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«Ascolto della cittadinanza, sinergia e visione: ecco ciò che oggi manca a Ferrara»

10 Dic

Romeo Farinella (urbanista di UniFe) è intervenuto per la presentazione del libro Spazi pubblici, usi privati di Italia Nostra: «così non c’è futuro»

di Andrea Musacci

Una città senza visione, quindi senza futuro, dove le società private la fanno sempre più da padrone, a scapito del governo pubblico e del ruolo della partecipazione dei cittadini.

È un’analisi dura ma necessaria quella emersa lo scorso 4 dicembre dall’incontro svoltosi nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, incontro dal titolo Spazi pubblici, usi privati: l’impatto dei grandi eventi sui luoghi storici e naturali

Il titolo è lo stesso del libro (ed. La Carmelina) presentato per l’occasione, curato da Lucia Bonazzi, promosso da Italia Nostra – Sezione di Ferrara, e uscito lo scorso giugno. Proprio Bonazzi ha dialogato con Romeo Farinella, urbanista dell’Università degli Studi di Ferrara, mentre le introduzioni sono state affidate a Giuseppe Lipani, presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, e a Patrizio Bianchi, titolare della Cattedra Unesco “Educazione, crescita, uguaglianza” dell’Università degliStudi di Ferrara.

FARINELLA: «SERVE PIÙ SINERGIA E RUOLO DEL PUBBLICO»

«Si parla tanto di partecipazione, ma la vera partecipazione è un gioco di attori, deve riguardare tanto la cittadinanza attiva quanto le istituzioni»: così Romeo Farinella fin dalle prime battute del suo intervento ha messo il dito nella piaga di una delle contraddizioni o meglio, mistificazioni, dell’ambito del confronto pubblico nella nostra città. «Se manca l’interlocuzione tra queste parti», se – cioè – la partecipazione è solo quella dal basso, dei cittadini, «è a senso unico, è meramente formale, burocratica», ha aggiunto. Partecipazione che significa anche «conflitto, elemento essenziale nelle democrazie».

Altro punto importante toccato da Farinella riguarda «l’importanza di ragionare in termini sinergici tra città, tra realtà locali: Ferrara purtroppo lo fa poco». Ad esempio, «gli Atenei di Ferrara, Modena e Bologna, pur vicini, non dialogano e collaborano tra loro» (considerando anche il fatto che «Ferrara è una città con l’università ma non ancora una città universitaria»). In questo, la gestione dei grandi eventi è emblematica, essendo «all’insegna della competizione fra le città». 

Nella nostra città – ha proseguito Farinella – «il Progetto Mura e dell’Addizione verde invece di essere considerati un punto di ripartenza, e quindi un laboratorio per ripensare la città e i suoi spazi pubblici, sono stati e sono vissuti come un punto di arrivo». Insomma, anche negli attuali amministratori pubblici di Ferrara «manca un progetto di città, una visione, una strategia; anzi, una strategia c’è ed è proprio quella che l’attuale Amministrazione sta attuando: sempre più parcheggi, anche in centro e in luoghi tutelati come la Certosa, e un aumento dell’accesso dei veicoli nel centro storico». Servirebbero invece «più treni invece di pensare al rafforzamento delle strade». Una critica Farinella l’ha rivolta anche in merito a un recente incontro pubblico: «alcuni giorni fa all’iniziativa in Municipio in occasione dei 30 anni dal riconoscimento UNESCO per Ferrara e il Delta, non si è parlato di quest’ultimo e non vi sono stati interventi riguardanti i problemi di Ferrara e della sua urbanistica».

«Perché – si è chiesto ancora il relatore – UniFe non ha dato vita a un laboratorio sulla città?»: questo è un altro esempio di mancata sinergia/dialogo tra le istituzioni.E vale anche per le precedenti Amministrazioni comunali». E a proposito di dialogo e di partecipazione, per Farinella risulta «imbarazzante» che nella nostra città «non esista più un Urban Center», cioè l’organismo  che fino a pochi mesi fa svolgeva funzioni cruciali come «attività di ascolto, informazione, analisi di casi, accompagnamento delle comunità, supporto alla promozione delle iniziative», oltre alla gestione degli strumenti online e al coordinamento del Gruppo di lavoro “Beni comuni”.

Altrettanto «imbarazzante» è il fatto che «non esista un Museo della Città di Ferrara, altro segno della mancanza di strategia di chi ci amministra», oltre alla «scarsa manutenzione dello spazio pubblico, all’interno di un serio “Piano del verde”. Ma anche di questo, a livello delle istituzioni non se ne parla…».

Le riflessioni conclusive di Farinella sono state più generali, ancor più profonde e han riguardato «il venir meno, negli ultimi decenni, di una dimensione comunitaria, e di un crescere di quella individualistica». A ciò si affianca sempre più il problema del «modello di sviluppo» delle nostre società, nelle quali «il governo pubblico dei processi è sempre più debole», ad esempio «nell’assumere sempre meno professionisti» nello stesso pubblico, «delegando a privati attività un tempo a carico dell’Amministrazione pubblica»; mentre sempre più potere – si veda riguardo alla stessa scelta e gestione dei grandi eventi – «lo hanno società private». Senza pensare al fatto che «quando una città esalta i grandi eventi come volàno di sviluppo, vuol dire – appunto – che è una città senza visione, quindi senza futuro».

GLI ALTRI INTERVENTI: NUOVE REGOLE E  MAGGIOR TUTELA DEI BENI COMUNI

«Come Italia Nostra ci auspichiamo che si arrivi a un Regolamento ufficiale, quindi nei termini di legge, su cosa si può fare e cosa no al Parco Urbano di Ferrara», ha detto Lucia Bonazzi: «quali e quanti eventi, con quanti spettatori, con quanti decibel».E «chiediamo che il Parco Urbano sia maggiormente tutelato, o attraverso un vincolo paesaggistico o rendendolo zona di protezione speciale della Rete UE “Natura 2000″», nato appunto per la conservazione della biodiversità. Per i grandi eventi, andrebbe invece «valorizzata l’area nella zona meridionale della città». 

Lipani ha invece auspicato nella nostra città un «guardare in maniera integrata»: sviluppo e tutela possono andare assieme» e lo sviluppo, quindi, «non segua la mera logica del mercato». Se i beni comuni sono «il  patrimonio ereditato dai padri», la loro tutela «non può non essere partecipata»: non vanno quindi considerati come «un insieme di risorse da consumare», ma beni per cui «mettere a disposizione le proprie competenze e conoscenze». Lavorare assieme, insomma, «all’insegna della reciproca responsabilità», una «co-produzione di conoscenze che diventa co-progettazione».

Sprazzi utili per la riflessione  li ha regalati anche Bianchi, trattando innanzitutto della partecipazione da intendere come «capacità di sentire individualmente e collettivamente la responsabilità», o del «rapporto tra patrimonio e sviluppo, da ridefinire considerando non solo il patrimonio tangibile, ma soprattutto quello intangibile, immateriale». E infine, l’accento sull’importanza di «tornare a ragionare sul lungo periodo, anche riguardo ai grandi eventi», e «pensando a tutte le possibili ricadute, considerando la città tutta assieme, non a comparti separati».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025

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Casa, mobilità, energia: una città davvero di tutti (e non privatizzata)

8 Mag


Romeo Farinella (urbanista di UniFe) è intervenuto a Casa Cini per il primo incontro della Scuola diocesana di formazione politica: «spesso la “rigenerazione green” è mera retorica classista»

di Andrea Musacci

«I problemi dell’organizzazione e della gestione degli spazi urbani non possono essere affidati ai “tecnicismi”. L’urbanistica è politica, ma c’è bisogno, sia a livello locale che globale, della capacità del governo pubblico di affrontare e assumere la complessità dei problemi, superando approcci settoriali per poi pensare a strategie serie». La Scuola diocesana di formazione politica, partita la sera del 30 aprile scorso a Casa Cini, Ferrara, intende affrontare temi riguardanti il nostro territorio nell’ottica della concretezza, del confronto e della partecipazione, per poter quindi immaginare stili e modi di vivere differenti. Un obiettivo ben sintetizzato dalle parole che abbiamo usato per iniziare questo articolo, pronunciate la sera del 30 dall’urbanista di UniFe Romeo Farinella, intervenuto insieme a Chiara Sapigni (Ufficio Statistica della Provincia) sul tema “Strategie per il futuro della città. Riflessioni su Ferrara”. Il secondo incontro è in programma il 7 maggio alle 20.30 a Casa Cini: un gruppo di giovani del Liceo Ariosto di Ferrara incontra Isabella Masina, vicesindaca Comune di Voghiera ed Elia Cusinato, Consigliere Comune di Ferrara.

