
Ritratto del pittore a cui è dedicata la prossima mostra a Palazzo Diamanti: anima reietta e sofferente, talento limpido in un’esistenza di dolori rivolta alla creazione di tante opere traboccanti bellezza e inquietudini
di Andrea Musacci
«Gli sarebbe piaciuto / contro il vento camminare / con un gran cane a lato / i gambali e i risvolti larghi / di una divisa, l’occhio aggressivo che / si intenerisce e chiede / pietà per tutti»
(Cesare Zavattini, “Ligabue”, 1967)
“Antonio Ligabue. Una vita d’artista” è il nome della mostra visitabile a Palazzo dei Diamanti dal 31 ottobre al 5 aprile, a cura di Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi con la supervisione di Augusto Agosta Tota, e organizzata da Ferrara Arte e Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma.
Non è semplice cercare parole per questo artista unico nel panorama moderno italiano, celebre per le sue “giungle padane” costellate di animali feroci più o meno esotici, e noto per i suoi malinconici autoritratti.
Destino di preda
La malinconia di un’anima derisa da tutti, fin dall’infanzia, lui bambino gracile, isolato come un appestato, buono solo per le ingiurie dei ghigni tronfi dei compagni. Nei suoi animali pur privi di pietà non vi era, a differenza degli umani crudeli, alcun autocompiacimento ma solo il suono sordo della ferinità. Sì, perché a “Toni al mat” – come scrive Giuseppe Amadei nel catalogo di una retrospettiva organizzata ad Alba nel 2003 – «tra i tanti mali che gli sono capitati, il più grande è stato quello – nei momenti di maggiore lucidità – di conoscere il doloroso capire tutte le cose».
Era lui quella bestia azzannata che faceva emergere dalle sue tele, suo il terrore nello sguardo della vittima ormai disarmata, nuda di fronte all’esistenza, al male, al duro patire violento e insaziabile. Come quella «furtiva volpe rossa» che seppe cogliere «tra il terrore della morte e lo stupore / del tramonto intramontabile», come scrisse Cesare Zavattini nell’opera sopracitata. Un grido di movimenti e cromie simili alla vendetta di un demone maligno, all’irrompere cieco e per questo tremendo – come un destino – della realtà.
Paesaggi, quelli dei suoi quadri, che così spesso assomigliano, almeno di primo acchito, a eden vivaci e stralunati fino all’onirico, ma che in un lampo rivelano una luce troppo tagliente, un movimento di un corpo minaccioso tutto pelle, nervi e ferocia. E obbligano l’occhio di chi osserva, come nel rapidissimo susseguirsi di frammenti in un incubo, a scovare un’altra bestia più minuta, una minaccia ulteriore, e scoprirsi, come la vittima, come Toni, inermi, senza propulsione nelle gambe, senza più ripari psicologici. Come piegati, siamo costretti dinnanzi alle fauci spalancate, sentendoci noi stessi divorati. Oppure lui, Ligabue – «rosa vergine e selvatica» come lo definì l’artista Luigi Bartolini – si sentiva preda scelta del mondo e al tempo stesso concupito e logorato da tarli e smanie interiori, terrori vivi, frementi, tesi come i corpi lucenti delle sue tigri. Una paura famelica nascosta, come dietro la vegetazione dei suoi dipinti, dentro ognuno di noi, in ombra, come dormiente dietro un ramo, di un sonno torvo e ingannatore.
Apolide e solitario
Ligabue era nomade, apolide per natura, sempre straniero e quindi sempre ospite, mai di casa. Corrucciato e scostante, sempre pària, estraneo, si dice consumatore occasionale di cani e gatti lessati dopo averli conservati sotto la neve, ma anche amante di automobili e motociclette che, dopo il successo, iniziò a collezionare.
