cuore, senza rabbia, col cuore di Gesù, quindi col sorriso.Siamo un’unica famiglia, tutti figli Suoi, fratelli e sorelle.Solo Gesù può farci sentire davvero così».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2024

Abbònati qui!

«Portiamo Cristo a chi non lo conosce»

5 Ott

André e Victor sono i due nuovi missionari brasiliani di Shalom presenti a Ferrara. Li abbiamo incontrati per farci raccontare la loro esperienza di fede e la loro missione 

Nell’estate del 2023 a Ferrara si sono trasferite cinque missionarie della Comunità Shalom, nata in Brasile nel 1982 e presente in diversi Paesi europei e non. Aline Teixeira, Sara Ponzo, Chiara Rondoletti (attuale Responsabile Comunità Shalom di Ferrara), Sheisse Góes e Rayana Soares hanno iniziato fin da subito a collaborare con la Pastorale Universitaria e Giovanile diocesana e con don Giovanni Polezzo, neo Rettore di San Giorgio fuori le Mura, per animare la vita del Santuario diocesano. Nel tempo, sono riuscite a creare un gruppo di giovani e uno di adulti che regolarmente si ritrova nell’antica Basilica fuori le Mura per serate di lode e convivialità.

Recentemente Sheisse e Aline sono tornate in Brasile, mentre le altre tre sono state raggiunte a San Giorgio da altri due giovani missionari brasiliani di Shalom:André Filipe e Victor Amorim, arrivati il primo lo scorso maggio, il secondo lo scorso marzo.

Li abbiamo incontrati per farci raccontare il loro cammino di fede.

CHI È ANDRÉ FILIPE

Originario di Recife, 28 anni,André (nella foto, a dx) a 16 anni vive la prima esperienza personale col Signore durante un incontro di “Rinnovamento Carismatico”. Da qui inizia un cammino di fede che lo porta a Shalom: «capii che questo è il mio posto», ci spiega. Dopo un percorso vocazionale, arriva a Fortaleza dove per  5 anni è impegnato nell’ambito della comunicazione (anche come filmmaker) per la sede centrale di Shalom e altri 2 nella “Scuola di evangelizzazione”.Quest’ultima esperienza, in particolare, sarà per lui fondamentale:«a due a due andavamo dal lunedì al venerdì a evangelizzare porta a porta, mentre nel fine settimana nelle piazze e in altri luoghi pubblici. Portavamo Gesù e la Sua Chiesa alle persone, non aspettavamo che fossero loro a venire da noi». Gli chiediamo quale forme di evangelizzazione stanno sperimentando a Ferrara: «qui come Shalom innanzitutto abbiamo cercato di formare un piccolo gruppo di persone», giovani e adulti. Uno degli obiettivi sarà, ad esempio, quello di aprire un luogo per gli universitari, ad esempio un’aula studio. Nel frattempo, però, «soprattutto noi due maschi che siamo qui da meno tempo, dobbiamo conoscere meglio la città e le persone che la vivono, residenti e studenti fuori sede». Per questo, «a volte la sera tutti e cinque andiamo assieme in centro o lungo la nuova Darsena, e continueremo a fare così per tutto l’anno accademico».

CHI È VICTOR AMORIM

Nato e cresciuto a Fortaleza, 30 anni, al Festival musicale cattolico “Halleluya” (che in cinque giorni proprio a Fortaleza riunisce 1 milione di persone) Victor (nella foto, a sx) ha avuto la sua prima vera esperienza di fede. Nel 2012 un ritiro spirituale nella sua parrocchia gli fa comprendere «che non era sufficiente partecipare alla Messa domenicale».Da qui «ho iniziato a sentire il bisogno di qualcosa di più profondo»: inizia a frequentare gruppi di preghiera, gruppi di giovani, a prestare servizio in parrocchia. Nel ’14 con Shalom partecipa a un “Seminario di vita nuova” e due anni dopo vive l’anno vocazionale per poi entrare nella “Comunità di vita” di Shalom. Vivrà poi per due anni e mezzo a Budapest in missione. Ora qui a Ferrara è l’economo della Comunità Shalom, mentre André si occupa della comunicazione e delle uscite per l’evangelizzazione, Rayana della formazione e della vita del Santuario (insieme a don Polezzo), e Sara dell’ambito musicale e delle relazioni con i benefattori, importanti per il loro sostentamento.