CONTRO LE CITTÀ SELETTIVE

Per Farinella, ciò che serve a Ferrara e non solo è «una politica di solidarietà, non di competitività tra città» (e cittadini) che in particolare affronti i temi della mobilità pubblica e della casa – «che è un’emergenza nazionale». Occorre, però, innanzitutto abbandonare la «retorica della sostenibilità», termine ormai abusato e travisato, «categoria che il capitalismo sta usando per giustificare le sue logiche estrattivistiche». Occorre – per Farinella – recuperare «un’autorevolezza della politica, del ruolo pubblico nei processi di governo», oggi in crisi, una «crisi di classe dirigente, non di potere»: emerge, infatti, sempre più una classe dominante («che vuol dominare, non governare») «orientata al rafforzamento delle disuguaglianze» e con «forme subdole di autoritarismo e autoreferenzialità». Basta vedere «le politiche di rigenerazione urbana – fondate sull’ideologia neoliberista -, sempre più all’insegna della selettività», ha proseguito.Ad esempio, a Milano le politiche di “rigenerazione green” sono selettive nel senso che «riguardano solo determinati quartieri, a livello immobiliare accessibili solo a fasce di reddito medio-alto»; e queste “green”, inoltre, sono azioni che a loro volta determinano «un innalzamento del valore immobiliare». Un esempio opposto è Vienna (dove è appena stato riconfermato il sindaco socialista Michael Ludwig), nella quale «da decenni è forte l’investimento pubblico nell’edilizia popolare». È proprio questo il ruolo che il pubblico deve avere: «gestire i conflitti» (e il mercato), non far finta che non ci siano.«Basti pensare agli studentati in Italia, ormai quasi interamente affidati ai privati per la progettazione, realizzazione e gestione», esempio di come oggi vi sia «un’egemonia delle rendite immobiliari», una sempre più marcata gentrificazione, una «privatizzazione dello spazio pubblico», con conseguente controllo di determinati quartieri urbani, a livello di sicurezza, anche da parte di soggetti privati, oltre che di una sempre più diffusa «militarizzazione dello spazio pubblico». Per non parlare della «privatizzazione di aree pubbliche attraverso eventi» ludico-artistici che – come nel caso di Ferrara – occupano piazze e vie pubbliche per intere settimane, o l’idea della “città 15 minuti” che però viene applicata – in alcune metropoli – solo ai quartieri “benestanti” e non a quelli popolari. Conseguenza di tutto ciò è la sempre maggiore «marginalizzazione dei più poveri», che nell’ottica neoliberista-securitaria «non devono interferire con queste dinamiche ultraselettive, privatistiche» e classiste.

Tanto a livello globale quanto a livelo locale, quindi, per Farinella, la questione ecologica e della sostenibilità «non può essere affrontata senza prima affrontare le sempre più enormi disuguaglianze a livello economico»: ci vogliono, quindi, «forti politiche di redistribuzione delle ricchezze». Elaborare, quindi, «una seria strategia per Ferrara non significa solo piantare più alberi ma affrontare i problemi strutturali, e farlo coinvolgendo direttamente la cittadinanza: casa, mobilità pubblica, energia («le Comunità energetiche possono essere una risposta importante», ha aggiunto il relatore). 

Non di meri «ritocchi “estetici”», dunque, ma di «grandi cambiamenti» ha bisogno la nostra città.


IL LIBRO. Ne “Le fragole di Londra” la denuncia delle nuove city solo per le élites

È sempre più necessario «prendere posizione nei confronti del neoliberismo come modello di sviluppo che condiziona le politiche urbane da oltre quarant’anni».Così Romeo Farinella nel suo ultimo libro, “Le fragole di Londra. Attraverso le città disuguali” (Mimesis ed., 2024), nel quale approfondisce i temi affrontati a Casa Cini. 

«Il mercato della casa – scrive ancora – è mercificato e i processi riguardanti la gentrificazione, la turisticizzazione, la prevalenza dell’affitto short time su quello a lungo termine, contribuiscono spesso alla frammentazione del corpo sociale urbano».Fenomeni tipici delle metropoli (da quelle occidentali a quelle come IlCairo o Dubai, con nuovi insediamenti urbani costruiti ad hoc e ultra-classisti) ma sempre più presenti anche in città di piccole-medie dimensioni come Ferrara. Sempre nel volume spiega come «una grande parte dei progetti» urbanistici «presentati da gruppi finanziari, fondazioni filantropiche, amministrazioni competitive, stati autocratici, o archistar si configurano come progetti di “classe” o di “censo”, mentre le operazioni sottese di rigenerazione urbana “ecologica” sono sovente orientate ad una gentrificazione che, senza dichiararlo, rafforza la “polarizzazione” sociale a scapito dei più poveri». 

Così, si dà vita a «isole di ordine e bolle ecologiche rese possibili dallo sviluppo della tecnologia, che però a ben vedere appaiono altamente selettive, fisicamente delimitate e controllate da apparati di sicurezza. La “città ecologia neoliberista” è indifferente ai contesti politici; che siano democratici o autoritari, non interessa agli investitori». Meglio, comunque, se autoritari: in quest’ultimi, infatti, «la volontà di modificare una città o di costruirne una nuova è una decisione non negoziabile: è sufficiente un accordo tra investitore e potere. Nelle democrazie, al contrario, i livelli di interazione istituzionale e di garanzia dei diritti dovrebbero garantire il bene comune; quindi, la strategia degli investitori diventa più subdola» e l’idea “green” «diventa selettiva perché non prende in conto, ad esempio, le politiche pubbliche dell’abitare o il tema del diritto alla città per tutti».

Come sta il Ferrarese? Molti anziani e poco lavoro per i giovani.

«Serve un’alleanza intergenerazionale»

Un quadro dello stato di salute socioeconomico la sera del 30 l’ha fornito Chiara Sapigni

«Oltre al PIL – ha spiegato -, dal 2013 l’Istat elabora anche ilBES (Benessere Equo e Sostenibile), indicatore che tiene conto dei livelli di qualità a livello sociale e relazionale». E dal 2015 gli Uffici statistici delle Province han deciso di dettagliare questi dati specificatamente ai territori di riferimento.Nella nostra Provincia finora sono stati realizzati cinque RapportiBES. Oltre a ciò, esistono le “Mappe di fragilità” elaborate dalla nostra Regione.

Partendo quindi dai dati BES riferiti alFerrarese, gli indicatori positivi riguardano il buon livello di occupazione; la non alta divergenza tra uomini e donne per quanto riguarda le retribuzioni e il numero di giornate retribuite; la bassa percentuale di pensioni minime; l’uso dei Servizi per l’infanzia nella fascia 0-2 anni; l’uso delle biblioteche pubbliche e la raccolta differenziata.

Tra gli indicatori negativi, invece, il valore aggiunto pro capite, la dispersione scolastica (doppia rispetto alla media regionale e nazionale), la bassa occupazione giovanile, i residenti over 65 (pari al 29%), le truffe e le frodi informatiche.

Sapigni si è poi concentrata sul tema della casa, accennando ad alcune azioni dirette della Regione Emilia-Romagna come il Fondo Affitto, la semplificazione del Patto per la casa, la legge sugli affitti turistici brevi, la richiesta di un prestito alla Banca europea degli investimenti per la manutenzione dell’edilizia pubblica, soprattutto a livello energetico. Infine, i contributi a fondo perduto per l’acquisto di alloggi e la definizione dei criteri di accesso all’ERP (Edilizia Residenziale Pubblica).

Il tema casa richiama inevitabilmente il tema famiglia: a Ferrara e provincia la dimensione media familiare è di 2.08 componenti per nucleo, il 39% delle “famiglie” è composta da 1 sola persona, e appena il 3,3% è formata da 5 o più componenti. Ancora: il 43% ha al proprio interno almeno 1 persona over 65 e il 24,9% una over 75. Abbastanza nette, nello specifico, le differenze dei nuclei familiari tra i quattro distretti socio-sanitari. Sulle “famiglie” “monocomposte” (con 1 sola persona), il 45% è over 65 e il 28% over 75 (quest’ultimo, numericamente, significa che ben 18mila persone over 75 vivono da sole). Riva del Po, Mesola e Tresignana sono i Comuni del Ferrarese con il numero maggiore di over  75. La nostra è dunque una provincia sempre più anziana. E il Comune meno giovane è quello di Riva del Po, quello più giovane,Cento.

