Archivio | novembre, 2025

Prima la fiducia, poi la comunicazione: don Valentino Bulgarelli alla Scuola di Teologia

28 Nov

“Vicinanza, cura, accompagnamento” è stato il titolo della lezione della Scuola diocesana di teologia per laici, tenuta da don Valentino Bulgarelli, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale e sottosegretario della CEI.

«La comunicazione è importante ma anche per quanto riguarda la Chiesa, non lo è per motivi tecnico-strumentali, non si tratta cioè di essere aggiornati a livello digitale: se non hai nulla da dire, non lo hai nemmeno sui social», ha fin da subito incalzato. D’altra parte, il rischio dentro la Chiesa è di una «comunicazione autoreferenziale, arida e sterile, che non impatta la realtà». Ad esempio, significativo era quando «alcuni parroci nell’omelia usavano il dialetto, lingua del popolo: la Chiesa può comunicare col mondo solo se è qualcosa di vivo, non di formale, di museale». Ma essere viva non significa «organizzare tante iniziative» ma fare in modo che le persone «ripongano fiducia in essa: è nella fiducia che tutto cresce, vive, germoglia». Oggi invece viviamo dentro una «crisi di fiducia antropologica, nessuno si fida più di nessuno, degli altri, delle istituzioni,Chiesa compresa».

Al contrario, l’esperienza cristiana «si è sempre basata sulla fiducia, sul fidarsi di un altro, in una catena di trasmissione di fiducia, di fede, che oggi sta venendo meno».  Ma «il primo a fidarsi di noi è Dio, sempre pronto a darci un’altra possibilità». Senza fiducia, «non ci si può mettere in ricerca, si vive nel continuo sospetto, non si coltivano dubbi, non si fanno domande. Ed è Gesù a cercare continuamente di creare fiducia nei propri confronti fra i discepoli.Si dovrà, però, scontrare con diverse resistenze, come ad esempio si vede nel brano della figlia di Giàiro (Mc 5, 21-43) dell’emorroissa (Mc 5, 25-34): in questo racconto invece Gesù vuole sapere chi è stato a toccare le sue vesti, proprio l’opposto del concetto di folla, del noi impersonale. L’esperienza della fiducia non è solo proposta, ma è una dimensione esistenziale, concreta.

L’arresto di Gesù segnerà il punto di rottura delle resistenze dei suoi discepoli»: la «straordinarietà» della Buona Novella consiste nel fatto che «nella Resurrezione Gesù continua a esserci fedele, a dirci che si può perdonare, si può sempre ricominciare.« La comunità cristiana, quindi, è quello «”strumento” creato da Dio per creare connessioni fra Lui e ogni donna e uomo».

L’atto di fede è fatto «di alti e bassi, come tutte le cose vive, che non sono mai piatte, lineari». Come cristiani è dunque «naturale avere dubbi, porsi domande, vivere momenti di sfiducia». Ciò che bisogna evitare sono «gli intimismi, gli spiritualismi», quindi mai dimenticare che Dio «è il Dio della storia, è un Dio che si incarna».

Di conseguenza, per don Bulgarelli «annuncio, liturgia e fraternità sono le tre grandi dimensioni che rendono la Chiesa viva: un annuncio che non è solo il catechismo per i bambini, una liturgia che non è solo Messa domenicale, una fraternità che non è solo distribuzione di alimenti per i poveri».

Essere Chiesa viva significa, dunque, «”restituire” umanità al mondo, vedere ogni persona come capace di cambiamento/conversione, interrogarsi sulla formazione delle coscienze».E ancora: significa «valorizzare l’importanza del dialogo e delle domande e riconoscere libertà – come dono di Dio – e autorità – come ciò che permette la crescita – come necessarie».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025

(Foto di giselaatje – Pixabay)

«Oggi l’obiettivo dell’UE è la guerra, non la pace»

26 Nov

La guerra come «nuova modalità geopolitica per ridisegnare gli equilibri»: la denuncia di Bersani (Stop Rearm Europe) e Pugliese (Rete pace E-R) a Ferrara

di Andrea Musacci

I numeri se isolati dalla realtà hanno il limite di non farla percepire nella sua drammaticità. Ciò è ancor più vero quando le cifre snocciolate sono quelle riguardante le spese per gli armamenti nel nostro continente e nel mondo. Il duro panorama del nostro presente ce l’hanno spiegato lo scorso 21 novembre Pasquale Pugliese (Rete Pace e Nonviolenza Emilia-Romagna) e Marco Bersani (Campagna Stop Rearm Europe), invitati dalla Rete per la Pace Ferrara nella Sala della Musica (via Boccaleone) e moderati da Elena Buccoliero, della stessa Rete, per l’incontro “Per la pace, per la nonviolenza, contro il riarmo”.

BERSANI: «IL GRANDO INGANNO DEL PIANO UE PRESERVING PEACE»

«Quelle contraddizioni già presenti nel 2001, anno dell’invasione USA dell’Afghanistan – ora sono venute al pettine,» ha spiegato Bersani: «siamo in una fase della storia che in futuro verrà studiata, col declino dell’impero USA e il culmine delle contraddizioni del sistema capitalistico»: sempre più forti disuguaglianze sociali, crisi ecologica, bolle speculative sono i fattori principali di «un modello di società non in grado di reggere», con l’Unione Europea che è «l’esempio principale del fallimento di tutte le politiche neoliberiste». Inoltre, come Europa non abbiamo più nessun rapporto con i Paesi del Mediterraneo, e non usiamo più la diplomazia».

«Se vivessimo in un mondo realmente democratico – ha proseguito -, faremmo decine di migliaia di assemblee ovunque per decidere del nostro futuro». Invece «le potenze politiche, economiche e finanziarie fan di tutto per mantenere questo sistema, anche se rispetto a 25 anni fa non hanno più il coraggio di dire che questo è il migliore dei mondi possibili, ma sanno che è l’unico possibile per loro».

Oggi «la ristrutturazione a livello globale si fa sui rapporti di forza» ed è la guerra «la nuova modalità geopolitica per ridisegnare gli equilibri». Siamo «Paesi combattenti, anche se non ancora con i soldati». In Europa, la corsa al riarmo da poco più di un mese prende il nome del Piano Preserving Peace – Defence Readiness Roadmpap 2030 (ex ReArm Europe ed ex Readiness 2030). Il Piano parte dall’idea che «come popoli europei siamo sotto una perenne minaccia,» di conseguenza sono previsti missili, sistemi d’artiglieria, munizioni, droni, uno Scudo Aereo Europeo, uno Scudo Spaziale di Difesa, senza parlare della cosiddetta “guerra elettronica”. Ma non solo: «corsi di formazione per i formatori» (leggi: propagandisti), «ingresso nelle scuole e nelle università con corsi ad hoc, esercitazioni». Il tutto per far diventare «consuetudine per ognuno la frequentazione delle Forze Armate». Un piano, questo, che vale più di mille miliardi di fondi pubblici, ed entro il 2035 – fra spese UE e spese dei singoli Stati – saranno investiti «circa 6.800 miliardi di euro nella difesa, di cui il 50% per quella effettiva», come detto un mese fa dal Commissario UE alla Difesa Andrius Kubilius. Sempre entro il 2035, l’Italia arriverà a una spesa pari a 700 miliardi per difesa, armi e settore industriale ad esse legate.

Tutto ciò, inoltre, permettendo – eccezionalmente – «anche all’Italia di spendere questi soldi una volta uscita dalla procedura d’infrazione – ma non per le spese sociali – e, per tutti gli Stati, con prestiti dall’UE che li indebiteranno in maniera consistente. Oltre all’utilizzo per armi e difesa anche di fondi strutturali UE e degli investimenti della Banca europea per gli investimenti, grazie a una recente modifica dello Statuto». Riguardo alla UE, Bersani ha anche accennato al cosiddetto “Pacchetto Omnibus sulla sostenibilità”, un’iniziativa di deregolamentazione radicale (v. anche art. sotto). In parole povere, «in nome della solita battaglia contro la burocrazia si eliminano vincoli sociali e ambientali che regolano il commercio delle armi». Ma non finisce qui: lo scorso luglio la Commissione Von der Leyen ha proposto un nuovo Bilancio dell’UE per il periodo 2028-2034 che prevede 131 miliardi destinati a difesa e spazio, «cinque volte più» del Bilancio 2021-2027.

Dietro questi numeri e queste realtà concrete c’è una propaganda non meno pericolosa: quella secondo cui «gli altri sono armati e noi non abbastanza per difenderci da loro», anche se la realtà dice che «l’UE oggi è il continente più armato del mondo e senza contare il Preserving Peace, non ancora partito…».

Nel finale, una nota positiva, quella delle mobilitazioni di massa degli ultimi mesi, movimento dal quale «credo stia nascendo una nuova generazione politica». E a proposito, l’incontro è partito con la proiezione del Documentario La strada più lunga del 2001, racconto di quel movimento pacifista rinato dopo l’invasione USA dell’Afghanistan, con la regia di Simone Diegoli, Cristina Squarzoni e Barbara Diolaiti. Nel video, i volti e le voci protagoniste in quel periodo nel Tendone del Forum Permanente per la Pace di Ferrara dell’autunno 2001 e in altri incontri nel centro cittadino con ospiti italiani ed internazionali, animato da quell’arcipelago di gruppi, movimenti, partiti e singoli cittadine/i da cui nacque la Rete per la Pace Ferrara. 

