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Quella santa contraddizione che ci libera e ci ricorda chi è Dio

21 Nov

DON FABIO ROSINI A FERRARA. Il Cinema di San Benedetto era pieno la sera del 12 novembre scorso per la presentazione del suo ultimo libro “Ma anche no”

Esiste un distacco che ci avvicina agli altri, uno svuotamento che riempie la vita, una relativizzazione che ci fa incontrare la Verità.

È questa la provocazione intellettuale – e di fede – che don Fabio Rosini lancia nel suo ultimo libro, “Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et” (San Paolo Edizioni, 21 ottobre 2025, 18 euro). Libro che ha presentato la sera dello scorso 12 novembre nel  Cinema San Benedetto di Ferrara, davanti a una sala piena di persone (mentre la mattina successiva nel Seminario di via Fabbri ha relazionato al solo clero sul Vangelo secondo Matteo).

Il sacerdote romano – introdotto dal nostro Vicario Generale e Direttore Ufficio Comunicazioni Sociali mons. Massimo Manservigi, è andato – com’è nel suo stile – a cuore del discorso: «farsi degli idoli, farsi un film», come si usa dire nel gergo comune, è un vizio molto diffuso. Invece, dovremmo imparare la difficile arte dell’et-et, non dell’aut-aut, non delle «assolutizzazioni».

Et-et che è contraddizione, complessità, ma in realtà anche «equilibrio»: com’era – ad esempio – una volta nel saper vivere la ferialità e la festività della domenica, tradizione oggi perduta. O dal ricordarsi (!) – contro ogni tentazione fluid – che «la vita nasce dal maschile e dal femminile, e quindi chi li nega, nega la vita». Così, un altro modo di negare la ccomplessità lo vediamo nella «comunicazione politica, dove l’altro è sempre uno schifo, un disgraziato», dove quindi domina «la logica della mostrificazione».

La psicoanalista Melanie Klein – ha proseguito don Rosini – con la sua teoria della scissione ha analizzato bene questo meccanismo: «per sopravvivere  il bambino deve dividere il buono cattivo, ciò che è vita da ciò che è morte», il suo è un processo di autodifesa necessario. Poi però «devi iniziare un processo di integrazione, dove esci da questa scissione primordiale». Ed è «tipico della fede cattolica portare il soggetto a questa maturità», insegnare l’arte dell’et-et, con una fede dove «il Cristo è vero Dio e vero uomo. Tutto ciò che è cattolico implica il suo contrario». E «il contrario di cattolico è “fazioso”». È quindi – questo – «un processo di relativizzazione necessario» perché «c’è sempre qualcosa che ci sfugge, iqualcosa che non vediamo». La realtà «è organica non matematica, implica cioè il suo contrario. Come la Chiesa, che è un corpo», come dice San Paolo: siamo tutti diversi, ognuno è una parte di un corpo e ogni parte è necessaria; se manca una parte, soffri».

Nell’odierna comunicazione – ha proseguito il relatore – oggi dev’essere invece tutto assolutizzato, «trasformato in notizia, tutto deve diventare eccezionale, sensazionalistico, sopra le righe, altrimenti non esiste, non ha valore. E questo spesso viene insegnato ai bambini: “dacci oggi il nostro mostro quotidiano”. René Girard ha spiegato bene questa dinamica del capro espiatorio, secondo cui per sopravvivere dobbiamo avere un nemico comune: così è stato ad esempio per il nazismo con gli ebrei».

Non a caso, «la cronaca nera attira più dello sport, che pure è un’altra forma mimata dell’avere un nemico». Oggi è diffuso «l’orrore di essere sconfitti, di arrivare secondi: per essere mi devo affermare, quindi devo gareggiare, quindi devo vincere». Di conseguenza, «l’invidia è il peccato per eccellenza» («la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo», Sap 2, 24).

Come uscire quindi da questa «dinamica della colpevolizzazione e della rivalità»? Da questo «meccanismo fazioso, contrappositivo, colpevolizzante»? «Facciamo – ho pensato – un libro», per cercare di aiutare ad «evitare innanzitutto di attaccarsi a un dettaglio ma guardare la totalità e la complessità» delle cose e delle persone. Invece noi abbiamo «le nostre idolatrie per superare le nostre incertezze. La sicurezza è bella ma se la assolutizzi diventa dittatura. La verità è importante ma se in suo nome uccidi, diventi un persecutore». È dunque logica conseguenza che «tutti i malvagi pensano di fare del bene e fanno vittimismo, si sentono vittime di altro, si giustificano sempre».

Invece la misericordia nasce «dal sapersi peccatori, dal sapersi cattivi. Il perdono nasce dal sentirsi peccatori, da riconoscere che si sbaglia, nasce quando scopri di non essere perfetto». È – ha proseguito don Rosini – «un processo di kenosis, di svuotamento. Se ti paragoni con gli altri, trovi sempre qualcuno peggio di te; ma se ti misuri con Gesù Cristo, cambi atteggiamento, togli le maschere della presentabilità: maschere che col tempo sono diventate pelle, quindi gabbia».

Per uscire da questa visione, secondo l’autore c’è bisogno innanzitutto di «distacco», cioè «il saper perdere qualcosa per vedere meglio la realtà, per davvero riuscire a metterla a fuoco». Questo perché «ogni scelta implica una perdita» e «chi sceglie è l’adulto», solo l’adulto sa scegliere. Il distacco implica quindi il perdere, il «saper staccarsi dalle cose», non farsi dominare da esse. Implica il «saper dire di no, saper rinunciare». Insomma: «si può lasciare qualcosa», possiamo non avere tutto: sono i pazzi a raccogliere tutto». E il possesso più terribile è quello che riguarda «le idee, il non saperle abbandonare, cambiare». Ma guai a confondere questa necessaria e bella elasticità mentale col relativismo:«spesso anche nella Chiesa vince la piacioneria, il parlare per piacere a tutti, dire ciò che piace a tutti e con un tono “accattivante”…».

Contro questa falsa leggerezza, è invece importante «l’autoironia, il saper ridere di sé stessi, il non prendersi sul serio. Una persona saprà affrontare le proprie pazzie quando saprà essere autoironico». E l’ironia, il distacco, il far ridere, ridere delle cose vuol dire «relativizzarle, guardarle col giusto e necessario distacco».

Altre soluzioni oltre alla preghiera – vale a dire «il fidarsi di Dio, l’abbandonarsi alla Provvidenza, che è qualcosa che aiuta anche la salute mentale…» – sono quei “santi” peccati:la «santa pigrizia»: i veri peccati – ha spiegato don Rosini – «sono faticosi e fanno star male, non sono divertenti, sono un esproprio». Ed essere pigri vuol dire anche – soprattutto per i genitori – non essere sempre interventisti con gli altri, non risolvere sempre i problemi dei figli, ma responsabilizzarli».

E ancora: «la santa avarizia» è molto importante, cioè «il farsi un tesoro vero, essere ricchi della vera ricchezza, quella del Cielo, che nessuno ci può rubare». Infine, il sacerdote ha citato la «santa superficialità, una santa disattenzione» e «il sapersi interrompere, saper scendere dal treno quando si ha torto», il «sapersi contraddire, saper imparare ad aver torto. L’intelligente è chi si contraddice».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

«Educare il desiderio è la sfida dell’epoca digitale»

19 Apr

L’intervento di don Luca Peyron a Ferrara: «la tecnologia non diventi un idolo ma un mezzo di cura»

La tecnologia digitale può essere utile nell’annuncio del Vangelo?

Su questo ha riflettuto la sera dello scorso 10 aprile don Luca Peyron, sacerdote della Diocesi di Torino e specialista in teologia e spiritualità delle tecnologie, in un incontro dal titolo “Parlare di Dio nell’era digitale” svoltosi nel Cinema S. Benedetto di Ferrara, all’interno del percorso sinodale.

COSA LA TECNICA NON FA DI BUONO

Viviamo nella «condizione digitale», nell’epoca «dell’efficientismo, della cultura delle macchine», cioè ci illudiamo che queste «possano darci le risposte a molte delle nostre domande», e possano darcele in un attimo. Questo è pericoloso anche perché ci disabitua, fra l’altro, a “perdere” del tempo nel cercare. 

Ma tutto ciò, ha proseguito il relatore,  ci fa comprendere anche come «la tecnologia sia strettamente intrecciata al potere», che significa anche potere economico, sociale e culturale, sulle nostre vite e relazioni. 

La tecnologia digitale, quindi, «può solo creare connessioni fra le persone, non relazioni» vere.

COSA LA TECNICA PUÒ FARE DI BUONO

L’incontro è un’altra cosa: «è fatica, corpo, fisicità, odori. Non si tratta, quindi, di contrapporre tra loro virtuale e reale», ma di distinguerli.

Questa condizione digitale è anche, per don Peyron, «un segno dei tempi, un punto da cui ripartire, un punto di risurrezione per la Chiesa». Può, cioè, essere «generativa» e porsi «in funzione del servizio e della responsabilità nei confronti degli altri, del bene comune». Nella relazione, quindi, «il potere può diventare un prendersi cura», e anche il potere tecnologico può essere usato per quello che dovrebbe essere l’unico fine di ogni cosa: «la salvezza della persona nella sua umanità e nella sua divinità». 

Ma la tecnologia può essere «motore di speranza e di pace solo se è a disposizione di tutti». In questo, la Chiesa deve «continuare a creare pensiero» (non chiudersi), ad esempio sull’Intelligenza artificiale, «deve creare alleanze, dare risposte alla sete di senso delle persone e continuare a ridurre lo iato fra scienza e fede».

SIAMO FIGLI DELLE STELLE

«La tecnologia non ci salverà», quindi, ma ci aiuterà. Non dobbiamo farne un idolo (l’unico nostro Padre è Dio): il nostro bisogno di assoluto «non sta nel possedere le cose o le persone», ma è «il desiderio naturale di vedere Dio». È perciò necessario «educare il desiderio: questa è la grande sfida della nostra epoca digitale». Educare a comprendere come il nostro desiderio è «desiderio di Dio», non di una macchina fatta idolo. La tecnologia può aiutarci tanto «a meravigliarci di ciò che siamo, di ciò che abbiamo intorno, facendoci capire che c’è un Oltre», ha proseguito il sacerdote. Nel costruire macchine sempre più intelligenti, quindi «sempre più simili a noi», capiamo che non potranno mai essere uguali a noi. Comprendiamo, cioè, la nostra irriducibile diversità, cioè che «la differenza tra noi e la macchina non riguarda il fare ma l’essere: a differenza di una macchina, la mia carne e il mio sangue sono coscienti di sé, amano».

Andrea Musacci

(Foto Archivio don Luca Peyron)

Pubblicato sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Speranza, «desiderio che ha un rapporto totale con la realtà». I giovani ce l’hanno?

29 Nov

Sabato 25 novembre 180 ragazze e ragazzi si sono ritrovati nella parrocchia di San Benedetto per l’appuntamento annuale con la GMG diocesana: sperare è una «nostalgia del futuro». Intervista a don Paolo Bovina, co-responsabile Pastorale giovanile, sul suo aiuto ai giovani

Quali paure avete nei vostri giorni? E quali speranze alimentano la vostra vita?

Le domande fondamentali che abitano il cuore di ogni persona vanno sempre ascoltate e mai rimosse.A maggior ragione in una fase delicata e decisiva della vita com’è l’adolescenza. E su queste domande, circa 180 ragazze e ragazzi hanno riflettuto assieme il pomeriggio e la sera del 25 novembre scorso.Occasione, la GMG diocesana svoltasi tra il cinema e l’oratorio di San Benedetto a Ferrara, proprio alcune ore prima dell’evacuazione e del disinnesco della bomba nell’ex convento.

Come detto, dopo l’accoglienza a cura di Agesci, è stato il teatro-cinema parrocchiale a ospitare i tanti giovani accompagnati da educatori, sacerdoti e con la presenza anche di alcuni insegnanti di religione.

Nel cinema, dopo i saluti e la presentazione da parte di don Paolo Bovina, co-responsabile diocesano della Pastorale giovanile assieme a don Adrian Gabor, sono state due ragazze della comunitàShalom, Sara e Chiara a intonare e suonare il canto “Invochiamo la tua presenza”, prima della lettura da parte del giovane diacono Vito Milella del brano di Emmaus.

A seguire, è intervenuto fra Francesco Ravaioli, francescano conventuale in servizio nella Diocesi di Parma, impegnato in particolare nella pastorale giovanile e universitaria, che ha riflettuto sul tema della Giornata e lanciato le provocazioni per le riflessioni nei 12 gruppi in cui si sono successivamente divisi i presenti, prima della S. Messa e della cena comunitaria. 

«Voi vi sentite nella speranza?», ha esordito fra Francesco. «Sperare significa sentire che ciò che desideri di bene entri nel reale. È una sorta di nostalgia del futuro, di un bene che si può realizzare».

Dopo un’analisi delle macro-preoccupazioni del nostro presente (economia, migrazioni di massa, crisi ambientale, guerra, violenza contro le donne), fra Francesco ha lanciato questa provocazione: «sembra che vogliano rubarci la speranza, viviamo in un mondo che vampirizza la nostra speranza».

Le emozioni o sentimenti dell’«anti-speranza», per fra Francesco sono tre: la paura, la tristezza e l’angoscia. Queste si possono sconfiggere solo con una speranza vera, quel desiderio, cioè, che «ha un rapporto totale con la realtà, un rapporto vero con la vita».Altrimenti è mera «illusione, e questa porta solo alla delusione». Ma noi non possiamo avere il pieno controllo sulla realtà: «dove non arriviamo noi, arriva sempre Gesù: facciamoci quindi prendere per mano da Lui, nel nostro cammino, come i discepoli di Emmaus».

Alla fine, il relatore ha annunciato le tre domande su cui i giovani hanno riflettuto nei gruppi:«Riguardo al futuro, di cosa parli coi tuoi amici?»; «Quali paure o tristezze ti attraversano più spesso in questa fase della tua vita?»; «Nel tuo presente, c’è qualcuno che ti aiuta a riaccendere la speranza?». Aogni adulto, spetta chiedersi come poterli aiutare nel loro discernimento.

«È forte la domanda di senso dei giovani: che risposta diamo?». Don Paolo Bovina e il suo accompagnamento alle ragazze e ai ragazzi: «mi chiedono colloqui personali o cammini di fede in gruppo. È la mia missione»

«La mera ricerca di una soddisfazione personale non può fondare un’esistenza, lascia insoddisfatti. Per questo è importante dare risposte alla domanda di senso dei giovani».

Le parole di don Paolo Bovina, co-responsabile della Pastorale giovanile diocesana, maturano non solo da una profonda riflessione personale, ma da un’esperienza di anni a contatto con tante ragazze e ragazzi del nostro territorio. Da 10 anni sacerdote della nostra Arcidiocesi, don Bovina è anche co-responsabile della Pastorale Universitaria, Assistente Settore Giovani dell’Azione Cattolica diocesana e Vicario Parrocchiale dell’UP Borgovado. Nel 2017 ha conseguito la licenza in Scienze Bibliche e Archeologia presso lo “Studium Biblicum Franciscanum” di Gerusalemme e prima del cammino religioso ha conseguito la laurea in Astronomia presso l’Università di Bologna. 

Gli chiediamo cosa significhi, nel concreto, la sua vocazione all’accompagnamento dei giovani: «importante – ci spiega – è il ricordarsi che si hanno davanti persone e non una categoria. Partendo da qui, mi metto al loro servizio, di ascoltarli, cercando di capire i loro bisogni e di rispondere alle loro domande». Una «vera missione», la definisce, «non un lavoro». Perché le domande dei giovani, anche quando noi adulti tendiamo a liquidarle come “ingenue” o “pretestuose”, in realtà, in filigrana, ci mostrano molto di più: una profonda domanda di senso. 

«I giovani – ci spiega ancora don Bovina – sono molto attirati dal divertimento, dal sensazionale, da ciò che dà loro piacere, ma spesso manca la consapevolezza di ciò che si fa, del perché e del per chi si agisce in un certo modo». In ultima analisi, quindi, anche al fondo di ogni divertimento «c’è la ricerca di un motivo per cui vivere».

Gli chiediamo, quindi, se i giovani di oggi li percepisce come particolarmente fragili. «Non saprei», ci risponde. «Forse i giovani sono fragili per definizione, ma oggi il problema non sono tanto loro quanto noi adulti che non sempre riusciamo a essere testimoni autentici, a dir loro qualcosa di significativo». A essere veri educatori: «spesso sono gli adulti i primi a essere fragili».

Gli chiediamo, infine, di raccontarci più nello specifico come avviene l’incontro con i giovani che aiuta. «Alcuni di loro non hanno nessun interesse ad avere a che fare con un prete, altri invece mi cercano, e altri ancora vedono la Chiesa come un mero servizio sociale, un luogo dove giocare e basta. Fra quelli che mi cercano, c’è chi mi chiede un colloquio personale, chi di aiutarlo a trovare un gruppo dove poter vivere un cammino di fede, oppure chi mi chiede un aiuto pratico, come ad esempio un appartamento se sono studenti universitari». 

In ogni caso, per don Bovina, «se è vero che il proselitismo non serve a nulla, è vero anche che all’ascolto devono seguire una risposta e una proposta, che per noi non può non essere incentrata sul messaggio di Gesù Cristo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«So di non essere mai sola»: Giulia Gabrieli esempio di fede

17 Gen

Il 13 gennaio a S. Benedetto il racconto sulla giovane Serva di Dio, tornata alla Casa del Padre a 14 anni: «ha vissuto la malattia da testimone di qualcosa di più grande»

«I farmaci non bastano, ci vuole Qualcun altro.Se non sei guarito nell’anima, non sei davvero guarito». Parole di un’adolescente, la Serva di Dio Giulia Gabrieli, originaria di Bergamo, morta di tumore il 19 agosto 2011 a 14 anni.

La sera dello scorso13 gennaio la chiesa di SanBenedetto a Ferrara ha ospitato l’incontro “Santità si può. Un gancio in mezzo al cielo”, dedicato alla sua testimonianza di fede soprattutto durante i due anni di malattia, incontro nel quale sono intervenuti il padre Antonio e un’amica di famiglia, Alessandra (al posto della madre Sara, impossibilitata a partecipare). Presenti molte persone, fra cui diversi giovani.

«Giulia ha vissuto la propria malattia – ha detto il padre -, pur nella sua normalità di ragazza, nella lucida consapevolezza di essere testimone di qualcosa di più grande».  Quel “gancio in mezzo al cielo” che dà il titolo al libro da lei scritto prima di morire, citazione da “Strada facendo” di Baglioni, canzone che lei amava nella versione cantata da Laura Pausini. Una strada, quella della vita, che si percorre, sapendo «che non sei più da solo», ma con Dio, con la Madonna, «la mia mammina», e con la beata Chiara Luce Badano, «come una sorella per me», diceva Giulia. 

«È stata davanti al Signore – hanno proseguito Antonio e Alessandra -, e a Lui è andata incontro, sempre col sorriso». Quel sorriso vero, specchio della Bellezza, che i presenti hanno potuto ammirare anche nel filmato proiettato nel quale Giulia viene intervistata, due mesi prima di morire, sulla propria esperienza. «È stata lei a prenderci per mano e a farci comprendere come la morte non è la fine di tutto: grazie a lei, come genitori, abbiamo capito la bellezza di quel che ci era stato donato e non la disperazione di quel che ci veniva tolto».

«In ospedale – racconta la ragazza nel filmato – ho visto tanta sofferenza, anche dei bambini, ma ho capito che l’amore è il sentimento più grande, quello che racchiude tutti gli altri. Tutto porta all’amore».

Ma nella sua malattia, com’è normale, Giulia ha vissuto anche il dubbio e la disperazione: «A un certo punto mi sono chiesta: “se Dio mi è veramente vicino, perché sta a guardare?”». A sbloccarla, ancora, è stato un incontro, quella con una signora nella Basilica di S.Antonio a Padova (dove si trovava per le cure) che le prese la mano e le disse: «sii forte, va’ avanti, ce la farai…». Per questo, ha spiegato il padre, «negli incontri che facciamo in tutta Italia non facciamo memoria di Giulia, ma continuiamo a camminare con lei». Le stesse testimonianze, la giovane, le faceva quand’era ancora in vita. Ed era stata anche a S. Benedetto, il 1° novembre 2010, come ha ricordato Paolo Polizzi, salesiano cresciuto proprio nella parrocchia ferrarese e che un anno fa ha emesso la Professione Perpetua a Bologna. «Era lei – ha raccontato – a darci serenità: quel giorno ho pranzato al suo fianco e sembravo io il malato, non lei…».

Il cammino di Giulia prosegue anche grazie all’Associazione “conGiulia Onlus” (nata dai genitori e dagli amici), per realizzare progetti da lei desiderati, rivolti in particolare ai giovani e ai bambini malati, con un’attenzione speciale alla realtà della Scuola in Pigiama dell’Ospedale di Bergamo. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

San Benedetto, avanti coi lavori nell’antico convento

17 Gen

È una storia tormentata quella del recupero del complesso di corso Porta Po a Ferrara: ecco le vicende conclusesi (si spera) col cantiere avviato lo scorso maggio. Diventerà la nuova sede dell’Agenzia delle Entrate (ma il progetto era un altro)

di Andrea Musacci

La vicenda riguardante i lavori di restauro e risanamento conservativo del complesso “Ex Convento San Benedetto” è una di quelle che sembrano non aver fine. 

Siamo su corso Porta Po a Ferrara, alle spalle della chiesa e del complesso diretti dai salesiani. Qui dietro, fervono i lavori per ridare stabilità e bellezza a quest’enorme area – due chiostri, piano terra e due piani rialzati – fatta edificare nel XII secolo per volere di Matilde di Canossa. Il cantiere, avviato lo scorso maggio, vede l’impresa Lupo Rocco spa di Roma come aggiudicataria e il Provveditorato alle Opere Pubbliche per l’Emilia Romagna-Marche come stazione appaltante dei lavori. Parliamo di 7300 metri quadri destinati da quasi 10 anni a diventare la nuova sede degli uffici dell’Agenzia delle Entrate attualmente in affitto in via Maverna (zona Arginone) e in viale Cavour. La durata dei lavori prevista è di due anni e mezzo, quindi fino a fine 2024, per un importo di 7milioni e 966mila euro. Alla guida del cantiere, l’ing. Antonio Costigliola (Direttore Tecnico), il geom. Alberto Coianiz (Capocantiere) e l’arch. Maurizio Ciampa (Direttore dei lavori). 

Lavori tanto attesi non solo dai residenti del quartiere, ma dall’intera cittadinanza, vista l’importanza storica, artistica e strategica del complesso. Per anni, i chiostri e gli interni sono stati infestati da erba alta, cumuli di macerie, buchi, crolli di parte della copertura. Le colonne erano rovinate, i cotti d’ingresso alla Sala Capitolare deteriorati. Non sono mancate rimostranze da parte di cittadini e polemiche a carattere politico. Ma ripercorriamo brevemente l’ultimo secolo di vita. 

Da centro di tante attività a luogo abbandonato

Nel 1912 il Demanio tratta la cessione della proprietà con il Seminario Arcivescovile e il Convento è concesso in uso gratuito per 29 anni ai Salesiani. Durante la seconda guerra mondiale la chiesa viene quasi completamente distrutta e il primo chiostro subisce danni talmente gravi da essere in seguito demolito. Dopo i lavori, il 21 marzo 1954 il tempio di S. Benedetto viene riconsacrato da mons. Bovelli e dal Card. Schuster. 

Nel dopoguerra la corte del convento diventa anche la casa della storica coppa di calcio “Don Bosco”. Nel 1965 lo Stato autorizza la vendita di una parte del convento a favore dell’Istituto Salesiani della Beata Vergine di S. Luca. Nel ’74 viene ristrutturato ad uso scolastico mentre la casa dell’ortolano ospita l’ostello della Gioventù. Nel ‘78 torna al Demanio e nell’84 il Comune chiede al Demanio il trasferimento patrimoniale dell’ex‑collegio e contemporaneamente l’uso immediato per installare al piano terra la scuola alberghiera e ai piani superiori ricavare delle aule per gli istituti scolastici. Ma non se ne farà niente. 

Fino al 2002, lì avrà la sua sede la Contrada di San Benedetto e fino al 2015 il SAV – Servizio Accoglienza alla Vita. È del ’91, invece, il progetto di riconversione a studentato, che poi però l’università ricaverà lì vicino, in via Ariosto. Nel frattempo, tra autunno ’98 e fine 2000 si concludono il ripristino del sagrato della chiesa, la sistemazione dei campi sportivi dell’oratorio e la ricostruzione ex novo di un nuovo oratorio.

Pochi anni dopo, nel 2002, l’Università degli studi di Ferrara – attraverso il DIAPReM – Centro Dipartimentale per il Restauro dei Monumenti, Dipartimento di Architettura – compie un rilievo dettagliato della struttura, in vista del progetto di restauro e di riqualificazione. Lo stato di abbandono dà, giustamente, scandalo: nel 2003 Maria Chiara Lega (volontaria del SAV) crea un Comitato spontaneo di cittadini per la salvaguardia dei chiostri e dell’intero ex convento. Fra gli aderenti, Giorgio Franceschini e Giuseppe Gorini. Diverse sono le diatribe tra Comune e Demanio sull’appartenenza dei vari spazi attigui alla canonica e alla chiesa. Nel 2006 si parla anche di un interessamento del Conservatorio per trasferirvi lì la propria sede. Ma l’allora Sindaco Gaetano Sateriale ha già un accordo con l’Agenzia delle Entrate, che nel 2008 riceve dal Demanio l’ex Convento per la realizzazione del Centro di Formazione Nazionale dell’Agenzia, con aule studio, una sala convegni, aule di formazione, una biblioteca, un ristorante, camere per gli ospiti. A bando nel 2013 ci sono ben 13milioni e 600mila euro di lavori. Ma la spending review bloccherà tutto. Inutile il tentativo fatto dall’allora Amministrazione comunale con il governo Renzi di inserire il progetto nello “Sblocca Italia”. 

Arriviamo agli ultimi anni: nell’aprile 2019 esce un nuovo bando di gara per la “Verifica della progettazione esecutiva dei lavori di restauro Ex Convento San Benedetto”. L’anno successivo viene assegnata la gara d’appalto. Ma è dovuto passare un altro biennio per vedere l’apertura del tanto agognato cantiere. 

La struttura e i lavori da svolgere

L’accesso principale al convento di San Benedetto avviene da corso Porta Po, 81. Il primo chiostro –  detto “delle colonne quadrate” –  è collocato lungo il fianco della chiesa e si presenta a pianta quasi quadrata con porticato e un pozzo al centro. Il secondo chiostro, invece – detto “della grande cisterna” per la presenza di un pozzo con cisterna al centro della corte – è rettangolare e più grande rispetto al primo. Scavi archeologici hanno portato alla luce l’antica pavimentazione del chiostro in mattoni. I due chiostri sono uniti da un doppio porticato, demolito e ricostruito negli anni ’50 del secolo scorso dopo i bombardamenti.

Per quanto riguarda gli interni, al piano terra, in alcuni punti rimane qualche lacerto di decorazione a calce e a tempera. Nella parte orientale (antirefettorio) spicca la Sala Pomposia con affreschi cinquecenteschi, attribuiti forse in modo non corretto a Dosso Dossi: in particolare, il soffitto affrescato nel 1578 con la “Gloria del paradiso” (dov’è ritratto anche l’Arisoto), è stato “incerottato” nel 2004 per evitarne la rovina. Altre tracce di decorazioni originali si notano nella “Sala Verdi” al secondo piano.

Perché il restauro è necessario

Al piano terra sono state rilevate gravi patologie di degrado – anche degli elementi decorativi in cotto, degli elementi lapidei, delle superfici intonacate – connesse con fenomeni di risalita capillare di umidità dal terreno (la cosiddetta “umidità di risalita”), con conseguente insorgenza di fenomeni di disgregazione delle superfici, esfoliazione e parziali distacchi. 

Ancor più rilevanti sono le problematiche relative ai dissesti strutturali, derivanti sia Dall’azione antropica e dagli interventi di trasformazione succedutisi, sia dallo stato di degrado dovuto all’abbandono e all’incuria, sia dagli eventi sismici recenti.

Tutte le coperture antiche sono gravemente danneggiate ed esercitano importanti carichi sulle colonne del chiostro, mentre quelle di recente fattura non rispondono comunque alle attuali normative antisismiche. Gli orizzontamenti in legno sono ammalorati e per la maggior parte interessati da crolli diffusi.

Il Recupero avrà quindi lo scopo di tutelare il complesso monumentale nel suo insieme e consentirne la leggibilità storica, con riguardo alla complessità delle sue fasi cronologiche. L’intervento conservativo servirà a preservare i caratteri architettonici e decorativi del monumento per il loro corretto mantenimento e trasmissione al futuro.

I primi 4 secoli Da Ercole I a Napoleone

Nel 1457 il duca Ercole I d’Este concede il complesso ai benedettini della Congregazione Cassinese di S. Giustina che venne poi unita a quella di Pomposa.

La costruzione del tempio di San Benedetto inizia nel 1496 in un’area donata dal duca Ercole I d’Este ai Benedettini. I primi capimastri chiamati a lavorare alla costruzione sono Girolamo da Brescia e Leonardo da Brescia, anche se lo schema generale e i muri perimetrali vengono attribuiti a Biagio Rossetti. Nel 1501 il primo chiostro “dell’Abate”, al quale si accede direttamente dal sagrato della chiesa, è concluso. L’anno successivo viene iniziato il secondo chiostro, detto delle “Colonne Quadrate”. I lavori sul convento riprendono nel 1517, con l’ultimazione dei chiostri e dei dormitori necessari per ospitare i monaci dell’Abbazia di Pomposa. Nel 1551 viene realizzato il terzo chiostro, più monumentale, denominato “della cisterna grande”.

Nel 1553 i Benedettini si trasferiscono nel nuovo convento, quasi completamente ultimato e dieci anni più tardi viene consacrata la chiesa. Nel 1797 i frati vengono cacciati dalle truppe napoleoniche, che trasformano il complesso in caserma e ospedale militare con il conseguente degrado di opere d’arte e arredi. Nel 1801 la tomba di Ludovico Ariosto viene solennemente traslata da S. Benedetto a Palazzo Paradiso, per ordine del comandante delle truppe francesi generale Mirollis.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo il complesso viene utilizzato sempre meno, sino a versare in completo stato di degrado.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Divorziati e separati, una proposta di condivisione

14 Nov

Da due anni, una volta al mese, nella parrocchia di San Benedetto a Ferrara si svolge un momento di discernimento condiviso a partire dalla Parola di Dio

Un cammino offerto a «persone separate, divorziate, risposate perché possano vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come madre che le accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e le incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo». Con questa citazione da Amoris Laetitia si presenta il progetto dal titolo “Ricalcola il percorso”, portato avanti da un paio d’anni nella parrocchia di San Benedetto a Ferrara.

Una volta al mese, di domenica, con inizio alle ore 18.45 (dopo la S. Messa delle ore 18), persone di varie parrocchie che vivono e hanno vissuto un divorzio o una separazione – e in alcuni casi un nuovo matrimonio -, si ritrovano insieme alla luce del Vangelo.

Non si tratta di un gruppo di mutuo aiuto dove semplicemente poter raccontare la propria storia per trovare sollievo o comprensione (aspetto comunque molto importante), ma anche e soprattutto di un momento di ascolto reciproco e riflessione condivisa su alcuni brani significativi della Parola di Dio perché illuminino la storia e la vita di ognuno, con l’inevitabile carico di sofferenze, incomprensioni e sensi di colpa che si porta. «Crediamo che la Parola di Dio – scrivono gli organizzatori – sappia rispondere ad ogni più intimo grido, possa illuminare di luce nuova ogni situazione, sia balsamo ad ogni dolore, e stimolo ad ogni vera ripartenza. Vivere tutto questo assieme ad altri che hanno condiviso un’esperienza simile alla nostra – proseguono -, rappresenta un grande arricchimento: l’altro può davvero diventare il mezzo attraverso il quale Dio parla anche a me, e la sua riflessione una luce che illumina la mia storia e la mia vita. È quindi un darsi l’opportunità di un cammino di pacificazione interiore guidata dalla Parola, per arrivare a guardare con serenità il passato, e il presente come un dono per il mio cammino futuro. Tutto questo in un clima accogliente di rispetto e amicizia, che si esprime molto bene anche nella cena fraterna alla fine dell’incontro».

Il diacono Sandro Mastellari, collaboratore del Consultorio Familiare diocesano, sposato e padre di un ragazzo e di due ragazze, è uno degli ideatori di questa iniziativa. «Il progetto – ci spiega – è nato oltre due anni fa durante un Consiglio pastorale con l’ex parroco don Luigi Spada, pensando non solo al Gruppo famiglie ma anche a qualcosa rivolto a persone con questo vissuto». Così – ispirandosi a una simile esperienza della Diocesi di Rovigo -, inizia tutto, grazie all’intraprendenza di Mastellari e di altre quattro persone, ancor più coinvolte avendo – a differenza di lui – alle spalle un divorzio o una separazione.

In ogni incontro, a turno, una persona sceglie un passo del Vangelo, lo commenta e poi inizia il confronto. «È importante per queste persone mettersi davanti alla Parola di Dio – prosegue Mastellari -, far emergere i propri vissuti. Parlare con qualcuno che è passato per la stessa strada è liberante, spesso le ferite sono ancora aperte: ho visto persone piangere anche se separate da 20 anni».

È molto importante il servizio che questo gruppo svolge, l’unico – finora – di questo tipo nella nostra Arcidiocesi. In questo biennio sono passate non più di una decina di persone, «ma in ogni caso, se diventeranno di più le divideremo in più gruppi, perché è importante che ci sia più intimità e raccoglimento possibili». Molti, purtroppo, sono i matrimoni che finiscono: «le nostre comunità cristiane non allontanano queste persone, ma può capitare che esse non si sentano del tutto accettate, o abbiano vergogna a partecipare alla vita della parrocchia perché, come disse una volta una partecipante, “è l’unico peccato pubblico”», nel senso che se due si separano è chiaro che viene notato prima o poi da tutti. «Nel nostro gruppo ci sono state anche persone molto attive nella loro parrocchia, a volte con matrimoni lunghi alle spalle, in altri casi invece più giovani». Un’altra conseguenza, quindi, è anche la perdita di amicizie e di relazioni: «in questo modo, prosegue Mastellari, facciamo sentire la vicinanza della Chiesa, che, come loro, è sempre in cammino».

Chi è interessato può scrivere una mail a ricalcolailpercorso@gmail.com e verrà ricontattato.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Da San Benedetto al Fermilab di Chicago: la storia di Giulio Stancari

9 Feb

FERRARESI NEL MONDO / quarta parte. Da 13 anni il noto laboratorio di fisica delle alte energie ha tra i suoi collaboratori un ferrarese. Che ha “esportato” la passione per i cappelletti…

Il Fermilab di Batavia, vicino Chicago, è uno dei principali laboratori statunitensi di fisica delle alte energie, gestito da un consorzio internazionale di università. Dedicato all’italiano Enrico Fermi – che a Chicago ha lavorato ed è morto -, dal 2008 ha tra i suoi collaboratori più fidati un ferrarese, Giulio Stancari, diplomatosi al Monti, laureatosi a Ferrara e per tanti anni impegnato nella parrocchia cittadina di San Benedetto. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo percorso di vita che lo ha portato negli USA, dove vive con la moglie Michelle, anche lei scienziata, e dalla quale ha avuto Nicholas, 18 anni e Arianna, 21, studentessa di biochimica all’Università del Minnesota a Minneapolis.

Cresciuto a Sambe

Dopo aver frequentato l’asilo delle suore di Corso Porta Po, la scuola elementare Canonici in Corso Biagio Rossetti e le scuole medie alla Boldini, alle superiori ha studiato come ragioniere programmatore all’Istituto Tecnico Vincenzo Monti per poi iscriversi alla Facoltà di Fisica dell’Università di Ferrara.

«Oltre alla fisica – ci spiega -, ho diverse altre passioni. Innanzitutto la musica, ma anche la fotografia, la letteratura e il podismo. Devo moltissimo a genitori, parenti ed insegnanti per avermi dato un ampio spettro di interessi da perseguire. Ho iniziato a strimpellare con gli amici di Sambe e poi ho studiato chitarra classica presso la scuola dell’Orchestra Gino Neri. Ora continuo a suonare con gli amici, soprattuto musica folk e rock, e a studiare chitarra classica e jazz. La parrocchia di Sambe – prosegue – è stata una parte importante della mia vita. Sono immensamente grato a quell’ambiente per essere stato una seconda famiglia e per aver forgiato alcune delle amicizie più importanti, che durano tuttora».

Da Ferrara all’Illinois

Nel 1994 inizia a viaggiare negli USA per partecipare ad esperimenti di fisica delle particelle assieme ad altri studenti e ai professori dell’Università di Ferrara presso il Fermilab, dove rra il 1998 e il 2000 completa il dottorato lavorando come ricercatore. Nel 2001 torna in Italia e tra il 2001e il 2008 lavora come ricercatore nella sezione ferrarese dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e nei Laboratori Nazionali di Legnaro, vicino Padova. Il nostro Paese lo lascia nel 2008, prima come professore con un incarico congiunto alla Idaho State University e al Jefferson Lab in Virginia e poi, dal 2009, di nuovo al Fermilab. «Ho lasciato l’Italia sia per motivi professionali che familiari, e per il desiderio di conoscere culture diverse. Occupandomi di fisica delle particelle e degli acceleratori, volevo essere vicino agli apparati sperimentali e agli esperti del settore. Dal punto di vista personale, essendo mia moglie americana, volevamo, assieme ai nostri figli, avere l’esperienza di vivere sia in Italia che negli Stati Uniti».

Dal 2009 risiede a Geneva, in Illinois, cittadina di circa 20mila abitanti sul fiume Fox, una 50ina di chilometri a ovest rispetto al centro di Chicago. Fisico sperimentale presso il Fermilab, Stancari qui dirige un piccolo gruppo di ricerca che si occupa di fisica degli acceleratori di particelle. Nel corso degli anni si è occupato di diverse aree della fisica, dalle particelle elementari alla fisica nucleare e all’ottica quantistica. 

«Nel quotidiano – ci spiega -, il mio lavoro comprende vari aspetti: lo sviluppo di modelli matematici, il progetto di esperimenti, le misure in laboratorio, l’analisi statistica dei dati, la scrittura di articoli, la supervisione di studenti, oltre a compiti amministrativi e partecipazione in vari comitati».

I cappelletti negli States

Gli chiediamo cosa di Ferrara è rimasto più nel suo cuore: «innanzitutto la famiglia: mio fratello, i miei zii e i miei cugini. Avendo perso i genitori abbastanza presto, ai parenti devo moltissimo. Quando si è lontani ed è difficile viaggiare, come in questo periodo, si perdono tante occasioni per condividere tappe importanti della vita, sia tristi che allegre. Poi mi mancano gli amici, i compagni di scuola e i compagni di avventure all’università. Con molti si è mantenuto un bel rapporto e cerchiamo di trovarci ancora quand’è possibile.

Di Ferrara mi mancano i cappelletti, il gelato del K2, le passeggiate in centro, Corso Ercole I° d’Este con la nebbia, le corse sulle Mura, le caldarroste in piazza, i concerti di Capodanno della Gino Neri, le espressioni in dialetto e mille altre piccole gioie. Inoltre, «come avevamo introdotto la tradizione americana del tacchino per il Ringraziamento con amici e parenti a Ferrara, abbiamo anche esportato qui negli Stati Uniti la tradizione dei cappelletti fatti in casa la vigilia di Natale».

Come per molti, anche per Stancari, la pandemia ha impedito il ritorno in Italia. «L’ultima volta che sono stato in Italia è stato tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Spero di tornarci in vacanza quest’estate. Normalmente, tornavo in Italia una o due volte l’anno».

Andrea Musacci

(Gli altri racconti di ferraresi nel mondo sono usciti nei tre numeri precedenti)

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 febbraio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

“In ogni momento potevi contare su di lui”: esequie e ricordi di don De Ponti

11 Nov

I funerali del sacerdote: il 6 novembre S. Benedetto gremita per l’addio al salesiano. Tanti i ricordi

vlcsnap-2017-07-02-18h57m25s589Entrando nella chiesa di San Benedetto capiterà a molti di buttare l’occhio al secondo confessionale sul lato destro. Lì, per tanti anni, don Gianalfredo Deponti confessava chiunque lo desiderasse. Il giorno delle sue esequie è vuoto e spento, l’unico a essere acceso è quello dal lato opposto, occupato da don Giuseppe. Ma non inganni quest’immagine di assenza e di silenzio: “Donde” era, è e rimarrà sempre presente in quel luogo, col suo calore a scaldare i cuori delle tante persone che ha amato e dalle quali tanto è stato amato. Intere generazioni, nei suoi lunghi 56 anni di permanenza nella comunità ferrarese, che hanno riconosciuto in lui non solo un pezzo fondamentale della storia salesiana nella nostra città, ma soprattutto una guida, un fratello, un amico. Nonostante il giorno e l’orario lavorativi, la chiesa di San Benedetto era colma mercoledì 6 novembre per i suoi funerali: persone non solo di San Benedetto, tanti i confratelli, fra cui l’ex parroco don Luigi Spada e don Enrico Castoldi, vicario ispettoriale dei Salesiani emiliano-lombardi, le Piccole Suore degli Anziani Abbandonati del Barco e le Suore della Carità dell’Istituto San Vincenzo. Sulla bara ai piedi dell’altare, la sua stola, una sciarpa della contrada di San Benedetto e un cartello realizzato dai nipoti con una foto e una scritta, “ciao zio!”. Una cinquantina i presbiteri presenti per la celebrazione presieduta dal nostro Arcivescovo, e, in prima fila, Angelo, uno dei quattro fratelli di don Gianalfredo, che era il primo (gli altri sono Ambrogio, Virginio, Filippo, tutti scomparsi). Dodici i nipoti (di cui sette vivono a Ferrara, gli altri tra la provincia di Como e di Bergamo), e svariati i pronipoti. Uno dei nipoti ha assistito lo zio anche l’ultima notte, culmine di un anno lungo e tormentato, l’ultimo della sua esistenza terrena, costellato da tanti ricoveri in ospedale, ma anche dall’affetto dei famigliari, dei confratelli, della sua comunità. Per dare l’idea di quanto “Donde” fosse amato da tutti, segnaliamo come fossero presenti anche “Eugenio”, signore di origini africane che in molti conoscono perché staziona spesso davanti al Caffè del Corso di via Bersaglieri, angolo corso Giovecca, e persone come Roberto, che, ci spiega, da oltre trent’anni non frequenta la parrocchia, ma qui è cresciuto grazie anche a persone come “Donde”. Dopo il saluto di don Paolo Salmi (“don Gianalfredo ci stimola a fare della nostra vita un grande dono”) e quello di mons. Perego (“la sua vita ha profumato di resurrezione: questa resurrezione è il dono che oggi il Signore fa a lui”), nell’omelia lo stesso parroco ha raccontato: “quando all’una di notte di Ognissanti ti ho visto nel letto”, da poco spirato, “ho avuto un flsahback di quando aprivo la porta della tua camera dove riposavi e sbirciavo per vedere se dormivi tranquillamente. Eri stato tu stesso a dirmi: ‘ogni tanto passa a guardarmi…’: in entrambe le occasioni avevi il viso sereno. L’amore di Dio – ha proseguito – ti ha raccolto e ti depositerà nel posto che ti spetta: di questi posti, ce ne sono per ognuno di noi. Anche se fragili, infatti, Dio ci chiama. Anche tu, Donde, eri fragile, avevi i tuoi difetti, avevi un bel caratterino: non molto tempo fa ti dissi scherzando: ‘fai il furbo…ti stiamo un po’ viziando eh…’, e tu col tuo sorriso un po’ furbetto mi risposi: ‘me lo hanno già detto…’. Don Deponti – sono ancora parole di don Salmi – aveva cercato di farsi ‘tutto a tutti, per poterne salvare in qualche modo alcuni’ (1 Cor 9, 22)”. Tanti i ricordi che emergono: i suoi tanti viaggi a Lourdes – 49, per la precisione – con l’Unitalsi (presente in massa), “viaggi nei quali non smetteva di confessare nemmeno in treno”. E poi le cartoline che mandava ai parrocchiani dalla località francese, o le chiamate dalla montagna, dall’amata Frassenè, “solo per sapere come stai…”, o per gli auguri di compleanno – “se li segnava tutti”, ci ricorda Sandro, un parrocchiano. “Aveva fatto esperienza dell’amore di Dio e voleva comunicarlo a chiunque”, ha proseguito il parroco. “E ci ha insegnato anche la preghiera: aveva sempre il rosario fra le dita, legato al polso, o disperso – ma sempre ritrovato… – fra le lenzuola del suo letto. Ti dico ‘arrivederci’, ma tu ci diresti ‘ciao!’”. Nella parte conclusiva della celebrazione il parroco ha letto il messaggio fatto recapitare dal Vescovo di San Marino, il ferrarese mons. Andrea Turazzi: “carissimo don Gianalfredo, ho tanti motivi di gratitudine nei tuoi confronti. Don Deponti era salesiano al 100% e al 100% presbitero della Chiesa di Ferrara-Comacchio. Di lui mi colpì soprattutto il suo linguaggio nuovo, il suo stile. Prima di lasciare Ferrara, un giorno guardavamo insieme i ragazzi giocare nell’oratorio: ricordo che in lui non vi era mai un sospiro o una nostalgia, ma sempre la stessa passione per la gioventù”. A seguire, i saluti di tre nipoti, Chiara (“Grazie Signore per averci donato zio Donde. Ricordo la sua pazienza e la sua capacità di leggere i cuori, la sua disponibilità e la sua capacità di saper sdrammatizzare”), Giovanni e Stefano. Chiara ci ha consegnato anche questo ricordo: “ ‘Signore aiutami a essere come Tu vuoi che io sia’: quando andavo da lui mi diceva di rivolgere a Dio questa preghiera, di guardare a Lui come un padre misericordioso che mi guida e mi aiuta sempre a scegliere la via giusta. E lo zio DonDe l’aveva fatta, la volontà di Dio: come fratello, come sacerdote, come insegnante, come zio. Uno zio importante DonDe, c’è sempre qualcuno che sa chi è, che lo conosce. Una volta una persona mi chiese: ‘com’è avere uno zio sacerdote?’, io risposi: ‘normale’, ma non è vero: è speciale, è super avere uno zio come DonDe! Sapere che in ogni momento potevi contare su di lui, che sicuramente ‘non’ avrebbe pregato per te! Così diceva scherzando: ‘oggi nella messa non ho pregato per te’. E io so che anche oggi da lassù, con il suo sorriso lui continua a ‘non’ pregare per noi”. Daniela Bonfieni, amministratrice della parrocchia, ha preso a sua volta il microfono: “Ciao Donde, o monello, come ogni tanto ti definivi. Grazie di tutto per quello che hai fatto per la mia famiglia da quasi 50 anni, da quel giorno di marzo che sei entrato nella nostra vita per la perdita dei nostri papà [il padre di don Gianalfredo e quello della signora Daniela – ci spiega – sono morti lo stesso giorno del marzo 1970, ndr]. Grazie per essere stato il papà che a me e a Dario è mancato fin da piccoli e per essere stato il nonno di Sara, come ogni tanto ti chiamava. Sono certa che continuerai la tua missione da lassù, sempre discretamente vicino. Ci mancherai tanto, per le nostre chiacchierate, per le tue sgridate, per le tue telefonate…per tutto. Ciao Donde”. Anche un’altra parrocchiana, Carmela Rotola, ha scelto di rivolgere un saluto: “è stato per me e per tanti un riferimento, un ottimo consigliere”. Alla fine, un canto di gioia, suggello di questo “evento pasquale”: il canto dedicato a don Bosco “Padre, maestro ed amico”, oltre a “Gabriel’s Oboe” del maestro Morricone, seguiti da un commosso applauso. Don Deponti è stato tumulato alla Certosa, in un loculo a parte: per essere sepolto nella cappella dei salesiani dovrà attendere l’anno prossimo, quando verranno riesumate le salme di due confratelli.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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La Voce di Ferrara-Comacchio

Don De Ponti è tornato alla Casa del Padre: il ricordo commosso della sua gente

4 Nov

“Donde”, sacerdote salesiano, è spirato la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre scorso. Il 6 novembre, nel pomeriggio, le esequie celebrate dal nostro Arcivescovo nella chiesa di San Benedetto

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Ricordi e pensieri dedicati a don De Ponti, da parte di parrocchiani di San Benedetto, li trovate su “la Voce” dell’8 novembre e li troverete anche sull’edizione del 15 novembre.

Confessore, guida spirituale, sacerdote. Salesiano, da sempre. Don Gianalfredo De Ponti, per molti “Donde”, ha segnato per 56 anni la vita e la spiritualità di un’intera comunità, quella di San Benedetto a Ferrara, quella dei Salesiani e di molte altre persone. Per questo, la notizia della sua scomparsa, avvenuta la notte del 31 ottobre scorso, si è diffusa fin dalle primissime ore del mattino di Ognissanti destando in tanti, di diverse generazioni, una commozione e una gratitudine per nulla scontate. Le esequie sono state celebrate dall’Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego nel primo pomeriggio di mercoledì 6 novembre nella chiesa di San Benedetto, mentre il pomeriggio precedente in tanti si sono ritovati per dare l’ultimo saluto, nella chiesa stessa, a questo sacerdote così tanto amato e che così tanto amava la sua gente. Don De Ponti nasce il 24 ottobre 1929 a Treviglio (BG) da Giuseppe De Ponti e Adele Maria Bambina Orrigonida, contadini. Il 24 maggio 1946 fa domanda per diventare salesiano, e il 20 giugno dello stesso anno la madre muore all’improvviso a soli 38 anni. La sua professione religiosa risale al 16 agosto 1947 a Montodine (CR), mentre l’ordinazione sacerdotale avviene dieci anni dopo, il 29 giugno 1957 a Monteortone di Abano Terme (PD). Nel frattempo, si laurea anche in matematica, materia che insegnerà. Nel 1963 arriva, dopo esperienze a Bologna e Milano, come insegnante e catechista, al Collegio San Carlo di Ferrara: per più di 26 anni è stato confessore ordinario in Seminario, oltre che Amministratore e vicario parrocchiale di San Benedetto e assistente spirituale dell’UNITALSI (ben 49 sono i viaggi compiuti a Lourdes). Nel giugno di due anni fa l’avevamo incontrato nel suo studio a San Benedetto in occasione del suo 60° anniversario di sacerdozio. Riguardo alla prematura scomparsa della madre, ci raccontò: “con smarrimento ho rivolto a Dio la domanda: ‘perché?’. Col tempo, dopo un lungo processo di maturazione, la mia domanda è diventata: ‘Dio, cosa vuoi dirmi con ciò?’. Sono arrivato a comprendere come la sua morte mi ha permesso di arricchirmi spiritualmente per la missione a cui Dio mi chiamava, quella di essere sacerdote”. Nello stesso incontro, ripercorrendo alcune delle tappe più importanti della propria esistenza, condivideva con noi alcune riflessioni maturate in tanti anni: “nove mesi prima di diventare sacerdote ho vissuto un periodo di paura e smarrimento. Anche per me, spesso in questi anni, vi sono stati momenti di buio, come Gesù nel Getsemani. Ma tutto è grazia, tutto è dono, Dio è stato ed è sempre fedele, nel senso che non mi ha mai abbandonato. Ciò che importa è da un lato fare esperienza del nostro limite, della nostra miseria, e dall’altra parte fare esperienza della Misericordia di Dio: quest’ultima è sempre più grande della prima”. Rileggiamo queste sue parole come fossero una sorta di testamento. Perché sono parole di carne e sangue, parole di vita. Quella che “Donde” ha donato, ogni giorno, alla gente che amava.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2019

http://lavoce.epaper.digital/it/news

La Voce di Ferrara-Comacchio

Dom Hélder Câmara, una vita per la pace e in dialogo col mondo

17 Giu

Vent’anni fa moriva “o bispinho” (“il piccolo Vescovo”, per via della bassa statura), tra i fautori della cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”, ripresa da Papa Francesco. Nel 1979 il suo intervento al Teatro San Benedetto di Ferrara davanti a un migliaio di persone

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Nel 1979, il 1° novembre, festa di Ognissanti, cadeva di giovedì. In una fredda e umida sera autunnale, il Teatro San Benedetto di Ferrara fatica a contenere le circa mille persone – tra cui molti giovani – che si accalcano per ascoltare le parole di colui che è simbolo concreto di una Chiesa “povera e serva dei poveri”, di una speranza antica e sempre nuova: dom Hélder Câmara, da 15 anni arcivescovo di Olinda e Recife in Brasile. Protagonista del Concilio – la cui testimonianza ha lasciato nel libro “Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II” (S. Paolo ed., 2011) – è tra i firmatari del “Patto delle catacombe”, siglato da alcuni cardinali, soprattutto latino-americani, il 16 novembre 1965, per iniziare una vita nella povertà – vissuta fino all’ultimo dallo stesso Camara -, rinunciando a simboli e privilegi del potere, sfidando così gli stessi “fratelli nell’Episcopato”. Abbiamo deciso di ricordarlo a 110 anni dalla nascita (avvenuta il 7 febbraio 1909) e a 20 anni dalla salita al Cielo (il 27 agosto 1999), oltre che per la “fortunata” coincidenza del 40ennale dal suo intervento nella nostra città. Intervento che cerchiamo di presentare in alcuni suoi passaggi fondamentali nel quale il Vescovo e teologo brasiliano delinea alcune dei principali temi testimoniati nella sua vita di vicinanza e aiuto ai poveri, di lotta nonviolenta contro le disuguaglianze, e di dialogo con persone di altre fedi e non credenti. “Ho saputo con gioia che tra voi – è uno dei suoi passaggi “profetici” a Ferrara – c’è chi pensa in modo concreto e felice agli anziani, ai drogati, agli handicappati, ai carcerati. Ma permettetemi che vi ricordi che oltre a questi gruppi di azione certamente benedetti da Dio è indispensabile che stiate attenti a non permettere che il razzismo non rinasca in Europa. Come giudicare i mali tremendi che ha già causato all’umanità il razzismo al tempo di Hitler; attenti ad evitare che l’ideologia della sicurezza nazionale nei paesi occupi il posto di Dio; è evidente! Ogni popolo ha il diritto e il dovere di pensare alla propria sicurezza, ma mettere la sicurezza come valore supremo è grave “.

Denuncia delle diseguaglianze, per una società nonviolenta

Lo sguardo di dom Câmara è uno sguardo diretto sulla terribile miseria del suo Brasile, dell’America Latina e, in generale, sulle povertà e ingiustizie in tutto il mondo. “E’ terribile che un terzo dell’umanità stia conducendo una vita comoda e di lusso – è un altro suo passaggio a Ferrara -, abbandonando due terzi di questa stessa umanità al margine della vita, emarginati, in una situazione di fame e di miseria”. Una sorta di neocolonialismo – ancora oggi presente – farcito di autoassoluzioni dal sapore razzista: “non manca chi pensa che il terzo mondo è emarginato perché sono di razza inferiore, non sono di razza bianca”, sono ancora sue parole pronunciate a S. Benedetto. “Non manca nemmeno chi pensa che i popoli del terzo mondo sono poveri perché non hanno voglia di lavorare e perché sono incapaci di onestà! NO…NO…NO…! Il terzo mondo è emarginato perché è sfruttato, terribilmente sfruttato dalla società dei consumi che merita il titolo della società dello spreco. Il primo e il secondo mondo vanno a comprare le materie prime occorrenti nel terzo mondo a prezzi stracciati. Li lavora, li rimanda trasformati in prodotto sofisticato che la propaganda commerciale, soprattutto la televisione a colori, fa credere si tratti di prodotti di cui non si può fare a meno”. Nel suo libro “Rivoluzione nella pace” spiega senza giri di parole qual è la missione della Chiesa davanti a tutto ciò: “mente a se stesso chi crede di amare Dio che non vede se non ama gli uomini che vede. E l’uomo non è solo anima; è anche corpo e spirito immerso nella materia. Conquista l’eternità vivendo nel tempo. È cristiana, profondamente cristiana, la lotta per l’emancipazione nella misura in cui è sinonimo di aiutare, fraternamente, a strappare dalla miseria milioni di uomini che vegetano in situazioni infra-umane”. Ma l’alienazione – Camara ne era cosciente – poteva essere causata anche da una “vita basata sull’effimero, disumanizzante e pagano”. La Chiesa, perciò, “è chiamata anche a denunciare il peccato collettivo, le strutture ingiuste e stagnanti, non come uno che giudica da fuori, ma come chi riconosce la sua parte di responsabilità e di colpa”. Come scrive nel ’71 in un articolo sulla rivista “Parole et Pain”, “oggi, l’elemosina delle elemosine è sostenere la giustizia, lavorare allo stabilirsi della giustizia sociale. I poveri, nel nostro secolo, non sono solamente degli individui e dei gruppi, ma Paesi e continenti”. Vicino alla Teologia della Liberazione, dom Camara rifiutò, però, sempre radicalmente qualsiasi forma di violenza: “non credo alla violenza, non credo all’odio – scrive ancora in “Rivoluzione nella pace” -, non credo alle insurrezioni armate. Sono troppo rapide: cambiano gli uomini senza aver il tempo di cambiarne la mentalità. Non serve a niente pensare alla riforma di strutture socio-economiche, se non cambiano anche le nostre strutture interiori. […] Ma se non credo alla violenza armata, non sono nemmeno tanto ingenuo da pensare che bastino i consigli fraterni, i richiami lirici, perché cadano le attuali strutture come caddero le mura di Gerico”. Una via nonviolenta, quella proposta dal Vescovo, per far germogliare un mondo dove la pace fra le persone e i Paesi potesse regnare. Nel suo intervento a Ferrara nel ’79 denunciò il legame tra diseguaglianza economica globale e politiche di guerra: “la società dei consumi spreca somme incredibili per armamenti. E in questo punto l’America del Nord e la Russia si fanno concorrenza in modo perfetto. […] E così queste armi sono vendute ai Paesi del terzo mondo che non hanno nemmeno l’essenziale per i loro popoli”.

L’opzione preferenziale: “una Chiesa povera per i poveri”

Una vicinanza al prossimo, quella di dom Câmara che, nella sua urgenza e intensità, non può non essere rivolta dunque a chi più ha bisogno: “pur amando tutti, come Cristo devo avere un amore speciale per i poveri”, scrive sempre in “Rivoluzione nella pace”. “Gesù amava tutti e andava anche dai ricchi – scrive in “Chi sono io?” (Cittadella, 1979) -, ma ha sempre mostrato la sua preferenza per i poveri. […] Guai a chi non vede Cristo nella persona dei poveri, non soltanto negli individui ma nella società, nei Paesi, nei continenti, in tutto il mondo sottosviluppato!”. Un principio essenziale che Papa Francesco cerca di rendere carne e sangue nella Chiesa di oggi. In “Evangelii Gaudium”, 48 scrive infatti: “se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario deve arrivare a tutti, senza eccezioni. Però chi dovrebbe privilegiare? Quando uno legge il Vangelo incontra un orientamento molto chiaro: non tanto gli amici e vicini ricchi bensì soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14) […]. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli”. Lo stesso Câmara rivolgeva questo appello anche e soprattutto all’interno della Chiesa: “più grave della tentazione del denaro è la tentazione del prestigio e del potere”. La Chiesa, nella sua essenza è “serva dei poveri” e “povera”. La grande povertà della Chiesa, per Câmara, “sta nell’accettare di essere mal giudicata, di rischiare la propria reputazione, di perdere il proprio prestigio. Sta nell’accettare di essere trattata da sovversiva, da rivoluzionaria, forse da comunista: ecco la nostra povertà, la povertà che Gesù chiede alla Chiesa in questo tempo in cui viviamo…”. “Fare un’opzione per i poveri non significa disprezzare i ricchi”, puntualizzava, non dimenticando mai nessuno. Ma i ricchi “non ci chiedono niente. I poveri, gli oppressi, loro sì, hanno bisogno di noi. Qualsiasi cosa questo ci costi” (in “Il Vangelo con dom Hélder”, Cittadella 1985). Così scrive ancora Papa Francesco in “Evangelii Gaudium”, 198: “desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”.

Chiesa e mondo: “il vescovo è di tutti”. Quegli atei che sono “cristiani di fatto”

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“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. (“Gaudium et spes”, 1965) Saper vivere profondamente la povertà evangelica significa al tempo stesso avere uno sguardo aperto sulla sofferenza di ogni donna o uomo. Dom Câmara – in “Rivoluzione nella pace” – si autodefinisce “una creatura umana che si considera fratello di debolezza e di peccato degli uomini di tutte le razze e di tutti i luoghi del mondo. Un cristiano che si rivolge ai cristiani, ma con cuore aperto, ecumenicamente, agli uomini di ogni credo e di tutte le ideologie (…). Il vescovo è di tutti. Nessuno si scandalizzi se mi vedrà frequentare creature ritenute indegne e peccatrici”. Ma questo rivolgersi a ogni persona bisognosa dell’amore e della prossimità era rivolto non solo alle condizioni materiali della stessa ma anche alla sua condizione spirituale e alle sue scelte di vita. Scelte che Câmara non dava per scontate e men che meno condannava, ma anzi dimostrava di prendere in considerazione con viva sofferenza. Così scrive: “credo che tutto andrà a finire bene (le afflizioni termineranno, la pace regnerà per sempre) però qui in questo esilio quanti sono, quanti, quanti, quelli che non sono nelle condizioni psicologiche di credere in Te?….Per molti, per troppi la vita è dura. E non esiste praticamente nessuno che, almeno in certi momenti, non la trovi scioccante, assurda, senza senso, asfissiante…[…] Se insisto con queste domande angustianti è con il proposito di difendere i disperati, i blasfemi, gli atei. È chiaro che non voglio giustificarli: ma li capisco, e spero che anche Tu li capisca. E qui sta il grande segreto della tua paternità. È ingenuo voler negare che hai costruito la vita sulla morte. Ma poi, quando gli uomini si contorcono dal dolore, si sentono schiacciati dalla sofferenza fisica, si ribellano alla sofferenza morale e bestemmiano, tu li capisci e a castigarli non ci pensi nemmeno. Ma il mistero rimane: perché non parli un pochino più chiaro?” (“Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II”, S. Paolo ed., 2011). In diversi momenti il Vescovo brasiliano – pur cosciente di attirarsi molte critiche dall’interno della Chiesa – fa di se stesso un ponte di pace verso “tutti gli uomini di buona volontà” ai quali è rivolta la “Pacem in Terris”: “chi pratica il bene in questa vita, per quanto possa considerarsi distante da Dio, nell’altra vita avrà la sorpresa di sapere che sulla terra ha avuto a che fare con Cristo stesso il quale, in nome del Padre, gli aprirà le porte del cielo” (in “Terzo mondo defraudato”, EMI, 1969). “Esprimo il mio speciale affetto per coloro che” sono “atei di nome, ma di cristiani di fatto”, scrive ancora (idem), per quegli agnostici ed atei “che ‘facciano’ la verità”. Tornano alla mente anche le parole provocatorie del Pontefice nella prima Udienza generale del 2019: ”Le persone che vanno in chiesa, stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente sono uno scandalo: meglio vivere come un ateo anziché dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani”. Il “nuovo umanismo” sgorgato dal Concilio Vaticano II, per il Vescovo di Recife, “comincia con l’accogliere quello che c’è di vero in tutti gli umanismi, anche quelli atei” (in “Rivoluzione nella pace”). Un invito ad uscire, per andare incontro all’altro nella sua diversità, in uno spirito di missionarietà. Non a caso, il 16 maggio 2016 nel suo discorso di apertura della 69esima Assemblea Generale della CEI, Papa Francesco in un passaggio citò proprio dom Câmara: “questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo – richiamava dom Hélder Câmara – prendi il largo!». Parti! E, innanzitutto, non perché hai una missione da compiere, ma perché strutturalmente sei un missionario: nell’incontro con Gesù hai sperimentato la pienezza di vita e, perciò, desideri con tutto te stesso che altri si riconoscano in Lui e possano custodire la sua amicizia, nutrirsi della sua parola e celebrarLo nella comunità.” Chiudiamo con altre parole del Santo Padre, quelle conclusive nel Messaggio per la Quaresima dell’anno scorso, per mostrare ancora una volta come sia forte quel filo rosso che unisce questi due fratelli latinoamericani, testimoni autentici della misericordia di Cristo: “vorrei – scrive il Santo Padre – che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 giugno 2019

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