Il “cosa fare” avrebbe bisogno  di molto più tempo e spazio. In ogni caso, Sapigni ha posto l’accento sull’importanza di «un’alleanza fra le generazioni, creando luoghi appositi dove poter discutere di questi temi e condividere idee ed esperienze». Inoltre, è sempre più fondamentale una «collaborazione tra istituzioni, cittadini, aziende e terzo settore per interventi e sostegni adeguati». Sapigni in particolare ha sottolineato l’apporto fondamentale del terzo settore (è Vice presidente del CSV Terre Estensi – Ferrara-Modena), ancora purtroppo da molti sottovalutato.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 maggio 2025

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(Foto di Markus Winkler da Pixabay)

Santo Spirito, da 75 anni al servizio della città 

11 Nov
Enrichetta Maregatti, Giorgio Mazzoni ed Elvio Bonifazi

Nel novembre del 1948 l’allora parroco padre Francesco Righetti aprì la sala cinematografica in via Resistenza. Un pezzo di storia di Ferrara che ancora guarda al futuro (di tutti)

di Andrea Musacci

Nell’atrio il primo proiettore a carbone – un Victoria 4r del 1934 – accoglie giovani, famiglie, coppie, anziani e bambini che per gioco vorrebbero tirarne ogni parte sporgente…Utilizzata fino agli anni ’80 (a parte un’eccezione nel ’98 per “Gatto nero, gatto bianco” di Emil Kusturica), è l’immagine plastica di un piccolo ma storico luogo che definire cinema è riduttivo. Non è fra i più “antichi” (ad esempio l’Apollo è del ‘21), ma fu, ad esempio, il primo a proiettare capolavori del neorealismo e a organizzare Cineforum. Siamo in via della Resistenza a Ferrara, nel complesso parrocchiale di Santo Spirito, dove l’omonimo cinema da 75 anni è il punto di riferimento per cinefili e amanti della cultura in senso largo.

Nel ’48 fu l’allora parroco, il francescano padre Francesco Righetti, a dar vita al “Piccolo Cinema”, inaugurato a fine novembre dello stesso anno e con la prima proiezione organizzata a inizio dicembre. Fra i primi “padroni” della cabina di proiezione ci furono i proiezionisti Mario Stabellini, morto nel 2020, e Giordano Galesini, padre di frate Mauro, francescano del Santuario di Chiampo (VI). Ai tempi, per motivi di sicurezza e di gestione meccanica dei proiettori, era infatti normale la presenza contemporanea di due operatori. 

Nel libretto parrocchiale “S. Spirito…e le sue opere” del 1958 Antonio Cavalieri scrive: «Tutti sanno o almeno ammettono che l’essere umano ha necessità di ricreazione (…). Ricreazione è distensione, è rinnovamento di energie intellettuali, spirituali, fisiche (…), sollievo dal normale lavoro manuale o intellettuale (…). Ma perché questo si avveri (…) si rende indispensabile creare l’ambiente, dare i mezzi affinché ciascuno possa veramente “ricrearsi” nel vero senso, santo della parola (…). Tutto questo l’ha ben capito il nostro amatissimo Parroco, Padre Francesco, fin dai tempi dei tempi. Era un pallino che aveva nella Sua mente, un assillo che gli tormentava l’anima e il cuore (…). Ungiorno non ne poteva più; sentì il cuore gonfio, e nel cuore una Voce di sicura speranza, di fiduciosa sicurezza…e si mosse! Ed ecco la sala del cinema (eh già, come si fa oggi giorno a pensare ad opere ricreative senza cinema!…), la più bella fra le sale parrocchiali ferraresi; poi vennero i locali nuovi: le sale dei giochi per tutti – grandi e piccoli – le sale di lettura, la sala (magnifica) della televisione, delle adunanze (…)».

La Chiesa, anche a Ferrara, capì dunque che l’educazione e lo sviluppo della cultura, necessitava di luoghi moderni. Il proiezionista Galesini venne poi affiancato da Giorgio Mazzoni, che inizia a lavorare come operatore a S. Spirito 50 anni fa, nel 1973, proseguendo fino al 1984 e poi riprendendo da metà anni ’90 fino al 1998. Per un periodo, Mazzoni si alternava assieme ad Armando Maregatti tra qui e il Cinema Boldini. Armando, morto nel 2010, è il papà di Enrichetta Maregatti, che da lui ha ereditato la gestione della sala dopo l’esordio, assieme al marito Elvio Bonifazi, a fine anni ‘80. Enrichetta ed Elvio ancora oggi gestiscono con grande passione il loro amato cinema.

DAI BIGLIETTI A 40 LIRE ALL’AVVENTO DEL DIGITALE

I primi tempi le proiezioni erano quasi giornaliere, e i biglietti costavano tra le 40-60 lire nei giorni feriali (ridotti e interi) alle 50-70 per i festivi. Da inizio anni ’80, per un periodo, le proiezioni furono solo la domenica, dalle 14.30 fino a tarda serata, mentre con l’austerity (tra il ’73 e il ’74) la chiusura venne imposta alle 23. Ma con la gestione Maregatti ripresero anche nelle serate di venerdì e sabato, fino ad arrivare nel 2007 all’inizio delle rassegne (la prossima è prevista per gennaio 2024) e degli eventi speciali e, ora, a quattro serate di proiezioni, da venerdì a lunedì (oltre ai festivi e prefestivi). Un’altra svolta S. Spirito l’ha vissuta nell’estate 2013 con l’avvento del proiettore digitale (il canadese Christie Solaria One) che ha mandato in pensione i vecchi proiettori (l’ultimo fu un Victoria 8r, ai tempi considerato “la Rolls Royce” dei proiettori), grazie al contributo della Regione per la digitalizzazione dei cinema locali. S. Spirito fu il primo cinema non multisala a Ferrara ad adottare il digitale. Il Boldini ci arrivò per secondo solo il febbraio successivo. In pensione il digitale mandò anche la macchina “girafilm”, per riavvolgere la piccola o per fare montaggio, che Enrichetta conserva ancora gelosamente nella stanzetta attigua alla cabina di proiezione.

Ma torniamo agli albori: padre Francesco – che guidò S. Spirito fino al 1967 – come detto, non immaginò la sala cinematografica come luogo alieno dalla parrocchia e dal quartiere, ma una sala della comunità nella quale poter unire svago, educazione e condivisione. Un posto pensato soprattutto per famiglie, con proiezioni pomeridiane domenicali per i bambini e la sera il “filmone”. Sempre nel ’48 fu allestito anche un bar, col bancone a sinistra dell’ingresso principale e dietro la sala con i tavolini. Tra il 1982 e l’83 fu buttata giù la parete in modo da accedere direttamente alla sala. Di fronte all’ingresso, l’immancabile “stracciabiglietti”/maschera, ruolo ricoperto da metà degli anni ’50 fino al 2008 da Leonello Lugli, e il “segnatempi” sulla parete ai piedi della scala che porta alla galleria e alla cabina di proiezione. “Segnatempi” con i numeri romani I, II, III e con la A a indicare “Attualità”, vale a dire la pubblicità o i cinegiornali. «Ma non si fanno più intervalli – ci spiega Enrichetta – perché i film vanno visti senza pause».

Santo Spirito, quindi, come cinema della città ma senza dimenticare il suo legame con la Chiesa: come ci ricorda Giorgio Mazzoni, se richiesto, prestava le “pizze” con le pellicole, come ad esempio a metà degli anni ’70 quando don Sergio Vincenzi (ai tempi giovane seminarista e dallo scorso maggio in servizio proprio a S. Spirito) veniva a ritirarle per le proiezioni – sempre con una cinemeccanica Victoria 4r – nel Seminario di via G. Fabbri.

A fine anni ‘50 fu uno dei francescani di S. Spirito, padre Geminiano Venturelli, a far costruire la galleria al primo piano del cinema di via Resistenza, assieme alla cabina di proiezione (che prima era al piano terra), in questi ambienti direttamente collegati a quelli parrocchiali dove ancora oggi i bambini fanno catechismo e dove una volta erano adibiti ad aule per la Scuola elementare. E nella saletta di “passaggio” tra il cinema e le sale per i bambini, viene conservata un’altra macchina, una Victoria 5r, la stessa che nel film di Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” sostituisce il vecchio proiettore dopo l’incendio che rende cieco il proiezionista Alfredo.

Luoghi magici, più o meno nascosti, che dopo tanti anni trasmettono ancora quel calore antico di spazi vissuti e fatti crescere con invincibile passione.

Proseguendo nel nostro giro negli ambienti, scopriamo come per diversi anni in sala il palcoscenico – di legno – fosse davanti lo schermo, mentre quello nuovo, dietro lo stesso, venne fatto costruire a metà degli anni ’80 da padre Flavio Medaglia. Una volta, lo schermo quando non serviva veniva alzato e posto orizzontalmente a sfiorare, parallelo, il soffitto. Diverse foto che possiamo ammirare grazie a Enrichetta Maregatti e al parroco don Francesco Viali, testimoniano dell’iniziativa “Microfono d’oro” che si teneva proprio su questo palco negli anni ’70-’80, ispirata allo Zecchino d’oro del Coro Antoniano di Bologna. E un capitolo a parte meriterebbero le poltroncine blu della sala, fatte installare (assieme al pavimento) un quarto di secolo fa da padre Antonio Atanasio Drudi, in sostituzione di quelle di legno che a loro volta presero il posto di quelle in ferro. Prima delle poltroncine blu, i posti erano di più – oltre 200, rispetto alle 173 attuali – e in passato la sala era riscaldata con stufe di carbone. Un altro aneddoto riguarda le poltroncine in legno, che nei periodi estivi venivano trasferite nel campetto dell’oratorio per il “cinema all’aperto”.

I PRIMI CINEFORUM CITTADINI E “LASCIA O RADDOPPIA?”

Come accennato all’inizio, proprio nel Cinema Santo Spirito nacque, grazie a don Franco Patruno e Luciano Chiappini, il primo Cineforum ferrarese: la terza serie – a cura del “Club Ferrarese Cineforum” – ci risulta essere della stagione 1952-1953, col titolo “Panorama della cinematografia mondiale del dopoguerra. Charlie Chaplin – Il cinema francese”, con film anche di Renè Clair (“Il silenzio è d’oro”, 1947) e Henri Georges Clouzot, mentre di Chaplin venne proiettato “Monsieur Verdoux” (1946). Nella quinta serie, invece, anni ’53-54, protagonisti furono Jean Renoir (“La grande illusione”), Frank Capra (“L’eterna illusione”), G. W. Pabst (“La voce del silenzio”) e Billy Wilder (“Viale del tramonto” e “L’asso nella manica”). 

Don Patruno e Chiappini li ritroviamo quasi mezzo secolo dopo, il 4 dicembre 1998, per un incontro pubblico organizzato in occasione del 50° anniversario, con gli interventi, oltre che dei due, di Enrichetta Maregatti, del parroco padre Giovanni Di Maria (a S.Spirito dal ’97 al 2009) e di Antonio Azzalli. Proprio in occasione dei primi 50 anni del cinema, sull’edizione ferrarese del “Resto del Carlino” Gianfranco Rossi ricordava quando nel 1957 Michelangelo Antonioni con la sua troupe de “Il grido” (tra cui Alida Valli e Dorian Gray), si fermò al Cinema S. Spirito per annunciare la prossima uscita del film. 

Cinema d’autore, dunque, ma anche la neonata televisione fece capolino dal grande schermo di via della Resistenza con, dal ‘56, la proiezione di “Lascia o raddoppia?” e di altre trasmissioni televisive che raccoglievano una volta alla settimana tante famiglie della parrocchia ancora sprovviste in casa del televisore.

LE CRISI, IL PRESENTE E IL FUTURO DI UNA COMUNITÀ

Il Cinema S. Spirito è iscritto all’ACEC-SdC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema – Sale della Comunità) e oggi ospita 173 posti, di cui 153 in platea e 20 in galleria.

Come ci spiega Enrichetta Maregatti, «cerchiamo di proiettare film d’essai o comunque di qualità. Facciamo anche proiezioni per le scuole, per l’Università degli Studi di Ferrara, oltre a conferenze e spettacoli teatrali benefici di compagnie amatoriali locali».

Negli anni, prosegue, «abbiamo vissuto momenti di crisi, ad esempio dopo l’apertura del Multisala in Darsena e con le chiusure causa Covid. Ma dallo scorso gennaio è ripreso il regolare flusso di spettatori, che anzi è aumentato rispetto al periodo pre-Covid. Da noi vengono persone non solo dalla città ma anche dalla provincia (Ostellato, Massa Fiscaglia, Poggio Renatico ad esempio) o dal rodigino, e ci sono tanti affezionati, un vero e proprio “zoccolo duro”».

La missione per il futuro è sempre chiara: «siamo una sala polivalente che cerca innanzitutto di aggregare le persone, di farle ritrovare, incontrare, socializzare. Il nostro è un servizio alla comunità, e anche per questo cerchiamo di mantenere prezzi bassi. I film vanno visti in sala, sul grande schermo e soprattutto assieme agli altri». 

Per questi motivi, i cinema come S.Spirito vanno tutelati e sostenuti come patrimonio dell’intera comunità.

***

SERATA SPECIALE IL 18 NOVEMBRE

“Cinema Santo Spirito. 75 anni di film che parlano al cuore” è il nome dell’incontro in programma sabato 18 novembre al Cinema Santo Spirito di via Resistenza, 7 a Ferrara.

Questo il programma della serata:

* ore 18:45 – 20:45, atrio del cinema:Annullo filatelico di Poste Italiane per la ricorrenza.

* 19:00, Sala del cinema:Tavola rotonda “Cinema Santo Spirito tra ricordi e prospettive”. Modera mons. Massimo Manservigi, Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio.

*20:00, cortile dell’oratorio:aperitivo con buffet.

* 21:00, Sala del cinema:speciale proiezione a sorpresa  di un film restaurato.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 10 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Relazione, trascendenza, generatività: i volti della vocazione

6 Nov

Don Grossi e Bruzzone i relatori della seconda lezione della Scuola diocesana di teologia per laici

Sulla natura della vocazione e l’essenza relazionale della persona hanno riflettuto lo scorso 26 ottobre a Casa Cini, Ferrara, don Alessio Grossi (Referente del Servizio Diocesano Tutela Minori e persone vulnerabili della diocesi di Ferrara-Comacchio, nonché sacerdote dell’UP Arginone-Mizzana-Cassana) e Daniele Bruzzone Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente di Alæf (Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana) (foto in basso). L’occasione è stato il secondo incontro dell’anno in corso della Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, avviata lo scorso 5 ottobre con la lezione introduttiva del nostro Arcivescovo.

“Parliamo di vocazione: Una via per ciascuno?” il titolo, invece, della lezione del 26 ottobre che ha visto la partecipazione (in presenza o on-line) di oltre 120 persone.

«La vocazione – ha esordito don Grossi – è chiamata, appello, è qualcosa che parte da Dio ma che non mi arriva dall’esterno, come qualcosa che possa non andare d’accordo col mio cuore, come qualcosa che io non conosco di me». Da una concezione errata di vocazione (intesa anche come «privilegio» e come qualcosa di esclusivo), si arriva a «forme negative di rinuncia e mortificazione» e si può arrivare anche «all’abuso spirituale e di coscienza». Nessuno può dire che cosa un altro deve fare, «può accompagnarlo nella sua scelta ma alla fine è quest’ultimo che deve decidere».

Nella “Gaudium et spes” – ha proseguito il sacerdote – è scritto che la dignità deriva dalla «vocazione alla comunione con Dio», dal dialogo tra uomo e Dio. Il Catechismo, poi, a proposito di vocazione parla di «vita nello Spirito», quindi di «un’espressione creativa, una dinamica e una concretezza». Qui, secondo don Grossi, risulta fondamentale il testo di Wojtyla “Persona e atto” (1969): secondo il futuro pontefice, «l’atto, il manifestarsi costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela». Per l’uomo, infatti, «a differenza degli animali non è indifferente come vive la propria chiamata all’esistenza». «Partecipazione» (l’esplicarsi nella relazione) e «trascendenza» (apertura, eccedenza) sono i due concetti cardine che definiscono la persona umana. Ma questo oltrepassamento avviene anche al proprio interno, in quanto «il nucleo della persona risiede dentro di sé, è quella parte aperta al mondo ma che, ascoltandosi e decidendosi, vive la dimensione trascendentale partendo dal cuore». E – si badi bene – «l’interiorità non è riducibile allo psicologico, ma è molto di più, è lo spirituale, la fonte dell’uomo che può sempre decidere come orientarsi nella vita».

Ma se l’uomo è apertura, partecipazione e trascendenza, per un cristiano ciò che lo distingue è l’amore (si veda ad esempio Gv 13, 34), «il dare la vita, il generare: la stessa morte di Cristo e quella del nostro ego non significano mortificazione ma qualcosa di generativo, quindi la vocazione, ogni vocazione non può non essere qualcosa di generativo, che genera vita per me e per gli altri. La vocazione è tale se è generativa, se è una vivificazione reciproca», ha spiegato il sacerdote.

Alla base della sopracitata “teologia della persona” di Wojtyla e non solo, ha invece riflettuto Bruzzone, troviamo la filosofia del tedesco Max Scheler (1874-1928), che ha influenzato anche il pensiero di Viktor Frankl (1905-1997), neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, tra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia a cui si ispira l’Alæf presieduta da Bruzzone.

«Per Frankl – ha spiegato quest’ultimo – l’uomo è sempre orientato alla ricerca dell’altro e dell’Altro – che per chi crede è Dio -, quindi vi è sempre una tensione a un’alterità, un’apertura, un’eccentricità: per realizzarci abbiamo bisogno di dedicarci ad altro e ad altri. Il cuore dell’uomo ha una struttura dialogica – ha proseguito – la nostra coscienza è sempre interpellata e sempre risponde». Riguardo alla vocazione, dunque, vediamo come la vita sia «qualcosa che ci interroga, e dalle nostre risposte dipende la direzione della nostra esistenza». Senza dimenticarci, appunto, che «il concentrarci troppo su noi stessi ci fa ammalare: senza scopo, senza altro e senza altri, l’uomo inizia a preoccuparsi, a star male». Se rinnega la propria essenziale apertura, muore.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 3 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vita di Nella Gandini, un sogno di canto libero interrotto troppo presto

27 Ott

La giovane ferrarese è tra i 191 morti dello spezzonamento americano del 10 giugno 1944. Vi raccontiamo la sua pur breve vita di promessa cantante lirica: un pezzo di storia della città

di Andrea Musacci

Aveva solo 24 anni Nella Gandini quando trovò la morte, assieme ad altre 190 persone, a causa dello spezzonamento delle forze armate americane sulla città di Ferrara. Una vita orribilmente stroncata assieme al suo sogno: diventare una grande cantante lirica, come il padre Napoleone e il cugino Angelo.

Vi raccontiamo questa storia inedita grazie soprattutto ai racconti di Savia Salmi, vedova di Giorgio Gandini, nipote di Nella. Una vicenda drammatica ma ricca di aneddoti ed episodi particolarmente interessanti, dove l’intimità delle persone e delle famiglie richiama fatti collettivi, e viceversa.

UNA FAMIGLIA FERRARESE

Nata il 21 gennaio 1920, era figlia di Napoleone e Maria Faccini.Suo padre, classe 1892, era cresciuto nel Borgo San Luca dove vivrà per alcuni anni (forse anche dopo sposato), prima di spostarsi con la famiglia in corso Porta Reno, 23, come risulta dalla carta d’identità di Nella del 1938 (dove si firma “Nella Maria Gandini”), e poi in via Ripagrande, 21 (dove oggi c’è l’hotel Maxxim), occupando qui un intero piano sopra i fratelli Cervi, storici “biciclai” ferraresi. Prima e durante la guerra, Napoleone gestiva una macelleria in via Gorgadello (l’attuale via Adelardi). Dai suoi documenti, risulta anche che Napoleone aveva vissuto in via della Luna, 23. La madre Maria, detta Edvige, amava invece ospitare nella sua casa per pranzo o cena, e a volte dando anche alloggio, giovani artisti e studenti universitari, anche amici dei figli, a cui a volte chiedeva di recitare alcuni versi.

Nello stesso documento di identità, di Nella si dice che fosse alta 1,69 m, «robusta» di corporatura, capelli e occhi «castani», fronte «media» e naso «concavo». Nelle foto dell’album di famiglia, spesso la giovane è assieme a una sua carissima amica, Wanda, riconoscibile per i folti capelli ricci.

Nella era la maggiore di quattro figli: gli altri erano Rino, padre di Giorgio (marito di Savia), più giovane di quattro anni; Giorgio, giornalista e storico; Giovanni, il più giovane. 

LA PASSIONE PER LA LIRICA

Il padre Napoleone, come detto, era baritono e usava il nome d’arte Nino Cavalieri. Cantò anche con Enrico Caruso. Anche suo nipote Angelo Mercuriali (1909-1999), figlio della sorella, era cantante d’opera (tenore, per la precisione) e veniva simpaticamente chiamato “voce d’Angelo”. Diceva sempre che doveva molto allo zio Napoleone, ed era sposato con il soprano Lina Paletti.

Nella, quindi, respirò fin da piccola quest’aria e volle seguire il padre e il cugino su questa strada: studiò a Padova e si esibì a Parma, Firenze, alla Scala a Milano, oltre che a Ferrara. Nel 1937, ad esempio, prese parte al “Lodovico…il Moro” con regia di Angelo Aguiari.

CLIENTE DEL “PICCOLO PARIGI”

Nella adorava collezionare piccole bambole che vestiva con abitini da lei stessa realizzati: acquistava dei “bustini” femminili di piccole dimensioni (parti di pompon per la cipria) che legava a coni di cartone usati come base e rivestiva con abitini che riproducevano gli abiti delle protagoniste degli spettacoli o forse di personaggi che lei stessa interpretava. Li usava come portafortuna e amava ammirarli poggiati sulla sua toeletta, chissà, forse anche fantasticando. 

I “bustini” (realizzati tra gli anni ’20 e ‘30) probabilmente li acquistava nel “Piccolo Parigi”, boutique in piazza Trento e Trieste vicina al Teatro Nuovo, per la precisione dove ora si trova l’entrata del negozio “Kasanova” (mentre le attuali altre due vetrine dello stesso, un tempo erano occupate dal negozio di abbigliamento per bambini “Cottica” e da un negozio di tessuti). Di proprietà di un certo Trevisani, il negozio (chiuso da una 30ina d’anni) prima si trovava in piazza Municipale, proprio sotto l’arco che divide questa da piazza Duomo e vendeva, fra l’altro, bigiotteria, pettini, profumeria, cerchietti per capelli per bambini, portachiavi e portasigarette. Il magazzino del “Piccolo Parigi” si trovava invece nella vicina via Contrari. L’illustratore Claudio Gualandi ci racconta come a metà anni ’70 lo visitò trovandoci, fra l’altro, gadget fascisti (spille, anelli) e un fez.

UNA VOCE SPEZZATA

I suoceri di Savia e altri parenti acquisiti han sempre parlato poco e malvolentieri della morte di Nella, per un pudore recondito o perché il dolore per il trauma vissuto minacciava sempre di riaffiorare.

Rino, fratello di Nella, è un partigiano o comunque collabora con i partigiani. Possiede un furgone con cui durante la guerra mette in salvo persone trasportandole fuori città. E forse trasporta anche partigiani, ricercati dai nazifascisti e armi. Forse per questo, per non esporla a rischi, il 10 giugno del 1944 non vuole caricare Nella in uno dei viaggi verso Porotto. Ma Rino – che è molto legato a lei – non può sapere che così la sta abbandonando a un’orrenda fine. Quando Rino torna da Porotto, lo spezzonamento in zona San Luca è già avvenuto: Nella viene colpita in via G. Fabbri presso il frutteto Tenani. Proprio il fratello Giorgio nel suo libro “Ferrara sotto le bombe” (Comune di Ferrara, 1999) racconta, forse riportando la testimonianza del fratello Rino: «Mia sorella aveva un grosso buco dietro l’orecchio, un largo squarcio sulla schiena, sul petto e sulla pancia, un piede amputato. Il suo impermeabile era intriso di sangue. Zeffira aveva la testa appoggiata su mia sorella e guardava il cielo, stringendo al petto il maglione di lana che stava sferruzzando, lordo di sangue. (…) Mia sorella Nella – continua il racconto – l’avevano distesa sul pavimento della cucina e noi la guardavamo con occhi impietriti. “Uomini, andate via! Dobbiamo lavarla e vestirla”, ci avevano intimato le donne del Borgo, spingendoci affettuosamente fuori (…).  Il giorno dopo il “Corriere Padano” (…) diede la notizia dell’inaudito massacro. “I gangsters nuovamente su Ferrara (occhiello) – Micidiale spezzonamento di inermi fuggiti nei campi (titolo)” (…). L’articolo scriveva: “(…) Il numero delle vittime sorprese all’aperto e senza possibilità di difesa è pertanto assai elevato. La pesante incursione ha avuto luogo nella mattinata” (alle ore 10.30, ndr)». Probabilmente quando muore, Nella è sola, anche se dall’elenco delle vittime risultano altre due donne (Nina Merli, 19 anni e Maria Grazia Schivalocchi), colpite anch’esse «nei pressi di via G. Fabbri». Nella forse si trovava in questa zona perché rifugiatasi da parenti di S. Luca dove il padre stesso era nato e cresciuto. 

Il “santino” funebre di Nella recita così: «Per te che hai spiccato il volo verso la più eccelsa e luminosa vetta, cantino gli angeli il cantico più bello, la melodia più dolce; perché tutto in te era arte, tutto era musica. L’Alma tua, aleggerà sempre sopra di noi indicandoci la via del bene. Tu pura, tu buona, come hai cantato fra gli uomini continuerai a cantare fra gli angeli».

Una Speranza infinita per questa ragazza strappata troppo presto al palcoscenico drammatico e sublime della vita.

Grazie a Claudio Gualandi e Linda Mazzoni per averci aiutato nella raccolta delle informazioni e delle immagini.

Pubblicato sulla “Voce” del 27 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Ecologia. L’urgenza delle parole e delle azioni: quali passi fare insieme?

25 Ott

Il 20 ottobre nel Monastero ferrarese del Corpus Domini il primo dei tre incontri organizzati dal Circolo Laudato si’: una trentina le persone presenti (due soli maschi) per pregare assieme e condividere timori, idee, progetti e speranze

Il venir meno dell’equilibrio naturale, della pace fra gli uomini e col resto del creato. E, parallelamente, il venir meno di una consapevolezza sulle conseguenze che determinate scelte di vita – personali e collettive – possono avere sull’esistenza di ognuno, compresa quella delle generazioni che verranno.

È così, senza infingimenti, che la sera del 20 ottobre scorso si è svolto il primo incontro di preghiera e condivisione proposto dal Circolo diocesano “Laudato si’” in collaborazione con le Sorelle Clarisse. I restanti incontri si svolgeranno il 9 febbraio sul tema “La sobrietà” e il 19 aprile su “La cura”. Tema del primo incontro (alla presenza di 30 persone), invece, è stato “L’urgenza”.

Al Monastero del Corpus Domini di Ferrara è stato un alternarsi di silenzi e parole parche, profonde, sincere. Ed è emerso come l’urgenza stia anche nel bisogno di condividere timori, progetti, speranze, domande. Tutti frutti sani di un’importante risonanza interiore.

L’incontro è iniziato coi vespri in chiesa, durante la quale si è svolta anche una piccola processione in cui alcuni partecipanti hanno portato davanti all’altare tre immagini emblematiche delle conseguenze dell’azione nociva dell’uomo sul creato. A seguire, vi è stato un momento di condivisione nel coro. Diversi gli interventi alternati a letture di brani tratti dalla “Laudato si’” e dalla “Laudate Deum” di Papa Francesco. «Dobbiamo farci carico della nostra casa comune e divenire consapevoli della nostra meschinità, piccolezza, delle tante vite usurpate, rovinate», è stato un primo intervento. «Che in noi possa crescere la consapevolezza della brevità del tempo che ci rimane». Da qui, l’urgenza di agire: «il tempo si è fatto breve, non possiamo più dormire». 

«A me colpisce tanto l’indifferenza verso questi problemi e verso i più poveri, nonostante i segni dell’emergenza siano sempre di più», è invece la preoccupazione di un’altra persona. «Forse, questa, è una tendenza a rimuovere il problema per continuare a vivere serenamente. Vorrei che fossimo capaci di cambiamento, anche attraverso questo nostro piccolo Circolo Laudato si’».

Ma – è emerso da altri interventi – «come posso pormi io davanti all’enorme drammaticità di questi problemi? Oltre ai nostri piccoli passi, quali passi significativi fare insieme?». Considerando, anche, come questa consapevolezza ecologica «è relativamente recente». Ora però, «c’è molta più attenzione su questi temi e più atti concreti». Serve «perseveranza», «costanza», non solo il compiere azioni, ma renderle anche durature, dare loro continuità. E serve non dimenticare il peso dei piccoli gesti personali, perché anche dall’unione di questi nasce quella «massa critica» fondamentale per cambiare le nostre società. Ma perché tutto ciò non si riduca a mera pulizia all’interno del nostro universo di benessere, serve fare due passi innanzitutto dentro di sé: «tornare a stupirsi davanti alla bellezza e riuscire ad ascoltare il lamento del prossimo». Senza questo, quindi senza la Grazia di Dio, si rischia di rimanere nell’ambito mondano della pura rivendicazione.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 27 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Dramma e salvezza: a San Giacomo Apostolo l’arte del gesuita Anselmo Perri

29 Set

“Nzermu. Accesa è la notte. Una biografia per immagini” è il progetto (mostra e documentario) che inaugura il 30 settembre all’Arginone. Ecco chi era l’artista-religioso 

di Andrea Musacci

Un piccolo crotonese, un operaio del Sud più povero che cerca fortuna nelle fabbriche del Nord e vi trova, invece, Cristo. Fra le nebbie delle nostre terre e i fumi delle industrie chimiche, Anselmo “Nzermu” Perri cercava una via a lui consona per fondare una società socialista, e invece trovò molto di più, quella fiamma della fede che non si spegne. E la troverà, lui pittore, anche attraverso la forma artistica, una passione che mai lo abbandonerà.

A questo gesuita speciale, tornato alla Casa del Padre nel dicembre 2021, l’Ufficio Comunicazioni Sociali (UCS) della nostra Arcidiocesi insieme all’Associazione “Amici di Nzermu” (nata nel 1986 e presieduta da Giovanni Dalle Molle) dedica un progetto espositivo che verrà inaugurato il 30 settembre alle ore 20.30 nella chiesa di S. Giacomo Apostolo a Ferrara. Per l’occasione, il Vicario Generale e Direttore dell’UCS mons. Massimo Manservigi presenterà il suo nuovo documentario “Nzermu accesa è la notte”. Ma chi era padre Anselmo?

DA OPERAIO MILITANTE AD ARTISTA E UOMO DI DIO

Anselmo Perri nasce nel 1931 a Strongoli, nel crotonese, in una famiglia numerosa e in una terra arida di possibilità di riscatto. «Già da ragazzo – racconta nel documentario “Luci dell’anima” di Luigi Boneschi – dipingevo di notte perché mia madre non vedeva bene questa mia eccessiva passione. Dalla “Domenica del Corriere” amavo copiare le famose tavole». Dopo aver lavorato come operaio a Crotone, nel ’49 si trasferisce a Ferrara, dove lavora alla Montecatini, e poi a Ravenna. Il suo lavoro è strettamente connesso con la militanza politica e sindacale comunista. «La mia prima abitazione a Ferrara fu in un’ex caserma bombardata (l’ex Caserma “Gorizia”, ndr), dove c’erano in genere ex sfollati, prostitute. E anche lì quindi avevo difficoltà a dipingere di giorno, perché l’ambiente non me lo consentiva». Nel 1956, la sua prima mostra personale, al “Ridotto” del Teatro Comunale di Ferrara.

Ma è a inizio degli anni ’60 che matura in lui la conversione che lo porterà nel ’63 a entrare nella Compagnia di Gesù. Una scelta per nulla scontata. A quei tempi, da molti – racconta – «la Chiesa era vista come nemica del popolo. Entrando nella Compagnia di Gesù constatai che non era assolutamente vero quello che si diceva dei preti». In fabbrica vi erano due gesuiti come cappellani. «Ricordo bene che una volta un mio collega operaio mi disse: “vedi che quei due non fanno niente…”, e io gli risposi: “piuttosto che diventare prete mi sparo!”». Ma nel tempo «dentro di me maturava un desiderio profondo di volermi dedicare in modo diverso alle persone». Anselmo constata che i due gesuiti «erano persone oneste, rette e molto aperte, io pensai quindi che bisognava convertirli al comunismo. Ma la cosa si è verificata in modo inverso…». Dopo un periodo trascorso in Brasile come missionario dal ’65 al ‘67, va a Urbino, Napoli (dal ’68 al ’71, dove studia teologia e viene ordinato sacerdote), Ferrara e poi definitivamente a Bologna (dagli anni ’70), dove fonda la “Comunità Giovanile” nella “Casa Cavanna” dei gesuiti in via Guerrazzi (oggi sede del Centro Astalli e del Centro Poggeschi), dove dagli inizi degli anni ’90 pone anche una Vetrina Figurativa con le sue opere, senza intenti commerciali. In questa Comunità autogestita, Perri ospiterà prima gli operai meridionali emigrati al Nord, poi i giovani extracomunitari (soprattutto georgiani) venuti per studiare, ma anche ex tossici. Una Comunità speciale dove ogni ospite si abitua a una vita sobria, fatta di condivisione, in pieno spirito evangelico. 

Fra le sue varie mostre in Italia e all’estero (fra le quali due in Georgia), nella primavera del ‘92 Perri ha esposto una sua personale a Casa Cini, curata da don Franco Patruno e con il contributo di Angelo Andreotti, mentre nel 2012 ha portato la sua “Scintille di un unico fuoco”, con catalogo, su più sedi tra Ferrara e Ro Ferrarese. Quest’ultima venne curata da Giovanni Dalle Molle, che nella sua “Casa di Ro” ha allestito una sala espositiva permanente con le opere di padre Perri, e che da lui venne accolto, giovane studente, proprio a “Casa Cavanna”.

IL DOCUMENTARIO E LA MOSTRA A S. GIACOMO APOSTOLO

Il documentario “Accesa è la notte” – come ci spiega il suo autore – intende essere «una riflessione su Nzermu, a poca distanza dalla morte, quasi a caldo, attraverso alcune testimonianze di chi l’ha conosciuto e amato, con l’intento di dare qualche spunto per la comprensione della ricca e articolata figura di un uomo, artista e religioso, che ha cercato un dialogo tutto suo con l’intera umanità, in un tempo segnato da migrazioni apocalittiche, disorientamento e sofferenza di proporzioni bibliche». L’iniziativa parte dagli “Amici di Nzermu” per rilanciare la sua figura e la sua produzione artistica immeritatamente poco conosciuta, presentandola al grande pubblico, e portando l’evento di Ferrara anche in altre città (fra cui Bologna, Roma e Crotone).