VIVERE PER GLI ALTRI

Chiediamo quindi ai due di raccontarci alcuni incontri con i giovani di Ferrara. André ci racconta di Dario, un ragazzo conosciuto al Mammut o dell’amicizia nata, anch’essa in modo spontaneo, con alcuni studenti di Medicina al Parco Pareschi. «Prima ci presentiamo, come semplici amici. Poi, se vogliono, parliamo loro di Gesù». È forse l’aspetto più bello della loro esperienza missionaria: «saremmo potuti rimanere tranquilli nelle nostre parrocchie – ci spiegano – ma abbiamo sentito il desiderio di andare a cercare altre persone per far conoscere loro Cristo». «Non c’è un senso razionale, logico in quel che facciamo – prosegue André –  non si può, cioè, spiegare del tutto. È l’Amore di Dio. Punto». Quel che gli fa uscire da sè e scegliere di dedicare la propria vita agli altri, contro la logica individualista che – oggi ancor di più – domina nel mondo.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 ottobre 2024

Abbònati qui!

Ferrara terra di missione: quattro giovani brasiliani  in servizio nel bondenese

21 Set

Gabriel, Lucas, Jacylyane e Gracieli vengono da Parauapebas e rimarranno a Pilastri e Burana fino al 30 novembre, ospiti di don Roberto Sibani, dal 1995 legato al Brasile. Li abbiamo incontrati per farci raccontare le loro storie e cosa li ha spinti a intraprendere un’esperienza così importante

di Andrea Musacci

Dopo 5 anni, le comunità di Burana e Pilastri nel bondenese tornano ad accogliere alcuni giovani missionari brasiliani: Gabriel, Lucas, Jacylyane e Gracieli sono arrivati il 6 settembre da Parauapebas e rimarranno fino al prossimo 30 novembre, ospiti di don Roberto Sibani, instancabile promotore e organizzatore del progetto solidale “Cammino di Fraternità”. Progetto iniziato nell’agosto del 2008 con l’accordo tra il Vescovo di Marabá dom José Foralosso e l’allora Arcivescovo di Ferrara-Comacchio mons. Paolo Rabitti per una presenza missionaria nel Vicariato Beato Giovanni Tavelli. Per i primi quattro anni, la presenza di tre missionari è stata di 12 mesi, ma poi, per motivi burocratici, il periodo è stato ridotto a 90 giorni. I giovani missionari, però, col tempo sono diventati quattro  (nel 2019 furono Elayne, Rosinha, Thainan e Renato). Don Sibani dal 1995 si reca ogni estate a Parauapebas (esclusi gli anni del Covid, dal 2020 al 2022). Abbiamo incontrato i quattro ragazzi presenti ora in Diocesi per farci raccontare il loro cammino di fede e il primo impatto con la realtà italiana.

Gabriel Morais, 32 anni, single (come anche gli altri tre), è un Agente Comunitario di Salute a Parauapebas. «In Brasile, sono attivo nella chiesa di Sant’Antonio della Parrocchia della Madonna del Perpetuo Soccorso, dove svolgo il servizio nel gruppo di canto suonando la chitarra nelle Messe e partecipando a un gruppo teatrale. Fin da piccolo – prosegue – facevo parte di un coro, poi ho iniziato a suonare la chitarra e a partecipare a un gruppo di giovani in parrocchia. Nel 2011 ho iniziato a seguire le lezioni di italiano grazie ai missionari che erano già stati qui in Italia. Anche da questa esperienza, è nato in me il desiderio di essere missionario nella vostra Diocesi». Per Gabriel è la seconda esperienza di questo tipo nel bondenese, essendo già venuto nel 2017 con Agda, Lorenna e Willyan. «È un’esperienza davvero bella – ci spiega – e mi aspetto sia anche diversa rispetto alla precedente. Non pensavo di poter tornare qui in Italia, le famiglie di Burana e Pilastri ci accolgono con gioia, si prendono cura di noi. E anche noi cercheremo di prenderci cura di loro». 

Lucas Reis, 27 anni, è insegnante (lavora soprattutto con bambini autistici) e ballerino. All’età di 10 anni, ha subìto la morte del padre. Oltre che in parrocchia, è attivo nel Movimento “Pastorale Giovanile”, in cui giovani evangelizzano altri giovani, soprattutto del popolo. «Qui in Italia – ci spiega – ci sono pochi bimbi e giovani rispetto al Brasile, dove partecipano anche molto alla vita della Chiesa. Spero che questa esperienza missionaria sia per me trasformativa, che rinnovi la mia fede, che mi smuova dalle mie comodità e mi faccia vedere la realtà, anche quando tornerò in Brasile, con occhi diversi». Insomma, «che mi faccia diventare una persona migliore, più umile ed empatica, per poi tornare a casa con una fede e una carità moltiplicate. Dopo la morte di mio padre – prosegue Lucas -, Dio è sempre stato al mio fianco, soprattutto quando non pensavo di farcela. Ho fede e speranza che lo rincontrerò».

Jacylyane Costa, 32 anni, lavora in un Laboratorio Ambientale come Analista di laboratorio. È attiva sia nella parrocchia (soprattutto attraverso la musica) sia nella Comunità “Buon Gesù di Nazaret”, facendo parte di “Rinnovamento nello Spirito”. «I miei genitori – ci racconta – sono stati molto importanti per la mia fede, fin da quando ero bambina. Da adolescente ho sentito nel mio cuore un forte desiderio di evangelizzare nel mio Paese: vedendo altri missionari in azione, desideravo essere missionaria lì, fra la mia gente. Ma avevo un po’ paura…e ora, addirittura, sono missionaria in Italia! È un sogno di Dio, un Suo desiderio, non solo mio». Nonostante le difficoltà con la lingua italiana, tiene a dirci: «è meraviglioso essere qui…Dio ha scelto noi per questa missione, la nostra esperienza qui è un Suo progetto. Di sicuro questi tre mesi rinnoveranno il mio cammino di fede, per rafforzarla».

Gracieli Costa, 30 anni, sorella di Jacylyane, è laureata in pedagogia e insegna ai bambini nella scuola pubblica. Anche lei fa parte della Comunità “Buon Gesù di Nazaret” e inoltre da 9 anni è Ministra Straordinaria della Parola e dell’Eucaristia. «Ci sentiamo davvero accolti qui», ci racconta. «La prima domenica, siamo stati subito invitati a pranzo da una famiglia di Pilastri». «D’ora in poi – aggiunge don Sibani – le famiglie faranno a gara per invitarli, ne son sicuro…». Un modo, questo, anche per fare compagnia a persone sole, anziani, vedove che magari per l’occasione inviteranno anche i propri figli, «ricreando così alcuni legami, un senso di comunità». E a proposito di anziani, due sabati fa i quattro missionari han fatto visita agli ospiti della Casa di riposo di Gavello. «Da piccola ero molto malata – prosegue Gracieli con commozione – ma la Madonna si è presa cura di me. Poi ho iniziato a prestare servizio nella liturgia, nella catechesi e nel gruppo di “Rinnovamento nello Spirito”. A Parauapebas sono anche guardia del gruppo “Nostra Signora di Nazareth”. In Gesù – prosegue – trovo la mia forza, in particolare quando sono in difficoltà. Non è facile essere lontani dalle nostre famiglie, dai nostri affetti ma sappiamo che Dio guarda e protegge ognuno di noi, che ci è sempre vicino. Lascio che il mio cuore bruci, per essere strumento di grazia nella vita di ogni persona, uscendo dalla zona di confort per vivere il primo comandamento, “amare Dio e il prossimo”».

Pubblicato sulla “Voce” del 20 settembre 2024

Abbònati qui!

In Congo fra miseria e speranza: «portiamo il Vangelo a chi non lo conosce»

6 Feb

In occasione della visita apostolica di Papa Francesco nel grande e martoriato Paese africano, abbiamo contattato alcuni missionari lì presenti: storie di donne e uomini al servizio degli ultimi

Suor Delia Guadagnini: «Vicino a chi ha bisogno»

«La presenza e la consolazione, questo portiamo alle persone». Ci tiene molto suor Delia (nella foto, durante la visita a una famiglia a Keba) affinché sul nostro Settimanale passi questo messaggio, elementare quanto si vuole, ma cuore della sua missione in Congo, dov’è presente dal 1989. 

Lei è suor Delia Guadagnini delle Saveriane di Maria, dal 2014 fino al maggio scorso in missione a Uvira e ora nella parrocchia di Keba, Diocesi di Kongolo, provincia di Tanganyika, nella parte meridionale del Paese vicino al confine con l’Angola. Il trasferimento è stato una conseguenza anche della chiusura della comunità delle saveriane a Luvungi, 60 km da Uvira.

Qui vive in una casetta restaurata e offerta dal capo villaggio – «piccola ma molto accogliente» – assieme a due consorelle, Elisa e Dumiel. La loro, è la prima presenza di religiose in 50 anni di parrocchia a Keba: una zona di primo annuncio, quindi. «Incontriamo persone che iniziano ora a essere toccate dal Vangelo. Ma quando siamo arrivate ci hanno accolte con un calore straordinario».

«Le nostre attività sono molto semplici, stiamo in mezzo alla gente», ci racconta. «Ci siamo date un po’ di tempo per capire quali sono i bisogni delle persone, quindi visitiamo le famiglie, gli ammalati, chiunque ne abbia necessità. Cerchiamo poi di essere presenti nelle nostre comunità cristiane di base: sto cercando ad esempio di andare in quella più lontana, una comunità che si sta sfasciando, coi giovani che se ne sono andati». In generale, prosegue suor Delia, «siamo presenti nella pastorale giovanile e nell’insegnamento di religione e di altre materie nell’unica scuola secondaria qui a Keba». Ma il centro rimane la vicinanza a chi soffre: «ci sono situazioni di sofferenza e malattia mai viste altrove», con anche malati gravi, «senza grandi speranze di avere cure appropriate. La nostra presenza è per loro fonte di consolazione».

Stare in mezzo alla gente, vicino alle persone, quindi, «condividendo il loro quotidiano, entrando nelle loro case e interessandoci ai loro problemi: questo facciamo. Siamo qui con la nostra vita per mostrare, almeno un po’, l’amore di Dio, il suo farsi vicino».

Riguardo alla visita del Papa in Congo, suor Delia ci racconta di come qui si sia passati dallo «scoraggiamento collettivo» dell’anno scorso dopo l’annullamento del viaggio, alla «grande gioia per l’annuncio della nuova data, da parte di cristiani e non: il Santo Padre – infatti – è visto non solo come autorità religiosa ma anche morale, umana e sociale, che può aiutare il nostro Paese».

I suoi giorni di permanenza nel Paese, qui la gente li ha seguiti come poteva, coi mezzi che possiede. «Anche noi abbiamo cercato di far sentire qualche suo piccolo messaggio e cercheremo di tradurli in swahili. La sua voce è stata di un po’ profetismo eccezionale».

«Pregate per il Papa e per noi – conclude suor Delia -, perché la sua visita possa trovare solchi aperti a questo seme che possa crescere e svilupparsi, perché la nostra fede sia più forte, la nostra carità più incisiva e la nostra speranza possa portare frutti di pace e di comunione. Un abbraccio a tutta la Diocesi di Ferrara-Comacchio».

Padre Rino Benzoni: «Qui grande forza vitale»

È originario di San Lorenzo di Rovetta, nel bergamasco, padre Rino Benzoni (nella foto assieme ad alcuni ragazzi in attesa del Papa), ex superiore generale dei saveriani, ora missionario nella capitale Kinshasa. 

Gli chiediamo dove si trova la sua parrocchia di San Bernardo (che guida assieme ad altri due saveriani, un burundese e un congolese): «il nostro è un quartiere centrale, Ndanu – ci spiega -, ma è come se fosse periferico, in quanto ex zona paludosa nella quale poi si è costruito ma che si inonda ad ogni pioggia». In questa zona tanta gente vive in povertà, anche estrema, la scuola, ad esempio, è a pagamento («quella di Stato è disastrosa»), e così la sanità, «con anche tanti approfittatori e ciarlatani». Questa massa di poveri, padre Rino la definisce più volte «la fascia rigettata e schiacciata dal resto della società».

I saveriani fanno quello che possono per aiutare queste persone: oltre alla pastorale ordinaria, padre Rino, ad esempio, gestisce un complesso scolastico parrocchiale (dalle Elementari alle Superiori) con 1100 alunni. «Quando capiamo che c’è estremo bisogno, veniamo incontro alle famiglie per il pagamento della retta». E poi c’è un importante Centro di formazione per il futuro clero.

La comunità cattolica qui è «grande e sviluppata», e la scorsa settimana ha partecipato con calore agli incontri col Santo Padre, lo stesso padre Rino era presente sia all’incontro coi giovani, come accompagnatore, sia a quello coi religiosi. Due momenti di particolare commozione. «La sua visita temo che non porterà a chissà cosa: il cuore dei potenti è più duro di una bomba», dice padre Rino. «Se riuscisse, però, a rimotivare la nostra Chiesa, a reindirizzarla, a parlare al cuore dei cristiani, sarebbe già molto». Sarebbe «un segno di speranza, soprattutto perché finisca la guerra col Rwanda». 

«Il nostro popolo – prosegue p. Rino riprendendo le parole dell’Arcivescovo card. Fridolin Ambongo Besungu al Papa – è sofferente, schiacciato ma coraggioso. È un popolo che sa lottare, sa lodare e celebrare». L’ultima parte della nostra telefonata è, quindi, sull’anima di questo popolo indomito, e sulla nostra perduta: «In Italia, in Occidente la società sta morendo perché non ha più vita». In Congo, invece, «manca tutto ma c’è la vita, questa gente possiede una forza vitale fondamentale per andare avanti: lo vedo nel modo che hanno di riunirsi, di lottare, di celebrare, come detto dal nostro Vescovo. Il loro ideale è quello di trasmettere la vita, mentre il nostro è il benessere. Per questo abbiamo bisogno non di messaggi di pietà ma di speranza. E il Papa ancora una volta ci ha dato un grande messaggio di speranza».

Don Davide Marcheselli: «Curiamo corpo e anima»

Don Davide Marcheselli (nella foto, assieme a due responsabili di comunità cristiane) è un sacerdote della Diocesi di Bologna che collabora con i saveriani nella guida della parrocchia dello Spirito Santo a Kitutu. Siamo nel sud Kivu, Diocesi di Uvira, una terra maledetta. Una zona difficilmente raggiungibile. 

«Le strade – ci racconta al telefono via WhatsApp – in questo periodo sono devastate dalle piogge, quindi è ancora più difficile spostarsi». La sua parrocchia – che comprende 14 comunità – è sconfinata, «si estende su una lunghezza di 100 km e una larghezza di…non saprei dire». I confini, infatti, a un certo punto scompaiono, inghiottiti dall’immensa e cupa foresta. «Non sono pochi i cattolici ma percentualmente rispetto al totale della popolazione, è non più del 15-20% a partecipare regolarmente alla Messa». Le due Celebrazioni domenicali vedono, infatti, la presenza, in tutto, di un migliaio di persone. 

Oltre alla normale, pur difficile, pastorale, don Davide insieme ai saveriani gestisce anche il progetto di un Centro sanitario a favore, in particolare, di donne incinte e bambini. «Qui c’è tantissima malaria e febbre tifoide – ci spiega -, e tantissima malnutrizione. Inoltre, stiamo aprendo una piccola sala operatoria per parti cesarei e altri piccoli interventi». Il sistema sanitario statale è poco efficiente e molto oneroso. «Fuori dalla capitale – dice con chiarezza – lo Stato non esiste».

Gli domandiamo quindi come la comunità cristiana di Kitutu ha vissuto l’attesa per l’arrivo del Papa e stia vivendo la sua permanenza in Congo. «In maniera ordinaria, nulla di particolare perché è un evento estremamente lontano» – qui siamo a oltre 2mila km dalla capitale -, «e inoltre la nostra è una comunità rurale lontana dalla comunicazione, dov’è difficile avere informazioni. Se il Papa fosse venuto a Goma» – com’era previsto per luglio scorso, nella visita poi rimandata -, magari ci sarebbe stato più interesse nelle nostre zone». 

In ogni caso, secondo don Marcheselli quella del Santo Padre «è una visita molto importante perché pone a livello globale un’attenzione al Congo e alle sue grossissime problematiche, a partire dalla guerra qui nell’est del Paese». Una guerra che don Davide non esita a definire «non civile ma d’aggressione del Rwanda nei confronti del Congo». La speranza è che questo gesto del Papa «possa portare a cambiamenti, un vento di novità, di rinvigorimento almeno nella zona occidentale del Congo. Importanti, ad esempio, sono state le parole di Francesco contro l’impoverimento del nostro Paese a causa del neocolonialismo». 

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Noi missionarie ai piedi del vulcano in eruzione»: testimonianze dal Congo

24 Mag

Luisa Flisi racconta a “La Voce” la notte di paura: «la lava si è fermata a 2 km da noi. Tante le scosse di terremoto»

Luisa Flisi e Antonina Lo Schiavo con la moglie del presidente Kabila

Due missionarie laiche, Luisa Flisi, 77 anni, originaria di Parma e Antonina Lo Schiavo, 83 anni, salernitana, vivono da oltre 30 anni in un’umile casa nel centro di Goma, capitale del Nord Kivu nell’est del Congo, a soli 20 km a sud dal vulcano Nyiragongo, uno dei più pericolosi del mondo, esploso la sera di sabato 22 maggio. «La lava – racconta Luisa a “La Voce” – si è fermata a soli 2 km da casa nostra». Distrutto il vicino villaggio di Bushara.Circa 7mila persone hanno raggiunto il Rwanda, mentre 17mila sono fuggite verso sud. In gran parte della città si è avuto un blackout elettrico. Nel 2002 un’eruzione simile ha ricoperto le piste e bloccato gli aerei dell’aeroporto di Goma, provocando 250 morti e lasciando altre 120mila persone senza un tetto. Un’altra eruzione avvenne nel 1977. Mentre siamo al telefono con Luisa, nel primo pomeriggio del giorno successivo, domenica 23, ci racconta in diretta di «diverse scosse di terremoto, alcune forti altre deboli», che proseguono quasi ininterrotte dalla mattina: «per le scosse tremano i deboli vetri della casa a un piano dove io e Antonina viviamo. Ci troviamo vicino alla vecchia Cattedrale (distrutta dall’eruzione nel 2002 e poi ricostruita, ndr), nel centro di Goma. Ieri notte abbiamo tentato anche noi di lasciare la città in macchina, ma siamo state bloccate. Volevamo raggiungere le Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù, a sud della città. È anche vero – ricorda con amarezza – che ogni volta che io e Antonina lasciamo la nostra casa, qualcuno entra per rubare. Ad esempio, nel 2002 ci hanno saccheggiato tutto».

Le due donne sono aiutate, oltre che da una signora del luogo, da una sentinella diurna e da una notturna. «Solo una stradina divide la nostra casa dalla prigione. Ieri notte i detenuti hanno tentato di fuggire – prosegue Luisa -, abbiamo sentito ripetuti colpi sparati per dissuaderli, alcune pallottole sono arrivate sul nostro tetto di lamiera. Stamattina ho chiesto di poter entrare in carcere per il mio servizio di assistenza, ma mi è stato impedito». Dopo la laurea in Pedagogia e tre anni di insegnamento come maestra, Luisa Flisi nel 1972 ha lasciato Parma per operare all’interno dell’associazione “Fraternità missionaria” fondata a Goma dal padre saveriano Silvio Turazzi. Luisa si trova a Goma dal 1989, mentre Antonina dal 1986. Luisa svolge principalmente assistenza ai carcerati, e in passato è stata molto attiva con l’associazione GRAM nell’assistenza ai malati cronici (soprattutto di AIDS), anche bambini. Antonina guida, invece, una scuola di recupero per le ragazze che non hanno concluso il ciclo scolastico. In Italia non tornano da fine 2019 / inizio 2020. Luisa lo scorso febbraio ha partecipato alla cena con l’ambasciatore italiano Luca Attanasio – i due si conoscevano bene -, la sera prima che fosse ucciso insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustafa Milambo. A inizio marzo è stato ucciso anche il magistrato militare Mwilanya Asani William che indagava sull’agguato, avvenuto sulla stessa strada Rutshuru-Goma, a due passi da dove abitano Luisa e Antonina.

Un altro racconto da Goma

Il dottor Aimé Kazighi è uno specialista in ortopedia che lavora all’ospedale diocesano Charité Maternelle di Goma, dove l’Associazione “Amici di Kamituga” ha finanziato una decina d’anni fa la costruzione del reparto di neonatologia. Questa la sua testimonianza: «sabato sera sono rientrato tardi dall’ospedale e, nell’addormentarmi, ho sentito un fragore: era il Nyiragongo tornato in azione. Benché casa nostra si trovi nella Paroisse Saint Esprit, a 30 km, il bagliore rossastro illuminava la notte e la gente si è riversata in strada. La mattina dopo ci ha accolto un cielo plumbeo, con la cenere che si posava lentamente, mentre continuavno le scosse di terremoto. Siamo andati alla Messa di Pentecoste con un forte senso di angoscia. Nel pomeriggio abbiamo appreso che la colata di lava si era divisasi, dirigendosi verso sud, verso il lago, lambendo la città senza danni rilevanti. Abbiamo pensato che lo Spirito Santo fosse venuto in soccorso di Goma. La sera è cominciata una pioggia sporca e, poiché le scosse di terremoto continuavano, quasi nessuno è rimasto in casa. Il vulcano ha rallentato la sua azione. Le autorità sono poco presenti e mal organizzate e da una settimana vige lo stato di emergenza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Pane e coraggio: padre Luca Morigi e il desiderio di vita dei profughi a Lesbo

29 Mar

Il racconto alla Veglia missionaria diocesana del 24 marzo


«Ho fatto esperienza dell’immenso dolore che vivono, e che anche noi europei in parte permettiamo. Ma ho visto anche la fede che hanno in Dio e la speranza che Lui darà loro la possibilità di una vita nuova». Padre Luca Morigi, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, per alcuni mesi, fino allo scorso Natale, ha vissuto nei due campi per profughi sull’isola di Lesbo. Questa terribile esperienza l’ha raccontata lo scorso 24 marzo in occasione della Veglia missionaria diocesana, collegandosi con la chiesa ferrarese di Sant’Agostino.

«Il sogno di Dio – ha esordito – è quello dell’umanità come grande famiglia che vive sulla terra intesa come casa comune». E invece esistono inferni come quelli sull’isola di Lesbo per i migranti. Persone che «perdono le proprie case, i propri beni, la libertà, rischiando la vita per un’esistenza dignitosa». Attraverso alcune fotografie scattate clandestinamente nei campi di Moira, prima, e Kara Tepe, dopo, Morigi ha raccontato l’orrore che queste persone vivono dentro le circa mille tende lì accampate. Dopo l’enorme incendio dell’8 settembre scorso nel campo di Moira, le autorità greche allestirono, infatti, campi temporanei a Kara Tepe, per accogliere 8mila degli oltre 12mila migranti rimasti senza riparo. Un popolo di disperati.

Pane, farina, patate: in una foto un padre cucina una semplice cena per i figli (foto in alto). Ha lasciato tutto alle spalle per dar loro la salvezza. «Ma ha voluto comunque condividere la cena con noi – ha raccontato Morigi -, qualcosa di cui noi occidentali spesso non siamo più capaci. Questo popolo, quindi, era lì per curare le mie, le nostre ferite dell’anima, non solo io per aiutare loro. È la nostra Europa che sta perdendo la propria umanità e i propri riferimenti, nascondendosi dietro le proprie paure e sicurezze». Nel campo di Lesbo vive, dunque, un grande popolo tenuto prigioniero, «espressione del corpo di Cristo umiliato e che espia i peccati del mondo. Nel suo dolore sta sanando anche le ferite di un’Europa malata» di egoismo e cinismo. Un continente circondato – più o meno simbolicamente – dal filo spinato, proprio come, realmente, lo è il campo di Kara Tepe. La polizia lo sorveglia continuamente dall’esterno perché l’idea di fondo è che «questi migranti siano potenziali criminali». Un campo costruito, non a caso, sulla riva del mare, in una zona militare, il cui terreno ospita ancora bombe inesplose. 

In questo inferno non esistono docce, non c’è acqua calda né energia elettrica, non esiste la scuola, ma uno straccio di educazione avviene solo informalmente grazie ad alcuni ragazzi che insegnano ai bambini. «Sono veri e propri campi di prigionia», resi ancor più tali approfittando del lockdown per la pandemia. Ma qui le malattie sono ancor più elementari, legate alla scarsa igiene. E poi ci sono quelle psicologiche, diffusissime, con bambini che tentano il suicidio gettandosi dalla scogliera o donne incinte che si buttano nel fuoco pur di non partorire lì. Un abisso dove stupri, omicidi, traffico di organi, violenze sui bambini, sono all’ordine del giorno. Dove domina l’abuso di alcool e il traffico di droga, senza nessuna legge e senza chi possa farla rispettare. «Qualche giorno fa – racconta Morigi – mi ha chiamato un uomo che vive nel campo: “questo è un inferno!”, urlava. Poi ha aggiunto che lui e la moglie cercheranno di fuggire nascondendosi in un camion». Ma sarà molto difficile, il rischio è la morte. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 aprile 2021

https://www.lavocediferrara.it/