«Educare il desiderio è la sfida dell’epoca digitale»

19 Apr

L’intervento di don Luca Peyron a Ferrara: «la tecnologia non diventi un idolo ma un mezzo di cura»

La tecnologia digitale può essere utile nell’annuncio del Vangelo?

Su questo ha riflettuto la sera dello scorso 10 aprile don Luca Peyron, sacerdote della Diocesi di Torino e specialista in teologia e spiritualità delle tecnologie, in un incontro dal titolo “Parlare di Dio nell’era digitale” svoltosi nel Cinema S. Benedetto di Ferrara, all’interno del percorso sinodale.

COSA LA TECNICA NON FA DI BUONO

Viviamo nella «condizione digitale», nell’epoca «dell’efficientismo, della cultura delle macchine», cioè ci illudiamo che queste «possano darci le risposte a molte delle nostre domande», e possano darcele in un attimo. Questo è pericoloso anche perché ci disabitua, fra l’altro, a “perdere” del tempo nel cercare. 

Ma tutto ciò, ha proseguito il relatore,  ci fa comprendere anche come «la tecnologia sia strettamente intrecciata al potere», che significa anche potere economico, sociale e culturale, sulle nostre vite e relazioni. 

La tecnologia digitale, quindi, «può solo creare connessioni fra le persone, non relazioni» vere.

COSA LA TECNICA PUÒ FARE DI BUONO

L’incontro è un’altra cosa: «è fatica, corpo, fisicità, odori. Non si tratta, quindi, di contrapporre tra loro virtuale e reale», ma di distinguerli.

Questa condizione digitale è anche, per don Peyron, «un segno dei tempi, un punto da cui ripartire, un punto di risurrezione per la Chiesa». Può, cioè, essere «generativa» e porsi «in funzione del servizio e della responsabilità nei confronti degli altri, del bene comune». Nella relazione, quindi, «il potere può diventare un prendersi cura», e anche il potere tecnologico può essere usato per quello che dovrebbe essere l’unico fine di ogni cosa: «la salvezza della persona nella sua umanità e nella sua divinità». 

Ma la tecnologia può essere «motore di speranza e di pace solo se è a disposizione di tutti». In questo, la Chiesa deve «continuare a creare pensiero» (non chiudersi), ad esempio sull’Intelligenza artificiale, «deve creare alleanze, dare risposte alla sete di senso delle persone e continuare a ridurre lo iato fra scienza e fede».

SIAMO FIGLI DELLE STELLE

«La tecnologia non ci salverà», quindi, ma ci aiuterà. Non dobbiamo farne un idolo (l’unico nostro Padre è Dio): il nostro bisogno di assoluto «non sta nel possedere le cose o le persone», ma è «il desiderio naturale di vedere Dio». È perciò necessario «educare il desiderio: questa è la grande sfida della nostra epoca digitale». Educare a comprendere come il nostro desiderio è «desiderio di Dio», non di una macchina fatta idolo. La tecnologia può aiutarci tanto «a meravigliarci di ciò che siamo, di ciò che abbiamo intorno, facendoci capire che c’è un Oltre», ha proseguito il sacerdote. Nel costruire macchine sempre più intelligenti, quindi «sempre più simili a noi», capiamo che non potranno mai essere uguali a noi. Comprendiamo, cioè, la nostra irriducibile diversità, cioè che «la differenza tra noi e la macchina non riguarda il fare ma l’essere: a differenza di una macchina, la mia carne e il mio sangue sono coscienti di sé, amano».

Andrea Musacci

(Foto Archivio don Luca Peyron)

Pubblicato sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Europa cuore democratico ed economia forte»

17 Apr

Un’utopia? Non secondo i federalisti europei, riunitisi a Casa Cini lo scorso 13 aprile. Ecco il dibattito

Un’Europa forte nell’unità, nella partecipazione e nella complementarietà delle sue anime: è questo il grande progetto partorito fin dal 1941 da Altiero Spinelli e altri antifascisti col Manifesto di Ventotene e che oggi è portato avanti soprattutto dal Movimento Federalista Europeo (MFE). MFE che lo scorso 13 aprile  a Casa Cini, Ferrara, ha organizzato la giornata di confronto sul tema “Sovranità e sussidiarietà: due anime del federalismo europeo”. Due sessioni – mattina e pomeriggio – molto partecipate, da persone di generazioni diverse.

IL VESCOVO: «UNITÀ VA COSTRUITA»

Nel pomeriggio ha portato il suo saluto anche mons. Gian Carlo Perego che sul Patto europeo per i migranti approvato tre giorni prima al Parlamento Europeo ha detto: «abbiamo visto una caduta nell’unità dell’Unione Europea, a maggior  dimostrazione di come questa vada costruita, sempre ripensata nelle sue radici». E «per la costruzione di una cittadinanza nuova, quella europea, la sussidiarietà è fondamentale». Sussidiarietà che, per Rossella Zadro (Direzione Nazionale MFE), nascerebbe da «un sistema federale europeo», il quale invece «non creerebbe un “Super Stato”». Di effetti positivi della sussidiarietà europea ha parlato anche Paolo Frignani (Prorettore Università Dimitrie Cantemir, Romania), affrontando quelli che si avrebbero nell’istruzione superiore, soprattutto universitaria, nei termini di transnazionalità, accesso agli studi e mobilità. Nelle conclusioni, Raimondo Cagiano (Coordinatore nazionale dell’Ufficio del Dibattito MFE) ha spiegato come la sussidiarietà, che è «partecipazione e complementarietà», sia «la versione moderna, del 2024, del concetto di solidarietà a sua volta erede di quello di fraternitè». 

BIANCHI: «ECONOMIA UE È FORTE SE QUESTA È UNITA»

«L’Europa cresce economicamente solo quando è unita: nei periodi di accelerazione dell’integrazione europea, si registra uno sviluppo, mentre quando non si lavora assieme, si cade». Così Patrizio Bianchi (foto)(portavoce della Rete delle Cattedre Unesco italiane, già Ministro della Pubblica Istruzione) in un passaggio della sua relazione, partita da un’analisi dei macroprocessi economici dopo la caduta del Muro di Berlino, quando «ha vinto l’ideologia del mercato sregolato, questa grande illusione alla quale è seguita quella del superamento del ruolo degli Stati». Fino ad arrivare alla pandemia da Covid, che ci ha in un certo senso obbligati «a ragionare assieme, a generare risorse aggiuntive per permettere agliStati di riprendersi, sviluppando attività e infrastrutture di livello europeo». Ma l’incertezza, l’andamento altalenante della crescita in Europa negli ultimi 20 anni, «non permette investimenti soprattutto a lungo termine». A ciò si aggiungono nel nostro continente ancora «forti differenze tra centro e periferia» (ad esempio in ambito formativo), mentre l’eguaglianza per l’Europa «non è un accessorio ma un valore fondante».  Di questo passo, l’UE diventa sempre più «vecchia e debole, appunto perché disunita». 

ZAMAGNI: «NUOVA DEMOCRAZIA NEL MULTILATERALISMO»

Atteso l’intervento di Stefano Zamagni (Università di Bologna), il quale ha affrontato il tema dell’unità europea in sei punti principali. Il primo riguarda i confini dell’UE, «importanti da definire», come decisivo è che l’UE possieda un «modello di difesa unitario» e comprenda che ormai, venuta sempre meno l’egemonia globale USA, siamo sempre più nell’epoca del «multilateralismo». Per questo, «il Presidente degli Stati Uniti d’Europa sarebbe una figura molto più autorevole a livello mondiale rispetto ai Presidenti dei singoli Paesi». La piccolezza dell’attuale UE, poi, per Zamagni si vede nella gestione della rivoluzione digitale in corso, nella quale l’Europa, come sistema di valori, deve proporre «un progetto neoumanista», che «pone le nuove tecnologie a servizio dell’umano», contro quindi il transumanesimo USA. Un nuovo umanesimo che affonda le proprie radici nella «tradizione neo-rinascimentale, opposta a quella neo-hobbesiana», come «dal pensiero del francescano Bonaventura da Bagnoregio nasce il moderno concetto di sussidiarietà». Da questo sistema di pensiero e valoriale non può non germogliare una nuova concezione della democrazia in senso «deliberativo», con la creazione di «Forum coi quali i cittadini UE si possano esprimere tra un’elezione e l’altra».