Il documentario e il relativo progetto espositivo rappresentano, dunque, un tentativo di «fare sintesi della personalità di padre Perri oltre la sua esistenza terrena». Esistenza, la sua, come cammino in cui rappresentazione artistica e ricerca di Dio arrivano ad incontrarsi per intrecciarsi e mai più lasciarsi. Da questo abbraccio, e da una provocazione di Dalle Molle, nasce la sfida di portare l’arte di padre Perri all’interno di una chiesa. Sfida raccolta dalla nostra Arcidiocesi e in particolare dall’UCS.

Un progetto, “Accesa è la notte”, pensato anche per le scuole e in generale per i giovani, ai quali lo stesso padre Perri era particolarmente legato, lasciando, nei commossi ricordi di molti ragazzi da lui accolti a “Casa Cavanna”, la parola “padre” a lui rivolta come segno di profonda gratitudine.

NELL’“ERRARE” DEI SEMPLICI ABITA LA SALVEZZA

Era un’arte antiborghese, quella di padre Perri, una sorta di teologia resa attraverso la creazione artistica. Nel catalogo della mostra alla Porta degli Angeli, lui stesso critica l’arte informale, definendola «un alto, geniale artigianato mentale, con funzione estetica ornamentale», «come lo è un geniale tappeto». L’arte autentica, invece, ha come scopo quello di «fotografare in modo impietoso, con crudo “realismo”, l’instabilità del nostro tempo». 

Ambienti cupi, ma come attraversati da un fuoco sempre vivo, dominano le sue tele, ricche – nelle varie fasi – delle cromìe aride e infuocate o di quelle – via via, dopo la sua conversione – sempre più lucenti. La vita è quel flusso che le attraversa, è la fiamma dello Spirito. Sui volti, nei corpi, il segno dell’ingiustizia, della passione. Il sangue, in un vortice eterno, avvolge le figure, apparentemente inghiottite nel loro smarrimento, ma in realtà mai del tutto perdute, sempre in ricerca, in un cammino costante, in quella condizione che appartiene a ogni donna e a ogni uomo perché, come diceva lui stesso, «siamo tutti clandestini sulla terra», in attesa di abitare nella casa del Padre.

La dimensione esistenziale di queste folle inquiete è la stessa vissuta nella carne dall’immigrato Anselmo. Un’esperienza di sofferenza trasfigurata nelle sue opere drammatiche che risaltano per la forte espressività. Come ha dichiarato nel sopracitato documentario di Boneschi, «il modello al quale ho sempre guardato – nel passato inconsapevolmente, oggi con delle chiarezze dentro di me – sono i semplici. I semplici sono quelli destinati a essere salvati, a salvarsi».

Questo vagare sofferto – oggi come ieri – è quello di un popolo smarrito, della persona che vive la perdita – della propria terra, delle sicurezze che credeva immutabili -, e che in questo errare, però, incontra sempre una nube di luce che su di lui vigila e un volto, quello di Cristo, nel quale ritrovarsi, accolti da quella Promessa che non delude.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La teologia è un bene comune: la Scuola per laici apre orizzonti»

23 Set

Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, al via il nuovo anno. Intervista al Direttore Marcello Musacchi: «studio e confronto per abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”»

di Andrea Musacci

Non luoghi di difesa, ma di costruzione di nuove speranze. Così vanno ripensate – continuamente – le nostre comunità ecclesiali. E per cambiare sguardo, per cercare orizzonti differenti, servono anche momenti di ascolto e confronto. Questo aspira ad essere la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, giunta al quinto anno. È già possibile iscriversi alle lezioni che si svolgeranno a Casa Cini, Ferrara dalle 18.30 alle 20 nelle date sotto riportate. Tema, “…E lo riconobbero…oltre le attese, con gli occhi della fede”. Abbiamo incontrato il Direttore della Scuola, Marcello Musacchi, per riflettere assieme sul nuovo anno che sta per iniziare.

Musacchi, rispetto all’anno scorso quali sono le novità?

«L’anno scorso avevamo scelto l’immagine della chiave e della casa, dei modi di entrare, approcciare una pastorale diversa. Quest’anno invece abbiamo scelto l’immagine di Emmaus, icona del Sinodo in corso, e anche qui in un certo senso ricorre il tema della casa, quel luogo da dove si riparte. Al tempo stesso, però, vi è l’immagine della strada, luogo dell’annuncio».

La Scuola non è un Istituto di Scienze Religiose. Quali le differenze?

«Come l’anno scorso, abbiamo mantenuto nel programma l’unione di discipline umanistiche e teologiche, un intreccio continuo tra le due, di cui parla anche Papa Francesco nella Costituzione apostolica “Veritatis gaudium”: una teologia, quindi, che – attraverso la multidisciplinarietà – entra nei contesti e nelle dinamiche delle vite delle persone. Una differenza importante rispetto al vecchio approccio. Inoltre, riteniamo sia altrettanto importante saper comunicare bene ciò che c’è di positivo, e per questo ai relatori abbiamo chiesto di portare con sé anche la propria esperienza, per arrivare a una dinamica di riflessione, a un confronto con i presenti». 

Esperienza: parlarne significa parlare anche delle fragilità, a partire dalle proprie…

«Sì, lo faremo soprattutto nella seconda parte del programma. Gli elementi di fragilità possono trasformarsi in opportunità per le comunità e la loro pastorale. Dalle fragilità che chiunque ha, si possono – assieme – cercare nuove strade per trasmettere la fede. Strade che, quindi, si dimostrano profetiche».

Abitudine e novità, futuro e tradizione: coppie che spesso creano tensione. La Scuola come affronta questi snodi?

«Dallo stesso percorso sinodale, stanno emergendo diverse riflessioni e proposte nuove. Si tratta di capire come riorientare la memoria – che è fondamentale – in una nuova speranza. Prima parlavamo di esperienza, di vissuti: un buon metodo per lavorare su questo, è stare sulla strada, non sulle mappe…».

Passare dalla carta alla carne, insomma…

«Esatto. Ma stare nella realtà significa iniziare a guardare le nostre stesse comunità cristiane con occhi diversi, costruendo forme di appartenenza che non siano più luoghi di difesa, che non seguano più la logica dell’arroccamento in piccoli gruppi autoreferenziali…».

Non a caso, la prima parte dell’anno della Scuola si intitola “Disinstallarsi: una Chiesa in cammino che prende sul serio le domande”. In che senso bisognerebbe “disinstallarsi”?

«Nel senso di “schiodarsi”, muoversi per mettere in gioco se stessi, la propria fede. È un’espressione che Papa Francesco usa spesso. È la grande sfida delle nostre comunità. Si tratta di cercare orizzonti diversi».

Alzando sempre più in alto l’asticella, per non rischiare di fissarsi troppo su ciò che si è raggiunto…

«Si tratta di spostare l’oggetto del desiderio: ciò che come parrocchiano o appartenente a un’associazione o a un movimento hai fatto fino ad oggi, va bene. Non è questo il problema. Ma bisogna sapersi mettere in gioco, abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”».

Le Unità pastorali, ad esempio, richiedono a tutti un approccio diverso…

«Sì, un approccio che non faccia disperdere energie, vista la necessità di lavorare in un territorio più ampio. Il “disinstallarsi” è anche questo, e comprende il prendersi cura, quindi anche il tema di una formazione adatta a tutti, aperta a ognuno».

Il tema della cura, che richiama ancora quello della fragilità…

«Si tratta di entrare nelle vite delle persone. Ogni evangelizzazione dovrebbe sempre partire da questo, non da un sistema di pensiero che si considera perfetto e che quindi basta applicare alla realtà. Mentre invece la mia vita deve poter cambiare, senza conformarsi a un sistema concettuale. La nostra stessa Scuola, dunque, rifiuta questo tipo di rigidità, proponendo un approccio alla teologia intesa come bene comune appartenente al popolo di Dio».

Un bene comune che andrebbe anche “portato” in maniera sempre più capillare nelle varie parrocchie…

«Certamente. Già l’anno scorso alcuni dei partecipanti hanno sperimentato una forma ancora più allargata di Scuola: coloro che vi partecipavano, infatti, avevano dato vita nelle proprie parrocchie a gruppi nei quali riportavano ciò che avevano ascoltato durante le lezioni, per discuterne assieme. Un metodo da promuovere ovunque in Diocesi».

Pubblicato sulla “Voce” del 22 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quacchio, festa per la chiesa e l’asilo restaurato 

18 Set

Dedicazione e 60° dalla costruzione col Vescovo. Il rito in una chiesa gremita e la cerimonia nella Scuola

Grande festa il 17 settembre nella chiesa “San Giovanni evangelista” di Quacchio a Ferrara per la dedicazione e per il 60° della consacrazione. La chiesa fu distrutta dai bombardamenti bellici nella seconda guerra mondiale e ricostruita nel 1963, assieme alla canonica e alla Scuola materna, su progetto dell’arch. Orlando Veronese e grazie all’impegno dell’allora parroco mons. Antonio Abetini. Da due anni Quacchio fa parte dell’Unità pastorale “Borghi in periferia fuori le mura” assieme a S. Caterina Vegri, Malborghetto di Boara, Pontegradella e Focomorto. 

I riti della dedicazione – unzione dell’altare e delle pareti della chiesa in corrispondenza delle croci della Via Crucis, l’incensazione e illuminazione dell’altare e dell’edificio – sono seguiti all’omelia del nostro Arcivescovo, nella quale – riprendendo anche il Vangelo del giorno – ha riflettuto così: «Ogni chiesa è luogo dove si vive e s’impara il perdono. Quanti in questi 60 anni hanno sperimentato in questo luogo il perdono di Dio, hanno ricominciato a vivere grazie alla misericordia di Dio? E quanti in questi 60 anni in questa chiesa, nata sulle macerie della violenza di una guerra, hanno partecipato all’Eucaristia, fonte di perdono e pace?».

A fine Messa il parroco don Luca Piccoli dopo i ringraziamenti alla comunità, ha invitato a «non dimenticarci di essere un popolo sacerdotale, che nasce e rinasce sempre grazie all’Eucarestia». Per l’occasione – ha spiegato – è stato ricostruito l’ambone e all’ingresso il confessionale e il fonte battesimale sono stati scambiati tra loro di posto, tornando alle loro posizioni originarie. «D’ora in poi – ha aggiunto – la festa comunitaria della parrocchia ricorrerà in questi giorni di settembre».

Due i video realizzati per l’occasione da Daniele Musacchi, disponibili qui: https://www.youtube.com/@danielemusacchi8709/featured

L’ASILO RESTAURATO

Dopo la Celebrazione, sono stati ufficialmente inaugurati i locali restaurati dell’attigua Scuola d’Infanzia “Maria Immacolata”, la cui inaugurazione, prevista per marzo 2020, fu rimandata a causa del lockdown. Oltre all’intervento antisismico, sono stati adeguati gli impianti elettrici e termoidraulici, è stato rifatto il sistema di fognature e gli allacciamenti sia idrico che gas, i pavimenti, gli intonaci, le tinteggiature e i bagni dei bambini. Sono state poi sostituite le finestre e le porte più vecchie e la scuola è stata dotata di un bagno per portatori di handicap. L’investimento complessivo è stato di circa 450mila euro.

Sulla facciata principale dell’asilo, vi è una formella rappresentante la Sacra Famiglia e una targa che ricorda due vittime dei bombardamenti del 10 marzo 1945: Gianfranco Zagni, 12 anni, e Floriano Fantoni, 8 anni. Tra le novità dell’asilo, vi sono l’allungamento dell’orario di apertura fino alle 17.30 e due nuovi laboratori di musica e inglese. Sono 55 i bimbi iscritti quest’anno, una ventina in meno rispetto all’anno scorso. Un problema sottolineato anche da mons. Perego nel suo intervento, nel quale ha ricordato come «la scuola cattolica non è una scuola esclusiva, ma inclusiva per sua natura», anche se «non è stata ancora rispettata adeguatamente la libertà educativa, più costosa per i genitori che scelgono la scuola cattolica per i loro figli, che segue in tutto i programmi delle altre scuole statali e comunali, anche se costa dieci volte di meno e ha un contributo irrisorio dallo Stato attraverso i Comuni e le Regioni. Per queste ragioni, soprattutto nelle frazioni, le nostre scuole cattoliche faticano a vivere e ad avere un futuro. Ma il valore educativo non ha prezzo, soprattutto se una scuola favorisce una cultura dell’incontro». 

Ha portato il suo saluto anche l’Assessora comunale all’Istruzione Dorota Kusiak, alla presenza delle educatrici e di alcuni bambini con le loro famiglie. Bambini che hanno anche intonato una canzone prima che il Vescovo e l’Assessora fossero accompagnati a visitare i locali della Scuola. La giornata si è conclusa con il pranzo comunitario. Domenica 15 ottobre, infine, in occasione del 40° della dedicazione della chiesa di S. Caterina Vegri, si celebreranno le Cresime e vi sarà il pranzo comunitario.

Famiglia Cortesi in parrocchia: la novità in Diocesi 

Per la prima volta nella storia della nostra Arcidiocesi, una famiglia vive in una casa canonica parrocchiale. Si tratta del diacono permanente Marco Cortesi assieme alla moglie Alessia Pritoni e ai loro cinque figli, che da agosto vivono negli ambienti della parrocchia dell’Addolorata a Ferrara. Cortesi assieme alla famiglia è stato richiamato in Diocesi dopo cinque anni trascorsi in missione a Toledo, in Spagna. Appartenente alla Papa Giovanni XXII, la coppia aiuterà il parroco don Paolo Semenza. Lo scorso 3 settembre il Vicario Generale mons. Massimo Manservigi ha celebrato la Messa in ricordo di don Valenti e per l’occasione è stata anche accolta la famiglia Cortesi. Cresciuti a Mizzana, i Cortesi hanno vissuto anche a Pescara di Francolino e a Pontelagoscuro.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Qual è il posto dell’uomo sulla terra? Suor Vinerba ne ha parlato il 15 settembre dalle Clarisse

18 Set

Riconoscere la differenza ontologica che distingue la persona dalle altre creature, ma non dimenticando la responsabilità dell’uomo nei confronti del creato. Su questo non semplice crinale si è mossa suor Roberta Vinerba, direttrice dell’Istituto Superiore di Scienze religiose di Assisi, nel suo intervento la sera del 15 settembre nel Monastero ferrarese del Corpus Domini. “Dominare e custodire. Dominare o custodire. Approcci umani di tessitura ecologica” il tema dell’incontro all’interno del programma del Tempo del Creato.

Il 30 settembre, invece, avrà luogo una visita alla scoperta del Bosco di Porporana, guidata dai volontari di A.R.E.A. (Associazione Recupero Essenze Autoctone). Il ritrovo sarà alle ore 17 ai piedi dell’argine del Po, alla fine di via Palantone. Ricordiamo anche che c’è tempo fino al 15 ottobre nella Cappella dei Sacchi del Duomo di Comacchio per visitare la mostra collettiva dal titolo “Che la Giustizia e la Pace scorrano”. 

Una fitta rete relazionale

Una 50ina i presenti dalle Clarisse per ascoltare la relazione di suor Vinerba. «Dio ama tutto ciò che ha creato, dunque tutto ciò che esiste è un suo dono», ha spiegato la relatrice. E se la persona è relazione (con Dio, con sé stessa, con gli altri, col resto del creato), allora Dio l’ha posto nella «fitta rete relazione della creazione, un sistema non fisso ma in movimento». Un sistema «vocazionale». Ogni ente, infatti, «ha una sua vocazione, essendo destinato a giungere al Cristo totale che tutto riassume in sé». L’uomo deve diventare consapevole di questa sua posizione nel creato, che gli permette anche di poter cogliere la bellezza intesa come «profondità del mistero di ciò che esiste». In quanto creato da Dio, ogni ente «non può non essere di per sé bello e buono», quindi «indispensabile per la vita personale», dell’uomo, e non utile (o inutile), com’è invece per la mentalità tecnocratica oggi dominante.

Ma all’interno della rete relazionale del creato, l’uomo è l’unico ente che può «porsi coscientemente davanti a Dio», rispondendo così alla sua vocazione. L’uomo è, dunque, «l’interlocutore di Dio». Detto ciò, ogni cosa creata è per Dio (a Lui deve fare ritorno), non per l’uomo, e quindi «noi siamo in cammino – dunque in comunione – con ogni altra creatura», verso Dio. 

Appurata questa «alleanza di reciprocità», esiste però – ha proseguito suor Vinerba – una «differenza ontologica e valoriale», in quanto l’uomo è stato creato da Dio in maniera diversa, pur «nell’uguaglianza di dignità» con le altre creature. Non riconoscere questa differenza sostanziale porta a «un egualitarismo errato» e a una «sacralizzazione pagana della natura». Come scritto in Genesi, l’uomo da una parte è chiamato a “dominare” e “soggiogare” la terra, e dall’altra a “custodirla” e “coltivarla”, anzi a «custodirla coltivandola». La vocazione originaria dell’uomo è dunque il lavoro, da cui deriva tutto ciò che definiamo come “cultura” e “giustizia”: una concezione, quindi, antitetica, come accennato, a quella tecnocratica che considera ogni cosa manipolabile, «preda della volontà di potenza dell’uomo». Il concetto di “sacralità” di conseguenza si applica solo alla persona vivente (non a tutto il creato) ma questo comporta una «responsabilità» dell’uomo – assegnatagli da Dio – nei confronti di ogni ente.

Andrea Musacci

(Foto Pino Cosentino)

Pubblicato sulla “Voce” del 22 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio