Tag Archives: Palazzo Diamanti Ferrara

Ligabue artista fra grazia e miseria

26 Ott

Ritratto del pittore a cui è dedicata la prossima mostra a Palazzo Diamanti: anima reietta e sofferente, talento limpido in un’esistenza di dolori rivolta alla creazione di tante opere traboccanti bellezza e inquietudini

di Andrea Musacci


«Gli sarebbe piaciuto / contro il vento camminare / con un gran cane a lato / i gambali e i risvolti larghi / di una divisa, l’occhio aggressivo che / si intenerisce e chiede / pietà per tutti»
(Cesare Zavattini, “Ligabue”, 1967)

“Antonio Ligabue. Una vita d’artista” è il nome della mostra visitabile a Palazzo dei Diamanti dal 31 ottobre al 5 aprile, a cura di Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi con la supervisione di Augusto Agosta Tota, e organizzata da Ferrara Arte e Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma.
Non è semplice cercare parole per questo artista unico nel panorama moderno italiano, celebre per le sue “giungle padane” costellate di animali feroci più o meno esotici, e noto per i suoi malinconici autoritratti.


Destino di preda
La malinconia di un’anima derisa da tutti, fin dall’infanzia, lui bambino gracile, isolato come un appestato, buono solo per le ingiurie dei ghigni tronfi dei compagni. Nei suoi animali pur privi di pietà non vi era, a differenza degli umani crudeli, alcun autocompiacimento ma solo il suono sordo della ferinità. Sì, perché a “Toni al mat” – come scrive Giuseppe Amadei nel catalogo di una retrospettiva organizzata ad Alba nel 2003 – «tra i tanti mali che gli sono capitati, il più grande è stato quello – nei momenti di maggiore lucidità – di conoscere il doloroso capire tutte le cose».
Era lui quella bestia azzannata che faceva emergere dalle sue tele, suo il terrore nello sguardo della vittima ormai disarmata, nuda di fronte all’esistenza, al male, al duro patire violento e insaziabile. Come quella «furtiva volpe rossa» che seppe cogliere «tra il terrore della morte e lo stupore / del tramonto intramontabile», come scrisse Cesare Zavattini nell’opera sopracitata. Un grido di movimenti e cromie simili alla vendetta di un demone maligno, all’irrompere cieco e per questo tremendo – come un destino – della realtà.
Paesaggi, quelli dei suoi quadri, che così spesso assomigliano, almeno di primo acchito, a eden vivaci e stralunati fino all’onirico, ma che in un lampo rivelano una luce troppo tagliente, un movimento di un corpo minaccioso tutto pelle, nervi e ferocia. E obbligano l’occhio di chi osserva, come nel rapidissimo susseguirsi di frammenti in un incubo, a scovare un’altra bestia più minuta, una minaccia ulteriore, e scoprirsi, come la vittima, come Toni, inermi, senza propulsione nelle gambe, senza più ripari psicologici. Come piegati, siamo costretti dinnanzi alle fauci spalancate, sentendoci noi stessi divorati. Oppure lui, Ligabue – «rosa vergine e selvatica» come lo definì l’artista Luigi Bartolini – si sentiva preda scelta del mondo e al tempo stesso concupito e logorato da tarli e smanie interiori, terrori vivi, frementi, tesi come i corpi lucenti delle sue tigri. Una paura famelica nascosta, come dietro la vegetazione dei suoi dipinti, dentro ognuno di noi, in ombra, come dormiente dietro un ramo, di un sonno torvo e ingannatore.


Apolide e solitario
Ligabue era nomade, apolide per natura, sempre straniero e quindi sempre ospite, mai di casa. Corrucciato e scostante, sempre pària, estraneo, si dice consumatore occasionale di cani e gatti lessati dopo averli conservati sotto la neve, ma anche amante di automobili e motociclette che, dopo il successo, iniziò a collezionare.
Mai familiare, dicevamo, ma capace di contatto, come in quel documentario di Andreassi dove, con fare a un tempo infantile e morboso, elemosina un bacio da una giovane donna a cui accarezza il viso, grato e stupito come fosse la prima femmina avvicinata. Implorante sì, patetico certo, ma umanissimo perché fragile, bisognoso, spigoloso e scorticato dalla vita, lui che si travestiva da donna – «nella sua solitudine Ligabue si inventava la compagna, la donna che non possedette mai nella realtà», racconta Andreassi. Ambiguo e non etichettabile, di certo non come pittore. Ma poco importa, perché ciò che conta è, come scrisse Luigi Carluccio nel 1965 sulla “Gazzetta del popolo”, che Ligabue «nelle sue opere ha trasposto il sentimento della vita, stravolto e crudele, che egli doveva sentire bruciare effettivamente nelle vene». Un sentire che defluiva, prima di iniziare a pennellare, e che diventava gestualità misteriosa, propiziatoria, accompagnata da nenie tribali, nemmeno loro dimentiche di quella sofferenza palpabile.


Corpo dannato, corpo di grazia
Vittima della diversità, dunque, un marchio accollatogli addosso dal mondo, che tardi e forse mai del tutto lesse in lui un certo senso divino in quella vertigine che è la creazione artistica. Senso offuscato da quel corpo di reietto, sporco e maleducato, fascio di impulsi e vizi, Ligabue aveva occhi scavati – così piccoli – dentro due nere conche, strette e atipiche.
In un insieme irregolare nei segni, nella pelle, nel cadenzare, in quelle orecchie troppo grandi, spiccavano labbra granata, una bocca piena di carie, sgraziata e incerta, se non nell’imprecare. Bocca nera di sigaretta, avara di parole, gradino dove incespicavano le parole, idiomi di offesa, millantatori, irridenti, miscuglio di tedesco, italiano e reggiano, ma anche parole che sapevano ritrarsi pudiche davanti ai bambini a cui dava del “voi”.
Labbra che sputavano bestemmie ma che chiesero il battesimo, poi gli altri sacramenti, fino, poco prima di spirare, l’estrema unzione. E che nella Pasqua dello stesso anno, vedendosi rifiutate nel chiedere la comunione, chiesero al prete: “Perché a me no? Suntia na bestia me?” (Sono una bestia, io?). E – come racconta Marzio Dall’Acqua – «quando il prete gli chiese se sapeva cosa fosse l’eucarestia, rispose: “Nostar Signur!”». Sembra di rivederlo dentro quel cappotto troppo grande, quel corpo minuto e venoso, quelle mani piccole e tozze che forse sapevano mal implorare, vittime tanto di un oscuro sortilegio quanto di una grazia oscura.
Grazia che conosce vie e trova sembianze assurde per mostrarsi a chi – Dio ci perdoni per questo – è di pietà sempre così digiuno.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020

https://www.lavocediferrara.it/

Tutto il Novecento nel PAC di Ferrara: in mostra la Collezione di Franco Farina

23 Dic
Warhol, Vedova, Schifano e molti altri grandi artisti esposti al Padiglione di Arte Contemporanea. Fra due anni le opere a Palazzo Massari, a breve la catalogazione delle sue lettere e fotografie. Aneddoti inediti su Farina e il suo studio. E quel misterioso bozzetto delle “Muse inquietanti” di De Chirico…
 
di Andrea Musacci
farina 2Estro, tecnica e intelligenza sono doti necessarie per un artista ma anche per chi l’arte la colleziona, la espone, la rende patrimonio della comunità. Ed estro, tecnica e intelligenza erano caratteristiche che appartenevano a Franco Farina, non solo Direttore dal 1963 al 1993 di Palazzo dei Diamanti, ma anche colui che, in questo trentennio, ha sconvolto la monumentale quiete di un Palazzo antico e di un’intera città, portando ogni anno a Ferrara i maggiori e più coraggiosi artisti internazionali contemporanei.
 
Ora, è possibile passeggiare in queste tre decadi – o meglio, nell’intero Novecento – attraverso le sale del PAC, il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara (attiguo a Palazzo Massari), in occasione della mostra “La collezione Franco Farina / Arte e avanguardia a Ferrara 1963/1993″, che raccoglie un’ampia selezione delle opere a lui donate o da lui cercate nel corso della carriera (in tutto, quasi 200 tra dipinti, disegni, sculture e opere polimateriche). Patrimonio che la scorsa primavera Lola Bonora, erede, compagna di una vita ed ex direttrice del Centro Video Arte di Diamanti, ha donato al Comune di Ferrara. Donazione che – come ha ricordato oggi, 20 dicembre, giorno dell’inaugurazione, proprio la Bonora nella conferenza stampa in Municipio – lo stesso Farina desiderava fortemente: “sono fortunato a poter avere queste opere in casa mia, ma quando non ci sarò più vogliono che tornino ai cittadini”, diceva. E così è stato. “In questa mostra c’è lui, la sua storia”, ha proseguito la Bonora.
 
“E’ stato tanto amato dalla sua Ferrara, anche dai semplici cittadini: diverse persone, fino all’ultimo, lo fermavano per strada per salutarlo”.
Così, ora, dopo almeno sei mesi di ricerca e preparazione, la mostra è realtà, grazie alla Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’arte moderna e contemporanea di Ferrara, con la cura di Maria Luisa Pacelli, Ada Patrizia Fiorillo, Chiara Vorrasi, Lorenza Roversi e Massimo Marchetti. In parete, capolavori di Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana, Emilio Vedova, Robert Rauschenberg, Mimmo Rotella, Mario Schifano, ma anche Andy Warhol, Renato Guttuso, Man Ray, Mario Sironi, e, tra i ferraresi, Fabbriano, recentemente scomparso. Una collezione, quella di Farina, spiega Fiorillo nel catalogo, che nasce “dagli incontri, dagli scambi, dalle amicizie, dalla stima offerta e ricevuta, insomma da quel ‘disegno’ che non divideva l’uomo dal professionista”.
 