GLI ALTRI INTERVENTI: TUTTI I VOLTI DELLA SUSSIDIARIETÀ

E a proposito di democrazia, Giulia Rossolillo (Università di Pavia), ha riflettuto su come «il principio di sussidiarietà comporta che le decisioni vengano prese al livello più vicino ai cittadini ma anche che  vi sia un concreto controllo da parte degli stessi». 

Francesco Badia (Università di Modena-Reggio) ha, invece, affrontato nello specifico il tema delle disuguaglianze tra centro e periferia: «Le disparità economiche regionali – ha detto -rappresentano una sfida fondamentale per l’integrazione e la coesione dell’UE. Una parte significativa delle politiche UE è dedicata alla promozione della convergenza economica tra le regioni, al fine di ridurre queste disparità». Tra gli strumenti principali vi sono i Fondi strutturali e di investimento europei e il programma “Next Generation EU”. È fondamentale, quindi, «promuovere un ambiente favorevole agli investimenti e all’innovazione in tutte le regioni, migliorare l’accesso al finanziamento per le imprese e gli enti locali, e rafforzare le capacità amministrative per garantire una migliore implementazione delle politiche di coesione».

Mentre Salvatore Aloisio (Università di Modena-Reggio) ha riflettuto su come all’UE «manchi «una capacità di indirizzo politico», per Guglielmo Bernabei (Università di Ferrara), la sussidiarietà «non è tanto un sistema allocatore ma la sottolineatura di un ruolo, la maniera per dare un ruolo forte agli enti locali, quindi una maggiore capacità di incidenza ai territori». Per far questo, però, sono necessari «luoghi di sussidiarietà». Questa, infatti, è più che mai necessaria «sia verso l’alto – ad esempio nelle politiche industriali -, sia verso il basso – ad  esempio nelle politiche per l’ambito manifatturiero». Spazio anche ai giovani federalisti europei: Anna Ferrari (Gioventù Federalista Europea – Milano) ha riflettuto su come «occorra superare il principio di nazione e intendere la federazione continentale come un passo verso la federazione mondiale»; Giacomo Brunelli (Segretario dell’MFE – Sezione di Legnago), invece, nel delineare la storia delle forme statali fino all’unità europea,  ha riflettuto sulla possibilità di «una nuova forma di elaborazione teorica federalistica che sappia rispondere alla crisi degli Stati nazionali».

Andrea Musacci

(Foto Pino Cosentino)

Pubblicato sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è rivelazione profonda di Dio sulla nostra vita e sulla storia

12 Apr

“Qualche parola prima dell’Apocalisse”: Lectio Magistralis di padre Adrien Candiard il 12 aprile a Casa Cini, Ferrara. «Rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi». Ma noi cristiani pieghiamo con  letture secolari questa verità, l’unica che spiega il senso del mondo

di Andrea Musacci

L’Apocalisse è Gesù Cristo, lo svelamento, la rivelazione di ciò che fonda la realtà e di ciò che sono i nostri cuori: luoghi pronti ad accogliere l’Amore di Dio o luoghi di rifiuto dello stesso, quindi di peccato? Adrien Candiard, classe 1982, saggista e padre domenicano, rientra a pieno titolo nel gruppo di quegli scrittori francesi – contemporanei e non, da Peguy ad Hadjadj – che hanno la rara dote di raccontare la fede e di sfidare il moderno laicismo attraverso un linguaggio originale e uno stile provocatorio ma mai fine a sé stesso. “Qualche parola prima dell’apocalisse. Leggere il Vangelo in tempi di crisi” è il titolo del suo ultimo libro (Libreria Editrice Vaticana, 2023) di cui discuterà il 12 aprile alle 18.30 a Casa Cini, Ferrara, in un incontro della Scuola diocesana di teologia per laici eccezionalmente e gratuitamente aperto a chiunque voglia parteciparvi.

Candiard, dopo essersi dedicato alla politica, nel 2006 entra fra i domenicani e oggi risiede al Cairo, dove è membro dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) e priore del convento del suo ordine. Si occupa di islam e ha scritto diversi saggi di spiritualità.

«Il Vangelo non è un manuale di saggezza che somministra buoni consigli per affrontare le difficoltà: esso svela il Regno di Dio». In questo senso è interamente apocalittico, cioè rivelatore. Da questo ragionamento essenziale prende le mosse Candiard nel suo libro nel quale analizza in particolare il capitolo 13 del Vangelo secondo Marco, uno dei – non pochi – testi apocalittici della Bibbia. Spiega Candiard: «curiosamente, proprio quando dovremmo drizzare le orecchie verso Gesù che parla di guerre, epidemie, carestie e catastrofi naturali, quando abbiamo più che mai bisogno di aiuto e di senso, il più delle volte preferiamo saltare la pagina e andare a cercare nel Vangelo versetti più solari». Ma Cristo o sconvolge la nostra vita o non è. Bisogna quindi «accettare di parlare un po’ della fine del mondo per ritrovare, in questo stesso mondo, un pizzico di speranza».

ABBIAMO RESO INOFFENSIVA L’APOCALISSE DI GESÙ

Nei secoli abbiamo sempre più rimosso l’essenza apocalittica del Vangelo: «Abbiamo elaborato – scrive Candiard -, collettivamente e certo implicitamente, alcune strategie per sottrarci all’imbarazzo, per rendere inoffensivo un discorso evangelico come questo, inoffensivo al punto che non lo vediamo nemmeno più». 

Quello che dice il capitolo 13 di Marco non lo si può né ridurre a un episodio storico preciso (la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.) né spiritualizzare, leggerlo cioè come simbolo di qualcosa che riguarda la mera vita interiore: «È intrigante presentare il cristianesimo come un deismo puramente spirituale, sbarazzato da questo annuncio escatologico che può apparire bizzarro o poco ragionevole ai nostri contemporanei, ma questo comporterebbe il rischio di snaturarlo profondamente. Perché rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi, e questo ritorno è un evento per la creazione intera». Queste «strategie di neutralizzazione dell’ingombrante discorso apocalittico arrivano in pratica a vanificarsi precisamente quando la realtà ci raggiunge»: minaccia nucleare, cataclismi naturali. Noi, invece, spesso «vorremmo ridurre la fede cristiana a un esercizio di meditazione individuale, a un rivale dei metodi di sviluppo personale o a un complesso di ingiunzioni moralizzatrici sulla sessualità».

MEGLIO DIO O GLI ESPERTI?

Né «lugubri profezie» né riduzione del cristianesimo all’«insignificanza», dunque: «Il rischio che si fa correre alla Parola di Dio quando la si priva di ogni portata reale sulla marcia del mondo è quello dell’insignificanza. La fede cristiana non può essere un lusso per tempi tranquilli, un piccolo, simpatico supplemento d’anima da convocare una volta che le questioni serie siano state risolte, una volta che le minacce siano state neutralizzate grazie all’intervento dei vari esperti – geopolitici, climatologi, epidemiologi, senza trascurare gli editorialisti evidentemente dotati di tutte le competenze. Se la Parola di Dio non ha nulla da dirci nelle situazioni drammatiche quali sono i pericoli che oggi affrontiamo, allora che interesse ha?», ci sfida l’autore.