Mai familiare, dicevamo, ma capace di contatto, come in quel documentario di Andreassi dove, con fare a un tempo infantile e morboso, elemosina un bacio da una giovane donna a cui accarezza il viso, grato e stupito come fosse la prima femmina avvicinata. Implorante sì, patetico certo, ma umanissimo perché fragile, bisognoso, spigoloso e scorticato dalla vita, lui che si travestiva da donna – «nella sua solitudine Ligabue si inventava la compagna, la donna che non possedette mai nella realtà», racconta Andreassi. Ambiguo e non etichettabile, di certo non come pittore. Ma poco importa, perché ciò che conta è, come scrisse Luigi Carluccio nel 1965 sulla “Gazzetta del popolo”, che Ligabue «nelle sue opere ha trasposto il sentimento della vita, stravolto e crudele, che egli doveva sentire bruciare effettivamente nelle vene». Un sentire che defluiva, prima di iniziare a pennellare, e che diventava gestualità misteriosa, propiziatoria, accompagnata da nenie tribali, nemmeno loro dimentiche di quella sofferenza palpabile.
Corpo dannato, corpo di grazia
Vittima della diversità, dunque, un marchio accollatogli addosso dal mondo, che tardi e forse mai del tutto lesse in lui un certo senso divino in quella vertigine che è la creazione artistica. Senso offuscato da quel corpo di reietto, sporco e maleducato, fascio di impulsi e vizi, Ligabue aveva occhi scavati – così piccoli – dentro due nere conche, strette e atipiche.
In un insieme irregolare nei segni, nella pelle, nel cadenzare, in quelle orecchie troppo grandi, spiccavano labbra granata, una bocca piena di carie, sgraziata e incerta, se non nell’imprecare. Bocca nera di sigaretta, avara di parole, gradino dove incespicavano le parole, idiomi di offesa, millantatori, irridenti, miscuglio di tedesco, italiano e reggiano, ma anche parole che sapevano ritrarsi pudiche davanti ai bambini a cui dava del “voi”.
Labbra che sputavano bestemmie ma che chiesero il battesimo, poi gli altri sacramenti, fino, poco prima di spirare, l’estrema unzione. E che nella Pasqua dello stesso anno, vedendosi rifiutate nel chiedere la comunione, chiesero al prete: “Perché a me no? Suntia na bestia me?” (Sono una bestia, io?). E – come racconta Marzio Dall’Acqua – «quando il prete gli chiese se sapeva cosa fosse l’eucarestia, rispose: “Nostar Signur!”». Sembra di rivederlo dentro quel cappotto troppo grande, quel corpo minuto e venoso, quelle mani piccole e tozze che forse sapevano mal implorare, vittime tanto di un oscuro sortilegio quanto di una grazia oscura.
Grazia che conosce vie e trova sembianze assurde per mostrarsi a chi – Dio ci perdoni per questo – è di pietà sempre così digiuno.
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020
Estro, tecnica e intelligenza sono doti necessarie per un artista ma anche per chi l’arte la colleziona, la espone, la rende patrimonio della comunità. Ed estro, tecnica e intelligenza erano caratteristiche che appartenevano a
A breve inizierà l’inventariazione dello sterminato insieme di documenti, lettere e fotografie appartenute allo stesso Farina, alcune delle quali presenti in mostra.
Di De Chirico in mostra si può ammirare l’opera “Due cavalli” (tempera su cartoncino degli anni ’50). Non abbiamo trovato, invece, un bozzetto delle “Muse inquietanti”
Un viaggio agli albori della modernità, tra paesaggi incontaminati e maestose metropoli europee. A compierlo, in pochi decenni, è stato il pittore barlettano Giuseppe De Nittis (Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884), “ospite” a Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al prossimo aprile. Si tratta dell’ultimo progetto espositivo prima dell’avvio del cantiere che riqualificherà le sale espositive e il giardino interno, e che obbligherà alla chiusura fino al 2021 o ’22. Un motivo in più per godersi questi capolavori, inaugurati il 1° dicembre nella mostra dal titolo “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, organizzata in collaborazione con il Comune di Barletta, e a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi (conservatrici delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara) e Hélène Pinet (già responsabile delle collezioni di fotografia e del servizio di ricerca del Musée Rodin di Parigi). Un’interessante esposizione che mette bene in risalto la capacità dell’artista di indagare la nascita di un’epoca, lo sviluppo delle moderne città: anche per questo, le curatrici hanno scelto di porre l’accento sulla correlazione tra le opere di De Nittis – davvero innovative – e la tecnica fotografica.
Proseguendo nel percorso insieme a De Nittis, man mano i paesaggi, urbani e non, si fanno, da una parte, sempre più rappresentativi del moderno – nelle architetture, negli abiti -, dall’altra, più nitidi e solari, segni forse dell’incontenibile ottimismo del progresso. In una Parigi non più nebbiosa, ma pur sempre umida e soverchiata di nuvole, o in una soleggiata Londra, è come se la moderna architettura urbana volesse imporsi allo sguardo, uscendo dalla foschia del passato, dell’antico, lasciandosi alle spalle quella romantica nostalgia che confonde, ottunde, quasi acceca, per presentarsi in tutta la sua sfacciata e disincantata novità, fatta di pesante perfezione. I cantieri, in alcune opere, sono segno di questa continua costruzione, di un erigere strutture su strutture, simbolo concretissimo della nascita e dello sviluppo della città moderna, lanciata verso il XX secolo: uno sguardo sulla sua ossatura – le impalcature -, sul suo germinare dall’acciaio e dal vetro. Ma quasi fosse una reazione, una fuga (o un semplice vezzo?), sempre dalla fine degli anni ’60 si nota in alcune opere del pittore barlettano un richiamo a certo naturalismo giapponese, etereo e sognante: i paesaggi, più o meno nevosi, con le loro montagne e laghi, e anche alcuni paesaggi urbani, sembrano voler smorzare la freddezza dell’urbanità di fine secolo, la sua industrializzazione, dando anche maggior risalto alla figura umana, con primi piani femminili. Volti e corpi di donne che sono centrali nella fase successiva, dalla seconda metà degli anni ’70, quella degli interni, raffinati ambienti artificiali (a parte le ricche composizioni floreali), fin sensuali, caldi in una penombra misteriosa, intorpidita e quasi sonnolenta. Sono donne dalle pelli biancastre, o meglio, perlacee, decisamente meno vestite rispetto ai gelidi dipinti di esterni, con eleganti abiti e corpetti alla moda, ciprie e ventagli, lussuose collane e graziosi bracciali.
Non arte e moda ma la moda in quanto arte, immagine di un’epoca a cavallo di due secoli, nella fanciullezza della modernità, quando nobiltà e alta borghesia si affiancano – convivendo – l’un altra, sempre tese – tra ozio e bellezza, vizio ed edonismo – nella ricerca di una perfezione.
«Felicità e ottimismo per un ambizioso progetto espositivo, un sogno sull’Ariosto che si realizza». Grande l’entusiasmo degli organizzatori e significativa la partecipazione di pubblico ieri pomeriggio nel Salone d’Onore di Palazzo dei Diamanti per la presentazione della mostra “Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, che viene ufficialmente inaugurata oggi alle 18 alla presenza del Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, e sarà visitabile fino all’8 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 19. L’esposizione, a cura di Guido Beltramini e Adolfo Tura, è organizzata da Ferrara Arte e dal Ministero dei Beni Culturali.


Una mostra in quattro luoghi per possibili sinergie tra antico e contemporaneo. Il progetto di Alberto Di Fabio, “Cosmic Gate”, a cura di Veronica Zanirato e promosso da Evart, è stato inaugurato ieri alla Porta degli Angeli, uno dei luoghi scelto per le wall painting e video installazioni di Di Fabio insieme a Palazzo Diamanti e Castello, mentre in Fabula di Giorgio Cattani in via del Podestà l’artista ha tenuto un intervento.