Magistrale intervento dello scrittore israeliano David Grossman il pomeriggio di domenica 19 maggio al Teatro Comunale “Abbado” di Ferrara, in occasione della Festa del Libro Ebraico organizzata anche quest’anno dal MEIS

di Andrea Musacci
Spesso si associa la letteratura alla finzione, a qualcosa di distante dal reale, in un certo senso di alienante, di sfuggevole. E’ di tutt’altro avviso David Grossman, romanziere israeliano tra i più apprezzati a livello globale, intervenuto domenica 19 maggio al Teatro Comunale “Abbado” di Ferrara in occasione della Festa del Libro Ebraico organizzata dal MEIS – Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, in collaborazione con il Teatro Comunale e con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara. La mattinata ha visto nella struttura di via Piangipane la presentazione di cinque libri, di altrettante donne, dedicati a ebrei italiani: “La mia vita incisa nell’arte. Una biografia di Emma Dessau Goitein” (Mimesis, Milano, 2018) di Gabriella Steindler Moscati che ne ha parlato con la storica dell’arte Martina Corgnati; “Rita Levi Montalcini. La signora delle cellule” (Pacini Fazzi, Lucca, 2018) di Marcella Filippa, che ne ha discusso col genetista e scrittore Guido Barbujani; “Un impegno controcorrente: Umberto Terracini e gli ebrei, 1945-1983” (Zamorani, Torino, 2018) di Marta Nicolo, che invece ne ha parlato con Fausto Ciuffi, Direttore della Fondazione Villa Emma. Infine, due “casi letterari”, “Il caso Kaufmann” (Rizzoli, Milano, 2019) di Giovanni Grasso, che ne ha discusso con la storica Anna Foa, e “Anita” (Bompiani, Milano, 2019) di Alain Elkann, in dialogo con Vittorio Sgarbi. Nel pomeriggio, al Comuale, l’atteso incontro con Grossman ha visto innanzitutto i saluti di Dario Disegni, Presidente del MEIS, e poi il dialogo-intervista tra lo scrittore israeliano e il Direttore MEIS Simonetta Della Seta. “Quando creo un personaggio – ha esordito Grossman -, devo prima cercare di identificarmi con lui fisicamente, immaginandone la voce, il corpo, le abitudini. Quando scrivo, quindi, sento come il bisogno di vedere nelle persone ciò di cui devo scrivere, è come se la realtà mi venisse incontro, vicino, in ogni suo dettaglio: quando ciò avviene, provo una grande gioia”. Ad esempio, per il romanzo “Qualcuno con cui correre” (2000) – ha proseguito -, “cercavo un’adolescente dura e tenera al tempo stesso, ma non la trovavo. Un giorno, vicino Gerusalemme, vidi una 16enne vestita di blu, i pantaloni lisi: da alcuni suoi modi di fare capii che era lei il tipo di ragazza che cercavo”. E a proposito di persone dell’altro sesso, o di altre età o provenienze, Grossman ha raccontato un altro aneddoto: “quando stavo scrivendo ‘A un cerbiatto somiglia il mio amore’ (2008. ndr), non riuscivo a ’catturare’ un personaggio femminile, allora le scrissi una lettera: ‘cara, perché non ti arrendi?’, e nel scrivere queste parole capii che ero io a dovermi arrendere a lei, perché si rivelasse. Ognuno dentro di sé – è il suo pensiero – possiede tantissimi personaggi, anche se spesso, col passar degli anni, ci autolimitiamo, mentre se vogliamo possiamo essere molti personaggi, se solo scavassimo dentro di noi. Così supereremmo i limiti, gli schemi, ad esempio, del nostro sesso, del nostro luogo – ad esempio se io immaginassi di essere un palestinese -, riuscendo a trovare forme diverse, a trasformarci”. Lo stesso discorso vale “quando scrivo libri per bambini, così da dovermi immedesimare in loro: i bambini hanno il dono, non conoscendo ancora bene la realtà, di poterla moltiplicare all’infinito, di poterle dare tante forme. In questo sono simili all’uomo primordiale”. Ma al tempo stesso questo mistero che è la realtà “provoca in loro tante paure”. E come il bambino nel conoscere il reale conosce sempre più se stesso, così il protagonista del suo ultimo libro, “Applausi a scena vuota” (2014), riuscirà a ritrovare se stesso, “quel se stesso che era durante l’infanzia”. Così, “l’arte e la letteratura – ha spiegato ancora Grossman – sono strumenti che ci aiutano a capire chi siamo, a uscire dagli schemi nei quali spesso ci troviamo, ritrovando il nostro ‘io’ vero, e riuscendo noi stessi a raccontare storie sempre più autentiche, sempre più aderenti alla realtà e a ciò che noi davvero siamo”. Nella parte conclusiva del dialogo-intervista, si è riflettuto nello specifico sul ruolo della lingua ebraica nella letteratura: “una lingua – l’ha definita Grossman – che è come un fiume, sul cui letto si depositano tante cose, e così nell’ebraico in 4mila anni si sono depositate storie, persone, tradizioni. Anche per questo – ha spiegato – è molto importante studiare i testi sacri, e lo dico da laico, un laico che si sente però parte della grande tradizione del suo popolo”.