IL FINE PRIMA DELLA FINE

Il Vangelo, quindi, non è né uno strumento simili-zodiacale né un mero manuale per comprendere con criteri razionali, “mondani”, le crisi del nostro tempo. Nessuno sa quando avverrà la fine dei tempi ma «la fine è già presente come principio che agisce nel cuore della nostra storia, la quale non avanza del tutto alla cieca. La fine è presente lungo tutto il corso della storia come lo scopo verso cui essa tende», il «compimento verso cui tende tutta la storia umana». Apocalisse è, quindi, “svelamento”, “rivelazione” di «questo principio in atto, questa/o fine già all’opera nella storia». Non vi è dunque nessun «rebus da decifrare» su quando finirà il mondo, ma «un senso da accogliere». Si rivelano sbagliate, di conseguenza, le filosofie della storia che, dall’Illuminismo in poi, la leggevano come un progresso, pur discontinuo, «verso il bene, l’abbondanza, verso il trionfo della scienza, verso la società senza classi o l’abolizione del predominio di pochi». Nemmeno Gesù ci promette tempi migliori (v. Mc 13, 9-13): l’annuncio dell’amore di Dio al mondo «agisce come una rivelazione», un’apocalisse, «di ciò che avviene nel cuore di ciascuno»: vogliamo o no accogliere questo Amore? Per questo, «l’evangelizzazione del mondo non è l’espansione del club dei cristiani che va reclutando nuovi membri; è l’annuncio, a tempo opportuno e non opportuno, dell’amore di Dio per il mondo che Gesù Cristo ci ha rivelato».

ACCOGLIERE L’AMORE

Di conseguenza, «la nostra vita spirituale altro non è che l’accoglienza paziente di questo amore che un giorno si autoinvita nella nostra esistenza», mentre la nostra resistenza a questo amore è il peccato. E «più la rivelazione è chiara, meno è possibile rimanere in una confortevole ambiguità»: l’amore, se ricevuto, «fiorisce in gioia e gratitudine»; se rifiutato, diventa «letteralmente insopportabile e si cerca di sbarazzarsene con ogni mezzo». Dall’amore alla croce, appunto.

«I sistemi politici e sociali meglio pensati, i meccanismi internazionali più ingegnosi, le legislazioni più sofisticate» sono importanti ma «impotenti a intercettare il male alla radice, cosa che può fare solo la conversione personale». Conversione che non significa «adottare un’identità cristiana» ma accogliere l’amore di Dio offerto in Gesù.

CRISTO CI LIBERA E SALVA, FUORI DAI NOSTRI COMFORT 

«Salvare e rivelare»: in ciò consiste essenzialmente il Suo agire. Rivelare Dio e il male: «A cosa porta il peccato? Alla morte (…). Lasciando andare il male fino all’estremo della sua logica, Cristo ci mostra dove esso conduce», come ad esempio in Mc 5 nel racconto dell’uomo posseduto dai demoni. Cristo, quindi, «stravolge comfort acquisiti» ma spesso «inquietanti, solitudini infelici che tuttavia non tollerano di essere disturbate da una visita imprevista, rancori talmente strutturati che il perdono lascerebbe un gran vuoto in cuore. Ci sono comfort dall’odore di chiuso insopportabile che preferiamo alle correnti d’aria dello Spirito Santo». In ultima analisi, dunque, il peccato è «un rifiuto di lasciarsi amare che cresce in violenza contro di sé o contro gli altri». Così è oggi, com’è sempre stato e sempre sarà. Lo possiamo vedere ogni giorno nella nostra piccola quotidianità e, su più larga scala, nelle conseguenze della logica della guerra e di un consumo senza freni.

Per Candiard, quindi, «la fine dei tempi» è «in corso d’opera non come evento inquietante di cui paventare l’approssimarsi, ma come realtà presente nella storia fin dal principio (…). Abbiamo bisogno di questo svelamento perché altrimenti, finché la natura del male resterà sconosciuta, si potrà beatamente credere all’efficacia di soluzioni meramente tecniche alle minacce che pesano sulle nostre esistenze». Il male, perciò, va combattuto alla radice, e a partire dalla propria vita. «Dentro di me si sta già combattendo la lotta escatologica» e «vincere, in questa lotta, è innanzitutto accettare che la vittoria è già guadagnata» grazie al sacrificio di amore del Cristo. 

Cristo che, dunque, «ci ricorda con forza come la nostra speranza non si possa limitare alla salvaguardia del mondo quaggiù, fragile e deperibile». Il mondo non va né assolutizzato né rifiutato. Essenziale, invece, è percepire «il silenzio in cui cresce il Regno di Dio, che è ciò che dà al mondo il suo senso». Tutto il resto è moralismo, secolarismo, idolatria.

Pubblicato sulla “Voce” del 12 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quale Europa? Confronto in vista delle elezioni: Claudio Sardo e Francesco Giubilei

10 Apr

a cura di Andrea Musacci

Potenza democratica, unita, forte e sostenibile 

David Sassoli nel ricordo di Claudio Sardo: «il nostro destino»

L’Europa come grande «potenza democratica» che a livello globale possa essere all’avanguardia nella difesa della democrazia e dello sviluppo sostenibile. È questa la grande visione che ha alimentato l’esistenza di David Sassoli, ex giornalista e Presidente del Parlamento Europeo, morto nel gennaio 2022 all’età di 66 anni. La sua figura è stata ricordata lo scorso 3 aprile alla Libreria Feltrinelli di Ferrara da Claudio Sardo, curatore del volume “La saggezza e l’audacia. Discorsi per l’Italia e per l’Europa” (Feltrinelli, 2023). Sardo, ex direttore de “L’Unità”, dal 2015 lavora presso l’Ufficio di segreteria del Presidente della Repubblica con compiti di studi e ricerche. L’incontro faceva parte dell’European Projects Festival.

Il libro – che raccoglie 56 discorsi di Sassoli – «nasce per far conoscere la profondità del suo pensiero e le sue battaglie politiche», ha spiegato Sardo. Sassoli era un cattolico nato da due dei fondatori della DC a Firenze: «le sue radici, quindi, affondano nella sinistra cattolica fiorentina, una storia in qualche modo anche anticipatrice del Concilio Vaticano II». Sassoli da giovane aderì anche alla “Rosa Bianca” italiana, associazione cattolica liberal-personalista. «Egli non ostentava la propria fede ma cercava di concretizzarla nel dialogo e nell’impegno politico», ha aggiunto il relatore. Nella sua maturità, invece, «entra a pieno titolo in quel filone di presenza cattolica determinante nella parabola della sinistra europea, al pari di Jacques Delors e Romano Prodi». Sassoli era convinto che «l’Unione Europea dovesse assumere sempre più le dimensioni di una potenza democratica, per difendere i valori fondamentali della propria civiltà». La pandemia è stata una forte dimostrazione di come i grandi problemi globali «non possono essere affrontati dai singoli Paesi. L’eredità che ci ha lasciato è quella del credere che l’Europa, se vuole, può attuare politiche progressive e solidaristiche, espansive, essere più integrata e vicina ai cittadini».

Per Sassoli, «la politica era un processo e ciò che contava era l’efficacia: la democrazia – diceva – serve solo se serve ai suoi cittadini. Non credeva in una democrazia astratta, solo formale». Per Sardo, «egli sapeva squarciare il velo sulla realtà: ci stiamo avvicinando a importanti elezioni a livello europeo e so già che in questa campagna elettorale molti leader prometteranno di porre argini all’Unione Europea. Ma questo è un dibattito falso, perché in realtà i politici di tutti gli schieramenti han preso atto che l’UE è l’unico strumento per incidere a livello globale. La questione non è “politiche europee o no”, ma “quali politiche europee?”». Sardo ha poi toccato il tema più che mai attuale della pace: «oggi dobbiamo chiederci se un’Europa divisa potrà resistere a un possibile scenario di guerra». Ricordando l’impegno concreto di Sassoli per i dissidenti russi e bielorussi, Sardo ha riflettuto sulla contraddizione che coinvolge le coscienze di molti: da una parte, «non possiamo non condannare e combattere l’invasione russa all’Ucraina»; dall’altra, non possiamo non fare di tutto «per cercare la pace, per evitare un’escalation dalle conseguenze imprevedibili. Un bravo politico deve saper trovare un equilibrio fra questi due aspetti». E sul tema della difesa dell’ambiente, Sassoli, partendo dal concetto di “ecologia integrale” di papa Francesco, pensava che l’UE dovesse essere «all’avanguardia a livello globale nell’economia green. La Next Generation EU serve proprio a far sì che l’UE superi USA e Cina nel campo dello sviluppo sostenibile».

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Casa delle nazioni, libera e non ideologica

Francesco Giubilei: «riscoprire la nostra identità profonda»

Un’«Europa delle nazioni», non ideologica, che lasci spazi di autonomia ai singoli Stati e più libertà ai cittadini. È questa la proposta politico-culturale di una delle personalità emergenti (ma ormai, affermata) del mondo conservatore italiano, Francesco Giubilei. Una riflessione che ha portato anche a Ferrara (nella Sala Arengo del Municipio) lo scorso 3 aprile, in dialogo con l’Assessore Alessandro Balboni e il giornalista del “Carlino” Federico Di Bisceglie, all’interno dell’European Projects Festival. Giubilei, cesenate classe ’92, è fondatore e direttore della Giubilei Regnani Editore, della rivista e del movimento “Nazione Futura”, presidente della Fondazione Tatarella, collaboratore de “Il giornale” ed ex consigliere del Ministro della Cultura Sangiuliano. 

Dopo una breve analisi sulle possibili alleanze dei conservatori dopo il voto europeo del 9 giugno (possibili solo a posteriori visto il sistema elettorale proporzionale secco), Giubilei ha spiegato come nell’ipotesi di una maggioranza UE retta soprattutto dai conservatori dell’ECR e dai popolari del PPE, «un punto di svolta importante rispetto alle politiche di questi anni sarebbe sicuramente sul Green Deal», contro, quindi, «un ambientalismo ideologico e dirigista».

Il relatore ha poi distinto il concetto di Europa da quello di Unione Europea: il primo è «di tipo storico, culturale e identitario, affondando le proprie radici nella classicità greco-romana e nel Cristianesimo». Il secondo, è invece «di tipo politico». «Oggi – ha proseguito – l’Unione Europea ha perduto la comune piattaforma delle origini, riducendosi al solo criterio politico-economico». Dovrebbe, invece, «riscoprire la propria base valoriale e abbandonare l’imposizione dirigistica e burocratica, contraria a ogni idea di sussidiarietà». Bene, dunque, «regole comuni a livello europeo, ma queste vanno bilanciate lasciando spazi di autonomia ai singoli Stati, ad esempio sulle politiche ambientali e sulle loro conseguenze sul settore automobilistico». La soluzione è, perciò, un’«Europa delle nazioni, un sistema confederale europeo». Per Giubilei, va cambiato l’impianto dell’UE: ad esempio, «cosa ce ne facciamo di un sistema di difesa europeo se non abbiamo una politica estera UE comune? Oggi l’UE come attore geopolitico è inesistente». Altro tema scottante è quello riguardante le politiche migratorie: non è solo un problema dei Paesi – come l’Italia – di primo approdo, ma «di tutta l’Unione Europea». Importante, è innanzitutto «intervenire sulle partenze irregolari dal continente africano, attraverso accordi bilaterali con i Paesi di partenza».

Prima si è accennato alle politiche ambientali, e Giubilei nel suo intervento è tornato sul tema riflettendo sulle proteste dei trattori, che «in Olanda e Belgio sono iniziate due anni fa, anche se in Italia non se ne parlava». Le politiche di abbattimento delle emissioni hanno e avranno «conseguenze pesanti sui nostri agricoltori e allevatori, col mercato inondato di prodotti» – provenienti perlopiù da Cina e Nord Africa – «più economici ma di bassa qualità, molto meno controllati e che nascondono lo sfruttamento di molti lavoratori. L’ingresso della Cina nel WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio, ndr) nel 2001 – ha proseguito Giubilei – è stato affrontato in maniera sbagliata e ora ne paghiamo le conseguenze».

Pubblicato sulla “Voce” del 12 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Riprendiamoci il tempo e le nostre responsabilità»: ecco la nuova AC diocesana

5 Apr

Il nostro Arcivescovo ha nominato Alberto Natali nuovo presidente dell’AC diocesana, scegliendolo da una terna di nomi: «Eredito un’AC tenace, con forti radici e tradizioni. La voglio capace di leggere con efficacia e amore il tempo in cui vive, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini». E«in AC dobbiamo dare più fiducia ai giovani, non guidarli in eterno, ma farci guidare da loro»

Natali, partiamo dalle “basi”: qual è la formazione ecclesiale del nuovo presidente diocesano di AC?

«Sono cresciuto e mi sono formato nella Chiesa che accoglieva la nuova Azione Cattolica nata dalla riforma voluta da S. Paolo VI e affidata a Vittorio Bachelet, accompagnato dall’esempio di mia madre che fu attivista di AC negli anni del dopoguerra, ma che accolse con semplicità e rigore le novità introdotte dal nuovo Statuto. Troppo piccolo per partecipare e comprendere la forza dirompente del ’68, ma abbastanza grande a metà degli anni ’70 per iniziare a partecipare attivamente alla vita della mia comunità, allora la parrocchia della Madonnina, e vedere il fermento di un mondo giovanile cattolico che cercava di accompagnare la Chiesa locale, con tutti i limiti che i giovani possono avere, ma anche con tutto il loro entusiasmo, dentro un mondo che era e stava continuamente cambiando. Sono stato educatore ACR, ho seguito gruppi giovanissimi e giovani, l’impegno e l’esperienza educativa è stata fin da ragazzo la mia più profonda vocazione».

Quali sono i suoi punti di riferimento, i “maestri”?

«Ho un debito verso moltissime persone. Ne citerò alcune, consapevole di far torto ad altre. Non posso che partire da mons. Giulio Malacarne, il mio vecchio parroco, un innamorato della Chiesa e dell’AC che ha speso ogni briciola di energia educativa per i giovani della sua parrocchia; mons. Andrea Turazzi, allora assistente diocesano ACR, che mi ha praticamente inventato come educatore; mons. Ivano Casaroli, che è stato assistente generale di AC, e ha sempre seguito ed accompagnato con rigore ed entusiasmo i campi giovanissimi a cui ho partecipato; mons. Francesco Forini, assistente diocesano del settore giovani negli anni ’80, che ha guidato e formato in quegli anni un gruppo di scapestrati ventenni, tra cui il sottoscritto, che si erano incoscientemente assunti il compito di guidare i giovani della diocesi nel loro percorso formativo».

Alberto Natali

E personalità che non ha avuto modo di conoscere personalmente?

«Gli anni più intensi della mia formazione hanno coinciso con gli anni più violenti del terrorismo: avevo 17 anni quando fu rapito ed ucciso Aldo Moro, 19 quando venne assassinato Vittorio Bachelet: se erano state, fino ad allora, figure significative, divennero, nel momento del loro sacrificio, soggetti di un confronto ineludibile».

L’AC, anche nella nostra Arcidiocesi, viene da un periodo difficile, soprattutto legato alla pandemia: come l’ha vissuto personalmente e come AC?

«Il periodo della pandemia è stato per me un tempo molto pesante, da un punto di vista psicologico, ho sofferto terribilmente, più di quello che potevo immaginare, la mancanza di contatto con le persone. Ho sfruttato al massimo, per quello che le regole, da un certo punto in poi, permettevano, la possibilità di incontrare amici e di stare con loro. Va da sé che tutto questo ha avuto ripercussioni anche sulla mia vita associativa. Sono cresciuto in un’associazione che aveva fatto del detto “meno carta e più chilometri” il suo modo di operare. Mi è mancato il contatto con la gente, guardare le smorfie dei loro volti, sentire il loro fiato mentre pronunciavano le parole, il tocco delle loro mani. Abbiamo scoperto l’online, che ci è stato molto utile per mantenere i contatti con i nostri associati, ma l’online non è relazione e non la crea e l’AC o è relazione o non è».

Venendo al presente, che AC eredita in Diocesi?

«Come detto, veniamo da un periodo difficile e l’AC ne è uscita, direi, un po’ sfiancata, appesantita, ha imparato ed assunto, forse in modo un po’ acritico, nuove modalità comunicative. Dobbiamo tener presente che il modo in cui comunichiamo esprime il nostro essere e non è del tutto indifferente rispetto alle relazioni che creiamo. Soffriamo, inoltre, come tutto il mondo associativo, di una crisi nell’assunzione di ruoli di responsabilità. Ma eredito anche un’AC tenace, che non si dà per vinta, che è consapevole della bontà e del valore del proprio mandato nella Chiesa e nel mondo. Un’AC che pur in mezzo a tante difficoltà e fatiche è pronta a rinnovarsi per essere utile ed efficace strumento di testimonianza della presenza del Signore in mezzo a noi».

E invece che AC intende costruire nei prossimi anni? Quali proposte avanzerete?

«Viviamo in quello che molti hanno definito un mondo “liquido”, la pandemia ci ha instillato la paura dell’altro, i nuovi mezzi di comunicazione ci fanno essere in contatto con tutti, ma non ci fanno conoscere nessuno, abbiamo perso molti punti di riferimento senza averne trovati di nuovi altrettanto efficaci. Il mio desiderio è quello di un’AC che, forte delle proprie radici e tradizioni, sappia leggere con efficacia e amore il tempo in cui è chiamata a vivere, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini e tutte quelle persone a cui, per qualsiasi motivo, vengono negati i diritti fondamentali. Desidero un AC che sappia donare, ancora, ai giovani la speranza che il futuro si può scrivere e che anche loro hanno una penna in mano. Spero che sappiamo guidare la nostra gente a riappropriarsi del proprio tempo, perché troppo spesso siamo presi “dall’affanno” e non sempre scegliamo la parte migliore. Desidero e spero che si riesca a fare tutto questo lavorando insieme a tutte le altre realtà ecclesiali con le quali l’AC già collabora da anni e che nel rispetto dei carismi di ognuno si crei quel poliedro che rappresenta la realtà vitale della Chiesa».

Quali sono le grandi sfide che l’AC diocesana dovrà affrontare nei prossimi anni?

«Qui si potrebbero dire molte cose, ma ne indicherò una, che a mio avviso se non le racchiude tutte, ne comprende però molte. Sappiamo bene che la realtà della nostra Diocesi è costituita, a parte poche eccezioni, da piccole comunità, i paesi della nostra campagna tendono a spopolarsi ed inoltre soffriamo della carenza di sacerdoti. Ora di fronte a questo scenario il nostro Vescovo ci ha indicato la strada delle Unità Pastorali. Ritengo che le Unità Pastorali debbano diventare il metro per un profondo ripensamento del modo di essere dell’associazione. Attenzione, però, questa non è una mera questione organizzativa, ma è un modo nuovo di incarnarsi nel territorio, un modo di leggere le esigenze del popolo da una prospettiva diversa. Ancora, è un modo nuovo di collaborare con i nostri pastori, ci è chiesto di assumerci delle responsabilità in una prospettiva più ampia, di essere, insomma, corresponsabili nella vita della Chiesa».

Infine, i giovani: diversi di loro sono stati eletti nell’Assemblea dell’11 febbraio scorso. Soffrite anche voi il ricambio generazionale? E chi sono i giovani della nostra AC diocesana? Come vivono l’appartenenza all’AC e alla Chiesa?

«Difficile parlare della realtà giovanile in poche parole, esprimerò un mio parere generale consapevole della sua assoluta opinabilità. Innanzitutto, è vero, anche noi soffriamo del ricambio generazionale e i giovani che passano in AC sono i giovani che noi vediamo per le strade della nostra città e dei nostri paesi. Dobbiamo, però, dire che in AC si fa un’incredibile esperienza di intergenerazionalità che ha pochi eguali. Ritengo che non esista una questione giovanile in sé, come spesso si dice, ma esiste una questione giovanile perché legata ad una questione del mondo adulto. Molti giovani si sono disaffezionati all’impegno in associazione e nel mondo civile perché noi adulti continuiamo a non dare loro fiducia, perché continuiamo a credere che debbano essere eternamente guidati, perché li trattiamo da bambini, e si comportano, quindi, come tali anche se hanno vent’anni. Se noi adulti avessimo il coraggio, almeno una volta, di lasciarci guidare dai giovani, penso resteremmo piacevolmente sorpresi della loro fantasia, della loro forza ed anche della loro lungimiranza. A noi adulti è chiesto di camminare al loro fianco e, se dovessero inciampare, di allungare una mano ed aiutarli a rialzarsi e, senza troppe paternali, riprendere gioiosamente il cammino insieme».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 5 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Ucraini di Ferrara, Pasqua fra tradizione e speranza

29 Mar

La guida degli ucraini cattolici in Diocesi, don Verbitskyy, ci racconta le iniziative per la Pasqua, la raccolta dei farmaci per il Paese in guerra e la prossima accoglienza di 18 bambini ucraini

di Andrea Musacci

Davanti alla nuova iconostasi, che divide il presbiterio dalle navate, sono stati posati alcuni dolci e della cioccolata. Un’offerta che regalerà un sorriso a diversi bambini ucraini, sia in Ucraina sia a Ferrara. Siamo nella chiesa di Santa Maria dei Servi in via Cosmé Tura, a due passi dal Castello. Qui incontriamo la guida dei fedeli cattolici ucraini di rito bizantino, don Vasyl Verbitskyy, per fare il punto sulla sua comunità in vista della Pasqua.

LA GIOIA DELLA PASQUA

Partiamo da come vivranno quest’ultima: la Domenica delle Palme, il Sabato Santo e il giorno di Pasqua «faremo il nostro mercatino pasquale qui sul sagrato della chiesa, con oggetti decorativi fatti a mano dal nostro circolo “Luce da luce”», ci spiega don Vasyl. Il programma della Settimana Santa, invece, prevede lunedì 25 la S. Messa per la Festa dell’Annunciazione del Signore. Dopo la liturgia del Giovedì Santo, il Venerdì Santo vedrà alle ore 14 i Vespri e l’esposizione della Sindone. Per l’occasione, la chiesa sarà aperta giorno e notte fino a sabato sera, quando alle 21.30 inizierà la Veglia di Pasqua, a cui seguirà la Messa e la benedizione dei cestini pasquali. «Questi cestini tradizionali – ci spiega don Vasyl – contengono un pane dolce» (rotondo, simile al nostro panettone), «uova naturali, burro, formaggio, carne, salumi»: vale a dire, tutto ciò che, preparato dalle famiglie, verrà da loro consumato per la colazione del giorno di Pasqua, «perché la notizia della Resurrezione è arrivata la mattina presto». L’agnello, invece, non fa parte della tradizione pasquale ucraina. Il giorno di Pasqua, poi, vi sarà la Messa mattutina alle ore 10 e quella pomeridiana alle ore 14.30 con la benedizione dei cestini.

Sul pane dolce prima citato: si chiama artos, dal greco, ed è un pane santo, benedetto, che viene avvolto in un’icona circolare con l’immagine del Cristo Risorto, come detto nel Vangelo: «Io sono il pane vivo» (Gv 6, 51), «il pane nuovo che ci invita a fare la comunione e che – prosegue don Vasyl – poi viene lasciato esposto in chiesa per una settimana, fino alla prima domenica di Pasqua, quando verrà diviso e dopo la Messa distribuito tra i fedeli presenti come simbolo della Resurrezione del Cristo». Sull’icona che lo avvolge è scritto: «Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita», come recita un canto del rito bizantino.

DOLORE E CARITÀ PER L’UCRAINA

Dal 6 al 12 febbraio scorsi, si è svolta anche a Ferrara e provincia la Giornata di Raccolta del Farmaco a cura del Banco Farmaceutico. Per l’occasione, alla comunità cattolica ucraina ferrarese sono stati donati 293 farmaci per un valore economico di 2.439,85 euro, parte dell’importante donazione di farmaci da parte del Banco Farmaceutico dal febbraio 2022 per i profughi ucraini in Italia. «I farmaci donatici – ci spiega don Vasyl – li abbiamo inviati in un ospedale di Lyman nel Donbass e in parte donati alle cinque mamme ucraine residenti nel Ferrarese che hanno figli al fronte: queste, li han fatti a loro volta recapitare ai loro ragazzi che combattono per difendere la nostra patria». Si tratta di antidolorifici, bende e garze. «Solo Cristo può aiutarci a sopportare questa guerra», ci dice don Vasyl. «Dobbiamo continuare a pregare per la giusta pace». Intanto, i furgoncini da Ferrara continuano a portare regolarmente in Ucraina anche farmaci specifici richiesti, vestiti, prodotti per l’igiene personale e alimentari «a familiari di nostri parrocchiani, persone che vivono in Ucraina e si trovano in difficoltà economica».

PREGHIERA, FUTURO E SPERANZA

Oltre alla carità, al centro della comunità cattolica ucraina vi è la preghiera. Nella Veglia serale dell’Annunciazione del Signore – prosegue don Vasyl – «le “Madri in preghiera” pregheranno per i loro figli in Ucraina. Ringraziamo Dio perché quest’anno festeggiamo i 15 anni del gruppo a Ferrara», gruppo di cui don Vasyl dallo scorso ottobre è coordinatore e guida spirituale a livello nazionale. Inoltre, «la Veglia dell’Annunciazione è una liturgia per noi particolarmente importante perché è stata la prima Messa della comunità cattolica ucraina qui a Ferrara, nel 2001». Dal ricordo all’avvenire, che non può non essere intessuto di speranza e vive anche nella carne dei più giovani: per questo, a fine maggio, per una settimana, «ospiteremo nella nostra comunità 18 bambini ucraini provenienti dall’Oratorio “Gloria” di Drohobych», nell’oblast’ di Leopoli. Il gruppo teatrale di quest’oratorio farà uno spettacolo nella nostra città il prossimo 31 maggio o 1° giugno (mentre il 30 maggio lo spettacolo si terrà nella Diocesi di Adria-Rovigo, la cui comunità cattolica ucraina di rito bizantino è diretta dallo stesso don Vasyl). Questa settimana di ospitalità riguarda bambini orfani o i cui genitori sono al fronte ed è resa possibile grazie al nostro Arcivescovo e alla Fondazione Migrantes, con l’aiuto anche della vicina parrocchia di San Benedetto. 

Proseguendo, domenica 2 giugno, continua don Vasyl, «festeggeremo i primi 5 anni del nostro circolo ricreativo “Luce da luce”». Inoltre, il prossimo 12 maggio, Festa della mamma, «il coro della nostra comunità ferrarese canterà nella Basilica di Santa Sofia a Roma per il raduno degli ucraini cattolici che vivono in Italia». Nel nostro Paese, l’Esarcato Apostolico per i fedeli cattolici ucraini di rito bizantino comprende 150 comunità, fra cui la nostra di Ferrara. Una grande famiglia unita nel Cristo Risorto, sofferente per la guerra nel proprio Paese ma salda nella fede e nella speranza.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cattedrale, racconto di una giornata indimenticabile

27 Mar
Foto Sergio Isler

Circa 1200 persone si sono ritrovate sabato 23 marzo per la storica riapertura. Un grande evento di popolo che vi raccontiamo nei dettagli, con le voci e i volti dei presenti e di alcuni dei protagonisti

Lo scorso 23 marzo, Michele aveva appena 8 giorni di vita. Nato venerdì 15, è di sicuro il più giovane partecipante alla storica riapertura della Cattedrale di Ferrara. I suoi genitori gli racconteranno della sua prima Messa nel Duomo riaperto, nella difficoltà a farsi strada fra quelle persone piene di gioia e curiosità. Michele è il simbolo della nostra Cattedrale, di cui ognuno si prende cura, per cui ognuno ha uno sguardo amorevole, colmo di speranza.

Sabato 23 marzo a Ferrara per lo storico evento erano previste 500 persone oltre ai 192 coristi e ai 50 sacerdoti e diaconi. Invece, di soli fedeli, ne sono arrivati circa 1200, la stragrande maggioranza dei quali in Duomo, gli altri all’esterno a seguire sul maxischermo. Necessari, quindi, sono risultati anche i quattro piccoli schermi all’interno, sulla navata destra, per le persone in fondo e per chi, coperto dai pilastri, non poteva vedere o non vedere bene il presbiterio.

All’apertura dell’edificio alle 17, numerose persone erano già sul sagrato in fremente attesa. Ad accoglierli una Cattedrale luminosa e tirata a lucido, con i pannelli della mostra “Il cantiere della Cattedrale”, precedentemente disposti ai lati della navata centrale, ora tutti tra la navata centrale e quella di sinistra, chiusa quasi integralmente per il cantiere. L’area cantierata sul sagrato, nei giorni precedenti il 23 è stata ricoperta da pannelli dedicati ai “Tesori nella pietra” (il nome del documentario dedicato ai capitelli riscoperti), col rosso della stessa mostra all’interno, a voler indicare una continuità con questa. Di nuovo, sono state riempite le acquasantiere e ricollocati, dai pilastri della navata destra, quasi tutti i confessionali. Impeccabile il servizio d’ordine, con 27 volontari di Comunione e Liberazione e 15 scout di AGESCI (l’intero Consiglio di Zona) e MASCI. Un libretto per seguire la liturgia, e ricco di immagini, è stato realizzato dall’UCS diocesano. Presenti diverse autorità: oltre al Sindaco di Ferrara e ad alcuni della Provincia, il Prefetto Massimo Marchesiello, il Questore Salvatore Calabrese, il presidente della Provincia Gianni Michele Padovani, l’ex Ministro Patrizio Bianchi, l’ex Soprintendente ai Beni Culturali Carla Di Francesco, l’Assessore regionale al Bilancio Paolo Calvano, vari rappresentanti delle Forze dell’ordine.

LA CERIMONIA

La cerimonia – trasmessa anche in diretta sul canale You Tube dell’UCS diocesano, dov’è rimasta la registrazione – è iniziata con la liturgia per la Domenica delle Palme nel cortile dell’Arcivescovado, già animato ben prima delle 17.30, ora di inizio. Tanti i giovani e i giovanissimi con le palme in mano (fra cui 25 provenienti da Comacchio e guidati da don Giuliano Scotton), e tante le persone con i rami di ulivo, la cui distribuzione è stata (anche il giorno successivo) a cura dell’Unitalsi diocesana, presente il 23 con una 50 di volontari fra cui una 15ina di Hospitalier di Lourdes. E allora si parte: ammonizione del Vescovo, Orazione e Benedizione sui rami d’ulivo, ascolto del Vangelo, avvio della Processione. Un corteo, questo, simbolo di ciò che è la Chiesa: corpo vivo e in cammino dentro la città e, al tempo stesso, segno visibile di luce distinto dal mondo.

Giunti in una Cattedrale già gremita (con, sulla porta d’ingresso, due poliziotti in alta uniforme), dopo l’orazione Colletta, la lettura della Passione di Marco (capp. 14 e 15). Lettura a tre voci, questa, con il diacono seminarista Vito Milella a prestare la voce al Cristo, Villi Demaldè come cronista, Cristina Scarletti e Alberto Natali per la folla e i vari personaggi. Le letture, invece, sono state a cura di Rinnovamento nello Spirito, con Patrizia Mazzoni e Alessandro Brandani. Dopo l’omelia dell’Arcivescovo e la Professione di fede con il Simbolo degli Apostoli, alcuni rappresentanti di AC e Scout hanno portato all’altare i doni per il sacrificio eucaristico. Al termine, la processione verso l’Altare della Madonna delle Grazie, patrona dell’Arcidiocesi e della città. Prima, i ringraziamenti da parte dell’Arciprete mons. Massimo Manservigi.

IL RITORNO DEI CAMPANARI

La giornata del 23 marzo ha rappresentato anche una gioia per le orecchie di tutti i ferraresi: le campane del Duomo, infatti, sono tornate a suonare a festa fin dalle ore 16, e lo stesso durante la Domenica delle Palme, e di nuovo il giorno di Pasqua. I Campanari Ferraresi guidati da Giovanni Vecchi e Francesco Buttino hanno dovuto, però, suonare solo a scampanio (non a distesa o doppio), per motivi di sicurezza, visti i lavori ancora in corso sulla struttura. Ci tengono a ringraziare, per questa opportunità, mons. Zanella, a capo dell’Ufficio Tecnico diocesano.

TESTIMONIANZE

Il 23 erano presenti anche diversi fedeli della comunità ucraina di Ferrara. «Poco prima della chiusura del Duomo nel 2019 – ci racconta la loro guida don Vasyl Verbitskyy -, ho festeggiato il Natale del 2018 in Duomo, celebrando assieme a mons. Perego. In questi cinque anni mi è mancato non poter celebrare più qui». Tanti fedeli ucraini, a Ferrara sono arrivati, profughi, dopo l’invasione russa del 2022: per loro, quindi, quella del 23, è stata la prima Messa nella nostra Cattedrale. Lo stesso si può dire per le ragazze della comunità di Shalom di stanza a S.Giorgio fuori le Mura, visibilmente emozionate per lo storico evento.

Angela, invece, di ricordi qui ne ha tanti, come la Giornata annuale per il tesseramento di AC l’8 dicembre, mentre Sergio ha memoria di quando, bambino, qui faceva il chierichetto. Enrichetta, poi, ci racconta degli ingressi dei nuovi Vescovi e dell’indimenticabile visita di papa Giovanni Paolo II. 

E a proposito di memoria, chi non ha un caro ricordo di mons. Andrea Turazzi, Vescovo dimissionario di San Marino-Montefeltro ed ex parroco del Corpus Domini e della Sacra Famiglia, presente e concelebrante in questo storico giorno…; o di padre Giovanni Di Maria, ex parroco francescano di Santo Spirito, che non ha voluto mancare a questo appuntamento così importante.

GUARDIAMO AL FUTURO

Il giorno dopo, il 24 marzo, Domenica delle Palme, alcune migliaia di persone sono entrate in Duomo fin dalle prime ore: alle 8, la prima S. Messa è stata presieduta da mons. Antonio Bentivoglio. Le altre, da mons. Ivano Casaroli (ore 10), don Giovanni Pertile (ore 11.30, in servizio anche nella vicina chiesa del Suffragio), mons. Renzo Benati (ore 17.30), don Marcello Gianoli (ore 19). Così sarà ogni domenica. 

Il futuro, dunque, è iniziato, lo sguardo è rivolto all’avvenire. Come quello dei genitori del piccolo Michele, con cui abbiamo aperto questo articolo. Ora c’è solo il futuro nel Signore, l’attesa e la costruzione, ogni giorno, del bene per il piccolo Michele, per il nostro grande Duomo, per ogni donna e uomo della nostra comunità.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Memoria e Incontro col Dio vivente: riflessione su Emmaus

25 Mar

Lectio divina su Emmaus il 21 marzo a Casa Cini per la Scuola di teologia per laici. Relatrice, Francesca Pratillo

L’Incontro che cambia la vita, la memoria del Dio vivente che vince sulla disperazione del sepolcro. Lo scorso 21 marzo a Casa Cini si è svolta la nuova lezione della Scuola di teologia per laici, “Una lectio divina su Emmaus” (questo il titolo) tenuta da Francesca Pratillo, biblista della comunità paolina di Arezzo.

Questi i prossimi incontri della Scuola (sempre alle ore 18.30): 11 aprile, “Ridire il kerigma attraverso l’arte”, Jean Paul Hernandez SJ (solo on line); 12 aprile, “Qualche parola prima dell’apocalisse, leggere il Vangelo in tempi di crisi”, Adrien Candiard op;2 maggio, “Prendersi cura dell’altro: l’ospite che non diventa ostaggio”, padre Claudio Monge;9 maggio, “Istituire comunità”, Stefano Rigo; data da destinarsi, “Arte del celebrare. Solo ritualismo?”, don Giacomo Granzotto. In via di definizione anche una data per la presentazione dell’ultimo libro di Timothy Radcliffe, “Il Dio delle domande”.

SE LA SPERANZA TORNA NEL CUORE

Il cammino come luogo centrale, «luogo dell’incontro e dell’annuncio» inEmmaus: da qui è partita Pratillo per la sua riflessione. «Anche noi, quindi, «dobbiamo essere camminanti, pellegrini, con poche sicurezze». E nel brano in questione, a una prima «linea discendente» – il cammino dei discepoli dal Calvario alla parte più bassa della Giudea, «simbolo del punto più basso della loro esperienza» – seguirà una «linea ascendente» – col ritorno pieno di gioia a Gerusalemme. Tra la disperazione e il ritorno alla comunità, c’è l’incontro con Gesù, «la Sua massima vicinanza». 

Tutto il brano di Emmaus – secondo Pratillo – si gioca quindi sulla scelta tra «memoria» e «sepolcro», cioè tra «memoria della Parola del Cristo, Parola vivente», e «ricordo triste, pessimista», sepolcrale.Quest’ultimo è per i discepoli di Emmaus il «simbolo del loro fallimento». Per loro, infatti, il Crocifisso non è Risorto, non credono alle parole delle donne dopo esser state al sepolcro. «Tra loro si scambiano parole, non la Parola»; però sono in cammino. SaràGesù,Parola vivente ad avvicinarsi a loro, a farsi compagno di viaggio, chiedendo – come chiede a ognuno di noi – di «fermarsi, di stare in silenzio, ascoltando anche la propria tristezza». Gesù chiede loro «ospitalità», ci invita ad avere «fede nella Parola», a non perdere, come i due discepoli, la speranza. Ma l’invito – «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» – è chiaro, com’è evidente ciò che sentono quando lo riconoscono «nello spezzare il pane». Nel cuore dei discepoli, dunque, è «nata una novità, il gusto per le Sacre Scritture che in Gesù diventano Parola di Dio per svelare il mistero della morte e dell’amore, del dolore e della gioia». Gesù – sono ancora parole della relatrice – «spezza il pane della propria vita, donando amore, spezza la propria vita per ognuno di noi». E Gesù «sparì dalla loro vista», affidando a loro e a ognuno di noi la «responsabilità del Vangelo». Ora i discepoli «hanno ripreso forza, la speranza è tornata nei loro cuori. Possono tornare alla loro comunità perché hanno incontrato Gesù».

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Vi spiego come il nostro Duomo resistette al sisma nel 1570-1574»

22 Mar

Intervista a Marco Stefani, noto geologo e docente di UniFe: il racconto (anche inedito) dei danni

«Nonostante tutto, il Duomo ha retto bene sia agli eventi sismici del 1570 sia a quelli del 2012. Di certo, ci sarà bisogno di altri interventi per mettere maggiormente in sicurezza l’edificio». A dirlo alla “Voce” è Marco Stefani, geologo e Professore Associato del Dipartimento di Architettura di UniFe. Il 22 marzo alle 17 nella sede della CGIL Ferrara (piazza Verdi) interverrà sul tema “Il duomo di Ferrara e i terremoti del 1570 e 2012”, all’interno del ciclo “Riflessioni sull’ambiente” organizzato dall’Istituto Gramsci. Stefani in passato ha lavorato presso la Oxford University (GB), la Johns Hopkins University of Baltimore (USA), il Caribbean Marine Research Center (Bahamas), e l’I.F.P. di Parigi. 

«Quella di Ferrara – ci spiega – è una storia di terremoti, ne sono documentati una ventina che han prodotto danni agli edifici ma nessuno con conseguenze catastrofiche». Il primo risale al 1116-1117, in seguito al quale si decise di iniziare la costruzione dell’attuale Cattedrale. Gli eventi sismici registrati tra il 1570 e il 1574, in particolare tra il 1570 e il 1571, «sono quelli che han provocato più danni e più hanno influito sulla storia della nostra città». La stima è di alcune centinaia di morti, «ma poteva andare molto peggio». Si tratta anche, per Stefani, del «terremoto per l’epoca più e meglio documentato in Italia e nel mondo», grazie a diverse testimonianze, corrispondenze di ambasciatori, resoconti di sopralluoghi, richieste di restauri e successive visite pastorali. Quello che chiamiamo “terremoto del 1570” in realtà è «una lunga serie di fenomeni di debole o media intensità durati quattro anni». Il problema è che – a differenza del terremoto del 2012 – l’epicentro «era sotto la città di Ferrara e gli eventi sono stati tanti e ravvicinati tra loro», ma almeno «sono avvenuti a poche decine di km di profondità».

Per quanto riguarda il nostro Duomo, i danni – da quel che sappiamo – hanno riguardato, esternamente, sul lato settentrionale (via Gorgadello, attuale via Adelardi), un «timpano triangolare che è crollato negli edifici dal lato opposto della strada, per la precisione sopra il postribolo allora presente» (sede attuale della Pizzeria Osteria Adelardi), «provocando una decina di morti»; Mario Equicola negli “Annali della città di Ferrara” della seconda metà del XVI sec. scrive di questi danni «al frontespicio del Duomo verso Gorgadello, con ruina di una casa al’incontro di quello». Danni hanno registrato anche «alcune guglie, gli archi sul lato meridionale dell’edificio e la facciata, che è stata vicina al crollo». All’interno, invece, danneggiamenti si sono registrati nelle «due pareti del transetto», nella «parete dell’Altare del Crocifisso» e alle «torrette campanarie cilindriche» ai lati dell’abside, che sono crollate. Le conseguenze del sisma del 2012 le conosciamo bene. Ferrara non è dunque esente dal rischio sismico: non servono allarmismi ma una chiara consapevolezza di questa realtà.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La passione ci trasforma»: Maura Gancitano a Ferrara

22 Mar

Il 17 marzo il Convegno AGESCI: «vivere un tempo profondo» slegato dagli “obiettivi” e «saper vivere l’attesa» senza avere il controllo di tutto

Saper vivere nel «tempo profondo» per meglio conoscere sé stessi e quindi saper coltivare le proprie autentiche passioni.

Su questo ha riflettuto la mattina dello scorso 17 marzo, Maura Gancitano (foto in alto), saggista, filosofa e co-fondatrice di Tlon, scuola di filosofia. L’occasione è stato il convegno “Passione in Azione. Il senso di educare oggi ad appassionarsi” promosso da AGESCI Ferrara (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) e svoltosi nella Sala convegni CNA di Ferrara. Oltre 120 i presenti che prima dell’intervento di Gancitano hanno ascoltato le testimonianze di Roberto Zaghi (fumettista), Pietro Savio (giovane fotografo), Andrea Zimelli (apicoltore), Antonella Antonellini (attrice e curatrice teatrale).

ATTESA E IGNOTO CONTRO LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE

«Viviamo in una società della performance, che chiede costantemente a ognuno di essere attivo e dà l’illusione di poter avere il controllo su tutto». Così Gancitano ha esordito nel proprio intervento. «Soprattutto riguardo al corpo – ha proseguito -, è costantemente un essere giudicati e giudicarsi. E tutto quel che non raccontiamo di noi» sui social o comunque sul web, «è come  se non esistesse». Bisogna, poi, «sempre dimostrare che tutto va bene, dobbiamo raccontare tutto ciò che funziona nella nostra vita, dimostrare che abbiamo tutto chiaro nella nostra testa». Oggi, insomma, la nostra «società della “vetrinizzazione” richiede tantissimo, soprattutto ai giovani». 

Alternativo aquesto modello performativo, Gancitano propone il concetto di «fioritura», cioè di «una felicità legata al senso di gratitudine e del sentirsi fortunati di ciò che si ha». E legata al concetto di «passione» come di qualcosa che «mette in gioco la nostra diversità», innanzitutto rispetto al sé passato e quindi rispetto agli altri. Passione, quindi, come qualcosa che richiama non solo il talento – cioè «il saper fare qualcosa in base alle nostre caratteristiche» -, ma «la vocazione», la capacità cioè di «vivere il presente e di vivere un tempo più profondo», slegato dal culto degli «”obiettivi” da raggiungere», e opposto a un «tempo superficiale e frammentato» (soprattutto a causa dell’uso sempre più forte dei dispositivi digitali).

In una società «dove spesso è facile sentirsi inadeguati, non al proprio posto», e dove il tempo dell’inattività ci sembra «tempo vuoto», per Gancitano, quindi, è importante riscoprire il senso della «noia» come – citando Benjamin – «possibile spazio dove arrivano le idee, tempo dell’attesa dell’intuizione creativa per poter capire qual è la propria passione».Ma questa conoscenza profonda di sé presuppone una «cura di sé», quindi «una fatica, un impegno». Fatica che spesso oggi viene vista come «qualcosa da evitare», ma che invece è necessaria nella cura di sé stessi, nel coltivare la propria passione e nel percepire l’autentica bellezza, «quella che ci scuote, che non è ordinaria». Coltivare la passione è quindi «un’azione trasformativa di sé, che mette in discussione la falsa idea che abbiamo nel percepirci e immaginarci sempre come qualcosa di statico». Insomma, non sappiamo mai del tutto ciò che saremo:«la passione, dunque, ha a che fare con l’ignoto». È una bella sfida, da vivere appieno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio