
Festival Internazionale /2. La giornalista Cecilia Sala (Il Foglio, Chora Media) a Ferrara ha presentato il suo nuovo libro, analizzando la situazione drammatica nei tre Paesi
Guardare il mondo con le sue profonde trasformazioni attraverso gli occhi delle giovani generazioni. È quello che ha tentato di fare Cecilia Sala – giornalista lei stessa giovane (28 anni), che lavora per Il Foglio e Chora Media – col suo nuovo libro “L’incendio” (Mondadori, 2023), presentato lo scorso 30 settembre al Ridotto del Comunale di Ferrara per il Festival di Internazionale. Nel suo volume, Sala racconta le storie di giovani ucraini, iraniani e afghani, protagonisti coraggiosi in Paesi in guerra o nei quali vengono negate alcune libertà fondamentali.
UCRAINA: DIFENDERE LA LIBERTÀ
«I giovani ucraini nati nei primi anni ’90 – ha spiegato Sala rispetto al Paese in guerra – rappresentano la prima generazione post sovietica, quindi indipendente». Le proteste di Euromaidan nel 2013, che l’anno successivo portarono alla fuga del presidente filorusso Janukovyc, hanno visto tanti di questi giovani diventare protagonisti.
«Non voglio vivere nella paura, so che la violenza è inevitabile, e quindi non voglio vivere con questa minaccia incombente. E non voglio che il compito di combattere contro Putin spetti a un’altra generazione successiva alla mia. Per questo, spero ci sia la guerra». Oggi Kateryna è una soldatessa dell’esercito ucraino, ma queste parole le disse a Cecilia Sala a inizio 2022, prima dell’invasione russa. «I giovani come lei – ha spiegato la giornalista – vogliono difendere la loro libertà, le loro conquiste. Lei a inizio 2022 era più lucida di molti anziani ucraini e dello stesso Zelensky, che minimizzava e credeva che al massimo l’esercito di Putin avrebbe provato a invadere il Donbass».
Purtroppo, «un odio e un rancore profondi vivono ormai nei cuori degli ucraini», alimentato dalla guerra ma con radici antiche, a causa di storia di sottomissione alla Grande Russia.
IRAN: TRASFORMAZIONI INARRESTABILI
Chi da oltre 40 anni vive sotto un regime è il popolo iraniano. «È difficile che qualcosa cambi in tempi brevi – ha detto Sala -, dato che il Governo continua comunque a mantenere la totalità dei gangli economici e delle armi. Ma le trasformazioni sono inarrestabili». Già da 15 anni gli ayatollah «sanno di aver perso i loro giovani – che non condividono le loro tradizioni -, e così sanno di aver perso il futuro». Le repressioni e l’inasprimento delle sanzioni per le donne che non indossano il velo convivono con la consapevolezza concreta del regime che non può arrestare tutte le donne – tante, sempre di più – che lo indossano “male” o non lo indossano. E che «oggi in Iran vi sono comunque donne che pilotano aerei, che hanno ruoli dirigenziali, che sono ingegneri aerospaziali. Una donna è stata anche vicepresidente» (Masoumeh Ebtekar, dal 2017 al 2021).
Storicamente, Sala ha ricordato anche come la rivoluzione che nel 1979 portò al potere la Repubblica Islamica deponendo lo shah Muhammad Reza Pahlavi, inizialmente non fosse solo islamica ma composta anche da marxisti, socialisti, nazionalisti e da femministe, donne che il velo non lo indossavano. Poi, purtroppo, il clero sciita prese il controllo del potere.
AFGHANISTAN: LA VERGOGNA DEL RITIRO
Qui il potere oppressivo il potere l’ha ripreso dopo 20 anni: «tanti giovani nei 20 anni dopo la liberazione del Paese dal regime talebano, hanno solo sentito parlare di loro». Con il ritiro delle truppe USA e NATO (iniziato nel 2020 con Trump, proseguito nel ’21 con Biden presidente), i talebani sono tornati al potere «nonostante non rappresentino assolutamente la maggioranza degli afghani. Il ritiro è stato un disastro totale, una grande vergogna», ha detto Sala. «E non si è riusciti a mettere in salvo fuori dal Paese tanti che in quei 20 anni avevano collaborato con USA e NATO e tante donne che in questo ventennio avevano scoperto la libertà e magari ottenuto il divorzio da mariti che le sottomettevano. Questo atto di debolezza di USA e NATO ha convinto Putin a invadere l’Ucraina. Ma l’Ucraina se non fosse stata fin da subito aiutata dalla NATO, in poco tempo sarebbe stata interamente occupata dai russi».
Speriamo di imparare dalla storia, più o meno recente, e dalla voglia di libertà dei questi giovani.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce” del 6 ottobre 2023

Hong Kong, regione amministrativa speciale della Cina, fino al ’97 colonia britannica, nel 2047 sarà destinata a rientrare totalmente sotto il dominio cinese. Una prospettiva vissuta con sempre maggiore paura da molti hongkonghesi, giovani e non solo. Per questo, sempre più persone sono scese nelle piazze per protestare rivendicando più libertà, ma la polizia locale, legata a quella cinese, vi si sta opponendo con una violenza sempre più preoccupante. Di questo si è discusso nell’incontro “La rivolta delle periferie. Le proteste a Hong Kong e la resistenza di Taiwan alle ingerenze cinesi nell’era di Xi Jinping”, svoltosi la mattina di domenica 6 ottobre in Sala Estense, all’interno del programma del Festival di “Internazionale”. Sono intervenuti tre giornalisti spesso presenti a Hong Kong per raccontare in prima persona quel che sta accadendo: Brian Hioe, taiwanese – fra i fondatori del sito “New Bloom”, nato nel 2014 durante le proteste contro il regime cinese -, Louisa Lim, dell’Università di Melbourne, e Jeffrey Wasserstrom, dell’Università della California. L’incontro è stato moderato dalla giornalista di “Internazionale” Junko Terao. Dalla scorsa primavera, migliaia di persone scendono in piazza per rivendicare maggiori libertà individuali e collettive: la scintilla iniziale è stata l’approvazione della legge sull’estradizione di criminali e dissidenti da Hong Kong verso la Cina, imposta dal governo locale. Ho vissuto a Honk Kong per i primi sei mesi del 2019”, ha spiegato Lim. “L’atmosfera è cambiata in modo drastico e catastrofico sotto i nostri occhi. Finora vi sono state 67 manifestazioni, sempre senza leader, di cui 13 non autorizzate, con 2.022 arresti, un terzo dei quali studenti. Fra le conseguenze, una sempre maggiore violenza da parte della polizia e la chiusura di molti luoghi pubblici, per contrastare, secondo il linguaggio del governo, le ‘adunate sediziose’. Non mancano poliziotti infiltrati tra i manifestanti”, ha proseguito. A tal proposito, quest’ultimi per smascherare i primi, infilano la camicia nei pantaloni, così da distinguersi dai poliziotti, i quali, per non farsi riconoscere come tali, nascondono la pistola lasciando fuori la camicia dai pantaloni. In generale, “a Hong Kong dal 2014 ho notato un sempre maggiore controllo e indottrinamento filo-cinese ad esempio nelle scuole e nei media”, sono ancora parole di Lim, oltre al controllo del territorio, “avendo raddoppiato a 12mila unità le forze militari”. Il tutto facilitato dal governo locale di Hong Kong sempre più dipendente alla Cina. Wasserstrom, presente in primavera per raccontare le proposte di Hong Kong, ha spiegato invece come “i manifestanti rivendichino un’identità propria, diversa da quella cinese” – che invece vorrebbe essere totalizzante -, “anche se ne riprendono alcuni aspetti, ad esempio il riferirsi alle proteste di piazza Tienanmen dell’89”, oltre a certo immaginario occidentale. Sempre più forte è anche “la richiesta di un’indagine imparziale sull’operato delle forze dell’ordine”, soprattutto dopo il grave ferimento con arma da fuoco di un manifestante 18enne a opera di un poliziotto. Hoei ha invece spiegato come “Taiwan, che ora gode di una certa indipendenza e democrazia” – seppur riconosciuto da pochi Stati, fra cui quello del Vaticano -, “sostiene i manifestanti di Hong Kong: a volte vi sono anche forme concrete di collaborazione fra questi e gli attivisti taiwanesi e cinesi: di quest’ultimi ne ho visti in piazza a Hong Kong”. Un’alleanza resistente, naturalmente temuta dal governo cinese. Governo che sogna “uno Stato monoculturale sotto Xi Jinping. Vedremo comunque – ha concluso – anche le conseguenze della guerra commerciale con gli USA”.
“Il futuro migliore. In difesa dell’essere umano” (Il Saggiatore, 2019) è il nome dell’ultima fatica di Paul Mason, scrittore e giornalista inglese, collaboratore del Guardian. In occasione del Festival di “Internazionale” il libro è stato presentato nel pomeriggio del 5 ottobre nel Cortile del Castello di Ferrara, stracolmo per l’occasione. Il giornalista, dialogando con Marino Sinibaldi di RAI Radio 3, ha spiegato il suo concetto di “nuovo umanesimo”, mosso da “un ottimismo radicale”, in una società come quella contemporanea dove convivono un’euforia tecnologica e un pessimismo geopolitico. “Cerco di proporre idee per una resistenza al controllo sempre più forte delle macchine, della tecnologia e del mercato sull’umano”, ha spiegato Mason. “La mia intenzione è quella di difendere radicalmente l’essere umano, il quale nel suo DNA ha tanto l’aspetto immaginativo, quanto il linguaggio, tanto l’aspetto tecnico quanto la volontà di collaborare coi suoi simili, quindi uno spirito cooperativo: tutti questi fattori vanno valorizzati, avendo il fine della liberazione da un sistema economico che mette in crisi le stesse democrazie”. Davanti alla crisi ormai manifesta dell’ “io” liberale e liberista, non bisogna – come invece spesso accade – cadere in uno sterile “fatalismo”, ma riscoprire “la capacità umana di agire liberamente, anche resistendo a un certo sistema dell’informazione che o censura o fa propaganda o deliberatamente fa circolare fake news”. Il nuovo soggetto della storia, secondo Mason, è “l’individuo reticolare” (concetto in parte ispirato da Manuel Castells), ultimo stadio del cammino dell’umanità che va “dalla difesa dei propri interessi personali alla lotta organizzata” per la liberazione di tutti. “Sta a voi giovani – è il messaggio finale di Mason – intraprendere questo percorso, liberandovi da una mentalità gerarchica” – che tanti danni ha fatto in passato, anche nei movimenti di liberazione – e rivalutando la “centralità del corpo come luogo privilegiato dell’umanità e dell’impegno attivo”.
Qual è il senso e il ruolo della Chiesa – e più in generale delle religioni – in società secolarizzate e scristianizzate come quelle occidentali contemporanee? E l’Europa dove può trovare il giusto equilibrio fra rispetto della laicità e creazione di un sistema valoriale condiviso? Sono due delle domande fondamentali che hanno attraversato l’intenso dialogo fra il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e Olivier Roy, accademico francese esperto di Islam e religioni, all’interno del Festival di “Internazionale” svoltosi a Ferrara fra il 4 e il 6 ottobre scorsi. Partendo dal tema “Il sacro e il profano. Crocifisso, rosario e presepe: perché la politica riscopre i simboli religiosi”, in un Teatro Nuovo quasi esaurito (soprattutto di giovani), è stata Stefania Mascetti, giornalista di “Internazionale” a intervistare e a interloquire con i due ospiti.