“La parte più profonda della persona non si può eliminare”
Il 19 maggio al MEIS inaugurata la mostra di Manlio Geraci, “Libri proibiti”, dedicata ai deportati da Milano e Ferrara: “ogni volta che si brucia un libro si brucia l’anima dell’uomo”
Si chiamano Bücherverbrennungen, “roghi di libri”, le tremende azioni compiute dai nazisti nel 1933 per eliminare volumi di ebrei, oppositori politici e di tutto ciò che non rientrava dentro lo spietato universo nazionalsocialista. Manlio Geraci (foto sotto), artista palermitano, ha voluto metaforicamente “salvare” dalle fiamme dell’odio 774 libri, lo stesso numero dei deportati ad Auschwitz che partirono dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano con il primo convoglio. Salvare i libri, la memoria, la cultura, lo spirito critico, per salvare vite, corpi, futuri. L’installazione, intitolata “Libri proibiti”, è stata presentata nel pomeriggio di domenica 19 maggio al MEIS, nel Giardino delle domande, in occasione della Festa del Libro Ebraico. “Ho voluto dedicare a queste persone deportate e poi uccise – ha spiegato l’artista durante l’inaugurazione – un diario cromatico, un ricordo che possa riflettere la loro spiritualità, la loro interiorità più profonda, che non si può cancellare”. Il nero delle bruciature sui dorsi dei volumi rappresenta “l’oscurità, la morte, le tenebre dalle quali comunque si è riusciti a uscire”. “Quando si brucia un libro si brucia l’anima dell’uomo”, ha invece riflettuto il curatore Ermanno Tedeschi, ferrarese d’origine. Nell’installazione al MEIS, ha spiegato, l’artista ha scelto di aggiungere un secondo mucchio di volumi, nel numero di 156, come i deportati dalla città di Ferrara. I libri – in legno – contengono diversi effetti cromatici, il rosso del sangue, il blu del cielo, il giallo del tradimento, oppure chiodi, o, ancora, pezzi di vetro, simbolo della Notte dei Cristalli del ’38. “L’odio per il diverso e il razzismo sono tornati nelle nostre società – ha riflettuto il curatore -, e quindi mi rivolgo soprattutto ai giovani: è importante fare qualcosa, e l’arte può essere un mezzo”. L’arte, certo, è di casa al MEIS ma per la prima volta un’esposizione d’arte contemporanea viene ospitata nella struttura di via Piangipane. Ha portato il saluto dell’Amministrazione e della Città anche il Sindaco Tiziano Tagliani: “un museo non è un luogo statico ma di dinamismo e di ricerca. La cultura continua a riprodursi e a creare qualcosa di nuovo, che provoca domande più che dare risposte”. E le domande sono quelle che fioriscono anche nel libro, che, come ha detto il Direttore MEIS Simonetta Della Seta, “è sia memoria – per sapere cos’abbiamo dietro, per non ‘inciampare’ – sia ponte verso il futuro”. Quel futuro rappresentato dai giovani, presenti all’evento, provenienti da quattro scuole medie di Asti, tra cui la Scuola Olga Leopoldo Jona, deportati e poi uccisi a Birkenau.
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 maggio 2019


Quando si parla del periodo delle leggi razziali, è importante parlare delle sofferenze patite da ciascuno dei 50mila ebrei in Italia, dei rischi che correvano, da ciò che gli è stato portato via (tutto), da ciò che gli è stato restituito dopo (poco), e del fatto che il Parlamento non ha mai chiesto loro scusa”. Non ha usato giri di parole Fabio Isman, giornalista e saggista (che in passato si è occupato tanto anche di terrorismo), lo scorso 22 gennaio al MEIS di Ferrara in occasione della presentazione del suo libro “1938. L’Italia razzista” (Il Mulino, 2018). Le leggi razziali in Italia, precedute da un censimento – una vera e propria schedatura “essenziale per chi dopo andrà a prelevarli per deportarli nei campi di concentramento” -, e anticipate da una violenta campagna antisemita, esclusero gli ebrei dalla scuola, dal lavoro, dalla vita civile e sociale. Isman ha compiuto una capillare ricerca in diversi archivi sul territorio nazionale (ma “il lavoro sarebbe infinito…”, ha spiegato lui stesso) per portare a galla informazioni, aneddoti, storie di persone in carne e ossa sentitesi all’improvviso stranieri indesiderati nel luogo dove vivevano, tranquillamente, da cittadini. “La persecuzione contro di loro – ha spiegato Isman – in Italia non è stata, come dicono alcuni, ‘all’acqua di rose’, ma durissima, ed è iniziata non nel ’43, ma nel ’38”. E’ infatti, pubblicato il 14 luglio del ’38, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia”, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Tra i firmatari vi è il medico Nicola Pende (al quale è ancora intitolato un Istituto Comprensivo, il Gramsci-Pende, a Bari). Pend nel ’38 sostenne pubblicamente “la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza”. E’ di pochi mesi successivo – del 17 novembre – la promulgazione del decreto governativo n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – anche se sono 420 in totale, fino al 1945, le norme e i decreti razzisti emanati in Italia, “che il re sottoscrisse senza vergogna. Queste norme razziste – ha proseguito lo scrittore – sono state l’anticamera della Shoah”. Insomma, “molti italiani non erano affatto ‘brava gente’ ”, e lo dimostrano, ad esempio “le istanze ai prefetti, dove nostri connazionali chiedevano, per citarne una, se potevano occupare appartamenti requisiti dopo il ’38 a ebrei”, senza nessun scrupolo al riguardo. Nel ’39 nasce l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (Egeli), con sede a Roma e guidato da un presidente e da un consiglio d’amministrazione nominati direttamente da Mussolini, chiuso definitivamente solo nel 1997. “Agli ebrei presero tutto – sono ancora parole di Isman -, non si contano le ruberie e le razzie ai loro danni, con schedatura dei loro beni di una minuzia straordinaria. Dopo il censimento, gli ebrei dovevano autodenunciarsi alle autorità, dichiarando di appartenere alla ‘razza ebraica’ ”. “Papa Pio XI fu uno dei pochi oppositori alle leggi razziali, ma molti dei parroci erano assolutamente favorevoli”, ha proseguito. “Pio XI scrisse un’enciclica contro fascismo e nazismo, mai pubblicata dal suo successore, la trovarono sul suo comodino quando morì”. Si tratta di Humani generis unitas (Sull’unità del genere umano), che conteneva una condanna categorica dell’antisemitismo, del razzismo e della persecuzione degli ebrei. Fu invece pubblicata l’enciclica di Pio Xi del ’31, “Non abbiamo bisogno”, a difesa dell’Azione Cattolica, dove il Pontefice scrive: “[il fascismo è] una vera e propria statolatria pagana, non meno in contrasto con i diritti naturali della famiglia che con i diritti soprannaturali della Chiesa”. Isman ha poi proseguito sottolineando ad esempio come le discriminazioni antiebraiche iniziarono dalle scuole: “prima vennero espulsi infatti insegnanti e studenti, alcuni di loro finirono ad Auschwitz, come Enrico e Luciana Finzi”, iscritti al Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma, deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, e mai tornati. “Espulsi dalle scuole furono anche i libri di testo di 114 autori ebrei. Grazie alle norme razziali – proseguendo -, gli ebrei venivano ad esempio anche tolti dagli elenchi telefonici, non potevano più praticare più l’arte fotografica…”. “Oltre 40 ebre italiani” non resistettero a questo clima d’odio assurdo, e si suicidarono. Tra questi, Giuseppe Jona, medico veneziano, dal giugno 1940, anche se non ebreo praticante, alla guida della comunità israelitica locale. Dopo l’8 settembre 1943 scelse di rimanere a Venezia come riferimento per chi non voleva o non poteva fuggire. Di fronte alla richiesta delle autorità tedesche di consegnare una lista aggiornata degli ebrei rimasti in città, Jona il 14 settembre redasse il proprio testamento, lasciando gran parte dei suoi beni ad opere sociali e caritatevoli, e tre giorni dopo si tolse la vita, dopo aver distrutto ogni documento in suo possesso che potesse rivelare l’identità e il domicilio degli ebrei veneziani. Fra alcune altre storie da non dimenticare, citate da Isman, vi è quella del primo deportato italiano, Renzo Carpi, mantovano residente a Bolzano, e quella di Renato Terracina, fra i 4.450 ebrei che si sono salvati garzie all’accoglienza trovata in 180 strutture ecclesiali cattoliche.