Prossima tappa: la catalogazione delle sue lettere e fotografie. E fra due anni le sue opere saranno a Palazzo Massari
 
OLYMPUS DIGITAL CAMERAA breve inizierà l’inventariazione dello sterminato insieme di documenti, lettere e fotografie appartenute allo stesso Farina, alcune delle quali presenti in mostra. Come spiegano a “la Voce” le curatrici Pacelli, Roversi e Vorrasi, “si tratta di oltre un centinaio di faldoni contenenti alcune migliaia di documenti. La speranza – ma è presto per dirlo – è di riuscire a concludere l’inventariazione entro sei mesi, quindi circa a metà 2020. Il nostro intento – proseguono – è anche quello di svolgere un lavoro ragionato, sottolineando ad esempio le diverse relazioni di Farina con i vari destinatari delle missive”.
 
Inoltre, Pacelli ha spiegato come non ci si limiterà al pur ottimo catalogo già disponibile, ma “il lavoro continuerà – con lo stesso gruppo di ricercatori – per realizzare prossimamente un vero e proprio libro”.
Chiediamo alla Pacelli se Palazzo Massari al momento della riapertura a fine lavori – prevista nel 2022 – potrà ospitare una sezione con le opere della Collezione Farina. “Non è questa l’idea che abbiamo – ci spiega -, ma quella di arricchire con anche le opere appartenute a Farina, la futura Sezione del Museo dedicata al Novecento”. Parole che, ancora di più, permettono di assaporare questa “piccola” ma intensa mostra al PAC come un anticipo di quello che sarà al Massari.
 
Il misterioso bozzetto delle “Muse” dechirichiane
 
antolini-farina-brunelli-copiaDi De Chirico in mostra si può ammirare l’opera “Due cavalli” (tempera su cartoncino degli anni ’50). Non abbiamo trovato, invece, un bozzetto delle “Muse inquietanti”, che nel novembre 2015 – in contemporanea con la mostra “De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie” -, la Maria Livia Brunelli Home Gallery aveva esposto per alcune settimane. Si tratta di un olio su tela forse del 1918 donato da De Chirico a Farina. Chi scrive, insieme alla Brunelli, aveva tentato di “indagarlo”: analizzando avevo scoperto come il bozzetto, rispetto all’originale, non presenti la statua-manichino e la scatola “esoterica” nella parte destra in ombra. Questo fa pensare che probabilmente il bozzetto sia una delle prime intuizioni del dipinto del 1918, e non una delle repliche realizzate successivamente all’opera, a scopo di vendita. L’intuizione potrebbe essere confermata dal fatto che l’opera non è firmata (non presenta nessuna scritta) e quindi non finalizzata al mercato. Lola Bonora ha voluto conservare questo bozzetto nella propria collezione personale, scegliendo quindi di non donarlo al Comune.
Tra l’altro, fu quella sera del 21 novembre 2015 che Farina, nella MLB home gallery di corso Ercole I d’Este annunciò: “dopo la mia morte tutte le opere della mia Collezione andranno al Comune di Ferrara”.
 
L’opera su tessuto nel suo studio, nell’aria profumo di mandorle e champagne
 
La vita di una persona è composta dagli aneddoti più originali, spesso più utili di tante parole a descrivere una personalità, come nel caso di Farina.
Il critico e curatore Lucio Scardino a “la Voce” sottolinea come egli fosse “attentissimo alla moda e al mercato, avendo un fiuto straordinario per le tendenze e le innovazioni artistiche. Era intelligente anche perché spesso – e nella mostra si nota – si faceva donare dagli artisti che esponeva a Diamanti, l’opera scelta per essere inserita sul manifesto dell’esposizione stessa”. Scardino ci regala anche un aneddoto – “ ‘Tu sei un feticista’, mi diceva scherzando, per il mio intenso interesse per gli artisti ferraresi” – e ricorda la sua collaborazione, durata alcuni anni, con Farina per la schedatura delle oltre 8mila opere d’arte del Comune di Ferrara. “L’opera ‘Interrogazioni sull’arte’, una stampa su tessuto di oltre 3 metri realizzata da Léa Lublin – ci racconta ancora Scardino -, ricordo che Franco l’aveva appesa nel proprio studio dietro la scrivania dove siedeva, donando alla vista una forte impressione”.
Anche la Pacelli, nel corso della conferenza stampa, ha ricordato le numerose visite nello studio di Farina, dove insieme mangiavano mandorle salate e bevevano champagne. Particolare, questo, ricordato a “la Voce” anche da Maria Livia Brunelli: “a chi lo andava a trovare negli anni d’oro nel suo studio a Palazzo dei Diamanti, offriva sempre un bicchiere di champagne”. Inoltre, “indossava spesso una tunica e aveva un pappagallo bianco che gli si posava sulla spalla”.
“Farina era una figura evanescente, in lui il concetto, il pensiero dominavano sulla materialità, sulla fisicità”, ha ricordato invece Vittorio Sgarbi, Presidente di Ferrara Arte. “La curiosità, il sapersi creare rapporti con i musei più importanti, i legami con i mercati ‘laici’, nel senso di privi di pregiudizi, erano le caratteristiche” che gli permisero di far diventare Diamanti quel che è diventato: in quel periodo immortale, in quei “30 anni di ‘dittatura’ farininana” – sono ancora parole di Sgarbi – nei quali egli, con la sua “produzione compulsiva” e con il suo “gusto impersonale (finalizzato soprattutto a testimoniare il contemporaneo in questa città)”, ha rivoluzionato la mistica e assonnata Ferrara.
 
Ferrara centro nazionale dell’arte fotografica?
 
E’ questa la proposta, e al tempo stesso la sfida alla città lanciata, sempre il 20 dicembre in Municipio, da Sgarbi. Nel presentare la mostra “La fotografia ha 180 anni! Il libro illustrato dall’incisione al digitale / Italo Zannier fotografo innocente” (in programma tra febbraio e marzo ’20 al MART di Rovereto e il prossimo autunno al PAC di Ferrara), il presidente di Ferrara ha raccontato la propria esperienza, nel ’74, come assistente di Zannier: “così, grazie a lui, quasi per caso, ho scoperto la fotografia”. Dunque, l’annuncio: “in Italia, quindi anche a Ferrara, c’è bisogno di un ‘terremoto fotografico’, attraverso la nascita di centri. Ferrara può diventare uno di questi centri della fotografia, è un dovere storico. Sarebbe importante che questa rivalutazione assolutamente necessaria dell’arte fotografica partisse da Ferrara, com’è stato – ha proseguito – il progetto del MEIS. Insomma, speriamo che Ferrara possa essere all’avanguardia nel riconoscimento della fotografia come arte fondamentale della modernità, della contemporaneità e della vita quotidiana di ognuno”.
Presenti in Municipio, per l’occasione, lo stesso Zannier, l’Assessore alla Cultura Marco Gulinelli e Gianfranco Maraniello, Direttore del MART di Rovereto.
 
 
Pubblicato su http://www.lavocediferrara.it

De Nittis indaga la modernità, tra nebbie antiche e nuovi sfarzi

9 Dic

Fino ad aprile Palazzo dei Diamanti ospita la personale del pittore barlettano divenuto celebre a Parigi

di Andrea Musacci

Giuseppe De Nittis, Westminster, 1878Un viaggio agli albori della modernità, tra paesaggi incontaminati e maestose metropoli europee. A compierlo, in pochi decenni, è stato il pittore barlettano Giuseppe De Nittis (Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884), “ospite” a Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al prossimo aprile. Si tratta dell’ultimo progetto espositivo prima dell’avvio del cantiere che riqualificherà le sale espositive e il giardino interno, e che obbligherà alla chiusura fino al 2021 o ’22. Un motivo in più per godersi questi capolavori, inaugurati il 1° dicembre nella mostra dal titolo “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, organizzata in collaborazione con il Comune di Barletta, e a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi (conservatrici delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara) e Hélène Pinet (già responsabile delle collezioni di fotografia e del servizio di ricerca del Musée Rodin di Parigi). Un’interessante esposizione che mette bene in risalto la capacità dell’artista di indagare la nascita di un’epoca, lo sviluppo delle moderne città: anche per questo, le curatrici hanno scelto di porre l’accento sulla correlazione tra le opere di De Nittis – davvero innovative – e la tecnica fotografica.

Attraverso un raffinato e lirico realismo, l’esposizione di Diamanti inizia con paesaggi deserti, sfocati e malinconici, dove la nebbia li rende come cristallizzati, eterni, atemporali. La modernità incombe, però, inesorabile, e sarà lo stesso De Nittis a cercarla e raggiungerla: nel 1867 si traferisce a Parigi (mirabile l’opera “La traversata degli Appennini – Ricordo”) dove due anni dopo sposerà Léontine Lucile Gruvelle. La capitale francese, come quella inglese, sono rappresentate perlopiù in tele dove a dominare sono cieli piovosi, brumosi, grigi, d’argento e di fumo. Paesaggi anche campestri, immersi in una foschia perlacea, diafana – solo a tratti e timidamente rosacea o color ruggine. Fumo e nebbia, dunque, “fog&smog”, ad addormentare l’atmosfera urbana, diluendo edifici e persone, invadendone fin le figure, donne e uomini “distratti” – come in “Westminster” (1878) -, apparentemente incapaci di ammirare quella luce rossa fioca del tramonto, che in lontananza cerca di emergere come in una visione. “Formicolante città – cantava Baudelaire in “I sette vecchi” -, città piena di sogni, ove lo spettro in pieno giorno adesca il passante! […Città dove] ingigantite dalla nebbia le case avevan l’aria d’argini fiancheggianti un fiume gonfio”.

Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Mathilde, 1883Proseguendo nel percorso insieme a De Nittis, man mano i paesaggi, urbani e non, si fanno, da una parte, sempre più rappresentativi del moderno – nelle architetture, negli abiti -, dall’altra, più nitidi e solari, segni forse dell’incontenibile ottimismo del progresso. In una Parigi non più nebbiosa, ma pur sempre umida e soverchiata di nuvole, o in una soleggiata Londra, è come se la moderna architettura urbana volesse imporsi allo sguardo, uscendo dalla foschia del passato, dell’antico, lasciandosi alle spalle quella romantica nostalgia che confonde, ottunde, quasi acceca, per presentarsi in tutta la sua sfacciata e disincantata novità, fatta di pesante perfezione. I cantieri, in alcune opere, sono segno di questa continua costruzione, di un erigere strutture su strutture, simbolo concretissimo della nascita e dello sviluppo della città moderna, lanciata verso il XX secolo: uno sguardo sulla sua ossatura – le impalcature -, sul suo germinare dall’acciaio e dal vetro. Ma quasi fosse una reazione, una fuga (o un semplice vezzo?), sempre dalla fine degli anni ’60 si nota in alcune opere del pittore barlettano un richiamo a certo naturalismo giapponese, etereo e sognante: i paesaggi, più o meno nevosi, con le loro montagne e laghi, e anche alcuni paesaggi urbani, sembrano voler smorzare la freddezza dell’urbanità di fine secolo, la sua industrializzazione, dando anche maggior risalto alla figura umana, con primi piani femminili. Volti e corpi di donne che sono centrali nella fase successiva, dalla seconda metà degli anni ’70, quella degli interni, raffinati ambienti artificiali (a parte le ricche composizioni floreali), fin sensuali, caldi in una penombra misteriosa, intorpidita e quasi sonnolenta. Sono donne dalle pelli biancastre, o meglio, perlacee, decisamente meno vestite rispetto ai gelidi dipinti di esterni, con eleganti abiti e corpetti alla moda, ciprie e ventagli, lussuose collane e graziosi bracciali.

Sfarzo che forse raggiunge il suo apice nelle opere ambientate negli ippodromi: dopo gli angusti e intimi spazi interni, un ritorno all’aperto, in ambienti ariosi ma dove la natura, sempre più domata, è rappresentata dai cavalli di razza in gara. L’equino, simbolo di glorie antiche è, nelle opere di De Nittis, trasformato in orpello, posto sullo sfondo di questa grande sceneggiata della modernità, in questa rappresentazione teatralizzata dove a interessare è l’eleganza e il compiacimento nello sfoggio dei propri ingombranti cappelli, dei propri abiti alla moda. Così, l’ultima parte dell’esposizione è dedicata alle realizzazioni “en plein air”, dove tutto si fa massimamente lucente e spensierato, ormai lontano dalle nebbie delle città polverose e indaffarate: ora a dominare sono i dolci pastelli luminosi e vivaci, quei colori “virginali” – oro, bianco e celeste – che pare quasi di vedere anche nel “bianco e nero” dei due commoventi filmati dei fratelli Lumière, del 1895 e del 1900: in uno, un padre imbocca il figlioletto neonato sotto lo sguardo amorevole della madre, nell’altro, una bimba seduta gioca con un gatto. Lo sguardo della tecnica, d’ora in poi, invaderà sempre più il reale: De Nittis l’aveva compreso, riuscendo a interpretarlo con originale sensibilità, dote tipica dello sguardo “rivoluzionario” dell’artista.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2019

https://www.lavocediferrara.it/

http://lavoce.epaper.digital/it/news

Quando Boldini vestiva un’intera epoca

18 Feb

Civettuole ed esili sono le donne raffigurate dal pittore ferrarese, in mostra fino al 2 giugno a Palazzo dei Diamanti: figure inquiete e impettite, in un grande progetto espositivo che omaggia lo splendore della moda

boldiniNon arte e moda ma la moda in quanto arte, immagine di un’epoca a cavallo di due secoli, nella fanciullezza della modernità, quando nobiltà e alta borghesia si affiancano – convivendo – l’un altra, sempre tese – tra ozio e bellezza, vizio ed edonismo – nella ricerca di una perfezione.
C’è questo e molto altro nel nuovo progetto espositivo di Palazzo dei Diamanti, “Boldini e la moda”, inaugurato lo scorso 15 febbraio e visitabile fino al prossimo 2 giugno. La mostra è organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna – Museo Giovanni Boldini di Ferrara, e a cura di Barbara Guidi (che diversi anni fa ha studiato le lettere del pittore custodite nel Museo di Ferrara a lui dedicato, studio sfociato in una tesi di dottorato e in una pubblicazione da parte di Ferrara Arte Editore) con la collaborazione di Virginia Hill. Un percorso affascinante nella femminilità (ma non solo, anche nella distaccata e oziosa signorilità maschile dell’epoca), composto da quasi centrotrenta opere e che riunisce dipinti, disegni e incisioni di Boldini e dei colleghi Degas, Manet, Sargent, Seurat, Blanche ed Helleu ad un’accurata selezione di abiti d’epoca, libri e accessori preziosi.
“Affermatosi nella Parigi tra Otto e Novecento – scrivono i curatori -, crocevia di ogni tendenza del gusto e della modernità, Boldini ha immortalato la voluttuosa eleganza delle élite cosmopolite della Belle Époque. Il suo talentuoso pennello ha consegnato alla posterità le immagini dei protagonisti di quell’epoca mitica – da Robert de Montesquiou a Cléo de Mérode alla marchesa Casati – concorrendo a fare di loro delle vere e proprie icone glamour”.
Si passa così, nel percorso espositivo, dal nero, simbolo di eleganza, mistero e lutto, a tinte più chiare e più dolci, al bianco e al rosa. A svettare dalle pareti sono le ormai note, ma mai banali, muse del Boldini, esili e slanciate figure femminili dai visi scarni ma vivi, furbi e ammalianti, sempre distintamente tesi in una sottile provocazione (“lei regala il desiderio di lentamente morire sotto il suo sguardo” scriveva Baudelaire a metà ’800 in “Il desiderio di dipingere”). Le loro bocche piccole, rosse e sottili, o quegli incarnati dolcemente rosei, quasi infantili, non fungono da mero sfondo ai lussuosi e incantevoli abiti. I loro stessi sguardi magneticamente intelligenti, consapevolmente vivaci, sono gli sguardi di chi percepisce un’atmosfera, anzi di chi “veste” un’intera epoca, di una storia che muta e della quale pare già sentirsi protagonista, diva, icona. “Quegli occhiolini sottili e terribili – scriveva ancora Baudelaire in “La camera doppia” -, li riconosco per la loro spaventosa malizia! Essi affascinano, soggiogano, divorano lo sguardo di chi li contempla imprudente”.
Fra questi corpi minuti e astuti – dove a tratti spuntano improvvisi sparuti sprazzi di rosso a dire una recondita passione – spicca come eccezione la “Signora in rosa sul divano” (1895 ca.), languida e morbida, abbandonata su una poltrona, tutt’altro che impettita ma anzi travolta, forse, dal sonno, e quasi sfumata nei contorni già inquieti dello stile tipico del pittore ferrarese. Uno stile, questo che lo renderà celebre, dinamico e nervoso ma che – non ci si stupisca – richiama, al di là delle apparenze, un movimento anche interiore, un’inquietudine, moto amplificato, per altri versi, nel cammino espositivo, dai numerosi specchi, fonte di spaesamento e di (ça va sans dire…) vanitoso sdoppiamento.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 febbraio 2019

http://lavocediferrara.it/

Nel buio e nello splendore: prime immagini della mostra sull’Orlando furioso a Palazzo dei Diamanti

23 Set

L’imponente progetto espositivo intitolato “Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, viene ufficialmente inaugurato oggi alle ore 18 alla presenza del Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, e sarà visitabile fino all’8 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 19. L’esposizione, a cura di Guido Beltramini e Adolfo Tura, è organizzata da Ferrara Arte e dal Ministero dei Beni Culturali.

[Qui il mio servizio sulla presentazione della mostra]

Qui alcune mie immagini della mostra vista in anteprima stamattina.

Alla scoperta dell’Ariosto che realizzò il Furioso

23 Set

[Qui alcune mie immagini in anteprima della mostra]

Presentata la mostra di Palazzo Diamanti, inaugurazione oggi. Medaglia d’onore del Presidente Mattarella al sindaco Tagliani

14355794_1464335220250414_1295043005063235763_n«Felicità e ottimismo per un ambizioso progetto espositivo, un sogno sull’Ariosto che si realizza». Grande l’entusiasmo degli organizzatori e significativa la partecipazione di pubblico ieri pomeriggio nel Salone d’Onore di Palazzo dei Diamanti per la presentazione della mostra “Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, che viene ufficialmente inaugurata oggi alle 18 alla presenza del Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, e sarà visitabile fino all’8 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 19. L’esposizione, a cura di Guido Beltramini e Adolfo Tura, è organizzata da Ferrara Arte e dal Ministero dei Beni Culturali.

500 anni e non sentirli: il 22 aprile 1516 in una tipografia di Ferrara venivano stampate le prime copie dell’immortale poema ariostesco, e ora, nel quinto centenario questa mostra permette di ammirare dipinti, sculture e disegni, ma anche arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. Il tutto per cercare di ricreare l’ambientazione mentale di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso.

L’importante lavoro, portato avanti dai curatori insieme a Maria Luisa Pacelli e Barbara Guidi, rispettivamente Direttrice e Curatrice di Palazzo dei Diamanti, e al comitato scientifico, permette di contemplare capolavori di grandi artisti, da Paolo Uccello (San Giorgio e il drago, c. 1440) ad Andrea Mantegna (Minerva caccia i Vizi dal Giardino delle Virtù, 1497-1502), da Leonardo da Vinci (Scena di battaglia, c. 1517-18) a Michelangelo (Leda e il cigno, copia, post 1530), e Tiziano (Il baccanale degli Andrii, c. 1523-26, che torna a Ferrara dopo più di 400 anni), oltre a tanti altri.

Una mostra d’arte, ma non solo: grazie al sostegno dei maggiori musei, saranno esposte opere e oggetti preziosi noti al poeta, o coerenti col suo stile: oltre alla copia dell’Orlando furioso datata 22 aprile 1516, dalla British Library di Londra, ad esempio vi sarà l’olifante dell’XI secolo, che leggenda vuole sia il corno di Orlando che risuonò a Roncisvalle.