PUGLIESE: «LA RETE PACE E NONVIOLENZA EMILIA-ROMAGNA»

«Oggi in armi si spende più del doppio rispetto al biennio 2001-2003, con l’annessa ideologia bellicista, secondo cui non la pace ma la guerra è l’obiettivo degli Stati: una “logica della deterrenza” che in realtà è un pensiero magico…», ha spiegato Pugliese. «Il sistema capitalistico europeo sta preparando questo scenario, mai così tragico dalla seconda guerra mondiale in poi. La nostra per la pace dev’essere una risposta strategica, organizzata, continuativa». E fondamentale: «tutti i diritti e le libertà sono possibili solo se c’è la pace». Un grido più che mai necessario, in un mondo con 185 conflitti armati e in cui le spese per le armi hanno raggiunto il record storico di 2719 miliardi di dollari, in aumento da anni e destinate ancora a crescere.

Pugliese si è poi concentrato sulla nostra Regione dove da febbraio 2022 (invasione russa dell’Ucraina) le reti pacifiste si sono mobilitate e unite il 5 ottobre dello stesso anno nella Rete Pace e Nonviolenza Emilia-Romagna. Fra le proposte, quello di un Assessorato regionale alla pace, oltre all’impegno assiduo – solo per citare le voci principali – per la nonviolenza come metodo e primo principio valoriale, per la costruzione e diffusione di una cultura della pace e la trasformazione nonviolenta dei conflitti; per lo stare, nei conflitti, sempre e solo dalla parte delle vittime – tutte –, degli obiettori di coscienza e dei disertori. E per proseguire la lotta contro l’uso del territorio regionale per basi militari e industrie belliche, col parallelo rafforzamento dell’alleanza coi sindacati come la CGIL.

Insomma, le battaglie di 25 anni fa, di 50 anni fa. Con una piccola differenza: un’altra catasta di morti e feriti nelle guerre, e una nuova ossessione dei potenti di tutto il mondo, non solo dell’Occidente. Un’ossessione che potrebbe avere un costo molto alto, per tutti.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025

Il Vescovo Bovelli guida nel turbine della guerra

25 Nov

Dal suo epistolario negli anni 1943-45 emerge forte la figura del Pastor et defensor di Ferrara, alle prese con le autorità locali, con quelle d’occupazione, con i preti e altre personalità (Schönheit, Cadorna…): ecco le ricerche di Rossi e Piffanelli

di Andrea Musacci

“Questioni private” e affari pubblici. Aneddoti feriali, aspetti ameni e controversie gravi, drammatiche. È davvero un intero universo quello che emerge dall’epistolario di mons. Ruggero Bovelli (Vescovo dell’Arcidiocesi di Ferrara dal 1929 al 1954), in parte presente nel “Fondo Bovelli” conservato nel nostro Archivio storico diocesano. 

Alcune di queste missive sono state al centro dell’incontro pubblico svoltosi nel pomeriggio dello scorso 17 novembre nella sede dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO) di Ferrara. L’incontro dal titolo Un vescovo tra guerra e liberazione: Ruggero Bovelli “Pastor et defensor” nel 150° della nascita, curato da ISCO e promosso dalla Sezione di Ferrara dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani (ANPC), ha visto la presenza di oltre 50 persone e gli interventi dello storico e Consigliere nazionale ANPC Andrea Rossi e di Riccardo Piffanelli (foto piccola)dell’Archivio storico diocesano. L’iniziativa è stata introdotta dalla Direttrice ISCO Anna Quarzi («è un mio sogno – ha detto – quello di mettere il nome di Bovelli nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme») e dal Vicario Generale diocesano mons. Massimo Manservigi: «Bovelli – ha spiegato – fino all’ultimo è stato un uomo molto attivo. Ricordo anche il suo legame con don Calabria e il suo ruolo nella nascita della Città del Ragazzo. Sapeva sempre fare le scelte giuste e mantenere vive le comunità a lui affidate». 

TELEFONO, BICI E PNEUMATICI

«Il Fondo Bovelli – ha spiegato Piffanelli – è composta da 54 cartelle (buste) su 8 metri lineari. È quindi un fondo corposo, ma discontinuo, non sempre lineare».

Leggi l’intero articolo qui.

(Articolo pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 novembre 2025)

Anna Kolodziejczak: una storia del ‘900 tra guerra in Polonia e riscatto a Ferrara

22 Nov
Anna e Sauro Benassi

Padre polacco e madre indiana Lakota-Sioux, Anna nel ’44 in un campo di prigionia nazista incontra il bondenese Nessauro “Sauro” Benassi, che diventerà suo marito e col quale vivrà a Burana e Ferrara. Il figlio Carlo (morto nel 2020) ha raccontato la storia in un libro ora curato dalla vedova Magda Beltrami. Un’epopea tra impegno politico e fede, spaccato agrodolce del secolo breve

di Andrea Musacci

A 5 anni dalla scomparsa di Carlo Benassi, primo Segretario della Funzione Pubblica CGIL di Ferrara e Dirigente del Comune della stessa città, è stato pubblicato il libro da lui redatto dedicato alla madre Anna Kolodziejczak, di origini per metà polacche e per metà indiane d’America. Una storia affascinante che unisce Paesi diversi, che parla di guerra e del riscatto dell’amore, della politica come liberazione e del potere come oppressione. Il volume dal titolo “Anna. Le quattro dimensioni di una donna” è stato curato dalla vedova di Benassi, Magda Beltrami, docente di Fisica Ambientale, ricercatrice, saggista e curatrice di mostre documentarie e fotografiche. La pubblicazione promossa da SPI CGIL Ferrara (con testo di presentazione di Delfina Tromboni) viene presentata il 18 novembre nella sede della CGIL Ferrara (Camera del Lavoro di piazza Verdi) con inizio alle ore 17 e saluto di Sandro Arnofi (Segretario Generale SPI CGIL Ferrara), introduzione di Mara Guerra (insegnante), moderazione di Mario Mascellani (volontario SPI CGIL Ferrara) e presentazione a cura di Magda Beltrami.

TRA GLI INDIANI E LA POLONIA

Le origini di Anna sono complesse e affascinanti: suo padre Stanislaw, polacco di origini cosacche, era emigrato con la famiglia in America a inizio Novecento per sfuggire alle persecuzioni prussiane. Stanislaw sposa la giovane Theodosia, figlia di un guerriero indiano della tribù dei Lakota-Sioux, ucciso dall’esercito USA. I due hanno sette figli: la primogenita è Anna, nata a South Heart, nel Nord Dakota, nel 1917 e battezzata nella chiesa cattolica di San Bernardo a Belfield. La narrazione dei soprusi subiti dalla famiglia materna e dagli altri indiani nella terra natia non si interromperà mai nei suoi racconti.

Quando lei è adolescente, si trasferisce con la famiglia a Danzica, in Polonia. Qui, il cortile della fattoria della sua famiglia viene invaso il 3 settembre 1939 da due camionette di soldati tedeschi che requisiscono la casa e i terreni. La madre Theodosia è costretta a rimanere lì col figlio più piccolo per servire gli occupanti, il padre è mandato alla frontiera russa per lavori militari, i fratelli a lavorare in fabbrica in Germania, Anna a lavorare come domestica a Danzica in una famiglia benestante; dopo due anni viene portata nel vicino campo di lavoro nazista di Zoppot-Gdynia, dove rimarrà quattro anni. Conoscendo bene l’inglese, il polacco e il tedesco, almeno viene usata non solo per duri lavori manuali ma anche come traduttrice: quest’aspetto le salverà la vita, mentre molti muoiono per la fame e le vessazioni. 

L’AMORE NELL’ORRORE

Viene quindi trasferita nel campo di Oliwa (Stalag XX-B, a Marienburg-Danzica, sottocampo di Stutthof) e la fanno lavorare in Waggonfabrik, fabbrica per costruire motosiluranti per il Reich: è qui che conosce Nessauro Benassi, detto Sauro, militare (uno degli IMI – Internati Militari Italiani) fatto prigioniero a Scutari, in Albania l’8 settembre 1943, dopo aver combattuto in Grecia. Classe 1920, nato a Burana vicino Bondeno, viene arruolato giovane; e prima di Oliwa passerà per altri 5-6 campi, fra cui Thorn (Stalag XX-A) e Konigsberg. Scriverà: «Usciti dal campo di concentramento non eravamo più né uomini né donne, avevamo perso il senso, sia ben chiaro non eravamo più essere umani…». Nell’estate del ’44 i bombardamenti alleati su Danzica e dintorni mettono a repentaglio anche la vita dei due giovani. «Sauro lascia sempre ad Anna qualche piccolo segno del suo passaggio come quel berretto di lana che lei calcherà sulla testa per nascondere gli occhi ai bagliori delle bombe», scrive il figlio Carlo. A inizio ’45 i due sono tra i sopravvissuti dell’incendio delle baracche dove vivono causato dai tedeschi in fuga. Si salvano mangiando patate bollite e marmellata trafugata. Poi scappano insieme diretti verso la casa di lei, a Danzica, a 50 km, ma per prudenza si fermano prima, a Tczew: si muovono con «un carretto dissestato al quale Sauro sostituisce due ruote con quelle di una motocicletta abbandonata e sottrae ai tedeschi un cavallo ferito». 

