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«Speranza, fatica e memoria: ecco la mia canzone per Aldro»

13 Dic

FEDERICO ALDROVANDI. A 20 anni dall’uccisione del giovane, Patrizio Fergnani gli ha dedicato il brano Il Coraggio di ieri è la strada di oggi. Lo abbiamo intervistato

di Andrea Musacci

Da alcuni giorni è disponibile su tutte le piattaforme online la canzone Il Coraggio di ieri è la strada di oggi, testo e musica di Patrizio Fergnani e riferita alla storia di Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni ucciso il 20 settembre 2025 da quattro agenti di polizia in zona Ippodromo a Ferrara. 

L’immagine di copertina scelta è a cura di Nicola Fergnani: si vede Federico sorridente a tavola durante una festa di compleanno a casa di Patrizio Fergnani il 3 ottobre del 2000.Ai tempi Federico aveva 13 anni.

Abbiamo incontrato Fergnani per farci raccontare la genesi e il senso di questo progetto musicale della memoria.

Patrizio, come e quando è nato in te il desiderio di comporre e quindi cantare questo brano? Possiamo dire sia stata una sorta di “urgenza” sopraggiunta nel tuo cuore?

«Quest’anno sono vent’anni dalla morte di Federico. Mi è capitato di incontrare più volte Lino, suo papà, e confrontarmi con lui su diversi temi partendo dalle nostre esperienze di padri. Ho trovato in lui una forza e una dignità che mi hanno toccato profondamente. Luigi Manconi, alla presentazione delle iniziative previste per ricordare Federico, mi ha emozionato rilanciando il dolore dell’esperienza vissuta come uno stimolo per guardare avanti. 

Ero un po’ scombussolato e ho provato a scrivere qualcosa con la chitarra e il piano: in un paio di giorni ho finito la canzone. Come dici tu è stata una specie di urgenza che ho vissuto pochissime volte». 

Raccontaci se vuoi del tuo legame con Federico e dell’amicizia storica con la sua famiglia.

«Federico è coetaneo e compagno di scuola di mio figlio Andrea: alla Sacra Famiglia sono stato catechista del loro gruppo dalla prima confessione alla cresima. È stato così che ho conosciuto Lino e Patrizia. 

Dopo la morte di Federico li ho seguiti “a distanza”, incapace di accettare fino in fondo la tragedia che li ha coinvolti. È un legame di solidarietà alimentato anche dalla conoscenza di Stefano, il fratello di Federico, amico di mia figlia Irene».

Quando e come hai reso partecipi i suoi famigliari e i suoi amici di questo tuo progetto di una canzone a lui dedicata? E come hanno reagito?

«Ai primi di luglio avevo la versione “grezza” della canzone: ho chiamato Lino e sono andato da lui a fargliela sentire. C’era anche sua mamma: per me è stato un momento molto intenso e loro, commossi, mi hanno incitato a proseguire. Insieme abbiamo scelto il titolo che è l’inizio dell’ultima strofa. 

Successivamente ho inviato la prima registrazione, fatta alla buona con lo smartphone, e il testo a Patrizia, la mamma di Federico: anche lei mi ha incoraggiato. A seguire ho inviato il tutto al gruppo degli amici del Comitato Federico Aldrovandi 2005–2025 che mi hanno inserito nel programma del concerto del 27 settembre. L’esecuzione poi è saltata a causa del fortissimo temporale che si è scatenato proprio nel tempo a nostra disposizione».

Come sempre capita per i tuoi progetti musicali, anche questo brano vede diverse collaborazioni artistiche: ce ne vuoi accennare? 

«Conosco i miei limiti da “chitarrista da parrocchia” e da pianista che ha smesso di studiare nel secolo scorso: per questo sono fortunato ad avere amici a cui posso rivolgermi. Corrado Calessi ha fatto un bellissimo arrangiamento e ha coinvolto musicisti di grande valore a cui si è aggiunta Erika Corradi con la sua bella voce (che supporta la mia che a volte rivela la mia emozione) e ha curato i riempimenti vocali. 

Abbiamo registrato nella taverna-studio di Corrado: per me una sensazione speciale sapendo che al piano di sopra abita il maestro Pierluigi Calessi che tanti lettori della Voce ricorderanno come direttore storico dell’Accademia Corale Vittore Veneziani. Era pronto ad accompagnarmi dal vivo anche un quartetto d’archi ma il temporale di cui sopra lo ha impedito».

In questo tuo brano ci trovo un’ambivalenza: da una parte un senso di sconforto, di disillusione, di crudo realismo nei confronti dell’ingiustizia che spesso sembra dominare questo mondo (la «menzogna», il «marcio», la «miseria» umana, «l’indifferenza»); dall’altra parte una speranza sempre viva (un futuro vivo, una luce che sempre si accende…). In quale tensione stanno i due poli, nel tuo cammino di fede e nella vicenda di Federico?

«La tensione fra questi poli penso sia il nucleo dell’esperienza di molte persone: sicuramente vale per me. Tra lo sconforto e la fiducia ci si muove quotidianamente: penso alla forza con cui Patrizia, Lino e Stefano affrontano ogni giornata da vent’anni a questa parte. Nella canzone ho espresso una possibilità inserendo nel ritornello il salmo 85 (“Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”): mi sembra uno slancio che non implica necessariamente uno sguardo di fede. 

Subito dopo, però, appare la fatica nella consapevolezza che “la speranza non è consolazione”».

Un’ultima domanda: quattro anni fa hai presentato il tuo brano dedicato a un’altra giovane prematuramente scomparsa, la Serva di Dio Laura Vincenzi. La storia di Laura e quella di Federico – pur diverse – hanno qualcosa in comune?

«Per me sono due canzoni nate entrambe quasi come volessero scriversi da sole e questo mi fa riflettere molto. Poi le loro diverse storie di sofferenza hanno in comune il coinvolgimento successivo di tante persone: Aldro vive con noi e Laura canta insieme a noi testimoniano una presenza importante.

Infine li immagino insieme, nel posto riservato a loro in Paradiso, a scrivere nuove canzoni da mandare qui da noi attraverso qualche persona».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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Veneziani, 70 anni per la sua Accademia Corale

27 Feb

Nel 1955 a Ferrara nasceva l’Accademia Corale “Città di Ferrara”, poi intitolata al suo direttore, il Maestro ebreo Vittore Veneziani.Questi diresse anche il coro della Scala di Milano e andò in esilio in Svizzera: ecco la sua storia

di Andrea Musacci

La scorsa settimana sono state ufficialmente presentate le iniziative per l’anno 2025 dell’Accademia Corale “Vittore Veneziani”, in occasione dei 70 anni dalla nascita.

La costituzione dell’Accademia Corale “Città di Ferrara” (così si chiamava alla nascita e per i primissimi anni) risale al 1955 e vede come promotori il senatore comunista Mario Roffi (Presidente), ex Assessore alla Pubblica Istruzione e Belle Arti del Comune di Ferrara, Renzo Bonfiglioli (Vice presidente, membro della Comunità ebraica) e il maestro Vittore Veneziani, direttore artistico. Veneziani fu omaggiato dall’Accademia nel ’58 – anno della sua morte – prendendone il nome. In seguito, la “Vittore Veneziani” fu diretta da Emilio Giani, poi (dal 1980 al 2000) dal maestro Pierluigi Calessi. Sotto Calessi, vengono eseguite tre incisioni discografiche e numerose tournée all’estero (fra cui, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Croazia, Russia, USA, Israele, Belgio) e l’Accademia ottiene il Premio Willaert (1988) e il Premio Stampa assegnato dai giornalisti ferraresi (1989). 

Dal settembre 2000 al 2019 si sono poi succeduti alla guida i maestri Giuseppe Bonamico, Stefano Squarzina, Giordano Tunioli, Maria Elena Mazzella e Teresa Auletta, da settembre 2019 Maestro del coro e dal 2020 direttrice artistica.

FERRARA, LA SCALA, L’ESILIO, IL RITORNO IN PATRIA: VITA DI VENEZIANI

Vittore Veneziani (Ferrara, 25 maggio 1878 – Ferrara, 14 gennaio 1958) nasce in una famiglia ebraica di Ferrara; il padre Felice è commerciante in via Vignatagliata, corista dilettante e appassionato di musica. Forse anche grazie a lui, Vittore si forma nella Scuola Comunale di Musica “Frescobaldi” per poi perfezionarsi in Composizione al Liceo Musicale di Bologna allora diretto dal Maestro Martucci. Nei primi anni di carriera è attivo come direttore di coro e compositore presso la Sinagoga di Ferrara, collaborando con il collega e amico Fidelio Finzi. Come scrive Uberto Tedeschi (1), in via Vignatagliata «teneva la sua bottega di commerciante il padre di Vittore, Felice, anche lui appassionato di Musica e corista». Agli allievi di quella scuola del 1938-1943 «in un ricostruito ghetto mussoliniano di Ferrara» insegnò «matematica Riccardo Veneziani, fratello di Vittore e a quest’ultimo somigliantissimo».

Un interessante aneddoto racconta la giovinezza estense di Veneziani (2): egli «rimase affascinato dalla lettura di una lirica, stampata nel 1900 dalla Zanichelli, ad opera dal poeta ferrarese Domenico Tumiati (1874-1943). Si tratta de La badia di Pomposa, un componimento in versi, lodato dal Carducci, celebrante la storia, i personaggi e le meraviglie artistiche del celebre monastero situato non lontano da Ferrara. Fu così che passeggiando una mattina presso il castello estense, Veneziani incontrò l’attore Gualtiero Tumiati (1876-1971), giovane concittadino fratello di Domenico, e gli disse: “Mi vria musicar La badia di Pomposa, vòi far na cantada a quater vòs, cori e grand’ orchestra”». Ne avrebbero fatto un melologo – declamazione di un testo letterario con accompagnamento musicale – con musica di Veneziani e recitazione di Gualtiero Tumiati. L’opera venne presentata nel novembre del 1900 nel prezioso scenario del Palazzo dei Diamanti.

Dopo importanti esperienze a Venezia, Torino e Bologna (e la morte della moglie nel ’18 per la spagnola), nel 1921 – anno di svolta per il Secolo breve – viene chiamato a dirigere il coro della Scala di Milano: «gli giunge infatti una lettera di Arturo Toscanini, col quale aveva già collaborato al Teatro Dal Verme di Milano (…). Inizia un legame a tre – Toscanini, Veneziani e La Scala -, che, con la sola tragica parentesi tra il ’38 e il ’45 dell’allontanamento di entrambi i Maestri, doveva durare oltre un trentennio» (3).

Una pagina del quaderno di Veneziani ci restituisce la violenza di quei momenti drammatici: nel novembre ’38, infatti, annota: «Licenziato dall’incarico alla Scala perché di razza ebraica». Al ritorno di Veneziani a casa, «trovandola piena di fiori di solidarietà, pare abbia esclamato» con amara ironia: “Ho assistito al mio funerale!”». Per il suo «orgoglio di italiano – prosegue ancora Tedeschi – aveva rifiutato di abbandonare la Patria, malgrado i numerosi invii di prestigiose istruzioni estere e di Toscanini stesso. A Milano, dunque, umilmente ma con grande passione, accettò di dirigere il Coro della scuola Ebraica e, saltuariamente, quelli delle Sinagoghe di Milano, Firenze e Torino. Si può immaginare l’emozione che i canti di invocazione a Dio e alla libertà infondevano in anni così bui!».

La sua amata Patria accetterà, però, a malincuore di lasciarla 6 anni dopo, nel febbraio ’44, in seguito al crollo del regime fascista e all’occupazione nazista nel nostro Paese. «Si salvò rifugiandosi in Svizzera», racconta Stefani (4). Il 21 febbraio ’44 lui e il fratello Riccardo passarono la frontiera italo-svizzera grazie all’aiuto del finanziere Salvatore Corrias (partigiano combattente di “Giustizia e Libertà” / Brigata “Emanuele Artom”), poi fucilato dai nazisti a fine gennaio ’45 per aver salvato centinaia di ebrei dalla deportazione (5). Veneziani «fu ospitato presso un istituto di suore a Roveredo, nei Grigioni italiani (…). Iniziò a dirigere, lui ebreo, il coro parrocchiale. La chiesa aveva bisogno di restauri. In Svizzera, dove non cadevano bombe, li si poteva fare anche in quell’epoca. Furono terminati agli inizi del ’45. Per l’inaugurazione il parroco chiese a Veneziani di comporre una messa. Vinta qualche titubanza, il maestro accettò. Della composizione si erano perdute le tracce». Grazie alla ricerca di Laura Zanoli (6), bibliotecaria del Conservatorio “Frescobaldi” di Ferrara, il manoscritto è stato ritrovato tre anni fa. I suoi due anni in Svizzera «furono quindi molto prolifici». Scrisse molto per la liturgia cattolica, «pur mantenendo i legami con la cultura e la musica ebraica»: qui, infatti, elaborò anche i Canti spirituali d’Israele, conservati anch’essi nell’archivio del “Frescobaldi”.

Tornato nella sua amata città, Veneziani diresse nella Sinagoga un coro in memoria dei soldati caduti in guerra. Come racconta Caselli (7), «lasciata la Scala (di Milano, ndr) nel 1954, entriamo nella storia di Ferrara: è un periodo breve quel che rimane a Veneziani, ma intenso, pieno di fervore, di passione musicale e soprattutto – destinato a lasciare un segno nel tempo. Renzo Bonfiglioli e Mario Roffi gli creano le condizioni per costituire un nuovo complesso corale, tutto suo, tutto ferrarese. Il Maestro vi si dedica con grande energia, e già il 28 giugno del 1955 l’Accademia Corale “Città di Ferrara”, Direttore Vittore Veneziani, può effettuare il suo primo concerto al Palazzo dei Diamanti, con un programma interamente dedicato ai suoi amati cori verdiani. L’attività prosegue ancora per due anni (per la precisione fino al 27 settembre 1957, con un concerto a Portomaggiore), e si caratterizza per alcune realizzazioni di grande importanza all’Abbazia di Pomposa, ancora ai Diamanti e a San Francesco (…). Nel frattempo aveva costituito, all’interno dell’Accademia, un gruppo di madrigalisti per il repertorio specialistico della polifonia classica. Già aveva anche progettato di partecipare ad un Festival a Vienna, previsto per l’estate 1958, a cui voleva portare, riunite, l’Accademia di Ferrara e quella di Milano, ma non fece in tempo a realizzarlo. Moriva infatti il 14 gennaio del 1958 (…)».

In un’intervista rilasciata nel ’55 da Veneziani alla Radiotelevisione Svizzera, parla anche della nascita della sua corale, il “Coro Città di Ferrara”, poi diventata Accademia Corale “V. Veneziani”: «da tanti anni – dice – ho il sogno di realizzare un coro nella mia città». Un sogno divenuto realtà, una realtà ancora oggi carne viva di Ferrara, suo vanto e sua voce, ben oltre le Mura antiche che la delimitano.

NOTE

1. Nel volume In memoria di Vittore Veneziani, Accademia Corale “Vittore Veneziani” della città di Ferrara, 2008.

2. Dalla tesi «Volano sulla torre alati i cuori … /Naviga nell’azzurro Parisina». Un fortunato melologo di Domenico Tumiati e Vittore Veneziani, di Giovanni Francesco Amoroso, Corso di Laurea in Musicologia e Beni Musicali, Università degli Studi di Milano, a.a. 2006/2007.

3. Tedeschi, in In memoria di Vittore Veneziani, cit.

4. Vittore Veneziani, a Ferrara la sua messa ritrovata, Piero Stefani, La Voce di Ferrara-Comacchio, 11 novembre 2022.

5. Nel 2006 la Commissione dei Giusti di Yad Vashem ha attribuito a Salvatore Corrias il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.

6. Zanoli è autrice della tesi Il fondo Vittore Veneziani: un’ipotesi di catalogazione e riordino (Master di I livello in Archivistica, Diplomatica e Paleografia, UniFe, a.a. 2022-2023). Il fondo Veneziani, conservato presso la biblioteca del Conservatorio Frescobaldi di Ferrara, è stato donato dalla signora Germana Jesi Pesaro, nipote del maestro, al Comune di Ferrara agli inizi degli anni ‘70.

7. Angelo Caselli, in In memoria di Vittore Veneziani, cit.

***


Il programma completo del 2025: iniziative nella chiesa di SanPaolo e in Svizzera

L’8 marzo a Pesaro la terza e ultima tappa del percorso con FIDAPA Ferrara, FIDAPA Pesaro, EVAP Valencia, Contrada di Santa Maria in Vado, Ensemble Enchiridion e WunderKammer Orchestra Divisione Danza WKO-ADA Associazione Danze Antiche, su Lucrezia Borgia. 

Il 22 marzo nella chiesa di S. Paolo, Ferrara, iniziativa “La Passione”, oratorio laico-spirituale sui temi della Passione evangelica calati nel nostro tempo. In collaborazione con Associazione “Amici della Nave OdV”, Cantori del Volto e Orchestra Antiqua Estensis

Il 19 maggio al Teatro Comunale di Ferrara esecuzione della Messa in Do minore K. 427 di W.A. Mozart, con l’orchestra del Conservatorio “Girolamo Frescobaldi” di Ferrara. Ruolo del tenore a Raffaele Giordani. 

Il 20-21 settembre a Roveredo, nel Cantone Grigioni in Svizzera, dove il Maestro Veneziani si rifugiò per sfuggire alle leggi razziali, la Corale eseguirà la Messa proprio nella località in cui Veneziani la compose. 

Il 4 ottobre, chiesa di S. Paolo a Ferrara, Missa Hercules Dux Ferrariae di Josquin des Prez. 

Nel mese di novembre (data da definire), la 35^ edizione della Rassegna Corale “Mario Roffi”. 

Infine, il tradizionale Concerto di Natale (luogo da definire), con esecuzione dell’Oratorio di Natale op. 12 di Camille Saint-Saëns, in collaborazione con l’Orchestra Città di Ferrara diretta da Giulio Arnofi.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 febbraio 2025

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Far “salire al cielo” la parola: il Coro e l’Orchestra “Immacolata”

18 Gen

25 gennaio, Conversione di San Paolo Apostolo. La sera, concerto nella chiesa di San Paolo a Ferrara del Coro e Orchestra “Immacolata”. Abbiamo intervistato il Direttore Giorgio Zappaterra

a cura di Andrea Musacci

Innanzitutto, facciamo un bilancio dei primi mesi di vita del Coro e Orchestra “Immacolata”.  E quali altri concerti avete in programma?

«Il Coro è nato 15 mesi fa, e poco dopo si è formata l’Orchestra. Dopo l’esordio, avvenuto il 3 marzo scorso al Monastero delle Clarisse del Corpus Domini di Ferrara, siamo stati chiamati a svolgere il servizio liturgico presso la chiesa dell’Immacolata, in Cattedrale, alla riapertura della chiesa di San Paolo, a San Cristoforo della Certosa, per un totale di 11 uscite. Quello del 25 gennaio è il nostro primo concerto. Nei prossimi 5 mesi sono previsti diversi impegni, fra cui un altro concerto nel mese di maggio a San Giorgio. Chi vuol essere informato sulla nostra attività può seguirci su Instagram (www.instagram.com/coroeorchestraimmacolata).

Il bilancio di questi primi mesi è molto positivo, in primo luogo per la crescita del coro nella coesione e nell’amicizia, nelle capacità espressive, nell’interazione con i musicisti. Fare musica insieme favorisce il superamento delle barriere generazionali: in coro tra il più giovane e il più vecchio c’è una differenza di 60 anni, in orchestra di 50 anni ma si lavora tutti con impegno ed entusiasmo per raggiungere l’obiettivo comune, contribuire alla bellezza della celebrazione. In tanti ci hanno ringraziato per averli aiutati a vivere la liturgia con intensità e raccoglimento».

(Leggi l’intervista completa qui)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 gennaio 2025

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A Salvatonica la rinascita di una comunità

26 Set
Pagine di libri bruciati appartenenti a Renata Rantzer

Lo scorso giugno l’incendio negli edifici di “Accoglienza odv”, poi la morte di Renata. Il racconto di don Giorgio Lazzarato

di Andrea Musacci

L’INCENDIO E LA RINASCITA

La Comunità “Accoglienza odv” di Salvatonica, nata una 30ina di anni fa, accoglie 35 persone fra disoccupati, immigrati, persone con problemi psichici di varia natura, detenuti a fine pena. Lo scorso 24 giugno, l’incendio partito dal dormitorio al primo piano, nel quale rimangono ferite tre persone. «Il piano terra, con la sala da pranzo e la cucina, è stato ripristinato e ora dobbiamo ristrutturare le sei stanze e i due bagni al piano superiore, quello dov’è avvenuto l’incendio, piano che ospitava 9 persone», ci spiega don Lazzarato. «Per il prossimo 13 giugno, Festa di Sant’Antonio – continua – spero che i lavori saranno conclusi e di fare una “visita guidata” alla struttura…». Le persone che alloggiavano in quel piano dell’edificio sono state poi trasferite in altre strutture vicine.

Aiuti economici per la ristrutturazione sono arrivati anche da Belgio, Spagna, Germania, da Roma, Latina, dalla Sicilia e da altre località: l’associazione “Accoglienza odv”, infatti, nasce nel 1992, durante i mesi estivi della grande ondata migratoria dall’Albania, ma già da fine anni ’80 don Giorgio organizza campi per ragazzi da tutta Italia, e campi IBO con giovani provenienti da diversi Paesi europei. Adulti che ora, saputo del dramma vissuto, cercano – anche se a distanza – di aiutare la Comunità a rialzarsi. Ricordiamo che per l’accoglienza, oltre che dalle rette dei servizi sociali, i finanziamenti alla Comunità arrivano in parte dai soci dell’associazione e dall’8×1000 alla Chiesa Cattolica.

Inoltre, dal 17 al 22 settembre il chiostro di San Giorgio ha ospitato una mostra fotografica, a cura dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della nostra Diocesi, dedicata proprio alla Canonica di Salvatonica ferita dall’incendio della scorsa estate.

CHI ERA RENATA RANTZER

Una delle tre persone ferite nell’incendio del 24 giugno, Renata Rantzer (foto qui sopra), non ce l’ha fatta ed è deceduta lo scorso 16 agosto all’Ospedale di Cento, dov’era stata trasferita dal Bufalini di Cesena. La donna, di origini ebraiche, era stata salvata nell’immediato da un altro ospite, il detenuto a fine pena Filippo Negri, 28 anni e da Dorel, 58enne rumeno, operatore di “Accoglienza odv”. Un lutto che ha colpito la Comunità, un dramma dal quale don Giorgio e i suoi ospiti han cercato fin da subito, pur a fatica, di rialzarsi. Nata nel 1938, Renata Rantzer ha avuto una vita piena ma costellata di dolori profondi. A inizio anni ’90 perde, infatti, il primo figlio, Mattia, di 31 anni, e anni dopo perde prematuramente anche la figlia, Camilla, 38 anni. Due lutti che segnano profondamente la vita di questa donna, la quale dal 1993 al 2000 ha guidato la Comunità di recupero “Exodus” di Bondeno, mentre in passato era stata anche arredatrice di interni. Il figlio Mattia riposa nel cimitero di San Biagio di Bondeno (mentre Camilla in Toscana) e lo scorso 31 agosto, con una toccante cerimonia che ha coinvolto don Lazzarato e ospiti della sua Comunità, le ceneri di Renata sono state poste di fianco ai resti del figlio.

Il concerto solidale: Manuzzi ci spiega la band

Una grande risposta solidale quella nella sera del 17 settembre scorso a San Giorgio fuori le Mura. Circa 250 i presenti per l’ultimo appuntamento dei festeggiamenti della Madonna del Salice, patrona del borgo: nell’antico chiostro della Basilica si è esibito il gruppo Ars Antiqua World Jazz Ensemble, guidato da Roberto Manuzzi, per un concerto organizzato in collaborazione con l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, Over Studio Recording di Cento e con la regia audio di Angelo Paracchini. Il concerto era gratuito ma con la richiesta ai presenti di un’offerta per il ripristino della sede della Comunità “Accoglienza odv” della parrocchia di Salvatonica. L’evento è stato anche dedicato alla memoria di Roberto Sgarbi, stimato medico di base a Pontelagoscuro, cognato di Manuzzi, mancato improvvisamente lo scorso 6 maggio all’età di 68 anni. La sera del 15 è stato Giovanni Dalle Molle a ricordarlo pubblicamente e a rivolgere un pensiero affettuoso anche alla madre di Sgarbi, Marisa.

Ars Antiqua ha incantato i tanti presenti a S. Giorgio esplorando in modo attuale e rivisitando musiche e testi poetici del basso medioevo, dalle cantigas di S. Maria tratte dalla raccolta del 1200 di re Alfonso il saggio di Spagna, a musiche della tradizione arabo-andalusa (ebraico-sefardite) e musiche originali su testi del poeta Jacopo da Lentini, predecessore di Dante e notaio presso la corte di Federico II di Svevia. Roberto Manuzzi spiega a “La Voce”: «ho pensato con questo concerto di aiutare la Comunità di Salvatonica e, in secondo luogo, l’ho pensato all’interno di un progetto più ampio sulla cosiddetta “musica dell’anima”, cioè una musica che, se non strettamente sacra, sia capace comunque di esprimere sentimenti di spiritualità. La nostra – prosegue – è musica popolare, come popolare era all’epoca. Si tratta di una commistione di sacro e profano molto profonda e intensa, che ben esprime la tensione tra amore terreno e amore divino». L’Ars Antiqua World Jazz Ensemble ha da poco inciso un cd con Over Studio Recording e quello a S. Giorgio è stato il primo concerto dopo il concorso internazionale Folkest di S. Daniele del Friuli dove il gruppo è stato premiato per il miglior brano originale in lingua friulana, risultando 3° classificato su un centinaio di proposte.

Pubblicato sulla “Voce” del 27 settembre 2024

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Buskers Festival, bello senz’anima

5 Set


Riflessioni dopo la 37^ edizione della rassegna ferrarese svoltasi tra molte polemiche: riscopriamo la sua essenza

di Andrea Musacci

Per almeno una settimana, in città non si è parlato d’altro: il Ferrara Buskers Festival non è più nel centro storico ma “confinato” nel Quadrivio degli Angeli e a Parco Massari. Ed è a pagamento (11 euro + eventuali costi di prevendita). 

In attesa dei dati sull’affluenza e della conferenza stampa prevista a breve, cerchiamo di riflettere a freddo su questa che verrà ricordata come l’edizione più discussa del Festival. Innanzitutto, non si è trattato della prima a pagamento nella nostra città: già nel 2020 e 2021, in piena era Covid, gli organizzatori avevano optato per questa scelta. Allora venne motivata con l’obbligatoria selettività causa restrizioni emergenza sanitaria. Nel 2020 venne scelta la formula dei tre concerti a sera per ognuno dei cinque luoghi del centro selezionati (giardino di palazzo dei Diamanti, cortile di palazzo Crema, chiostro di San Paolo, cortile del Castello Estense, Palazzo Roverella). Costo del biglietto, 12 euro. Nel 2021, sarà di 10 euro, col Festival relegato nel solo Parco Massari. 

Ma oggi, come giustificare una tale scelta, così contraria allo spirito libero dell’artista di strada? «I costi organizzativi sono diventati davvero improponibili», aveva dichiarato la Presidente e Direttrice Artistica del Festival, Rebecca Bottoni. D’altra parte, nei giorni scorsi l’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara, Marco Gulinelli, ha dichiarato: «per l’organizzazione del Festival edizione 2024 l’Amministrazione comunale ha sostenuto gli organizzatori con un contributo di 110mila euro».

LO SPIRITO ORIGINARIO

Nel libro del 1989 intitolato “Musicisti di strada. Immagini del Ferrara Buskers Festival”, in occasione della prima edizione del 1988, gli organizzatori riflettevano su una questione decisiva: «viene tradito lo spirito dei buskers nel costringere una attività spontanea, libera, per certi versi “trasgressiva”, entro i limiti di programmazione, istituzionalizzazione e codificazione che la struttura di un festival impone?». A ciò Luigi Russo, attuale Direttore organizzativo del Festival, 36 anni fa rispondeva elencando le dovute attenzioni dei promotori per lasciare il più possibile la spontaneità del gesto artistico del busker: «i luoghi deputati alle performance musicali sono stati individuati fra quelli normalmente prescelti dai buskers di passaggio in città. Nessun luogo chiuso dunque (teatro o cortile) (…)».

Nello stesso volume, Thomas Walker (già Direttore della Rassegna di teatro Aterforum) citava la distinzione fondamentale – sostenuta dal noto regista teatrale Eugenio Barba – fra teatro di strada (che «deve catturare, accattivare un pubblico che non ha pagato il biglietto») e spettacolo «borghese». Era sempre Walker a spiegare come busk in inglese rimandi al «girare come un pirata». Insomma, già un Festival di buskers richiede un’organizzazione antitetica alla natura dell’artista di strada. Le molto criticate scelte di quest’anno – ingresso a pagamento, zona centrale ma chiusa e mai scelta spontaneamente dai buskers – han però dato vita a una separazione troppo grande fra ideale e realtà. Nell’edizione 2024 del Ferrara Buskers Festival, infatti, tra il busker che offre la propria arte e la folla libera di ascoltarlo e di premiarlo con un’offerta, si è creato un “muro” organizzativo che non fa più da utile filtro per dar vita all’evento-festival, ma che è diventato altro.

Scrivevano, infatti, gli stessi organizzatori del Ferrara Buskers Festival nel catalogo dell’edizione 1993: «Per noi il Festival non è altro che la spontaneità “organizzata” in mille momenti musicali e d’incontro liberamente gestiti dall’artista con la complicità del suo pubblico. Il nostro compito è soltanto quello di porre le condizioni perché questo incontro avvenga nella maniera più naturale e felice possibile».

RITORNO ALL’ANTICO

Molti, invece, quest’anno hanno sofferto lo snaturamento del Festival, che ha fatto perdere la bellezza – senza prezzo – di poter scovare un one man band, un gruppo, un giocoliere ad ogni crocicchio, piazza, strada o vicoletto del centro. L’artista, con un’intuizione istantanea (solo in parte dettata dall’abitudine) diveniva parte del contesto cittadino, in esso si con-fondeva: quest’ultimo non era mero “palcoscenico” ma diveniva luogo vivo di pietre, corpi e musica.

Pur nelle diversità, quest’anno gli altri Buskers Festival in Italia (Roma, Bologna, Aosta, Belluno, solo per citarne alcuni) sono rimasti a ingresso libero e gratuito, come anche la tradizionale anteprima svoltasi a Comacchio il 18 agosto. Nei giorni del Ferrara Buskers Festival, invece, una fra le aree più magiche e note della nostra città è stata di fatto “privatizzata” e chiusa con tanto di divieto di accedervi in bicicletta e di portare cibo, bevande e macchine fotografiche. Escludendo una violinista e una band “fuggiti” in piazza oltre il recinto del Festival, nel centro cittadino gli unici musicisti di strada rimasti erano gli zingari con la loro fisarmonica che, come ogni giorno, giravano chiedendo l’elemosina…

Nel sito del Ferrara Buskers Festival campeggia la scritta: “Quest’anno tutta un’altra musica”. Così è stato. Ma forse sarebbe meglio tornare a quella precedente.

Pubblicato sulla “Voce” del 6 settembre 2024

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Rock’n’roll theology: Springsteen e la fede

10 Mag

In vista dello storico concerto di Bruce Springsteen a Ferrara il 18 maggio, scopriamo come in molti dei suoi testi siano presenti le domande della fede: vita e peccato, morte e redenzione, comunione e salvezza. Un viaggio nell’umano

di Andrea Musacci

Spesso si riduce a un gioco ozioso il voler attribuire etichette di “cristianità” a scrittori, registi, cantanti. La bellezza nell’indagare la loro spiritualità spesso non dichiarata, d’altra parte, porta alla luce come l’immaginario biblico (neo e vetero testamentario) sia così radicato nelle nostre vite da non poterlo eludere. Ed è una forza, la sua, non derivante da veri o presunti “indottrinamenti” ma dalla radicalità di come l’umano e il divino vengano, in ogni pagina della Bibbia, sviscerati, dando una risposta alla sete di verità e di assoluto insita in ogni persona.

Questa premessa per dire di come anche la poetica di un grande cantautore come Bruce Springsteen – che il prossimo 18 maggio si esibirà al Parco Urbano di Ferrara con la sua E Street Band – sia infarcita di parole e immagini legate al tema della colpa, della salvezza, della comunione.

Ne parla ad esempio Luca Miele, giornalista di “Avvenire”, nel suo libro “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana ed., 2017), che l’autore presenterà il 13 maggio alle ore 18 nella sede di “Accademia” (chiostro chiesa di San Girolamo, accesso da via Savonarola), nell’incontro dal titolo “Everybody’s Got A Hungry Heart. Un viaggio alla riscoperta di sé nella musica di Bruce Springsteen”.

È lo stesso Miele a chiedersi innanzitutto se nel caso di Springsteen si possa parlare di “rock’n’roll theology”, o meglio di teologie (al plurale) nei suoi brani, vista l’ambivalenza e la frammentazione del tema religioso in esse contenuto. Di certo c’è, ad esempio, il legame con la “teologia nera” contenuta nei gospel e negli spiritual. 

CATTURARE LA VITA

E come nella musica del riscatto e della redenzione dei neri, è l’esistenza concreta, di carne e sangue, a essere imprescindibile. La sua ricerca, insomma, si muove sempre coi piedi per terra, pur con uno sguardo capace di rivolgersi verso l’alto. Springsteen – scrive Miele nel libro – sa «muoversi, senza rotture, con disinvoltura, tra i campi del secular e del religious. Infondere, catturare la vita – esprimere le sue cadute, le sue speranze quotidiane – dentro e con un tessuto di simboli, immagini, figure trasparentemente religiose. Springsteen, però, non decide né per l’uno né per l’altro, la sua scrittura si muove in quello spazio di indistinzione tra secular e religious, tende gli orli di secular e religious fino a farli toccare, li spinge a sconfinare, a ibridarsi, contaminarsi. Uno restituisce, specchiando, l’altro. La liberazione è qui, è ora». E ancora: «Lo storytelling di Springsteen non mira a svelare il mistero, ma a incarnarlo nelle vite che canta. Non mira a sciogliere il secular e il religious, ma a rendere trasparente la loro cucitura». 

IL PADRE E LA CASA: AMBIVALENZE

A Freehold, nel New Jersey, dove visse l’infanzia e l’adolescenza, Bruce frequentò la primaria nell’istituto della sua parrocchia, la St. Rose of Lima, per poi trasferirsi alla Freehold High School dove si diplomò nel 1967. L’approccio del giovane con la scuola cattolica fu difficile, in quanto non accettò la disciplina imposta dalle suore. A questo, si aggiunse il difficile rapporto col padre Douglas, costretto a cambiare vari lavori per mantenere la famiglia (Bruce ha due sorelle), e malato di depressione. Proprio il tema del padre torna spesso nei suoi brani, in una continua lotta con questa figura, nel tentativo di allontanarla, di comprenderla e infine di riconciliarla a sé. 

Un percorso lungo, questo, che passa nelle sue canzoni dall’immagine del peccato ereditato, nelle forme della malattia mentale (la depressione, appunto) e della malattia dell’anima (l’incapacità di amare): «la catena dell’amore è la catena del peccato», è una «de-generazione», scrive ancora Miele. Il lavoro – simbolo della figura paterna – è vissuto, esso stesso come colpa da espiare.

«Molte delle mie canzoni hanno a che fare con l’ossessione del peccato», ha riconosciuto lo stesso Springsteeen. Da questo abisso, ne uscirà solo con l’amore per una donna e per il loro figlio, diventando quindi egli stesso padre. 

Ma lo stesso luogo domestico, protetto e pieno di calore, può nascondere fantasmi che ritornano, mali mai del tutto sconfitti: «posso sentire la soffice seta della tua camicetta / e quelle leggere emozioni nella nostra piccola casa divertente / poi le luci si spengono e siamo solo noi tre / io, te e tutte quelle cose di cui abbiamo paura (…) / Un uomo incontra una donna e questi si innamorano / ma la casa è infestata» (Tunnel of love, 1987). O ancora: «Stasera il nostro letto è freddo / Sono perso nel buio di un amore / Dio abbia misericordia dell’uomo che dubita delle sue certezze» (Brilliant Disguise, 1987).

La casa è quindi infestata dall’ospite del male. E dalla certezza che è un ospite sempre inatteso, sempre indesiderato: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio», scrive San Paolo: «infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Romani 7, 15-19).

NELLA COMUNITÀ, OLTRE LA COMUNITÀ

Come uscire dalle sabbie mobili in cui il male ci trascina, dalla sua mano che non ci lascia la gola? «La salvezza individuale, o qualcosa che le si avvicina, esiste veramente?», si è chiesto alcuni anni fa Bruce Springsteen. «O non è forse che nessuna salvezza individuale è possibile, e che qualsiasi forma di salvezza si realizza soltanto stando insieme? Dopo tutti questi anni sono convinto che la risposta sia chiara: non c’è salvezza senza unità». È la comunità, è l’altro a salvarci, ogni volta. In un altro brano, Land of hope and dreams (2001), scrive Miele, «è la comunità intera a essere il luogo in cui si fa, in cui si tenta, in cui ci si approssima, in cui si incarna la liberazione. La comunità è il farsi stesso dell’evento liberazione». Nulla di astratto, di vanamente idilliaco, quindi. Ma nemmeno qualcosa che possa ridurre tutto alla fragilità dell’esistere terreno. Ancora Miele: «Nelle canzoni di Wrecking Ball (2012, ndr), la giustizia è insopprimibilmente legata a un rinvio, si situa in un altro orizzonte, rimanda a una eccedenza, si disloca. Questo orizzonte, questa eccedenza, è la trascendenza». L’inappagabile può essere appagato solo da qualcosa di incommensurabile.

LA RISURREZIONE, L’ASCESA VERSO “L’ALTRO MONDO”

In The Rising, l’album dedicato agli attentati dell’11 settembre 2001, sempre presente è la tensione fra quell’abisso di polvere, fantasmi, corpi straziati (quel Nothing man, uomo annullato nel suo corpo, nella sua speranza), e l’urgenza di «articolare l’inarticolabile, trasformare il grido in dolore, il dolore in rappresentazione, la rappresentazione di ciò che sfugge alla presa di ogni rappresentazione – il vuoto, la perdita, la morte – in senso». La morte, quindi, non è l’ultima parola, sembra dirci il cantautore. Nella sua autobiografia, è lui stesso a scrivere: «Tra le tante immagini tragiche di quella giornata, ce n’era una in particolare che non riuscivo a togliermi dalla testa: quella dei soccorritori che salivano mentre gli altri scendevano di corsa per salvarsi. Quale senso del dovere, quale coraggio c’era dietro quell’ascesa verso…che cosa? L’immagine religiosa dell’Ascensione, il superamento del confine tra questo mondo, un mondo fatto di sangue, lavoro, famiglia, figli, fiato nei polmoni, terra sotto i piedi, tutto ciò che è vita, e…l’altro mondo (…). Insieme alla rabbia, al dolore e al lutto, la morte apre una finestra di possibilità per i vivi, rimuovendo il velo che “l’ordinario” ci posa delicatamente sullo sguardo. Aprirci gli occhi è l’ultimo, amorevole dono del martire».

In questo immolarsi risuona il grido della Croce presa su di sé per la salvezza, in quella salita che è, insieme, al Golgota (alla morte) e al Cielo. Contro le macerie del male, il desiderio è di innalzarsi verso quella luce che non muore.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Roberto, fan da quando aveva 10 anni: «un incontro che mi ha cambiato la vita»


Roberto Mela (a sinistra) assieme a due amici (Caterina Maggi e Francesco Turrini) nel 2016 al concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo di Roma

«Undici anni fa lo vidi per la prima volta in concerto: quel giorno mi cambiò la vita». Roberto Mela ha 26 anni, è praticante commercialista e ha una passione smisurata per tutto ciò che riguarda Bruce Springsteen. Il 18 maggio, naturalmente, sarà uno degli oltre 50mila presenti al Parco Urbano. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Come e quando hai conosciuto Springsteen?

«A casa mia abbiamo sempre “respirato” la musica di Springsteen:mio padre è andato a sentirlo nel suo primo concerto in Italia, lo storico San Siro del 1985, e da allora non ha mai smesso. Nel 2007, lo ricordo bene tornare a casa dal negozio di dischi con il cd nuovo: qualche giorno dopo l’ho ascoltato da solo. L’album si apre con Radio Nowhere: rimasi folgorato da quell’intro».

Il primo concerto, invece?

«Fu l’indimenticabile notte di Firenze del 10 giugno 2012: ha piovuto tutto il tempo, tornai a casa fradicio ma con il cuore pieno. Quella sera vidi sul palco un uomo che dava veramente tutto per ciò che amava fare. Quante volte nel lavoro ti capita di incontrare gente così? Quel giorno mi cambiò la vita, fu uno dei miei primi concerti e se da allora sono andato a più di cento live di artisti diversi, in Italia e all’estero, è solo per ritrovare quel che ho visto quella sera in lui».

Quali altri suoi concerti hai visto?

«Nel 2013 a Padova e a Milano, nel 2016 a Roma e di nuovo a Milano. E dopo Ferrara, il prossimo 16 giugno andrò a sentirlo a Birmingham…».

Cosa ti ha colpito la prima volta della sua musica?

«Dei suoi testi mi colpisce come sia capace di trattare i temi della vita di tutti i giorni, dagli amori ai dolori, dalla famiglia al lavoro, con un tono che esalta la realtà dei personaggi».

Immagino sia difficile, ma se dovessi scegliere una sua canzone…

«Thunder Road. Springsteen l’ha sempre definita come “un invito” e per questo l’ha messa come prima traccia dell’album Born To Run».

I suoi testi sprigionano religiosità. Come definiresti la sua fede?

«Nell’autobiografia Springsteen parla chiaramente della sua fede, di come la sua formazione cattolica non l’abbia mai lasciato. In un’intervista disse:”Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto”. In un’altra, in merito al disco The Rising, ha affermato:”Penso che le canzoni facciano appello a una sovrapposizione sfumata di queste idee: il religioso e la vita quotidiana devono in certo qual modo fondersi”, per cui egli afferma di muoversi “verso un immaginario religioso per spiegare l’esperienza”. E nel 1988, prima di un concerto, introducendo la canzone Born To Run disse: “Alla fine ho capito che la libertà individuale finisce per non significare nulla se non è collegata a degli amici, a una famiglia e a una comunità”. È la stessa concezione di libertà individuale che ho incontrato nella compagnia della Chiesa, nella fraternità di CL».

Un’identità chiara, quindi, la sua…

«Sì. Anni fa, nei suoi spettacoli a Broadway, ripeteva: “Una volta che diventi cattolico, non puoi più uscirne”. E in quell’occasione, per 256 serate ha concluso i concerti recitando il Padre Nostro al pubblico».

Tre sue canzoni dove il tema religioso è più marcato, che vuoi condividere con noi? 

«Penso, fra le tante, a “Jesus Was an Only Son” e ad altre due in particolare: “Land of Hope and Dreams”, nella quale c’è una terra promessa a cui si può tendere insieme, che prende dentro tutti e questo dà senso alla comunione. La salvezza non è individuale ed è per tutti. E poi, “My City Of Ruins”, dell’album The Rising, scritto dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in cui nel testo arriva a pregare il Signore per avere la forza di risorgere».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Grazie a Dio, la polvere che siamo diventa gloriosa»: mons. Marco Frisina a Ferrara

6 Feb
Mons. Marco Frisina a Ferrara

Giornata per la Vita. Erano oltre 150 le persone che la sera del 4 febbraio si sono ritrovate a S. Stefano per il concerto con le meditazioni di mons. Marco Frisina

L’uomo senza Dio è destinato alla sopraffazione, a perdere la propria vita, come se quel soffio vitale che è lo Spirito non lo abitasse. È stato un intervento magistrale quello che mons. Marco Frisina ha donato la sera del 4 febbraio scorso alla nostra città. Oltre 150 i presenti nella chiesa di Santo Stefano per l’incontro organizzato da SAV Ferrara, Scienza&Vita e Ufficio diocesano Famiglia in occasione della 45a Giornata per la Vita.

Il compositore romano ha alternato i propri commenti ai canti del Coro S. Maria Assunta di Cernusco sul Naviglio diretto dal M° Franco Cipriani. Questi i brani eseguiti: “Credo in te”, “La vera gioia”, “Jesus Christ you are my life”, “O luce radiosa”, “O Signore nostro Dio”, “Un cuor solo”, “Verbo della vita”. 

La serata ha visto i saluti introduttivi di don Franco Rogato, uno degli organizzatori, e di Chiara Mantovani del SAV, mentre un saluto finale l’ha rivolto il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego. Commovente anche l’intervento conclusivo della stessa Mantovani, la quale ha ricordato la vita del beato Hermann di Reichenau, monaco benedettino e compositore del “Salve Regina” e oggi, per molti, vita sacrificabile in quanto “storpio” a causa della sua paraparesi spastica.

Quel «pupazzo di polvere» follemente amato da Dio

«L’uomo oggi vive in una prosperità apparente, si illude così di essere vivo ma si dimentica l’aspetto creaturale. Dio è scomparso dai nostri orizzonti e noi ci illudiamo di poter prendere il suo posto». Così mons. Frisina ha introdotto le proprie meditazioni. «Ma poi, nei momenti drammatici ci si accorge», anzi ci si “ricorda”, «di essere poveri uomini, con una fragilità impensabile, fino alla morte in cui quelle illusioni così forti all’improvviso scompaiono».

Dio, infatti, ha prima fatto l’uomo come «un pupazzo di polvere», ma poi gli ha infuso il soffio vitale nelle narici. È lo Spirito Santo, «la Vita di Dio, il Suo “respiro”». Dio – che è essenzialmente amore, dono e relazione – in questo modo, donandogli la vita, «dona sé stesso all’uomo». E poi «maschio e femmine li fece», anche se oggi – ha commentato – «si fa questa distinzione del “genere”», che porta «in maniera un po’ ridicola» all’indistinzione.

L’uomo quindi porta con sé il sigillo di Dio, che «imprime il suo volto nel cuore dell’uomo», facendolo così diventare simile a Lui, ma non facendolo diventare come Lui. Questa è anche una sorta di «condanna» per l’uomo, che ha «nostalgia di Dio, dell’assoluto, una nostalgia più forte di qualsiasi altra cosa. L’uomo desidera tutto, l’assoluto, Dio, ma non può raggiungerlo, anche se è fatto per Lui». Questo voler avere tutto, lo può anche portare a confondere Dio con le cose (questo è il peccato), quindi all’avidità: anche nelle cose materiali, «l’uomo ha bisogno di tutto, cerca il tutto». E qui si inserisce il diavolo, che «“vende” all’uomo ciò che l’uomo già possiede, ma presentandoglielo in una maniera talmente accattivante da illuderlo di non averlo già» (che significa anche credere che «può fare a meno di Dio»). Questa avidità, questo autoinganno portano alla volontà di dominio e alla sopraffazione. Ma è proprio qui, è proprio così che l’uomo per guadagnare tutto, «perde tutto, si degrada, torna polvere», quella polvere che è, senza Dio.

Ma la polvere degli esseri umani – ha proseguito mons. Frisina con un’intuizione superba – è anche rappresentata da quelle con le quali «copriamo noi stessi, le maschere dietro le quali ci nascondiamo», come Adamo quando, dopo il tradimento, “scopre” di essere nudo, capisce cioè di essere polvere e null’altro. Dio continua però ad amare l’uomo, e «l’uomo può riprendersi la gloria perduta tornando a Dio», non nascondendosi e non fingendo più, «riscoprendo che il proprio cuore è immagine di Dio», il luogo dove può trovarLo. Proprio per questo, il santo non è – come spesso si pensa – colui che è perfetto, ma «colui che si lascia perfezionare da Dio». Non sono le opere, ma la grazia, a liberarci dalla miseria: «lo Spirito Santo per ognuno di noi realizza dei vestitini di grazia su misura, perché Dio odia le cose fatte in serie, la massificazione, la globalizzazione omologante. Ama, invece, la diversità, che è ciò che davvero ci arricchisce».

È dunque – ha concluso – lo Spirito Santo la Vita stessa – «soffio dolce e violento» – «ciò che rende gloriosa la polvere che siamo». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Excrucior, arte e fede a Mesola

28 Apr
Gesù è inchiodato alla croce, Samuel Moretti

La sera di lunedì 18 aprile in chiesa concerto col brano di Franca Gianella e opere di Samuel Moretti

Si intitola “Excrucior” l’evento dedicato alla Via Crucis svoltosi la sera di lunedì 18 aprile nella chiesa arcipretale di Mesola.

Un progetto artistico particolare che ha visto la collaborazione fra l’artista mesolano Samuel Moretti, la compositrice di Bosco Mesola Franca Gianella e diversi musicisti e cantanti: Gianmaria Raminelli (organo), Cecilia Padovani (soprano), Elene Sanadze (soprano), Elisabetta Fantinati (mezzosoprano), Francesca Cavallari (mezzosoprano).

«Questa Via Crucis la realizzai due anni fa», ci racconta Moretti. «Gianella stava lavorando sullo stesso tema. Dopo aver visto i miei lavori, ha realizzato questo brano», “Donata Croce (Per sempre amato)”, un lavoro per voci a bocca chiusa che la sera del 18 è stato accompagnato all’organo da Gianmaria Raminelli, e ha visto alcuni momenti “teatrali” con interventi del coro narrante, voci maschili e femminili a rappresentare il popolo che assiste alla condanna di Gesù Cristo. Il brano, diviso in tre blocchi, è stato intermezzato da due Salmi (Salmo 54 e Salmo 21) e da Isaia 52 (Carme del Servo Sofferente). 

«Dopo aver scritto l’inno dedicato alla Vergine Maria Vivida luce per Soprano, Alto, Basso e Organo, ho composto la Via Crucis Donata Croce per Soprano, Alto, Coro narratore e Organo», spiega Gianella. «Per questa composizione mi sono ispirata a Maria, al dolore della madre che accompagna il figlio alla croce; le parti cantate sono tutte a bocca chiusa con momenti a bocca socchiusa e altri con suoni generici aspirati per sottolineare l’inesprimibile disumanità del dolore causato dal dover sopravvivere ai propri figli». Coro, organo e cantanti si sono esibiti davanti all’altare, dove sono state esposte, ad arco, le 14 stazioni realizzate da Moretti, disegni su carta in tavolette ovali su sostegni, ognuna di 30×14 cm circa. Per l’occasione è stato realizzato un catalogo, curato dagli Amici dell’Arte di Faenza, con cui Moretti collabora, con le opere dello stesso Moretti, il brano di Gianella, e testi dell’Assessora Lara Fabbri e del parroco don Mauro Ansaloni.

«Samuel Moretti ripropone la Passione di Cristo con disegni raffiguranti ciascuno un volto, il volto della sofferenza», sono parole di don Ansaloni. «Franca Gianella, col suo brano, ci permette di entrare nella drammaticità delle immagini del Cristo sofferente. L’arte certamente può aiutarci a rendere visibile l’Invisibile. L’occhio della fede ci introduce al Mistero, ma anche al non credente l’immagine può svelare realtà molto profonde e intime.

Franca e Samuel ci offrono, prima di tutto, l’occasione di riflettere sul dolore e sulla morte. In ciò che ha vissuto Cristo ritroviamo le nostre esperienze di sofferenza; possiamo rileggere la realtà del mondo e del nostro tempo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 aprile 2022

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Buskers festival “in gabbia”

30 Ago

(Foto Francesca Brancaleoni)


Costretta dentro Parco Massari la bella rassegna musicale svoltasi dal 25 al 29 agosto. Una riflessione

Ristretto e isolato. No: più intimo, sicuro e confortevole. Ha diviso molto i ferraresi la nuova versione “limitata” del Buskers Festival 2021.

Dal 25 al 29 agosto, la rassegna celebre in tutto il mondo si è svolta per la prima – e speriamo ultima – volta nel Parco Massari di corso Porta Mare. L’anno scorso, invece, venne scelta la formula dei tre concerti a sera per ognuno dei cinque luoghi del centro selezionati (giardino di palazzo dei Diamanti, cortile di palazzo Crema, chiostro di San Paolo, cortile del Castello Estense, palazzo Roverella). Costo del biglietto, 12 euro (l’anno scorso 10). Rilevante la partecipazione di ferraresi e non, com’è nella tradizione di questo festival negli anni sempre più amato anche oltre le Mura estensi.

Ma l’emergenza sanitaria ancora in corso ha sfibrato e stravolto rapporti, creato lontananze. E così, anche per il festival della città di Ferrara, l’anomalia è evidente, l’innaturalità del luogo palese e da non tacere. La rassegna, suo malgrado, assomigliava nei giorni scorsi a un animale, per sua natura selvatico, costretto in gabbia. Suo mondo, invece, è la città, la nostra città, non un – pur suggestivo e accogliente – parco pubblico. Relegato nella quarantena del grande cuore verde, incubo di ogni nomade, il festival si è ritrovato obbligato fra le definite e strette mura di Parco Massari.

Ma il centro di Ferrara non ha angoli, non conosce spigoli, men che meno durante “i Buskers”, inafferrabile e tarantolato vortice che prima di ogni regola rompe le geometrie, ignorando vincoli e percorsi, creando una visionaria e mai del tutto mappabile “città dei musicisti di strada”, un dedalo di slarghi e viuzze. Una rottura del quotidiano che a tutto invitava fuorché alla ripetitività, alla linearità degli spostamenti, a scansioni troppo rigide.

Con un anticipo di qualche mese, all’anno che verrà chiediamo, quindi, di restituire ai Buskers la loro città, e a quest’ultima il piacevole frastuono di quell’anima selvatica.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 settembre 2021

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Persona, comunità e cura collettiva del creato: al Ferrara Film Corto Festival dibattito sull’ambiente

14 Giu


Il 10 giugno alla Racchetta di Ferrara, mons. Perego è intervenuto in un confronto col Rabbino Caro e con diversi giovani presenti. Emersa l’importanza di agire subito

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Riflessione biblica e politica, proposte concrete per il nostro territorio e sguardo ampio a livello globale. L’incontro svoltosi la mattina del 10 giugno a Palazzo della Racchetta in via Vaspergolo a Ferrara ha tentato, nelle due ore in cui si è svolto, di abbracciare quanto più possibile la maggior parte degli aspetti e dei livelli riguardanti il tema della cura e della salvaguardia del creato. Protagonisti del confronto, il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e il Rabbino Capo della Comunità di Ferrara rav Luciano Meir Caro, moderati da Mattia Bricalli, Direttore del Ferrara Film Corto Festival – all’interno del quale si è svolto l’evento – insieme a Eugenio Squarcia (alias Lucien Moreau).

Il concetto di ecologia integrale è stato al centro dell’intervento di mons. Perego: «non bisogna esasperare l’ambiente a danno della persona, nè viceversa: ambiente e persona vanno sempre insieme. Oggi invece c’è una vera e propria dissociazione tra uomo e creato, l’uomo è diventato padrone e non custode della natura. Il modello neoliberista dominante – ha proseguito – non preserva questo rapporto fondamentale». Basti pensare ai casi dell’Amazzonia, del Congo, o a quello dell’Ilva di Taranto, «dove non si è riusciti a coniugare la difesa del lavoro con quella della salute». Al contrario per mons. Perego è sempre più necessario valorizzare i luoghi della comunità, difendere i beni comuni, naturali e non. «A rischio è la vita di tutti, ognuno è responsabile degli altri, dei propri fratelli e sorelle. Vanno dunque cambiate anche le “strutture di peccato”. Per questo è importante la politica, sono centrali le istituzioni e il ruolo della collettività».

E di conseguenza è fondamentale e urgente ripensare la città, l’urbanizzazione, rivalorizzando anche la campagna – con il suo contatto più pieno, diretto, con l’ambiente naturale, con i suoi ritmi più lenti -, attraverso un sistema di servizi e di luoghi di aggregazione che faciliti una ripopolazione. Tema, quest’ultimo, emerso in uno degli interventi dal pubblico, quello di una ragazza, presente in sala insieme a diversi altri suoi coetanei.«Nessuno è un’isola, ma legato agli altri», ha esordito rav Caro per introdurre il tema della responsabilità: «Dio ha dato all’uomo il compito di completare la Sua opera prendendosi cura della creazione, garantendone la sopravvivenza». «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» è scritto in Genesi 2,15. Per Caro, inoltre, «preservare il creato per le future generazioni significa anche non intervenire sulle leggi di natura per tentare di modificarle», come a volte purtroppo avviene nell’ambito della bioetica. «Siamo all’anno zero, occorre una rivoluzione», ha riflettuto il Rabbino nella parte conclusiva del dibattito. «Non bastano più le parole. Portiamo concretamente nel presente i principi che Dio ci ha dato. Anche le grandi religioni hanno avuto gravi mancanze in questo ambito».

Alla presenza anche di mons. Perego, subito dopo sono intevenuti la cantante Irene Beltrami e il musicista Matteo Tosi per presentare il loro nuovo album “Anima reale” (di cui con loro abbiamo parlato nel numero dello scorso 23 aprile). Beltrami, lo ricordiamo, è anche la voce solista del brano “Laura canta insieme a noi” dedicato a Laura Vincenzi. Lei stessa ha riflettuto sull’importanza della tutela dei beni comuni – tanto naturali quanto culturali e spirituali -, mentre Tosi ha posto l’accento sull’importanza, nella musica come nella cura dell’ambiente, del concetto di armonia: armonia tra uomo e natura, negli ambienti creati dall’uomo, nella natura.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 giugno 2021

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