Ieri durante la presentazione Maria Luisa Pacelli ha presentato, tra l’altro, tre pubblicazioni legate alla mostra: una di Luigi Dal Cin, un’altra curata da Elisa Curti con testo di Calcagnini, che verranno presentati in Biblioteca Ariostea rispettivamente il 5 ottobre e il 18 novembre, oltre a una di illustrazioni e di fumetti in collaborazione col Liceo Dosso Dossi.

14354969_1463911956959407_1989296311097866887_n

Un momento della presentazione di ieri

Altre iniziative di contorno sono state illustrate da Martina Bagnoli, direttrice della Pinacoteca Nazionale: visite guidate, manifestazioni musicali organizzate col Conservatorio, spettacoli, e una maratona di lettura del Furioso in programma tra il 2 e il 3 dicembre prossimi.

Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara, ha elogiato  l’esposizione come «straordinaria, utile per rivivere ciò che Ariosto rielaborava quando si chiudeva nelle sue stanze». A ulteriore dimostrazione dell’importanza della rassegna, il Prefetto Michele Tortora all’inizio della conferenza ha consegnato al sindaco una medaglia d’onore a nome del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

L’Assessore alla Cultura Massimo Maisto, raggiante per l’evento, ha anche illustrato il progetto del “Cantiere Ludovico Ariosto” ospitato nel virtuale“MuseoFerrara”. Infine, i curatori Adolfo Tura e Guido Beltramini hanno illustrato nel dettaglio il percorso espositivo.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 settembre 2016

14457359_1464366553580614_3191650345932020953_n

Viaggio nella casa di Donato Droghetti, allestitore a Palazzo Diamanti

11 Ago

[Qui il file della pagina de la Nuova Ferrara]

[Qui l’articolo principale del servizio]

ettore-e-andromaca

Giorgio De Chirico, “Ettore e Andromaca” (1917)

Nella casa a Codrea di Donato Droghetti, ex Capo allestitore a Palazzo dei Diamanti nei gloriosi anni di direzione di Franco Farina, furono molti gli artisti, famosi e meno famosi, ripetutamente ospitati. La figlia Riccarda Droghetti, a quei tempi bambina, ricorda in particolare le visite di Giorgio De Chirico (Volo 1888-Roma 1978), il quale, molto vecchio e senza cappotto, andava ospite di Droghetti per mangiare la salama da sugo, seduto in sala con una coperta sulle spalle e con le babucce di pelo di pecora.

Inoltre, un’amicizia particolare Droghetti l’ebbe con “il compagno” veneto Antonio “Tono” Zancanaro (Padova 1906-1985), eccentrico artista che gli dedicherà numerose opere e cataloghi, e che, pare, amasse particolarmente il vino Clinton e i salami all’aglio, due specialità che non mancavano mai nella “collezione” di casa Droghetti.

Infine, un ricordo particolare va all’artista Renzo Vespignani (Roma 1924-2001), importante ritrattista tutt’ora conosciuto e omaggiato, frequentatore della casa di Codrea, vero estimatore della cucina della signora Droghetti, e il quale amava ricambiare l’ospitalità eseguendo ritratti alla famiglia.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara l’11 agosto 2016

Meravigliose opere d’arte nel sottotetto di un granaio

11 Ago

[Qui il file della pagina de la Nuova Ferrara] – [Qui le video-interviste ai curatori]

Warhol, Guttuso e Schifano esposti nell’azienda agricola “CasadiRo”. “PinArt – Periferia in Arte” è il nome del progetto dalle mille sfumature

Ammirare nel sottotetto di un ex granaio nella campagna ferrarese, opere e stampe di alcuni tra i più importanti artisti del secolo scorso, come Warhol, Guttuso o Schifano, oltre a locandine e cataloghi di esposizioni dei gloriosi decenni di Palazzo dei Diamanti. Abbiamo visitato in esclusiva l’importante mostra allestita a Ro nell’azienda agricola “Bio-Pastoreria” (denominata anche “CasadiRo”) a Ro Ferrarese (in via Provinciale, 18), in un ex fienile del Settecento (per tutto il Novecento, la casa padronale e azienda agricola più importante del territorio roese), e dal 1994 diretta da Giovanni Dalle Molle, allievo, tra gli altri, di Giorgio Celli. Un’azienda agricola biologica (una delle prime nella nostra regione, con vendita a “Terraviva Bio”, in via delle Erbe a Ferrara), fattoria didattica, e, come la definisce lo stesso proprietario, azienda “articola”. Dalle Molle, infatti, insieme a Massimo Roncarà e Giuliana Berengan, fondatori dell’Atelier e associazione culturale ferrarese “Il Passaggio”, nel 2004 ha dato vita in questo sottotetto a “Il Granaio della CasadiRo”, uno spazio polifunzionale gestito dall’associazione “Il Cantiere delle Idee Chiare e Sfuse”.

“PinArt – Periferia in Arte” è il nome di questo progetto espositivo di opere e materiali del periodo d’oro di Palazzo dei Diamanti, del Padiglione d’Arte Contemporanea di Palazzo Massari e della Sala Polivalente (casa del Centro Video Arte diretto da Lola Bonora), che nasce un anno fa, quando, proprio nel mese di agosto, Riccarda Droghetti, impiegata della libreria Feltrinelli di Ferrara, chiama i tre curatori per far loro una proposta alquanto interessante: poter visionare e ricevere in dono lo sterminato patrimonio artistico appartenuto al padre, Donato Droghetti, morto nel 1993, Capo allestitore a Palazzo dei Diamanti dal 1960 al 1992, e quindi, in un certo senso, il “braccio destro” dell’allora Direttore Franco Farina. Si tratta di 650 cataloghi autografi delle storiche mostre a Diamanti, oltre a 156 opere (litografie, serigrafie, dipinti, disegni, prove d’artista e copie), manifesti, di artisti di fama nazionale e internazionale.

La mostra, inaugurata lo scorso novembre, vede opere di artisti del calibro di Andy Warhol, Renzo Vespignani, Tono Zancanaro, Giorgio Balboni, Sergio Vacchi, Ugo Attardi, Renato Guttuso, Mario Schifano, Egon Schiele, Giorgio Morandi, Enrico Baj, Edvardo Fioravanti, Ernesto Treccani e Mimmo Rotella. Per quanto riguarda invece i cataloghi autografati, troviamo monografie dedicate a Giorgio De Chirico, Robert Rauschenberg, Remo Brindisi, Marcel Duchamp, Mario Sironi, Antoni Tàpies, Gaetano Previati, Giovanni Boldini, Antonio Ligabue, Aroldo Bonzagni, Filippo De Pisis, Alberto Sughi, Aligi Sassu, Pablo Picasso, e tanti altri. Accanto a questi, giovani artisti ferraresi di quei decenni, come Maurizio Bonora, Gianni Guidi, Sergio Zanni, Gianfranco Goberti e Maurizio Camerani, ora maestri indiscussi. Tra le opere esposte, evidenziamo la prima serigrafia realizzata a Ferrara da Andy Warhol, una “prova d’artista” (in realtà, una vera e propria opera d’arte), anteriore alla realizzazione delle opere della mostra ferrarese “Ladies and Gentleman” del 1975. La collezione comprende inoltre, anche se non esposti per motivi di spazio, numerosi cataloghi del Centro Video Arte di Ferrara.

Infine, ricordiamo come negli anni lo spazio espositivo ha ospitato originali personali di artisti come Valter Fingolo, scultore veneto una cui opera accoglie i visitatori all’ingresso dell’azienda agricola, Anselmo Perri, padre gesuita e pittore, e Marcello Carrà.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara l’11 agosto 2016

[Qui gli aneddoti sugli artisti a casa Droghetti]

Di Fabio in città con “Cosmic Gate”

12 Giu

Tra antico e contemporaneo, installazioni artistiche in diversi punti

Mostra Di Fabio (4 luoghi)Una mostra in quattro luoghi per possibili sinergie tra antico e contemporaneo. Il progetto di Alberto Di Fabio, “Cosmic Gate”, a cura di Veronica Zanirato e promosso da Evart, è stato inaugurato ieri alla Porta degli Angeli, uno dei luoghi scelto per le wall painting e video installazioni di Di Fabio insieme a Palazzo Diamanti e Castello, mentre in Fabula di Giorgio Cattani in via del Podestà l’artista ha tenuto un intervento.

La cifra della ricerca di Alberto Di Fabio orbita nell’ambito della matematica e delle geometrie organiche e inorganiche in una prospettiva multidisciplinare, creando visioni di luce che abbracciano i monumenti trasfigurando il passato in un nuovo inizio. La mostra è visitabile fino al 31 luglio nei seguenti orari: Porta Angeli: giovedì e venerdì 17-19, sabato e domenica 10.30-12.30, 16-19. Palazzo Diamanti: 9-19, tutti i giorni. Castello: 9.30-13.30, 15-19, aperto tutti i giorni. Fabula: giovedì, venerdì, sabato 16-19.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 12 giugno 2016

Ecco “Cosmic Gate”, opere di wall painting e video installazioni

11 Giu

Mostra Di Fabio (4 luoghi)Una mostra in quattro luoghi per possibili sinergie artistiche tra antico e contemporaneo. Il progetto di Alberto Di Fabio, “Cosmic Gate”, a cura di Veronica Zanirato e promosso da Evart, inaugura oggi alle 18 alla Porta degli Angeli, uno dei luoghi scelto per le wall painting e video installazioni dell’artista insieme a Palazzo dei Diamanti e Castello Estense, mentre nel nuovo spazio “Fabula Fine Art” di Giorgio Cattani in via del Podestà, 11 l’artista terrà un intervento.

La cifra della ricerca di Alberto Di Fabio orbita nell’ambito della matematica e delle geometrie organiche e inorganiche in una prospettiva multidisciplinare, creando visioni di luce che abbracciano i monumenti, trasfigurando il passato in un nuovo inizio. La mostra è visitabile fino al prossimo 31 luglio.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara l’11 giugno 2016