NOZZE SPECIALI

Poi riescono ad arrivare nella casa di Anna, abbandonata e depredata, dove ritrovano parte della sua famiglia. Sauro visita una città lì vicino, Bydgoszcz, finalmente libero di girare, «sulla manica della giubba un’appariscente bandiera italiana» da lui assemblata e cucita. Grazie a diversi soldati italiani, la casa-fattoria di Anna viene ristrutturata, «si riprende la lavorazione della terra e si produce wodka fermentando patate e crusca», wodka che usano come mezzo di baratto. Nel settembre ’45 Anna e Sauro si sposano nel Campo Internazionale Prigionieri Liberati n. 163 della Croce Rossa Italiana, a Bydgoszcz. Il celebrante è don Pierino Alberto, Cappellano militare del 6° Reggimento Alpini, Brigata “Val Chiese”: «i loro abiti sono stati confezionati con tendaggi e vecchie coperte tedesche», il pranzo nuziale è «servito su tavoli assemblati con porte e finestre». Questo il menù: «tagliatelle cucinate da italiani, capriolo cacciato nei boschi vicini ed abilmente scuoiato e cucinato da Theodosia, torta preparata con moltissimo burro recuperato per l’occasione e decorata con gusto e tanta, tanta wodka».

NUOVE GIOIE, NUOVE LOTTE

Nel gennaio ’46 Anna e Sauro vanno a vivere in Italia, con loro «quattro capienti valigie di legno» da lui costruite; partono il 4 gennaio, il 22 sono a Burana: Anna si segna nel diario tutte le tappe del viaggio; ma per lei ora iniziano nuove difficoltà: «non parla italiano ed è solo “la polacca”. Questo appellativo marcherà la diffidenza nei suoi confronti e ne dichiarerà la marginalità».

Intanto il marito diventa funzionario della CGIL, lavorando a Ferrara (nel ’48 diventa primo Segretario dei pensionati CGIL) e in Sicilia, negli anni del bandito Giuliano («passa le notti in luoghi sempre diversi e tiene una pistola sotto il cuscino»), fino all’aprile del ’48, quando nasce suo figlio Carlo. Anna non solo non si abbatte nonostante la solitudine e le diffidenze della gente, ma sceglie di impegnarsi, di essere una donna attiva, soggetto di trasformazione: così, nel 1947 aderisce al Partito Socialista Italiano. Ma la Guerra Fredda e la rigidità del regime polacco le danno ulteriori motivi di sofferenza: «La corrispondenza con i genitori è censurata, spesso non parte o neppure arriva e se arriva è aperta, violata», quindi «si riduce allo scambio di banali informazioni e alla trasmissione di fotografie. A lei ormai cittadina italiana è negato il permesso di ingresso in Polonia per gli undici anni successivi». Nella sua patria, il padre Stanislaw aderisce al Partito Unificato Contadino (ZSL), satellite obbligato del Partito Operaio Unificato Polacco, ma che nel 1989, in nome di un socialismo agrario non stalinista, appoggia Solidarnosc.

La resistenza attiva di Anna continua – nel ’50 il Tribunale di Ferrara la nomina interprete ufficiale per la lingua polacca, a metà anni ’50 si trasferiscono a Ferrara – ma l’aver contatti con un Paese sovietico e l’esser moglie di un sindacalista le faranno perdere il lavoro. Tornerà quindi alla fatica nei campi e nel ’57, grazie alla CGIL, riuscirà a compiere un viaggio in Polonia col figlio: Sauro è già lì, partito con una delegazione sindacale in visita al Paese. La famiglia trascorre alcuni mesi felici. Lei negli anni tornerà più volte nella sua patria, ora triste e senza libertà. Nel ’65 avrà l’onore di poter fare la traduttrice in occasione delle celebrazioni per il gemellaggio tra l’Università di Ferrara e quella polacca di Torun.

QUELLA MADONNA NERA

Nel ’46 un giovane li aveva accompagnati nel viaggio, fino a Udine, aiutando Anna con le pesanti valigie: indossava la divisa dell’esercito italiano, si diceva istriano, parlava varie lingue ma male l’italiano. Molti anni dopo, l’allora parroco di Bondeno mons. Guerrino Ferraresi «porge a Sauro i saluti di un alto prelato che viveva in Vaticano»: era quel misterioso ragazzo, un russo in fuga dal suo Paese per farsi prete. Sauro allora lo incontra a Roma: l’emozione è grande. 

Il tempo passa, nel ’76 il figlio Carlo si sposa, e ad Anna e Sauro sono riconosciute onoreficenze: entrambi ricevono il diploma d’onore di Combattenti per la Libertà d’Italia 1943-1945 e lei anche quello di Deportata Politica non Collaborazionista. Ma una malattia invade il corpo e la mente di Anna: schizofrenia senile: allora «prega la Madonna nera di Czestochowa, trova conforto e si sente meno sola»: “Una cura serve più di una candela accesa davanti alla Madonna?”, si chiede.

Una domanda che facciamo nostra.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Quella santa contraddizione che ci libera e ci ricorda chi è Dio

21 Nov

DON FABIO ROSINI A FERRARA. Il Cinema di San Benedetto era pieno la sera del 12 novembre scorso per la presentazione del suo ultimo libro “Ma anche no”

Esiste un distacco che ci avvicina agli altri, uno svuotamento che riempie la vita, una relativizzazione che ci fa incontrare la Verità.

È questa la provocazione intellettuale – e di fede – che don Fabio Rosini lancia nel suo ultimo libro, “Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et” (San Paolo Edizioni, 21 ottobre 2025, 18 euro). Libro che ha presentato la sera dello scorso 12 novembre nel  Cinema San Benedetto di Ferrara, davanti a una sala piena di persone (mentre la mattina successiva nel Seminario di via Fabbri ha relazionato al solo clero sul Vangelo secondo Matteo).

Il sacerdote romano – introdotto dal nostro Vicario Generale e Direttore Ufficio Comunicazioni Sociali mons. Massimo Manservigi, è andato – com’è nel suo stile – a cuore del discorso: «farsi degli idoli, farsi un film», come si usa dire nel gergo comune, è un vizio molto diffuso. Invece, dovremmo imparare la difficile arte dell’et-et, non dell’aut-aut, non delle «assolutizzazioni».

Et-et che è contraddizione, complessità, ma in realtà anche «equilibrio»: com’era – ad esempio – una volta nel saper vivere la ferialità e la festività della domenica, tradizione oggi perduta. O dal ricordarsi (!) – contro ogni tentazione fluid – che «la vita nasce dal maschile e dal femminile, e quindi chi li nega, nega la vita». Così, un altro modo di negare la ccomplessità lo vediamo nella «comunicazione politica, dove l’altro è sempre uno schifo, un disgraziato», dove quindi domina «la logica della mostrificazione».

La psicoanalista Melanie Klein – ha proseguito don Rosini – con la sua teoria della scissione ha analizzato bene questo meccanismo: «per sopravvivere  il bambino deve dividere il buono cattivo, ciò che è vita da ciò che è morte», il suo è un processo di autodifesa necessario. Poi però «devi iniziare un processo di integrazione, dove esci da questa scissione primordiale». Ed è «tipico della fede cattolica portare il soggetto a questa maturità», insegnare l’arte dell’et-et, con una fede dove «il Cristo è vero Dio e vero uomo. Tutto ciò che è cattolico implica il suo contrario». E «il contrario di cattolico è “fazioso”». È quindi – questo – «un processo di relativizzazione necessario» perché «c’è sempre qualcosa che ci sfugge, iqualcosa che non vediamo». La realtà «è organica non matematica, implica cioè il suo contrario. Come la Chiesa, che è un corpo», come dice San Paolo: siamo tutti diversi, ognuno è una parte di un corpo e ogni parte è necessaria; se manca una parte, soffri».

Nell’odierna comunicazione – ha proseguito il relatore – oggi dev’essere invece tutto assolutizzato, «trasformato in notizia, tutto deve diventare eccezionale, sensazionalistico, sopra le righe, altrimenti non esiste, non ha valore. E questo spesso viene insegnato ai bambini: “dacci oggi il nostro mostro quotidiano”. René Girard ha spiegato bene questa dinamica del capro espiatorio, secondo cui per sopravvivere dobbiamo avere un nemico comune: così è stato ad esempio per il nazismo con gli ebrei».

Non a caso, «la cronaca nera attira più dello sport, che pure è un’altra forma mimata dell’avere un nemico». Oggi è diffuso «l’orrore di essere sconfitti, di arrivare secondi: per essere mi devo affermare, quindi devo gareggiare, quindi devo vincere». Di conseguenza, «l’invidia è il peccato per eccellenza» («la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo», Sap 2, 24).

Come uscire quindi da questa «dinamica della colpevolizzazione e della rivalità»? Da questo «meccanismo fazioso, contrappositivo, colpevolizzante»? «Facciamo – ho pensato – un libro», per cercare di aiutare ad «evitare innanzitutto di attaccarsi a un dettaglio ma guardare la totalità e la complessità» delle cose e delle persone. Invece noi abbiamo «le nostre idolatrie per superare le nostre incertezze. La sicurezza è bella ma se la assolutizzi diventa dittatura. La verità è importante ma se in suo nome uccidi, diventi un persecutore». È dunque logica conseguenza che «tutti i malvagi pensano di fare del bene e fanno vittimismo, si sentono vittime di altro, si giustificano sempre».

Invece la misericordia nasce «dal sapersi peccatori, dal sapersi cattivi. Il perdono nasce dal sentirsi peccatori, da riconoscere che si sbaglia, nasce quando scopri di non essere perfetto». È – ha proseguito don Rosini – «un processo di kenosis, di svuotamento. Se ti paragoni con gli altri, trovi sempre qualcuno peggio di te; ma se ti misuri con Gesù Cristo, cambi atteggiamento, togli le maschere della presentabilità: maschere che col tempo sono diventate pelle, quindi gabbia».

Per uscire da questa visione, secondo l’autore c’è bisogno innanzitutto di «distacco», cioè «il saper perdere qualcosa per vedere meglio la realtà, per davvero riuscire a metterla a fuoco». Questo perché «ogni scelta implica una perdita» e «chi sceglie è l’adulto», solo l’adulto sa scegliere. Il distacco implica quindi il perdere, il «saper staccarsi dalle cose», non farsi dominare da esse. Implica il «saper dire di no, saper rinunciare». Insomma: «si può lasciare qualcosa», possiamo non avere tutto: sono i pazzi a raccogliere tutto». E il possesso più terribile è quello che riguarda «le idee, il non saperle abbandonare, cambiare». Ma guai a confondere questa necessaria e bella elasticità mentale col relativismo:«spesso anche nella Chiesa vince la piacioneria, il parlare per piacere a tutti, dire ciò che piace a tutti e con un tono “accattivante”…».

Contro questa falsa leggerezza, è invece importante «l’autoironia, il saper ridere di sé stessi, il non prendersi sul serio. Una persona saprà affrontare le proprie pazzie quando saprà essere autoironico». E l’ironia, il distacco, il far ridere, ridere delle cose vuol dire «relativizzarle, guardarle col giusto e necessario distacco».

Altre soluzioni oltre alla preghiera – vale a dire «il fidarsi di Dio, l’abbandonarsi alla Provvidenza, che è qualcosa che aiuta anche la salute mentale…» – sono quei “santi” peccati:la «santa pigrizia»: i veri peccati – ha spiegato don Rosini – «sono faticosi e fanno star male, non sono divertenti, sono un esproprio». Ed essere pigri vuol dire anche – soprattutto per i genitori – non essere sempre interventisti con gli altri, non risolvere sempre i problemi dei figli, ma responsabilizzarli».

E ancora: «la santa avarizia» è molto importante, cioè «il farsi un tesoro vero, essere ricchi della vera ricchezza, quella del Cielo, che nessuno ci può rubare». Infine, il sacerdote ha citato la «santa superficialità, una santa disattenzione» e «il sapersi interrompere, saper scendere dal treno quando si ha torto», il «sapersi contraddire, saper imparare ad aver torto. L’intelligente è chi si contraddice».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Chiesa e mondo ebraico, rapporto complesso

19 Nov

Le parole di Piero Stefani il 15 novembre dalle Clarisse

Il tema dei complessi rapporti fra la Chiesa Cattolica e il mondo ebraico sono stati al centro della relazione di Piero Stefani, intervenuto lo scorso  15 novembre nella Sala del coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara per l’incontro dal titolo “La Chiesa e gli Ebrei dal Vaticano II a Gaza”. Organizzato da SAE Ferrara, Istituto Gramsci Ferrara e ISCO Ferrara nel 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, e parte delle Giornate in memoria di Piergiorgio Cattani, l’incontro è stato introdotto da Francesco Lavezzi che ha riflettuto su come «il Concilio Vaticano II è stato tutt’altro che una passeggiata, ma l’inizio di una fase di svolte, che portò a non pochi contrasti». EdalConcilio emerse l’idea del dialogo da intendersi «non come tattica o strumento» ma come «conversione del cuore che riguarda tutti». 

SHOAH E COLONIALISMO

Stefani ha preso le mosse dalla Shoah e  dal suo legame col colonialismo, entrambi «ombre dell’Occidente».Il sionismo – ha riflettuto – «nasce prima della Shoah e non può quindi essere spiegato solo con questa» e dall’altra parte «il colonialismo ha riguardato anche il Medio Oriente, a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917, e dalla Nakba conseguente alla nascita dello Stato di Israele». Fino ad arrivare al «neoconialismo di oggi portato avanti dal Governo Netanyahu, che arriva addirittura ad assegnare la responsabilità decisiva della Shoah al mondo islamico (al Gran Muftì di Gerusalemme)», posizione «senza fondamento» speculare a quella secondo cui «oggi gli ebrei coi palestinesi si stanno comportando come i nazisti 80 anni fa».

In tutto ciò, la Nostra Aetate rappresenta «una svolta nella posizione della Chiesa nei confronti degli ebrei, non più «perfidi» (da intendersi comunque non come malvagi ma come «coloro che non hanno fede in Gesù Cristo»), ma con cui bisogna «dialogare». Alcune particolarità della Nostra Aetate riguardano il fatto che in essa «non si citi mai in modo esplicito la Shoah, e in nessun modo il termine “Israele”».

ANTISEMITISMO E ANTISIONISMO

Il relatore si è poi concentrato su un altro termine discusso, “antisemitismo”, in particolare oggi, quando «i suoi confini sono diventati così vaghi». Al riguardo, due sono le espressioni storicamente rilevanti usate da Pio XI nei confronti degli ebrei: la prima, nel 1928, in riferimento all’Associazione Amici Israël (che verrà sciolta per altri motivi): «…la Santa Sede – scrisse -, condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di antisemitismo»;la seconda, 10 anni dopo, a Castelgandolfo in occasione di un incontro coi cattolici belgi: «L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi che sono espresse in questo testo. È un movimento antipatico, al quale non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte… Per Cristo e in Cristo, noi siamo discendenza di Abramo. No, non è possibile ai cristiani partecipare all’antisemitismo. Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di utilizzare i mezzi per proteggersi contro tutto quanto minaccia i propri interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti». Da qui, fino ad arrivare ad esempio alle importanti parole di Giovanni Paolo II nel ’97 contro «le radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano». Antigiudaismo che per Stefani ha «fiaccato le coscienze agevolando l’antisemitismo o l’indifferenza» nei suoi confronti. La Nostra Aetate ha il merito invece di non considerare l’ebraismo come «mera religione non cristiana», ma di «sottolineare il legame particolare che esiste tra la Chiesa e il popolo ebraico».

Legame che si esplicherà anche nel 1993 con l’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, nel quale si sottolinea la «natura unica delle relazioni tra la chiesa cattolica e il popolo ebraico». Dall’altra parte, la Chiesa negli anni ha fatto importanti passi avanti anche nel riconoscimento della Palestina,  dall’accordo con l’OLP nel 2000 a quello con lo Stato di Palestina nel 2015. Da 10 anni, quindi, «per la Santa Sede esistono due popoli e due stati». Ma ciò ha peggiorato i rapporti della Santa Sede con l’attuale governo israeliano, che nel febbraio 2024 ha ricevuto un ampio consenso dalla Knesset (99 voti su 120) per  una dichiarazione simbolica contro il “riconoscimento unilaterale” dello Stato palestinese da parte della comunità internazionale.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

Olive, gomme e tè: ecco gli ingredienti della pace

18 Nov

Lo scorso 10 novembre a Ferrara è intervenuto Jeremy Milgrom, rabbino di Gerusalemme e da 40 anni uomo di pace e maestro di nonviolenza: ecco cos’ha detto

di Andrea Musacci

“La pace è una pratica, non una speranza”: un titolo forse “populista” a una prima lettura, per un incontro pubblico. E invece no, se presenta e racchiude i racconti e le riflessioni di una vita di un uomo come Jeremy Milgrom, rabbino di Gerusalemme di origini statunitensi e cofondatore nel 1988 dell’Associazione Rabbis for Human Rights (Rabbini per i Diritti Umani). Impegnato soprattutto per i diritti dei palestinesi e delle fasce più deboli della società israeliana, nonché pioniere nel dialogo interreligioso (col reverendo anglicano palestinese Shehadeh Shehadeh ha fondato l’associazione Clergy for Peace (Religiosi per la pace, che unisce ebrei, cristiani e musulmani), Milgrom è intervenuto nel tardo pomeriggio dello scorso 10 novembre nella Sala della Musica di Ferrara (via Boccaleone) invitato dalla Rete per la Pace (in collaborazione con i Gruppi Consiliari La Comune di Ferrara e Civica Anselmo). Milgrom è stato introdotto e intervistato da Alessandra Mambelli.

LE BELLE BANDIERE

La pratica, la concretezza, si diceva; quella che Milgrom conosce bene, lui veterano dell’esercito israeliano che ottenne l’esonero dagli obblighi di riservista dopo 8 anni di battaglie legali. Una pratica non violenta che non gli ha fatto perdere il legame col suo popolo: «in questa sala non è presente la bandiera israeliana», ma una della pace tra due palestinesi, ha esordito. «Secondo me invece dovrebbero essere esposte entrambe le bandiere. Ricordo che nel 1988 mia figlia voleva esporre la bandiera di Israele, in occasione dell’anniversario della nascita del nostro Stato. Le dissi di mettere, a fianco, anche quella palestinese. Spesso però in Israele se le persone vedono esposta quest’ultima si arrabbiano e dicono: “dopo 2mila anni finalmente questa terra è nostra, mentre gli arabi vivono già in tante altre terre!”».

SOLLIEVO E PAURA

Ora in Israele – ha proseguito – «vi è sollievo per gli ostaggi liberati e i corpi degli stessi uccisi restituiti. Ma non vi è pieno sollievo perché Netanyahu continua a smantellare il nostro sistema democratico. Le elezioni dovrebbero tenersi fra un anno ma non siamo sicuri che ci saranno». E «il governo israeliano teme che i suoi cittadini vengano a sapere cos’è successo a Gaza e cosa sta succedendo in Cisgiordania, e quindi cerca di tenerlo nascosto». Dall’altra parte, «molti israeliani hanno paura a venire in Europa quando nei cortei sentono slogan come “From the river to the sea Palestina will be free”, a maggior ragione ora che c’è la tregua». Sono in aumento, infatti, anche in Italia i casi di aggressione – anche fisica – a danno di ebrei: proprio il giorno dopo, il 12, una famiglia ebrea statunitense è stata aggredita alla Stazione Centrale di Milano da un giovane pakistano.

LE OLIVE DELLA DISCORDIA

Dopo la dura analisi del presente, la seconda parte dell’intervento di Milgrom è stata invece ricca anche di aneddoti e racconti positivi, per una convivenza possibile. «I mesi di ottobre e novembre – ha detto – sono quelli dedicati alla raccolta delle olive: ciò rappresenta un’importante fonte di guadagno per i palestinesi, ma per loro è diventato molto difficile farla a causa dei continui attacchi dei coloni, che così facendo cercano di spingerli ad abbandonare le loro terre. Per fortuna vi sono anche israeliani che li aiutano nella raccolta, in quanto la loro presenza spesso li difende da questi attacchi».

GOMME NEL DESERTO

L’ong  Vento di terra ets, nata nel 2006 e con sede a Milano, fra i vari progetti portati a termine ha Impronte di Pace, promosso nel 2009 per realizzare la Scuola di Gomme, realizzata nel deserto di Gerico con pneumatici usati. La Scuola ospita un centinaio di alunne e alunni beduini, prima esclusi dal diritto allo studio. «Il governo israeliano – ha spiegato Milgrom – voleva distruggere la scuola ma l’associazione ha denunciato questo tentativo al governo italiano e all’Unione Europea, a dimostrazione dell’importanza dell’impegno diretto dei cittadini». «Sono molto felice per quello che stanno facendo» a Gaza e in Cisgiordania, ha commentato. «Quando vengo in Italia collaboro con loro, facciamo molte attività assieme». «A volte dai beduini – ha aggiunto Milgrom – porto anche mia madre, che ha 97 anni, e lei con loro si trova molto bene…». Ma ancora oggi i beduini devono difendersi non solo dall’esercito ma anche dai coloni israeliani, come ben documentato da Avvenire lo scorso 11 novembre riguardo al villaggio di Al-Hatrura. 

LA PACE NEL TÈ

Sono frequenti e ben radicati i legami di Milgrom con tanti palestinesi: «spesso – ha raccontato a mo’ di esempio – sono ospite di un signore che mi offre sempre il tè. Una volta ho ricambiato la sua ospitalità invitando lui e la sua famiglia a pranzo: in quest’occasione ho raccontato la storia del popolo ebraico, quindi anche il periodo della schiavitù in Egitto e la successiva liberazione. Per il figlio di questo signore sembrava assurdo che gli ebrei potessero essere stati schiavi perché ora vede Israele come padrone, e loro palestinesi come schiavi…».

GIOVANI IN CARCERE

E a proposito di giovani generazioni, Milgrom ha raccontato anche di suo nipote, 16 anni di età: «non voglio che si arruoli nell’esercito, e proprio per questo ora con la famiglia vive nel Regno Unito. Anche sua madre da giovane si è rifiutata di fare il servizio militare. Chi si rifiuta di arruolarsi per me è un eroe». Persone che rischiano il carcere, lo stesso dove sono rinchiusi molti palestinesi: «la loro non è una causa popolare in Israele in quanto il governo – che è il più estremista nella storia dello Stato di Israele – non vuole che se ne parli. Come israeliano sono imbarazzato per come il governo tratta queste persone, giustificando questi metodi come deterrenti».

L’UNICA SOLUZIONE

«Dal 1948 Israele opprime i palestinesi», ha aggiunto Milgrom: «molti sono stati cacciati dalla loro terra, sono diventati profughi». E ancora oggi «molti israeliani sono d’accordo col Piano Trump e non vogliono il ritorno dei profughi palestinesi. Ma finché questi non torneranno nella loro terra, vi sarà ingiustizia e violenza». Dall’alta parte – ha aggiunto – «fra i palestinesi e i loro sostenitori ci sono molte persone che desiderano che tutti gli ebrei lascino la propria terra». Il finale è amaro, ma non del tutto: «con molta tristezza credo che non abbiamo fatto abbastanza: mai come oggi c’è stata brutalità e violenza, e mai Israele ha acquistato e prodotto così tante armi. L’unica soluzione è di vivere insieme in un unico Stato e di cooperare». L’unica risposta – insomma – è nella pratica di pace, l’unica che può dare speranza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 novembre 2025

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Un popolo presente: il 15 novembre torna la Colletta Alimentare

14 Nov

GIORNATA DELLA COLLETTA ALIMENTARE 2025. Tutta la Giornata di sabato 15 novembre sarà possibile donare in 120 punti vendita a Ferrara e provincia beni alimentari non deperibli per le persone e le famiglie povere del nostro territorio. Ecco la rete della carità ferrarese e tutte le iniziative in programma anche prima di sabato 15…

di Andrea Musacci

Sabato 15 novembre torna anche a Ferrara e provincia l’appuntamento con la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, l’iniziativa promossa dalla Fondazione Banco Alimentare ETS per sensibilizzare la cittadinanza sul problema della povertà e in cui sarà possibile aiutare direttamente le persone bisognose acquistando alimenti non deperibili (ad es. olio, verdure e legumi in scatola, conserve di pomodoro e sughi pronti, tonno e carne in scatola, alimenti per l’infanzia e riso).

POVERTÀ: I NUMERI

Sfiora il 10% della popolazione il numero di italiani che non può acquistare cibo o altri beni per vivere dignitosamente, secondo i dati recentemente pubblicati dall’Istat (relativi al 2024). Dati che parlano di 2 milioni e 200mila famiglie in stato di povertà assoluta, vale a dire 5,7 milioni di persone. Il 35,2% delle famiglie indigenti è composta totalmente da stranieri, il 6,2% da soli italiani. In Emilia-Romagna, i dati del Rapporto Istat 2025 dicono invece di 139mila famiglie che vivono in povertà relativa, pari al 6,8% del totale regionale e, tra queste, il 20% delle famiglie monogenitoriali con madre sola è più esposto al rischio di povertà assoluta. Inoltre, in Emilia-Romagna risultano attivi circa 50 tavoli che riguardano imprese operanti nelle province della regione e in quasi tutti i settori produttivi. Tavoli che coinvolgono circa 10 mila lavoratrici e lavoratori. E nei primi 6 mesi del 2025 in Emilia-Romagna sono state autorizzate quasi 34 milioni di ore di cassa integrazione, in aumento del 20% rispetto al 2024 e addirittura del 102% rispetto allo stesso periodo del 2023.

NEL FERRARESE

A Ferrara e provincia sono 120 i punti vendita nei quali si potrà fare la Colletta, con un coinvolgimento di circa 1300 volontari (lo stesso numero nel 2024, anche se ogni anno vi sono sempre nuove persone che scelgono di collaborare). Oltre al Responsabile provinciale Giuseppe Salcuni, la Colletta è resa possibile grazie all’impegno di 11 responsabili/coordinatori sparsi su tutto il territorio provinciale. Nel Ferrarese l’anno scorso, il 16 novembre, sono stati donati 70478 kg di beni alimentari a lunga conservazione, mentre nel 2023 erano stati 67050 kg e nel 2022, 61460. Una tendenza positiva che speriamo possa proseguire anche quest’anno.

LA COLLETTA…PRIMA DELLA COLLETTA

Per il sesto anno, questa settimana (dal 10 al 14 novembre) la Colletta viene svolta anche nella sede di ACER in c.so Vittorio Veneto a Ferrara, col sostegno dell’Azienda. Marco Cassarà, Agnese Travasoni e Cristina Sulsenti sono i responsabili dell’iniziativa. Le prime cinque edizioni in ACER hanno permesso di raccogliere 590 kg di generi alimentari (60 kg nel 2019, 120 nel 2021, 124 nel 2022, 154 nel 2023, 132 nel 2024); beni poi distribuiti, attraverso gli Enti associati al Banco Alimentare Emilia-Romagna, a famiglie povere in  Provincia. 

La Colletta il 13 e 14 novembre viene svolta anche nella sede ferrarese dell’Agenzia delle Entrate (via mons.Maverna), grazie ad alcuni dipendenti che fanno i volontari per la Colletta anche nei supermercati.

Anche diverse scuole del Ferrarese sono coinvolte: per quanto riguarda le Secondarie di primo grado, quelle di Poggio Renatico, Santa Maria Codifiume, oltre alla San Vincenzo e alla Bonati di Ferrara, mentre tra le Secondarie di secondo grado studenti e studentesse dell’ITI Copernico-Carpeggiani, del Carducci e del Dosso sono coinvolti come volontari in alcuni iper e supermercati. Lo stesso vale per alcuni insegnanti e bambini dell’Istituto Dante Alighieri. Alla San Vincenzo di Ferrara, invece,  la mattina di venerdì 14 si fa la Colletta dentro la scuola, con il coinvolgimento delle famiglie dal Nido alle Secondarie di primo grado (da cui in tanti andranno anche a fare i volontari il 15 nei punti vendita). Idem per l’infanzia e la primaria della Sant’Antonio. E diverse scuole del nostro territorio sono coinvolte anche nel progetto “Dona cibo”, progetto simile alla Colletta organizzato a livello nazionale da Federazione nazionale Banchi di solidarietà, a cui il Centro di Solidarietà-Carità ferrarese aderisce. 

POPOLO COINVOLTO

Queste invece le parrocchie, gli enti e le associazioni coinvolte per la Giornata della Colletta 2025 (gli stessi dell’anno scorso): Comune di Ferrara: Croce Rossa Italiana – Ferrara, Il Mantello, Viale K, Caritas Pontelagoscuro, Caritas Porotto, parrocchia Pontelagoscuro, parrocchia Perpetuo Soccorso, Scout Agesci, parrocchia Santo Spirito, parrocchia San Benedetto, SAV, parrocchia Porotto, Associazione Nazionale Alpini, parrocchia Immacolata, Rotary, Lions club, parrocchia Pontegradella, Azione Cattolica. Alto Ferrarese: Cento Solidale, Scout Cento e Casumaro, Rotary Cento, Lions Cento, Caritas Penzale, CL Cento, Associazione Nazionale Alpini – Protezione Civile, Croce Rossa Cento, Caritas Renazzo, Caritas Terre del Reno. Poggio Renatico: parrocchia, Caritas, AVIS, Rotary, parrocchia Gallo. Caritas di Vigarano Mainarda e di Bondeno. Medio Ferrarese: Associazione “Mons. A. Crepaldi” di Voghiera, Caritas di Portomaggiore, Lions di Portomaggiore, Emporio Solidale Argenta, Lions e LeoClub Argenta.  Basso Ferrarese: Caritas parrocchia Jolanda di Savoia, Pro Loco Jolanda di Savoia. Parrocchie di Ostellato, Dogato, Rovereto, San Giovanni. Scout di Mesola. Copparo e Tresignana: Lions, Croce Rossa, Caritas parrocchiali, Associazione Bersaglieri, Auser, Centro Aiuto alla Vita, Scout. Comacchio: parrocchia, Lions, Scout, Aiutiamoli a Vivere Odv, Cuccu trasporti, Istituto di Istruzione Superiore “Remo Brindisi”, Cicli Casadei (S. Giuseppe di Comacchio), parrocchia di Porto Garibaldi. E  nel Santuario di S.Maria in Aula Regia la Colletta “prosegue” anche il giorno dopo, il 16, col pranzo di fraternità e la raccolta di alimenti nelle chiese alle S. Messe, raccolta che andrà avanti fino a Natale.

LA DISTRIBUZIONE

La raccolta della Colletta è strettamente collegata al sistema di raccolta e distribuzione di beni alimentari, resa possibile grazie al Centro di Solidarietà-Carità (CSC), nato nel 1999 – dieci anni dopo la nascita del Banco Alimentare nazionale – e formato da 60 volontari e tre magazzini. Massimo Travasoni – Responsabile dei due magazzini del CSC di via Trenti (Mercato Ortofrutticolo) a Ferrara (il terzo è a Comacchio, in via Bonafede, 112) e vicepresidente dello stesso CSC guidato da Fabrizio Fabrizi – ci aggiorna sui dati dei destinatari degli alimenti, costanti da tre anni: sono circa 13mila le persone (di cui circa la metà nel Comune di Ferrara) che chiedono beni alimentari di prima necessità alle nostre parrocchie, alla Caritas, ad altre associazioni o enti; beni che questi ricevono dal Banco Alimentare di Imola (una decina di Associazioni/enti) o tramite il CSC (67 Associazioni/enti, di cui 26 nel Comune capoluogo, per 11730 persone, delle quali 6mila nel Comune di Ferrara). Si tratta, in un anno, di circa 1200 tonnellate di beni alimentari donati

Oltre alla Colletta, i beni arrivano da donazioni dall’industria, dall’ortofrutta e dall’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che si occupa del Fondo europeo FEAD e Del Fondo nazionale). Nel 2024 Fondazione Banco Alimentare denunciò il ritardo nella definizione dei nuovi bandi triennali AGEA, ritardo che quasi “svuotò” le riserve del magazzino di Ferrara e di altre località, e che quindi l’anno scorso e quest’anno rende ancor più importante la Giornata della Colletta. Inoltre, un dato sempre in aumento (seppur lieve) da anni è quello delle famiglie che ricevono il pacco alimentare o direttamente nei magazzini di Ferrara e di Comacchio o tramite i volontari del CSC che glielo consegnano a domicilio: sono 195 (oltre 550 persone, italiane e non).

IN EMILIA E IN ITALIA

Nel 2024 la Colletta in Emilia Romagna ha visto l’adesione di 17.145 volontari ed ha portato alla raccolta di oltre 888 tonnellate di prodotti in 1.121 punti vendita. Anche per l’edizione 2025 i punti vendita aderenti sono oltre 1.100. Quanto verrà raccolto giungerà, tramite le 722 organizzazioni convenzionate con il Banco nella nostra regione, a 132.300 persone in condizioni di bisogno. 

A livello nazionale, sono invece quasi 12 mila i supermercati aderenti, oltre 155.000 i volontari impegnati e ca. 7.600 le organizzazioni territoriali convenzionate con Banco Alimentare, che accolgono oltre 1.755.000 persone in difficoltà. Dal 15 novembre al 1° dicembre sarà possibile donare la spesa anche online su alcune piattaforme dedicate: per conoscere le varie modalità di acquisto dei prodotti e i punti vendita aderenti all’iniziativa è possibile consultare il sito http://www.bancoalimentare.it

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 novembre 2025

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Ferrara terra di missione: i giovani brasiliani in Diocesi si raccontano

5 Nov

Abbiamo incontrato i quattro missionari provenienti da Parauapebas, per tre mesi presenti tra il bondenese e Ferrara grazie a don Roberto Sibani: ecco come svolgono il loro servizio, tra visite alle famiglie e Mercatino solidale a San Paolo

di Andrea Musacci

Sabato 8 novembre alle ore 18 nel centro di Ferrara avrà luogo una Celebrazione Eucaristica particolare: nel Chiostro grande di San Paolo (con, per l’occasione, ingresso da via Boccaleone, 13), vi sarà infatti una Santa Messa interamente in lingua portoghese. Questa Messa verrà celebrata nell’area del “Mercatino della Fantasia” (giunto alla 26esima edizione), presente fino al 17 novembre per finanziare il 72° Progetto per Parauapebas, in Brasile: per la precisione, si tratta di aiutare il finanziamento del Centro Comunitario Parrocchiale “Lorena Lima”, un Centro educativo per la nonviolenza. Promotore della Messa, del Mercatino e del progetto solidale “Cammino di Fraternità” (che compie 30 anni) è don Roberto Sibani, parroco di Pilastri e Burana. Il Mercatino è aperto tutti i giorni dalle ore 9 alle 18 (domenica e festivi dalle 14.30 alle 18). Al Mercatino don Sibani è aiutato da diversi volontari, fra cui i quattro nuovi giovani missionari, arrivati a Pilastri da Parauapebas lo scorso 10 settembre e che rimarranno nella nostra Diocesi fino al 6 dicembre: Renan Furtado de Sousa, 33 anni; Milena Silva Souza, 21 anni; Viviane de Sousa, 32 anni; Dhayllana Alícia, 22 anni. Prima di presentarveli e di raccontarvi la chiacchierata che abbiamo avuto con loro, vi ricordiamo che anche quest’estate don Sibani è stato a Parauapebas per il suo annuale periodo missionario. Un momento particolarmente significativo si è svolto il 7 agosto nel Plenarinho della Camera Municipale di Parauapebas, con la cerimonia solenne per consegnare a don Sibani il titolo di Cittadino Onorario di Parauapebas.

CHI SONO I NUOVI MISSIONARI 

Renan Furtado de Sousa ha 33 anni, è nato a Osasco – San Paolo, e all’età di 11 anni si è trasferito con la famiglia a Parauapebas, dove vive ancora oggi con la madre e la sorella. Ha anche un fratello, Diego. «Ho iniziato a servire nella Chiesa a 8 anni come chierichetto – ci spiega -, ruolo che ho svolto fino al raggiungimento della maggiore età. In seguito sono stato catechista per i gruppi della Prima Comunione e della Cresima, coordinatore dei chierichetti, e ho fatto parte del coordinamento dei gruppi giovanili Segue-me (Seguimi, per 20-30enni) e Escalada (Scalata, per età 12-16 anni). Attualmente faccio parte della parrocchia di San Sebastiano, dove sono coordinatore della Pastorale della Comunicazione e canto durante la  Messa. Infatti, a un certo punto del mio percorso, ho scoperto di avere il dono di poter lodare Dio anche attraverso il canto. E canto anche professionalmente in cerimonie religiose come matrimoni, battesimi. Prima di venire in missione in Italia – prosegue -, ho lavorato come assistente in un centro che si prende cura di persone con disabilità, e sto concludendo il corso di Educazione Fisica e presto sarò insegnante nell’area. Ho già partecipato a questa missione nella vostra Diocesi nel 2016, insieme a Fabiana, Jordânia e Andreia».

Milena Silva Souza, 21 anni, nata a Goianésia do Pará, vive a Parauapebas e frequenta la parrocchia di San Francesco d’Assisi, nella Diocesi di Marabá. «Sono aspirante alla vita religiosa nella congregazione delle Figlie della Divina Carità», ci racconta: «è un periodo che dura due anni, ho iniziato nel febbraio 2024; e nella mia comunità religiosa viviamo in quattro: suor Joseana, suor Ana Maria, suor Salete e io. Le ho conosciute tramite un incontro vocazionale alla quale ero stata invitata e che per me è stato decisivo. Mia madre è cattolica, mentre mio padre è evangelico, e ho due sorelle. In parrocchia canto, suono la chitarra, faccio parte del coordinamento parrocchiale della pastorale giovanile e frequento anche il corso di teologia pastorale. Ho iniziato a fare la catechista all’età di 15 anni. Durante la settimana partecipo agli studi interni di formazione religiosa e seguo le lezioni di musica: ho imparato a suonare la chitarra durante il lockdown nella pandemia da Covid, tramite alcuni corsi su You Tube». Altro momento per lei importante nel suo cammino è stato, nel 2024, «la partecipazione a una settimana missionaria di giovani (eravamo circa 250) in Amazzonia, andando in diverse parrocchie e a trovare le persone e le famiglie nelle loro case».

Viviane de Sousa, 33 anni, originaria di Breu Branco, nello stato del Pará, vive a Parauapebas col fratello la sorella la nipote e suo figlio adottivo Zac Manuel. «Vengo da una famiglia cattolica, ma sono cresciuta in un’altra famiglia che mi fece frequentare la Chiesa avventista del settimo giorno. Poi a 11 anni sono tornata nella Chiesa Cattolica, ma frequentando raramente e con poca convinzione: solo all’età di 25 anni ho fatto la prima comunione e la cresima, e ho seguito il corso vocazionale col gruppo Seguimi (v. sopra, ndr), di cui faccio ancora parte. Il mio cammino di fede – ci spiega – continua e cresce ogni giorno e anche questa missione è una tappa importante di questo percorso e al tempo stesso una conferma del fatto che ho intrapreso la giusta strada. So che questa missione sarà un tempo di grande apprendimento, rafforzamento della fede e crescita spirituale. Con gioia, metto la mia vita al servizio del Vangelo, confidando che Dio continuerà a guidare ogni passo di questo cammino».

Dhayllana Alícia, 22 anni, originaria della città di São Pedro da Água Branca (MA), vive a Parauapebas con la madre e il fratello. «Faccio parte della Comunità San Benedetto, della Parrocchia di Cristo Re, dove svolgo diversi servizi pastorali: sono Coordinatrice della Pastorale Giovanile e dei chierichetti; membro dell’équipe liturgica, soprattutto come lettrice; membro della Pastorale della Comunicazione, con attività nella radio parrocchiale; vice-coordinatrice del Consiglio della Comunità. Per me, servire nella Chiesa è una missione di vita, un gesto profondo di amore verso Dio e il prossimo. Sono molto felice di partecipare a questa missione in Italia, dove sto conoscendo da vicino la realtà delle parrocchie e del popolo che cammina insieme a don Roberto».

LA MISSIONE NEL BONDENESE

A Pilastri e Burana, infatti, i quattro missionari fanno animazione nelle Messe, hanno guidato le serate spirituali in occasione della festa di San Matteo Apostolo, patrono di Pilastri (15-19 settembre): «in queste cinque serate – dividendo Pilastri in cinque zone, ci spiega don Sibani – è stata fatta l’esposizione Eucaristica, i quattro missionari sono andati casa per casa per  annunciare l’arrivo di Gesù e invitare all’Adorazione eucaristica e alla preghiera la sera, ogni volta accolti in un luogo diverso. «Questi stessi incontri preliminari di invito – ci spiegano i quattro brasiliani -, ci han permesso di entrare nelle case di molte persone, e quindi di poter conoscere famiglie, anziani, persone malate». A Vigarano Mainarda, Vigarano Pieve e Salvatonica i missionari hanno incontrato i bimbi del catechismo. Le domeniche 9 e 16 novembre saranno, invece, nella zona di Bondeno, mentre la scorsa Giornata Missionaria Mondiale (19 ottobre) sono stati a Gavello e Scortichino e lo scorso 14 ottobre hanno animato la Veglia missionaria nella chiesa di Pilastri per le quattro parrocchie dell’UP “Madonna Pellegrina”. E ancora, sono in programma “I giorni della fraternità” con le famiglie di origine marocchina a Burana e a Pilastri: don Roberto, accompagnato dai quattro missionari, farà visita a ognuna di queste famiglie nei seguenti giorni: 27, 28, 29 novembre; 1, 2, 3 dicembre.

RIFLESSIONI SU FEDE E CHIESA

«Qui nel Ferrarese e più in generale in Italia a livello di fede la realtà è molto diversa rispetto al Brasile», riflette con “la Voce” Renan: «mi dà tristezza vedere che tanti giovani non vanno in chiesa e non partecipano alla vita delle comunità ecclesiali». Non è certo da oggi – infatti – che siamo diventati terra di missione… «In Brasile, però – prosegue – la Chiesa evangelica è in continua crescita: se dovessimo interrompere la missione fra la nostra gente, fra qualche anno ci ritroveremmo in Brasile con le chiese vuote…». «Io però – ci spiega Viviane – ho conosciuto alcuni giovani che dopo un cammino personale e comunitario, da evangelici sono diventati cattolici». «La forma di predicazione degli evangelici è più attraente, organizzano più iniziative in particolare per i giovani, come la discoteca», riprende Renan. «Noi cattolici non dovremmo fare questo ma organizzare più ritiri e più incontri spirituali per attirare i giovani, momenti nei quali poter unire la predicazione, la preghiera e la formazione sulle fondamenta della nostra fede e della nostra Chiesa». Una sfida enorme, che interpella anche noi qui in Italia.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 novembre 2025

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Pasolini e Assisi: storia dell’incontro tra il regista e il Cristo degli ultimi

1 Nov

A 50 anni dalla morte dell’intellettuale, il racconto della genesi del suo film Il Vangelo secondo Matteo: siamo nel ’62, Pasolini è alla Cittadella dove i Vangeli e don Giovanni Rossi gli cambiano la vita. E poi, l’incontro con le Piccole Sorelle di Gesù e Papa Giovanni…

di Andrea Musacci

«Ma lei crede in Gesù, Figlio di Dio?». 

«Per adesso no». 

«Preghi allora anche lei come il padre del lunatico alle falde del Tabor: “Signore, aiuta la mia incredulità”». 

«Questa invocazione la sceglierò come motto del mio film».

(Dialogo tra don Giovanni Rossi e Pier Paolo Pasolini, 1962)

Il 9 gennaio 1959 don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana (PCC) di Assisi, assieme ad altri volontari della PCC e al Vescovo assisano, viene ricevuto in Udienza in Vaticano da Papa Giovanni XXIII. Questi aveva un antico rapporto di amicizia con don Rossi. Ed è proprio prima di questa Udienza  che il Pontefice ha un colloquio privato col sacerdote. Un colloquio storico: «Devo dirti una bella idea. Ma tu poi la vai a dire a tutti!», dice a un certo punto il Papa. «No, no, padre santo», risponde don Rossi. E Roncalli allora gli rivela: «Questa notte mi è venuta una grande idea: di fare un Concilio Ecumenico». Don Rossi, nel pieno dell’emozione, lo invita a visitare Assisi.

LÀ FUORI IL PAPA, SUL COMODINO IL VANGELO

Quasi 4 anni dopo, il 4 ottobre ’62, Festa di San Francesco, il treno si muove dalla Stazione vaticana alle 6.30 del mattino: sopra, Papa Giovanni XXIII si mette in viaggio per Loreto e Assisi. Ricordando anche quell’incontro del ’59, ha scelto queste due località per porre sotto la protezione della Madonna e del Poverello il Concilio Vaticano II, cominciato una settimana dopo, l’11. La sera di quel 4 ottobre don Rossi torna a casa scosso dalla profonda commozione di aver visto il suo amico Papa Giovanni nella sua Assisi. La casa di don Rossi è la Cittadella, sede della PCC (elevata nel ’59 ad Associazione Primaria proprio da Giovanni XXIII). E alla sua tavola, a cena, c’è uno degli intellettuali più importanti e controversi: Pier Paolo Pasolini (PPP) (i due, in foto nel ’62). Giunto ad Assisi due giorni prima per partecipare al VII Convegno dei Cineasti sul tema Il cinema come forza spirituale del momento presente, Pasolini alloggia alla Cittadella, stanza num. 16, nella quale dormì lo stesso Roncalli un anno prima di diventare Papa. In questa stanza, quel giorno il regista si è chiuso infastidito dai rumori per l’arrivo del Pontefice: ma nel suo cuore si è aperta una breccia, che lo porterà a realizzare un capolavoro del cinema: Il Vangelo secondo Matteo. Così lo stesso regista raccontò quelle ore: «D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c‘è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che, fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del Papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo. L’idea di un film sui Vangeli – prosegue PPP – m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore». Quel film lo dedicò – non a caso – «Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII». «A quella cara “ombra” l’ho dedicato», spiegò: «L’ombra, che è la regale povertà della fede, non il suo contrario».

ALLA RICERCA DEL VOLTO DI GESÙ

In una delle mie visite ad Assisi, alloggiando alla Cittadella ho avuto modo di parlare con Anna Nabot, storica volontaria lì residente, nonché Direttrice della Galleria d’arte contemporanea della struttura, e arrivata alla PCC proprio nel 1962. Galleria che è parte dell’Osservatorio Cristiano, centro di documentazione e studio sulla figura e l’opera di Gesù. «Osservatorio – mi spiega Anna – che conserva la sceneggiatura originale del Vangelo di Pasolini, donata da don Andrea Carraro (biblista della PCC, ndr), che ne scrisse le correzioni su richiesta dello stesso Pasolini». E nella Fonoteca dell’Osservatorio, PPP «scelse anche le musiche per il suo Vangelo e consultò le copie di diverse immagini sacre presenti nella “Sezione iconografica”, divisa per fasi della vita di Gesù». Interessante – inoltre – l’intuizione che PPP ha in quel luogo per il volto del Gesù del suo film, «ispirato anche al Gesù del Miserere di Rouault» (Parigi 1871-1958), serie di 58 incisioni lì conservate. E nel febbraio ’64 un giovane militante comunista spagnolo, Enrique Irazoqui, è a Roma per raccogliere soldi per la causa antifranchista: «bussa alla porta di Pasolini per chiedere un aiuto economico e in lui il regista vede subito il volto del suo Gesù». «Nel ’62 – prosegue Nabot – fu un giovane volontario della Cittadella ad andare a casa di PPP a Roma per invitarlo al Convegno dei cineasti del 2-3 ottobre dello stesso anno». E in quei giorni «Pasolini visita anche San Damiano e l’Eremo delle carceri, accompagnato da Bernardini, giovane volontario della PCC ed esperto di cinema muto e dal fratello Tony, anche lui volontario qui ed esperto di arte, autore di alcune pubblicazioni, anche sul Miserere di Rouault». 

VANGELO SOFFERTO

Proprio nella sede dell’Osservatorio della Cittadella è conservato il comodino con la copia dei Vangeli che PPP consultò. Il Vangelo di Pasolini uscirà nelle sale proprio due anni dopo la sua ideazione ad Assisi, il 2 ottobre ‘64. Ma sempre nel novembre del ’62 PPP torna ad Assisi dall’amico don Rossi (che morirà il 27 ottobre ’75, sei giorni prima di lui): «Io non credo in Dio», dice il regista al sacerdote. «Però, di un fatto devo tener conto: la lettura del Vangelo mi ha veramente sconvolto (…). Voglio farne un film, con il vostro aiuto». La sceneggiatura viene completata in due mesi: alcune obiezioni sono di principio, come quella di Guardini sull’impossibilità di fare un film su Gesù. Crudeli, invece, sono le critiche a don Rossi e Pasolini provenienti da parte del mondo cattolico. Nel marzo ’63, il sacerdote scrive al regista per tranquillizzarlo: «Caro Pier Paolo! Sono molto addolorato per la Sua sofferenza. Prego per Lei e per la sua cara mamma. Spero e di gran cuore le auguro che presto un bel sole cristiano splenda sopra la sua anima».

Due mesi dopo l’uscita del film, Pasolini torna alla Cittadella assieme alla mamma Susanna, donna di grande fede. La notte di Natale i due partecipano alla Messa nella cappella della Cittadella. Un’ora prima, PPPP ha un colloquio privato con don Rossi nel suo studio; in una lettera del 27 dicembre all’amico sacerdote, lo ringrazia per le parole pronunciate in quell’incontro: «sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui (…) ricorderò sempre il suo cuore di quella notte». E dopo PPP conclude con una confessione drammatica e commovente: «Sono “bloccato”, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo; non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».

Non meno triste e fonte di profonde riflessioni è il racconto che Pasolini fa della morte improvvisa nel febbraio del ‘69 di don Andrea Carraro, sacerdote della Cittadella (sopracitato, che nel ’64 lo aveva accompagnato nei sopralluoghi in Israele e Giordania e che fu consulente anche per Uccellacci e uccellini), la cui salma va a visitare in una delle stanze: «contadino povero, come il suo buon Papa Giovanni», che al regista pare insegnare – lì disteso senza vita, in attesa della vita vera – un certo abbandono all’Assoluto, che forse PPP allora non coglie (ancora?) del tutto: «Si è rassegnato» alle umiliazioni subite per le sue umili origini, «e ha sorriso. Ha messo tutto nelle mani del suo Signore».

LE PICCOLE SORELLE, «QUESTO CRISTIANESIMO NASCOSTO…»

Come detto, Pasolini nel ’62 arriva ad Assisi il 2 ottobre, con l’intenzione di non rimanerci più di 24 ore. Ma don Rossi lo convince a fermarsi di più, per una serata di letture di alcune sue poesie. Pasolini accetta. Nel pomeriggio del 2, assieme ad alcuni volontari della Cittadella (Lucio Caruso, Paolo Scappucci e Guido De Guidi) gira per Assisi visitando anche San Damiano. A un certo punto i quattro si dirigono a un casolare lì vicino, dove dal ’53 abitano le Piccole Sorelle di Gesù (dopo oltre 70 anni sono ancora lì presenti), fraternità nata in Francia 25 anni prima grazie a suor Magdeleine di Gesù e ispirata al messaggio di Charles de Foucauld. Qui entrano nella cappella, situata nella stalla. «Voglio vedere qualcuna di queste sorelle, fatemele vedere», prega PPP. Una di loro, Paola (allora responsabile italiana e unica consacrata del gruppo), arriva assieme alla Piccola Sorella Diomar (brasiliana) e alle postulanti Giovanna Carla e Fulvia; Paola spiega a un turbato Pasolini: «Noi lavoriamo col sottoproletariato, cerchiamo di dare una mano ai non garantiti, ai più esclusi». La sera stessa, confida a Caruso il suo turbamento per l’incontro con quelle umilissime discepole di Cristo: «Quelle Piccole Sorelle… (…). Ecco uno dei motivi di fascino che ancora mi attirano al cristianesimo. Questo cristianesimo da scoprire senza che si esibisca e ti faccia perdere il gusto e la pena di cercarlo…Questo cristianesimo nascosto, senza uffici stampa, senza televisione, senza cinema…». 

Quel cristianesimo vissuto nel deserto come luogo mistico della contemplazione di Dio, e che della cura dei deserti dei cuori fa la propria missione. Lo stesso deserto nell’irrisolto “teorema” del nostro fratello Pasolini: «Ah, miei piedi nudi, che camminate sopra la sabbia del deserto! Miei piedi nudi, che mi portate là dove c’è un’unica presenza e dove non c’è nulla che mi ripari da nessuno sguardo! (…) Come già per il popolo d’Israele o l’apostolo Paolo, il deserto mi si presenta come ciò che, della realtà, è solo indispensabile. O, meglio ancora, come la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza (…). Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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